Visualizzazione post con etichetta Liturgia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Liturgia. Mostra tutti i post

martedì 18 ottobre 2016

Non c’è un vero silenzio della liturgia, se noi non siamo -con tutto il nostro cuore- rivolti verso il Signore. Bisogna convertirsi, rivolgersi verso il Signore, per guardarlo, contemplare il suo volto e prostrarsi ai suoi piedi per adorarlo.

Sarah: “Senza silenzio la liturgia è ideologia”

Pubblichiamo la traduzione italiana di ampi stralci dell’intervista che il cardinale Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino, ha concesso al periodico francese La Nef in occasione dell’uscita del libro La Force du silence (Fayard, 2016).
Il libro che lei propone ai lettori è una vera e propria meditazione spirituale sul silenzio: perché si è lanciato in una riflessione così profonda che abitualmente non ci si aspetta da un prefetto della Congregazione per il Culto divino incaricato di questioni molto concrete della vita della Chiesa?
«Il primo linguaggio di Dio è il silenzio». Commentando questa ricca e bella intuizione di San Giovanni della Croce, Thomas Keating nella sua opera Invitation to love scrive: «tutto il resto è una povera traduzione. Per capire questo linguaggio, dobbiamo imparare a essere silenziosi e a fare affidamento in Dio».
È tempo di ritrovare il vero ordine delle priorità. È tempo di rimettere Dio al centro delle nostre preoccupazioni, al centro delle nostre azioni e della nostra vita, al solo posto che egli deve occupare. Così, il nostro cammino cristiano potrà ruotare attorno a questa Roccia, strutturarsi nella luce della fede e nutrirsi della preghiera, che è un momento di incontro silenzioso e intimo, in cui l’uomo si trova a tu per tu con Dio per adorarlo ed esprimergli il suo amore filiale.
Non inganniamoci. Questa è la vera urgenza: ritrovare il senso di Dio. Ora, il Padre non si lascia avvicinare che nel silenzio. Ciò di cui la Chiesa ha più bisogno oggi non è una riforma amministrativa, un programma pastorale in più, un cambiamento strutturale. Il programma già esiste è quello di sempre, tratto dal Vangelo e dalla tradizione vivente. Esso è centrato su Cristo stesso che noi dobbiamo conoscere, amare, imitare, per vivere in Lui e per Lui, trasformare il nostro mondo che sta degenerando perché gli uomini vivono come se Dio non esistesse. Come sacerdote, come pastore, come Prefetto, come Cardinale, la mia priorità è di dire che Dio solo può colmare il cuore dell’uomo.
Credo che siamo vittime della superficialità, dell’egoismo e dello spirito mondano che si irradiano nella società mediatica […]. Per dei titoli, degli incarichi professionali o ecclesiastici, accettiamo dei vili compromessi. Ma tutto questo passa come il fumo […]. La sola realtà che merita la nostra attenzione è Dio stesso, e Dio è silenzioso. Egli attende il nostro silenzio per rivelarsi. Ritrovare il senso del silenzio è dunque una priorità, una necessità, un’urgenza. Il silenzio è più importante di qualsiasi altra opera umana perché esprime Dio. La vera rivoluzione viene dal silenzio, essa ci conduce verso Dio e gli altri per metterci umilmente al loro servizio.
Perché la nozione del silenzio è così essenziale ai suoi occhi? Il silenzio è necessario per trovare Dio e in che senso «è la più grande libertà dell’uomo» (n. 25)? In quanto “libertà”, il silenzio è un’ascesi?
Il silenzio non è una nozione, è la strada che permette agli uomini di andare a Dio. […]   La conquista del silenzio è un combattimento e un’ascesi. Sì, occorre coraggio per liberarsi da tutto ciò che appesantisce la nostra vita che non cerca altro se non le apparenze, la facilità e la scorza delle cose. Proteso verso l’esteriorità dal suo bisogno di parlare sempre, il ciarliero non può che essere lontano da Dio, incapace di qualsiasi attività spirituale profonda. Al contrario, chi è capace di silenzio è un uomo libero. Le catene del mondo non possono far presa su di lui […].
E’ ancora possibile comprendere l’importanza del silenzio in un mondo in cui il rumore, in tutte le sue forme, non cessa mai? Si tratta di una situazione nuova della “modernità”, con i suoi media, TV, Internet, ove il rumore è sempre stato una delle caratteristiche del “mondo”?
Dio è silenzio e il diavolo è rumoroso. Da sempre Satana cerca di nascondere le sue menzogne sotto un’agitazione ingannevole e ridondante. Il cristiano deve non essere del mondo. A lui è proprio distogliersi dai rumori del mondo, dalle voci che corrono a briglie sciolte per distoglierci meglio dall’essenziale: Dio. La nostra epoca ultra-tecnicizzata e indaffarata ci ha reso ancora più malati. Il rumore è diventato come una droga dalla quale i nostri contemporanei sono dipendenti. Con la sua apparenza di festa, il rumore è un vortice che ci fa evitare di guardarsi in faccia, di mettersi di fronte al vuoto interiore. È una menzogna diabolica. Il risveglio non può che essere brutale.
Non temo di fare appello a tutti gli uomini di buona volontà a intraprendere una forma di resistenza. Cosa diventerà il nostro mondo se non potrà trovare delle oasi di silenzio? […] Non esito ad affermare che quei sacerdoti della modernità, che dichiarano una forma di guerra al silenzio, hanno perso la battaglia. Perché noi possiamo restare silenziosi in mezzo alle più grandi accozzaglie, alle agitazioni più spregevoli, in mezzo al baccano e alle grida delle macchinazioni infernali che invitano all’attivismo, strappandoci da ogni dimensione trascendente e da ogni vita interiore.
Quale ruolo attribuisce al silenzio nella liturgia latina, dove lo vede e come concilia silenzio e partecipazione?
Davanti alla maestà di Dio, noi perdiamo le nostre parole. Chi oserebbe prender la parola davanti all’Onnipotente? […] Il sacro silenzio è il luogo in cui noi possiamo incontrare Dio, perché noi veniamo a Lui con il giusto atteggiamento dell’uomo che trema e si tiene a distanza, mentre spera con confidenza. Noi sacerdoti dobbiamo reimparare il timore filiale verso Dio e la sacralità dei nostri rapporti con Lui. Dobbiamo apprendere di nuovo a tremare di stupore davanti alla Santità di Dio e alla grazia inaudita del nostro sacerdozio.
Il silenzio ci insegna una grande regola della vita spirituale: la familiarità non favorisce l’intimità, al contrario, la giusta distanza è una condizione della comunione. È tramite l’adorazione che l’umanità avanza verso l’amore […]. Non esito ad affermare che il sacro silenzio è una legge cardine di tutta la celebrazione liturgica […].
Con il pretesto di rendere più facile l’accesso a Dio, alcuni hanno voluto che nella liturgia tutto fosse immediatamente intelligibile, razionale, orizzontale e umano. Ma facendo così, corriamo il rischio di ridurre il mistero sacro a dei bei sentimenti. Sotto il pretesto pedagogico, alcuni sacerdoti si sentono autorizzati a interminabili commentari piatti e orizzontali. Questi pastori hanno paura che il silenzio davanti all’Altissimo sconvolga i fedeli? Credono che lo Spirito Santo sia incapace di aprire i cuori ai divini misteri infondendovi la luce della grazia spirituale? […]
Non si ha un certo paradosso nell’affermare la necessità del silenzio nella liturgia, allorché si riconosce che le liturgie orientali non prevedono momenti di silenzio (n. 259), mentre esse sono particolarmente belle, sacrali e devote?
La sua obiezione è sensata e dimostra che non è sufficiente stabilire dei “momenti di silenzio” affinché la liturgia sia impregnata del sacro silenzio. Il silenzio è una disposizione dell’anima. Non è una pausa tra due riti, è esso stesso pienamente un rito. I riti orientali certamente non prevedono dei tempi di silenzio durante la divina liturgia. Eppure essi conoscono intensamente la dimensione apofatica della preghiera davanti al Dio “ineffabile, incomprensibile, inafferrabile”. La divina liturgia è in qualche modo immersa nel mistero. Essa è celebrata dietro l’iconostasi che per gli orientali è il velo che protegge il mistero. Per noi latini, il silenzio è un iconostasi sonora. Il silenzio è una mistagogia, ci permette di entrare nel mistero senza svilirlo. Nella liturgia il linguaggio dei misteri è silenzioso. Il silenzio non nasconde, ma rivela in profondità […]. Spesso usciamo dalle nostre liturgie rumorose e superficiali senza aver incontrato Dio e la pace interiore che egli vuole offrirci.
Dopo la sua conferenza a Londra nel luglio scorso, lei è ritornato sull’orientamento della liturgia ed ha auspicato di vederlo applicato nelle nostre chiese: perché è così importante per lei e come immaginerebbe di mettere in pratica questo cambiamento?
Convertirsi, etimologicamente, è rivolgersi, voltarsi verso Dio. Non c’è un vero silenzio della liturgia, se noi non siamo -con tutto il nostro cuore- rivolti verso il Signore. Bisogna convertirsi, rivolgersi verso il Signore, per guardarlo, contemplare il suo volto e prostrarsi ai suoi piedi per adorarlo. Abbiamo un esempio: Maria Maddalena ha potuto incontrare Gesù al mattino di Pasqua, perché si è rivolta verso di lui: «hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’hanno posto». «Haec cum dixisset, conversa est retrorsum et videt Jesus stantem – detto questo si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi» (Gv. 20, 13-14).
Come entrare in questa disposizione interiore se non volgendoci fisicamente, tutti insieme, sacerdoti e fedeli, verso il Signore che viene, verso l’oriente simboleggiato dall’abside dove troneggia la croce?
L’orientamento esteriore ci porta all’orientamento interiore, simboleggiato da quello. Fin dai tempi apostolici, i cristiani hanno conosciuto questo modo di pregare. Non si tratta di celebrare con le spalle o di fronte al popolo, ma verso l’oriente, ad Dominum, verso il Signore. Questo modo di fare favorisce il silenzio. In effetti il celebrante ha meno la tentazione di monopolizzare la parola. Rivolto al Signore, è meno tentato di divenire un professore che dà una lezione durante la Messa, riducendo l’altare ad una tribuna il cui perno non sarà più la croce ma il microfono! […]
È chiaro che questo modo di fare, legittimo e desiderabile, non deve essere imposto come una rivoluzione. So che in molti posti una catechesi preparatoria ha permesso ai fedeli di far proprio ed apprezzare l’orientamento. Vorrei tanto che questa questione non divenga l’occasione di uno scontro ideologico tra fazioni! Si tratta della nostra relazione con Dio […]. Non intendo opporre una pratica all’altra. Se materialmente non è possibile celebrare ad orientem, bisogna necessariamente mettere una croce sull’altare, bene in vista, come punto di riferimento per tutti. Il Cristo in croce è l’oriente cristiano.
Lei accenna alla “riforma della riforma” che auspica (n. 257): in cosa dovrebbe consistere principalmente? Riguarderebbe le due forme del rito romano o solamente la forma ordinaria?
La liturgia deve sempre riformarsi per essere più fedele alla sua essenza mistica […]. La riforma riguarda le due forme del rito romano. Mi rifiuto di passare il nostro tempo opponendo una liturgia a un’altra, o il rito di San Pio V a quello del beato Paolo VI. Si tratta di entrare nel grande silenzio della liturgia; bisogna sapersi lasciar arricchire da tutte le forme liturgiche latine o orientali. Perché la forma straordinaria non dovrebbe aprirsi a ciò che la riforma liturgica scaturita dal Vaticano II ha prodotto di meglio? Perché la forma ordinaria non dovrebbe poter ritrovare le antiche preghiere dell’offertorio, le preghiere ai piedi dell’altare, un po’ di silenzio durante alcune parti del Canone?
Senza uno spirito contemplativo, la liturgia rimarrà un’occasione di astiose lacerazioni e di scontri ideologici, di umiliazioni pubbliche dei deboli da parte di coloro che pretendono di detenere un’autorità, mentre essa dovrebbe essere il luogo della nostra unità e della nostra comunione nel Signore […].
All’interno del contesto liturgico attuale del mondo latino, come superare la diffidenza che si trova tra alcuni seguaci delle due forme liturgiche dello stesso rito romano che si rifiutano di celebrare l’altra forma e talvolta la considerano con un certo disprezzo?
Rovinare la liturgia significa rovinare il nostro rapporto con Dio e l’espressione della nostra fede cristiana […]. Sì, il diavolo vuole contrapporci gli uni agli altri proprio nel cuore del sacramento dell’unità e della comunione fraterna. È tempo che cessino il disprezzo, la diffidenza e il sospetto. È tempo di ritrovare un cuore cattolico. È tempo di ritrovare insieme la bellezza della liturgia […].
(traduzione a cura di Luisella Scrosati)

Il silenzio di Dio

“Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sapienza 18,14)

“Io grido a te ma tu non mi rispondi, insisto ma tu non mi dai retta”, urla Giobbe contro quel Dio che aveva servito e riverito e dal quale era stato messo alla prova, piagato nel corpo, lasciato quasi solo al mondo. E’ l’imprecazione dell’uomo, umanissima, naturale. Disperata e disarmata dinanzi a quel silenzio incomprensibile. Gustave Flaubert ha elevato quelle pagine alla cosa più bella mai letta nella vita; Benedetto XVI, varcando i confini di Auschwitz, dieci anni fa, chiedeva conto a Dio del perché avesse taciuto davanti al lungo camino che lavorava indefesso nel compiere lo sterminio voluto da mano umana. Al silenzio (dell’uomo, di Dio, dell’uomo davanti a Dio e di Dio davanti all’uomo) il cardinale Robert Sarah ha dedicato il suo ultimo libro, pubblicato qualche giorno fa in Francia ed edito da Fayard, La forza del silenzio. 
Contro la dittatura del rumore, una conversazione con Nicolas Diat, con il quale aveva già firmato Dio o niente (2015). Il Dio silenzioso, che non parla né interviene nelle cose di questo mondo in modo palese è anche la più ovvia delle giustificazioni per quanti ne negano l’esistenza, professandosi banalmente agnostici o rifacendosi a dotte elucubrazioni kantiane.

ARTICOLI CORRELATI 
Il silenzio è un tema complesso che ha scandagliato l’anima dei padri della chiesa fin dai primi tempi, che ha angustiato filosofi credenti e atei, posto interrogativi e indotto a pensare. 
Soren Kierkegaard – citato ampiamente nel volume – vi dedicò pagine stupende, basti pensare all’indagine sul silenzio di Abramo, angosciante e sofferente. “Devo umilmente riconoscere che ho balbettato di fronte a un così grande mistero”, scrive Sarah. “Chi potrebbe parlare del silenzio, e soprattutto di Dio, in una forma adeguata? Possiamo tentare di parlare di Dio solo a partire dalla nostra propria esperienza di silenzio. Perché Dio è avvolto nel silenzio e si rivela nel silenzio interiore del nostro cuore”. Nel cuore dell’uomo c’è “un silenzio innato, perché Dio abita nel profondo di ogni persona. Dio è silenzio, e questo silenzio divino abita l’uomo. In Dio, noi siamo inseparabilmente legati al silenzio. La chiesa può affermare che l’umanità è figlia di un Dio silenzioso”. 
Un silenzio che, scriveva Thomas Merton, può essere insopportabile ed è proprio qui che sta la più grande difficoltà dell’uomo: cercare Dio nel (e con il) silenzio. E’ qui che gioca un ruolo determinante la fede, perché “il silenzio divino è una rivelazione misteriosa”. Si torna al punto di partenza, al tentativo di comprendere quel silenzio nel dramma dell’umanità. 
Elie Wiesel scrisse che per lui Auschwitz non fu solo uno scandalo umano ma anche teologico: come è stato possibile, dov’era Dio mentre i treni piombati entravano nel campo polacco? Il filosofo tedesco di religione ebraica Hans Jonas ha tentato di rispondere con argomentazioni alte e sopraffini, concludendo che Dio non può essere onnipotente, avendo la libertà umana in fondo la possibilità di fermare la mano divina.
“Ma se Dio rinuncia alla potenza, allora non è Dio”, scrive Sarah. “L’infinito di Dio non è un infinito nello spazio, un oceano senza fondo e senza sponde”. Dio – osserva il cardinale – “non è indifferente al male. In primo luogo, possiamo credere che Dio permetta il male per distruggere gli uomini. Ma se Dio tace, soffre con noi per il male che ha lacerato e sfigurato la terra. Se cerchiamo di essere con Dio nel silenzio, si capisce la sua presenza e l’amore”. 
L’uomo è ansioso di dare una risposta alle difficoltà, alle sofferenze, ai disastri che si abbattono sull’umanità. Da sempre è così, fino dai tempi di Giobbe. “Ma ci dimentichiamo che l’origine dei nostri mali nasce dall’illusione che siamo qualcosa di diverso dalla polvere. L’uomo che si fa divinità non vuole riconoscere che è un mortale”. 
Giovanni Paolo II disse che “il silenzio divino è spesso motivo di perplessità e persino di scandalo, tuttavia non si tratta di un silenzio che indica un’assenza, quasi che la storia sia lasciata in mano ai perversi e il Signore rimanga indifferente e impassibile”. In realtà, chiosava Karol Wojtyla, “quel tacere sfocia in una reazione simile al travaglio di una partoriente che s’affanna, sbuffa e urla. E’ il giudizio divino sul male, raffigurato con immagini di aridità, distruzione, deserto, che ha come meta un risultato vivo e fecondo”.

Il fatto è che “molti dei nostri contemporanei non possono accettare il silenzio di Dio. Non ammettono che sia possibile entrare in comunicazione in modo diverso che non siano le parole, i gesti o le azioni concrete e visibili”. Ma “Dio parla attraverso il silenzio”. Il suo silenzio è una parola. Per comprenderlo, oggi, si deve salire su qualche eremo isolato o calpestare le pietre fredde di vecchi monasteri – sempre più rari – rimasti quasi uguali nei secoli. O ancora, scalare le vette montane, come suggeriva Giovanni Paolo II, per accorgersi che Dio effettivamente esiste, ché quella beltà non può che derivare dal disegno misterioso e affascinante del Creatore.


“Credo che noi siamo le vittime della superficialità, dell’egoismo e dello spirito mondano. Ci perdiamo in lotte per stabilire l’influenza, in conflitti tra persone, in un narcisistico e vano attivismo”, ha detto il cardinale Robert Sarah in una recente intervista concessa alla Nef. “Ci gonfiamo di orgoglio e di pretese, prigionieri di una volontà di potenza. Per cercare titoli, incarichi professionali o ecclesiastici accettiamo compromessi vili. Ma tutto ciò passa, come il fumo. Nel mio libro – aggiunge – ho voluto invitare i cristiani e le persone di buona volontà a entrare nel silenzio. Senza di esso, ci troviamo in un’illusione. L’unica realtà che merita la nostra attenzione è Dio stesso, e Dio tace. Aspetta il nostro silenzio per rivelare se stesso”. Anche per questo, scrive ne La forza del silenzio, “è necessario uscire dal tumulto interiore per trovare Dio. Nonostante i turbamenti, il consumismo, i piaceri facili, Dio resta silenziosamente presente. E’ in noi come un pensiero, una parola e una presenza le cui fonti segrete sono nascoste nello stesso Dio, inaccessibili agli occhi umani”.

C’è un paradosso, se si vuole considerarlo tale, nell’invocare la solitudine, l’isolamento da tutto per ritrovare se stessi e gli altri. “La solitudine è lo stato migliore per trovare il silenzio di Dio. Per chi vuole trovare il silenzio, la solitudine è la montagna che deve essere scalata”. Un’impresa, insomma. Perché oggi, e Sarah lo ripete più volte, “i poteri mondani che cercano di plasmare l’uomo moderno scartano metodicamente il silenzio”. In un mondo ipertecnologico come quello contemporaneo, come è possibile trovare questo silenzio? Non è questione di iscriversi a corsi per sconnettersi da internet né di spegnere per qualche ora lo smartphone che spesso fa percepire come vere e reali relazioni che in realtà sono meramente virtuali. “Abbiamo la sensazione che il silenzio sia divenuto un’oasi inattingibile. Senza rumore, l’uomo postmoderno cade in una inquietudine sorda e lancinante. E’ abituato a un rumore di fondo permanente, che lo rende malato e lo rassicura”.

Senza rumore, aggiunge il cardinale prefetto del Culto divino e la disciplina dei sacramenti, l’uomo pare perduto. Il rumore lo rassicura, come una droga da cui è divenuto dipendente. L’agitazione diviene un tranquillante, un sedativo, una dose di morfina, una forma di sogno, d’onirismo senza consistenza”. Uno stato che fa perdere i riferimenti vitali e necessari e ancora di più il contatto con Dio, con la preghiera. “Il nostro mondo non comprende più Dio perché parla continuamente, a un ritmo e a una velocità della luce, per non dire niente. La civiltà moderna non sa tacere, nega il passato e vede il presente come un vile oggetto di consumo. Guarda l’avvenire attraverso le ragioni di un progresso quassi ossessivo”. C’è l’illusione che con “le manifestazioni esteriori”, osserva il cardinale, si abbia la prova della prossimità divina: ma “i nostri amici più vicini, a volte, sono lontani da noi, impediti dall’amarci”.

In uno scritto pubblicato all’inizio dell’anno, Sarah osservava che “in senso negativo il silenzio è l’assenza di rumore. Può essere esteriore o interiore”. Nel corso della sua visita a Sulmona, nel luglio del 2010, Benedetto XVI aveva riflettuto proprio su questo punto, sottolineando come noi “viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere riempito da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri”.

La riflessione di Robert Sarah si sposta sull’occidente, incapace di godere del silenzio e quindi di pregare. Lui, uomo d’un piccolo villaggio della Guinea che proprio in un monastero francese si è convinto sempre di più di quanto il silenzio orante sia svanito, portandosi dietro molto dell’eredità che aveva reso grande e prospero il cristianesimo nel Vecchio mondo. Senza silenzio si perde anche il senso del sacro, scrive oggi. E’ sufficiente guardare, in molte realtà grandi e piccole, lo stato della liturgia, gli abusi e le frequenti “autocelebrazioni di preti che entrano in chiesa trionfalmente”. Silenzio e sacro: i due aspetti sono connessi, se cade uno cade anche l’altro. 
L’aveva già rimarcato qualche mese fa, auspicando anche una riscoperta della pratica ascetica, divenuta ormai cosa per pochi eletti. L’ascesi, “una parola estranea alla nostra società consumistica che spaventa i nostri contemporanei, compresi anche i cristiani, che subiscono l’influenza dello spirito mondano è un mezzo indispensabile che ci aiuta a togliere dalla nostra esistenza tutto quanto l’appesantisce, vale a dire ciò che ostacola la nostra vita spirituale o interiore, e che dunque costituisce un ostacolo per la preghiera. Ed è proprio nella preghiera che Dio ci comunica la sua Vita, ossia manifesta la sua presenza nella nostra anima, irrigandola con i flutti del suo Amore trinitario: il Padre attraverso il Figlio nello Spirito Santo. E la preghiera è essenzialmente silenzio”.

Oggi, invece, si moltiplicano le “immense celebrazioni eucaristiche composte da migliaia e migliaia di partecipanti” che altro non fanno se non favorire il pericolo di “trasformare l’eucaristia, il grande mistero della fede, in una banale kermesse”, scrive il cardinale. “I preti che distribuiscono le sacre specie non conoscono nessuno e danno il corpo di Gesù a tutti, senza discernimento tra i cristiani e i non cristiani, partecipano alla profanazione del santo sacrificio eucaristico”. Il risultato di queste “gigantesche e ridicole autocelebrazioni” è che “davvero pochi comprendono che ‘voi annunciate la morte del Signore finché egli venga’”. 
Di nuovo, serve silenzio. “Non illudiamoci. Questa è la cosa veramente urgente: riscoprire il senso di Dio”, ha aggiunto ancora alla Nef: “Il Padre si lascia avvicinare solo nel silenzio. Ciò di cui la chiesa ha più bisogno oggi non è una riforma amministrativa, un altro programma pastorale, un cambiamento strutturale. Il programma c’è già: è quello che abbiamo sempre avuto, tratto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. E’ centrato su Cristo stesso, che dobbiamo conoscere, amare e imitare, per vivere in Lui e per Lui, per trasformare il nostro mondo che è degradato, perché gli esseri umani vivono come se Dio non esistesse”.

di Matteo Matzuzzi | 09 Ottobre 2016 ore 06:18


domenica 28 agosto 2016

Qual è il rapporto tra monachesimo e liturgia?

 La preghiera incessante 

“VENITE E VEDRETE!”


Conferenza dal titolo “Il rapporto tra monachesimo e liturgia” – tenuta a Roma lo scorso 7 maggio da p. Cassian Folsom OSB, Priore del Monastero di Norcia, per aiutare a scoprire i Monaci e per pregustare il clima spirituale che respireranno i partecipanti al Pellegrinaggio nazionale dei Coetus Fidelium del Summorum Pontificum(3-5 luglio 2015), che abbiamo preannunciato qui.

Qual è il rapporto tra monachesimo e liturgia? 

Posso rispondere molto sinteticamente con una analogia: è il rapporto tra pesce e acqua. Ovviamente, il pesce abita nell’acqua, si muove nell’acqua, senza l’acqua muore. Così anche per il monaco: respira l’aria della liturgia, si nutre dalla liturgia, si muove nel mondo creato dalla liturgia, senza la liturgia muore spiritualmente.
Potrei finire qua – una conferenza di due minuti! – ma forse sareste delusi, aspettando una lezione più lunga. 

Quindi posso sviluppare il tema un po’ secondo le seguenti categorie: 
  1. La preghiera incessante
  2. Il tempo impiegato ogni giorno nella preghiera liturgica, secondo la Regola di San Benedetto
  3. I salmi
  4. Il canto
LA PREGHIERA INCESSANTE

Ci sono due indizi nella Regola che indicano chiaramente che secondo San Benedetto, la preghiera liturgica si colloca decisamente nella tradizione della preghiera incessante, come articolata dai Padri del deserto.

PRIMO INDIZIO:
Nel rito Romano, durante la Settimana Santa, la liturgia ritorna alle sue forme più arcaiche.  Ho in mente l’Ufficio Divino.  Prima delle Ore Minori (prima, terza, sesta e nona), troviamo questa rubrica: [Horae minoresabsolute inchoantur a psalmis infra signatis, ossia: “Le ore minori iniziano absolute, cioè senza versetti, segni di croce, senza nessun elemento introduttivo, direttamente – con i salmi indicati sotto.”
Ad esempio, l’Ora Prima inizia direttamente con Salmo 53: Dio, per il tuo nome, salvami. Si ricorda che questo stile di cantare i salmi è proprio arcaico – antichissimo.

Diversamente, secondo la Regola di San Benedetto, tutte le ore canoniche hanno qualche elemento introduttivo.  Vediamo, quindi, una innovazione da parte di San Benedetto che, parlando delle ore minori dice: “All’inizio si dica il versetto: Deus in adiutorium meum intende, Domine, ad adiuvandum me festina (Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto)” (RB 18:1). Perché questa innovazione? Non si faceva così, infatti, prima di San Benedetto.  Perché questo versetto salmico in particolare? Nella tradizione monastica, dove si trova una trattazione intorno a questo versetto? Negli scritti di San Giovanni Cassiano, quando insegna un metodo da usare per la preghiera incessante. Cito un brano dalla Conferenza X di San Cassiano – lo stile è un po’ prolisso, ma il messaggio è chiaro:
Abba Isaia spiega a Cassiano e al suo compagno Germano:
“Per voi dunque sarà proposta come formula di questa disciplina e di questa preghiera, da voi richiesta, quella che ogni monaco, allo scopo di tendere al continuo ricordo di Dio, deve abituarsi a coltivare con una continua ripresa da parte del cuore e dopo avere espulsa la varietà di tutti gli altri pensieri, poiché egli non potrà applicarvisi in altro modo, se prima non si sarà liberato da tutte le preoccupazioni e sollecitudini corporali. Tale esperienza, come a noi è stata trasmessa da quei pochi che, tra gli antichissimi padri sono sopravvissuti, così pure do noi essa non viene proposta, se non a pochissimi, realmente sitibondi [assetati, bramosi] di accoglierla. Pertanto sarà da noi suggerita a voi, conseguentemente, questa formula di vera pietà, allo scopo di raggiungere un continuo ricordo di Dio: Deus in adiutorium meum intende, Domine ad adiuvandum me festina [Sal 69]” (Conf. X,10).
Poi, Abba Isaia spiega tutti i pregi di questo versetto salmico, e perché è adatto alla preghiera incessante.

Allora, San Benedetto è stato formato dalla tradizione monastica che esisteva già secoli prima di lui. Egli dispone che i suoi monaci leggano le Conferenze di San Cassiano. Infatti, San Benedetto individua il nucleo dell’insegnamento di Cassiano sulla preghiera incessante – e cioè l’uso di questo versetto – e con uno slancio innovativo, prefigge questo versetto a tutte le ore dell’Ufficio Divino.
Che cosa vuol dire tutto questo? San Benedetto vuole fare un ponte tra la preghiera personale e la preghiera liturgia. Il ponte è, infatti, la preghiera incessante.

SECONDO INDIZIO:
I nostri padri vivevano in un’epoca in cui si esprimeva il senso della vita per mezzo dei simboli. Un aspetto importante di questo mondo simbolico era costituito dai numeri. Ascoltate un brano della Regola, cap. 16, che insiste su questa simbologia:
“Si deve osservare quello che dice il Profeta: Sette volte al giorno io canto la tua lode. Questo sacro numero di sette sarà rispettato se adempiremo il dovere del nostro servizio a lodi, prima, terza, sesta, nona, vespri e compieta, poiché a queste ore diurne si è riferito il salmista dicendo: Sette volte al giorno canto la tua lode. Quanto alla veglie notturne infatti il medesimo Profeta dice: Nel mezzo della notte mi alzavo a celebrarti. Rendiamo dunque lodi al nostro Creatore per le sentenze della sua giustizia a lodi, prima, terza, sesta, nona, vespri e compieta, e alziamoci per celebrarlo nella notte” (RB 16).
Perché questa insistenza che i monaci cantino le ore diurne dell’Ufficio Divino sette volte ogni giorno? Perché il numero 7 significa completezza, totalità – significa che i monaci pregano sempre, incessantemente.
Ecco due piccole spie nella Regola di San Benedetto che ci aprono vasti orizzonti. La preghiera liturgica – e qui si tratta in particolare dell’Ufficio Divino – è organizzato in modo che queste forme liturgiche aiutano il monaco a pregare sempre, incessantemente. O in altre parole, aiutano il pesce a rimanere nell’acqua.

TEMPO IMPIEGATO NELLA PREGHIERA LITURGICA / PERSONALE

Questa immersione totale ha delle implicazioni concrete, perché la vita quotidiana del monaco viene organizzata attorno a questi momenti di preghiera. Poniamoci questa domanda: Quanto tempo ogni giorno viene impiegato nella preghiera liturgica, secondo la Regola di San Benedetto? (Potrei darvi subito la risposta, ma sarebbe un approccio noioso!  È più interessante scoprirlo personalmente).
Ci sono due considerazioni: 
  1. l’Ufficio Divino (preghiera liturgica per eccellenza) e
  2. la lectio divina (la ruminazione sulla Pagina Sacra della Bibbia).
Stranamente, San Benedetto dice ben poco sull’Eucaristia, non descrive la liturgia della Messa; questa lacuna viene riempita dalla tradizione sviluppatasi dopo San Benedetto.

La preghiera liturgica

Vorrei elencare tutti i momenti di preghiera liturgica della giornata, secondo la Regola e la tradizione. Però, la mia capacità matematica è pessima – dovete aiutarmi a fare il calcolo. Anzi, facciamo due calcoli: uno per i giorni feriali, l’altro per i giorni festivi.
  1. Il Mattutino: di solito dura attorno ad un’ora, ma la domenica e nei giorni festivi, può durare un ora e mezzo, o anche di più. [da un’ora: feriali; ad un’ora e mezzo. festivi]  
  2. Le lodi: attorno a 40 minuti 
  3. L’ora prima insieme all’ufficio del capitolo: 30 minuti
  4. Le ore minori terza, sesta e nona: 10 minuti ciascuna [30 minuti]    
  5. La Messa cantata – da 50 minuti ad un’ora. La Messa solenne – un ora e mezzo
  6. I Vespri: attorno a 30 minuti
  7. La compieta: 20 minuti
Per un totale di h 4,30 per i giorni feriali: h 5,30 per i giorni festivi.
Ecco il tempo impiegato per la preghiera liturgica.

L’orario monastico prevede anche la preghiera personale, la lectio divina. Leggo la descrizione di San Benedetto, e di nuovo, vi invito a fare il calcolo. La domanda è questa: quanto tempo viene dedicato alla lectio divina? Anche qui, si deve distinguere tra giorni feriali e giorni festivi.
Si tratta del cap. 48: Il lavoro manuale di ogni giorno. Non leggo tutto il capitolo, solo quei brani che dispongono l’orario per la lectio divina.
“L’ozio è nemico dell’anima, e perciò i fratelli devono essere occupati in ore determinate nel lavoro manuale e in altre ore nella lectio divina.
Riteniamo quindi che le due occupazioni siano ben ripartite nel tempo con il seguente orario:
  • da Pasqua fino alle calende di ottobre... dall’ora quarta (10,00) fino a quando celebreranno sesta (12,00) attendano alla lettura.  [2 ore]
  •  A partire invece dalle calende di ottobre fino all’inizio della quaresima attendano alla lettura fino a tutta l’ora seconda... (dalle 6,00 alle 8,00) [2 ore]
  •  Nei giorni della quaresima poi, dal mattino fino a tutta l’ora terza attendano alle proprie letture… (dalle 6,00 alle 9,00) [3 ore]
  •  Anche nel giorno della domenica, attendano tutti alla lettura, tranne quelli incaricati nei diversi servizi. [diverse ore]
Apro una parentesi: il sistema romano di calcolare il tempo consisteva nella divisione del giorno in 12 ore, e la notte in 12 ore: il che vuol dire che nel periodo estivo, le ore diurne sono più lunghe e le ore notturne più brevi; similmente, durante il periodo invernale, le ore diurne sono più brevi e le ore notturne più lunghe. Comunque sia, per comodità, facciamo il nostro calcolo basato su di un’ora di 60 minuti. Chiudo la parentesi.

La somma tra preghiera liturgica e preghiera personale?
Giorni feriali
  • fuori della quaresima: 6,30
  • quaresima: 7,30
  • Domenica e giorni festivi con l’orario domenicale: 7,30
Perché così tanto tempo di preghiera? Uso un’altra analogia, non quella del pesce, ma l’immagine di un campo sassoso che si deve arare. È necessario arare i solchi ripetutamente, anno dopo anno, per avere la terra veramente fertile. Allora, il nostro cuore è un campo sassoso, e ci vuole tanta preghiera, per arare bene quel campo.

I SALMI

Qual è il contenuto principale dell’Ufficio Divino? Una percentuale molto alta di tutte queste ore di preghiera consiste nella recita dei salmi.
Per capire l’importanza fondamentale dei salmi come parte essenziale della preghiera monastica, dobbiamo fare un piccolo esercizio di ermeneutica della Regola. Citerò tre brani, che si somigliano. Il vostro compito è di individuare le frasi uguali e la frasi diverse.
RB 4:21 Nihil amori Christi praeponere
               Nulla all’amore di Cristo anteporre
RB 72:11 Nihil omnino Christo   praeponant
                 Nulla a Cristo antepongano assolutamente
RB 43:3  Nihil operi Dei praeponatur
                Niente all’Opera di Dio deve essere anteposto
Quali sono le espressioni uguali? Le espressioni diverse?
Se cerchiamo di interpretare bene che cosa vuol dire Opus Dei nella Regola, cioè, l’Ufficio Divino, il parallelismo di questo schema può aiutarci. Si tratta di capire l’oggetto del verbo praeponere. Ovviamente, la parola Christo e la frase l’amore di Cristo sono intercambiabili. Ma sembrerebbe cheChristo sia anche intercambiabile con l’Opus Dei. In altre parole, il contenuto dell’Ufficio Divino altro non è che Cristo stesso: Nulla anteporre a Cristo, nulla anteporre all’Ufficio!

Questa affermazione va approfondita, perché la conclusione non è evidente.
In che cosa consiste principalmente l’Ufficio Divino? Nei salmi. Anzi, San Benedetto indica che se i monaci si alzano tardi e quindi si deve abbreviare qualche cosa, si possono abbreviare le letture, ma non i salmi! Possiamo dire, dunque, che il contenuto dell’Ufficio è Cristo, presente nei salmi.
Come è possibile? I salmi sono dell’Antico Testamento: che cosa hanno a che fare con Cristo? Ci sono due possibili risposte:
  1. Secondo i criteri del metodo storico-critico, i salmi non hanno niente a che fare con Cristo.
  2. Secondo i criteri dell’interpretazione della Sacra Scrittura come viene attualizzata nel Nuovo Testamento, nei Padri e nella Liturgia – cioè, l’interpretazione spirituale – i salmi hanno tutto a che fare con Cristo.
Vi do due esempi:
1. L’introito per la Messa di Natale a mezzanotte viene dal Salmo 2: Dominus dixit ad me: Filius meus es tu, ego hodie genui te. (Il Signore mi ha detto: Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato).
Secondo il senso storico, si tratta di un salmo di intronizzazione del re d’Israele, in cui Dio, con un decreto solenne, fa del re il suo figlio adottivo.
Ovviamente, la Liturgia fa una interpretazione cristologica. Chi parla? Dio Padre. Quando ha il Padre generato suo Unigenito Figlio? Non a Natale!  A Natale, la madre – Maria – partorisce il Figlio incarnato. Ma la generazione del Figlio è una realtà prima della creazione del mondo, prima che il tempo esistesse, un momento eterno si potrebbe dire. La liturgia, quindi, meditando su questo versetto salmico, approfondisce il testo del Credo che recita: “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, dalla stessa sostanza del Padre”.
Questo metodo dell’interpretazione spirituale è stato descritto da Sant’Agostino con una frase lapidaria: “Tutto l’Antico Testamento parla di Cristo o ci esorta alla carità.”
In questo versetto preso dal Salmo 2, vediamo che il Salmo parla di Cristo.  Nel secondo esempio che vi darò, vedremo come un altro salmo ci esorta alla carità.

2. Nel prologo della Regola, c’è una allusione al Salmo 136 nel contesto di una descrizione della lotta spirituale:
“[Il monaco], tentato dal maligno, cioè dal diavolo, lo respinge lontano dalla vista del suo cuore insieme con la tentazione stessa, e così lo annienta e, afferrando subito al loro nascere i suoi suggerimenti, li infrange contro il Cristo” (Prol 28).
Vediamo il salmo che corrisponde a questo brano della Regola. È un lamento, cantato dai deportati in Babilonia, che termina con una maledizione abbastanza brutta.
Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
Ai sàlici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportati,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
“Cantateci i canti di Sion!”
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra.
Mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.
Fin qua, tutto va bene. È un lamento molto bello, commovente, che ispira sentimenti di compassione. Ma il salmo prosegue; ci sono ancora due strofe che formulano una maledizione. Nella Liturgia delle Ore attuale, hanno tolto quest’ultima parte, perché il principio adoperato dai compilatori era quello dell’interpretazione esclusivamente storica. I Cristiani non possono usare una maledizione nella loro preghiera, e quindi, si devono omettere questi versetti.
La tradizione liturgica della Chiesa, però, ha sempre incluso questi versetti, perché il principio adoperato era sempre quello dell’interpretazione spirituale. Mi spiego. Ecco l’ultima parte del salmo:
Ricordati, Signore, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme
dicevano: “Distruggete, distruggete,
anche le sue fondamenta!”
(I popoli di Edom, che abitavano a sud-est del Mar Morto, erano nemici storici d’Israele, e hanno collaborato con i Babilonesi nella distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C.)
Adesso viene la maledizione:
Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto!
Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra!
L’uccisione crudele e barbarica dei bambini innocenti non è una cosa bella. Come è possibile che preghiamo questo salmo? Ascoltate ciò che fanno i Padri: un’interpretazione di profonda intuizione psicologica e spirituale.  Ecco il ragionamento:
  1. I Babilonesi sono nemici, e i nostri nemici sono il diavolo e tutto il suo esercito.
  2. Ma non si tratta di adulti Babilonesi, guerrieri, ma di bambini, quindi di tentazioni cattive del diavolo quando sono ancora piccole, impotenti, deboli.
  3. Si parla, poi, di una pietra. Che cosa vuol dire? San Paolo dice nella 1 Cor 10, che gli Israeliti durante l’Esodo “bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” (1 Cor 10:4). San Paolo adopera il metodo spirituale per interpretare l’Antico Testamento.  Anche nel nostro caso, la roccia è Cristo.
  4. Conclusione: quando le tentazioni iniziano il loro attacco, quando sono ancora deboli, come bambini, precisamente in quel momento dobbiamo afferrarli e sbatterli contro la pietra che è Cristo. Se, invece, indugiamo, e lasciamo queste tentazioni / bambini crescere, diventeranno guerrieri, più forti di noi, e saremo sconfitti nella lotta spirituale.
Ascoltiamo ancora una volta le parole di San Benedetto:
“[Il monaco], tentato dal maligno, cioè dal diavolo, lo respinge lontanto dalla vista del suo cuore insieme con la tentazione stessa, e così lo annienta e, afferrando subito al loro nascere i suoi suggerimenti, li infrange contro il Cristo” (Prol 28).
Vedete? I salmi parlano di Cristo e della nostra vita spirituale in Cristo. Il monaco è immerso nel mondo dei salmi, ogni giorno. Il suo immaginario simbolico è formato dalla Bibbia (non dal televisore o dall’internet). La liturgia in genere, e i salmi dell’Ufficio in particolare, formano il monaco e lo nutrono.

IL CANTARE
L’ultima categoria è il canto. I monaci non recitano ma cantano la liturgia. Nel monastero di Norcia, cantiamo tutto – tutto l’Ufficio e tutta la Messa.
Quando io sono da solo, in viaggio, o fuori del monastero, anche da solo canto l’Ufficio. Il canto è essenziale per la liturgia monastica, perché esprime meglio tutti i sentimenti del cuore. Il Canto Gregoriano, a causa della sua antichità, del rapporto tra musica e parola, delle tonalità che sono diverse da quelle moderne – per tutti questi motivi, il canto gregoriano ha una bellezza del tutto particolare. È un canto creato per la liturgia, non per altri contesti, e quindi ha tutte le caratteristiche della musica liturgica di cui parla Papa Pio X: un musica sacra, bella, universale.
Cerchiamo di sviluppare questo tema del canto monastico, canto liturgico, prendendo in considerazione quattro punti:
  1. Il canto e i sentimenti del cuore
  2. Cantare: un atto comunitario
  3. Il cantare come partecipazione ai cori celesti
  4. Il canto esprime l’unità della fede
1. Il canto e i sentimenti del cuore
Il canto serve da veicolo per esprimere i sentimenti più profondi dell’anima – ha quindi un ruolo espressivo. Sant’Agostino descrive i suoi sentimenti quando ascoltava i canti a Milano, dove Sant’Ambrogio aveva dato uno slancio notevole alla forma musicale dell’inno.
Agostino era molto consapevole del potere emotivo del canto, e ne aveva un certo sospetto, allo stesso tempo riconoscendo l’effetto positivo del canto liturgico, confessava di essere stato commosso anche lui.

Talora esagero in cautela contro questo tranello [la pericolosa sensualità della musica]. Allora rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa tutte le melodie delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici… Quando però mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi della mia fede riconquistata e alla commozione che oggi ancora suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica (Confessioni, X, xxiii, 40).

La salmodia comunica efficacemente non soltanto il contenuto delle parole cantate, ma ha un altro effetto subliminale, intuitivo. Ad esempio, quando sono agitato, e vado ai Vespri in questo stato d’animo, dopo che le onde della salmodia hanno bagnato la sponda del mio cuore, mi sento più tranquillo, e quando i Vespri si concludono, mi trovo di nuovo in pace. Troviamo la stessa esperienza nella Bibbia. Si ricorda che il re Saul era afflitto da un tipo di follia. “Allora i servi di Saul gli dissero: 
“Vedi, un cattivo spirito sovrumano ti turba. Comandi il signor nostro ai ministri che gli stanno intorno e noi cercheremo un uomo abile a suonare la cetra. Quando il sovrumano spirito cattivo ti investirà, quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio… Quando dunque lo spirito sovrumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava; Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui” (1 Sm 16:15-16; 23).
2. Cantare: atto comunitario
L’atto di cantare non è soltanto una questione personale, ma anche comunitaria. I monaci cantano insieme. Questo fatto è già una scuola di formazione! Il prefazio della Messa descrive gli angeli, gli arcangeli, i Cherubini e i Serafini cantando all’unisono: una voce dicentes. Questa armonia è anche l’obiettivo del coro monastico, e quindi dobbiamo ascoltare agli altri confratelli, moderare la voce, il ritmo, il volume per conformarsi al canto della comunità. Il monaco singolo deve diventare umile.
Se no, se il monaco è superbo e vuole esibirsi, o vuole manipolare il coro affinché la comunità segua il suo ritmo e il suo stile personale, non c’è più armonia, e si sente la dissonanza. Papa Benedetto XVI, nel suo famoso discorso al Collège des Bernardins a Parigi, sulla cultura monastica, cita San Bernardo, che rimprovera severemente i monaci che disturbano l’unità del canto. San Bernardo dice che con tale comportamento, il monaco abbandona la somiglianza di Dio, e si precipita nella regio dissimilitudinis, “nella zona della dissomiglianza, in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se  stesso, dal vero essere uomo.”1
Questo giudizio di San Bernardo è molto severo, ma si vede quanto importante per lui è il canto all’unisono.

3. Partecipazione ai cori celesti
Abbiamo citato la formula conclusiva del prefazio che descrive il canto dei cori celesti una voce dicentes. È significativo che il canto dei monaci non è semplicemente un’attività umana, di cultura musicale. È invece una partecipazione alla liturgia celeste. Per questo, San Benedetto dice:
“Sappiamo per fede che dappertutto Dio è presente e che gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi, ma dobbiamo crederlo senza dubbio alcuno soprattutto quando partecipiamo all’Opera di Dio. Perciò teniamo presente sempre quello che dice il profeta:Servite il Signore nel timore, e ancora: Salmodiate con sapienza e: In presenza degli angeli canterò per te. Badiamo dunque con quale atteggiamento dobbiamo stare davanti a Dio e ai suoi angeli, e poniamoci a cantare i salmi in modo che il nostro spirito sia in accordo con la nostra voce” (RB 19:1-7).
4. L’unità della fede
Ci sono tanti aspetti del canto liturgico che potrei sviluppare ancora, ma mi limito ad uno in più. Il canto ha la capacità di unire tutti i misteri della fede nell’unità di una singola intuizione. Vi do un esempio.

Il Martirologio per il Natale, traccia tutta la storia della salvezza, fino all’incarnazione del Figlio di Dio. In un crescendo di intensità, dopo aver menzionato il periodo di pace sotto l’imperatore Augusto, il Martirologio proclama la nascita del Salvatore con queste parole e con questa melodia:

Ripeto l’ultima frase: Nativitas Domini nostri Iesu Christi secundum carnem. Avete mai sentito questa intonazione, questa melodia? Da dove viene? Quando viene usata nella liturgia?
Ascoltate: Passio Domini nostri Iesu Christi secundum Matteum.
Vedete? La melodia della proclamazione della nascita di Cristo riprende esattamente la melodia della passione. Perché? Perché il Figlio di Dio è venuto nel mondo per salvarci dai nostri peccati per mezzo della sua passione. Ecco: l’unità dei misteri della fede, comunicata con grande semplicità, per mezzo di una cantilena liturgica.

CONCLUSIONE
Il rapporto tra Monachesimo e Liturgia è un rapporto di immersione totale. In questo breve incontro, vi ho dato uno schizzo di alcuni elementi che formano quest’ambiente speciale.
  1. La preghiera incessante
  2. La mole di tempo impiegato ogni giorno nella preghiera liturgica
  3. I salmi
  4. Il canto
Ce ne sono tanti altri. Concludo, quindi, con un invito: Venite e vedrete! La mia descrizione stasera è una cosa; la vostra esperienza sarà un’altra.
Vi invito ad un mondo di bellezza, di ascetismo, di profonda spiritualità, di incontro con il Signore. Venite, “voi tutti che siete affaticati e oppressi…e troverete ristoro per le vostre anime” (cf. Mt 11:29).
________________________
1 Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura, Collège des Bernardins, Parigi: 12 settembre 2008), p.4.

6 commenti:

domenica 9 agosto 2015

Abusi a non finire

Un grave, diffuso abuso liturgico : i laici che prendono le Sacre Particole dal Tabernacolo

Laici che «armeggiano» nel Tabernacolo: 
un altro diffuso abuso. 
Solo il Sacerdote lo può fare 

di padre Henry Vargas Holguín 


da«Aleteia» tramite Il Timone 


Pensiamo in primo luogo all'essenza dell'Eucaristia. 
Nostro Signore Gesù Cristo ci ha lasciato il tesoro dell'Eucaristia nell'Ultima Cena, il Giovedì Santo. 
La Chiesa custodisce con somma cura questo tesoro, ma la Chiesa non è un'astrazione, un'idea; la Chiesa siamo tutti noi battezzati. 
E noi vescovi e sacerdoti siamo qui per santificare, reggere, insegnare e curare con zelo il tesoro dell'Eucaristia; sono queste le nostre principali responsabilità. 
I fedeli sono quindi chiamati alla corresponsabilità nella vita ecclesiale e a svolgere un servizio, anche liturgico. 
Svolgere un officio nella liturgia non è però necessario perché un fedele possa partecipare in modo attivo e fruttuoso alla Messa. 
Dobbiamo rispettare la dignità dei laici, evitando ogni “clericalizzazione”. 
Nessuno deve pensare che le persone che svolgono offici liturgici siano cristiani migliori. 
Detto questo, va detto che il ministro ordinato, che è il ministro ordinario della Comunione, è l'unico che normalmente può e deve aprire il tabernacolo per prendere le Ostie sacre, per prendere o portare la riserva, fare l'esposizione del Santissimo, ecc. 
Al termine del rito della Comunione durante la Messa, “le ostie consacrate avanzate vengano o immediatamente consumate all’altare dal Sacerdote o portate in un luogo appositamente destinato a conservare l’Eucaristia” (Redemptionis Sacramentum, 107). 
Gli accoliti istituiti e/o i cosiddetti ministri straordinari della Comunione non devono quindi accedere al tabernacolo, e meno che meno alla presenza del sacerdote e nel pieno della celebrazione eucaristica. 
Se questo accade, è un abuso che purtroppo viene concesso da alcuni sacerdoti. 
L’accolito è istituito per il servizio all’altare e per aiutare il sacerdote e il diacono. 
A lui spetta in modo particolare preparare l’altare e i vasi sacri, e, se necessario, distribuire l’Eucaristia ai fedeli di cui è ministro straordinario” (Ordinamento Generale del Messale Romano, 98). 
Deve essere quindi chiaro che in genere gli accoliti e/o i ministri straordinari della Comunione aiutano a distribuire in casi eccezionali l'Eucaristia, ma non possono, quando c'è un sacerdote che celebra, aprire o chiudere il tabernacolo, né andare a cercare o riporre al termine della Comunione le ostie. 
Se tuttavia il bisogno della Chiesa lo richiede, in mancanza dei ministri sacri, i fedeli laici possono, a norma del diritto, supplirlo in alcune mansioni liturgiche” (Redemptionis Sacramentum, 147).
Solo in casi del tutto straordinari ed estremamente necessari, quindi, un accolito – che è un ministro straordinario della Comunione – può accedere al tabernacolo, ad esempio quando un sacerdote molto anziano non riesce a camminare e non ci sono altri ministri ordinati, o anche, in terra di missione, quando non c'è un sacerdote nella comunità e si richiede di portare la Comunione a qualche malato, fare l'esposizione del Santissimo, ma con la pisside e senza dare la benedizione, ecc. 
Ministro dell'esposizione del santissimo Sacramento e della benedizione eucaristica è il sacerdote o il diacono; in speciali circostanze sono ministri della sola esposizione e riposizione, ma non della benedizione, l'accolito, il ministro straordinario della sacra comunione o altra persona designata dall'Ordinario del luogo, osservando le disposizioni del Vescovo diocesano” (Codice di Diritto Canonico, 943); quanto detto implica che in quelle circostanze speciali una persona che non sia ministro ordinato possa aprire o chiudere il tabernacolo. 
In ogni caso, bisogna fare grande attenzione perché ci sono molte situazioni che si prestano ad abusi e si giustificano con presunte “necessità pastorali”. 
È dunque importante vigilare, perché bisogna recuperare il rispetto, la solennità e tutto ciò che è adeguato alla liturgia. 
Ove lo suggerisca la necessità della Chiesa, in mancanza di ministri, anche i laici, pur senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici, cioè esercitare il ministero della parola, presiedere alle preghiere liturgiche, amministrare il battesimo e distribuire la sacra Comunione, secondo le disposizioni del diritto” (Codice di Diritto Canonico, 230, 3). 
È chiaro che questi ministri straordinari o laici devono rispettare certi requisiti, a cominciare dal fatto che devono essere nominati dall'ordinario del luogo. [Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti

lunedì 6 luglio 2015

Benedetto XVI riceve due Lauree “honoris causa”

Benedetto XVI riceve due Lauree “honoris causa”: il testo integrale del discorso del Papa Emerito


Parole di ringraziamento di Benedetto XVI, Papa emerito, in occasione del conferimento del dottorato “honoris causa” da parte della Pontificia Università “Giovanni Paolo II” di Cracovia e dell’Accademia di Musica di Cracovia (Polonia), 04.07.2015

Questa mattina a Castel Gandolfo, il Papa emerito Benedetto XVI, ha ricevuto il dottorato honoris causa da parte della Pontificia Università “Giovanni Paolo II” di Cracovia e dell’Accademia di Musica di Cracovia (Polonia). A conferire le due Lauree è stato il Card. Stanisław Dziwisz, Arcivescovo di Cracovia, Gran Cancelliere della Pontificia Università “Giovanni Paolo II”.
Riportiamo di seguito le parole di ringraziamento che Benedetto XVI ha pronunciato nel corso della cerimonia:

Testo in lingua italiana

Eminenza!

Eccellenze!

Magnificenze!

Illustri Signori Professori!

Signore e Signori!

In questo momento non posso che esprimere il mio più grande e cordiale ringraziamento per l’onore che mi avete riservato conferendomi il doctoratus honoris causa. Ringrazio il Gran Cancelliere la cara Eminenza il Cardinale Stanisław Dziwisz e le autorità Accademiche di tutti e due gli Atenei. 
Mi rallegra soprattutto il fatto che in questo modo è divenuto ancor più profondo il mio legame con la Polonia, con Cracovia, con la patria del nostro grande santo Giovanni Paolo II. Perché senza di lui il mio cammino spirituale e teologico non è neanche immaginabile. 
Con il suo esempio vivo egli ci ha anche mostrato come possano andare mano nella mano la gioia della grande musica sacra e il compito della partecipazione comune alla sacra liturgia, la gioia solenne e la semplicità dell’umile celebrazione della fede.

Negli anni del post-concilio, su questo punto si era manifestato con rinnovata passione un antichissimo contrasto. 
Io stesso sono cresciuto nel Salisburghese segnato dalla grande tradizione di questa città. Qui andava da sé che le messe festive accompagnate dal coro e dall’orchestra fossero parte integrante della nostra esperienza della fede nella celebrazione della liturgia. 
Rimane indelebilmente impresso nella mia memoria come, ad esempio, non appena risuonavano le prime note della Messa dell’incoronazione di Mozart, il cielo quasi si aprisse e si sperimentasse molto profondamente la presenza del Signore. - E grazie anche a voi, che mi avete fatto sentire Mozart, e anche al Coro: dei grandi canti! - Accanto a questo, tuttavia, era comunque già presente anche la nuova realtà del Movimento liturgico, soprattutto tramite uno dei nostri cappellani che più tardi divenne vice-reggente e poi rettore del Seminario maggiore di Frisinga. Durante i miei studi a Monaco di Baviera, poi, molto concretamente sono sempre più entrato all’interno del Movimento liturgico attraverso le lezioni del professor Pascher, uno dei più significativi esperti del Concilio in materia liturgica, e soprattutto attraverso la vita liturgica nella comunità del seminario. 
Così a poco a poco divenne percepibile la tensione fra la participatio actuosa conforme alla liturgia e la musica solenne che avvolgeva l’azione sacra, anche se non la avvertii ancora così forte.

Nella Costituzione sulla liturgia del Concilio Vaticano II è scritto molto chiaramente: «Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra» (114). 
D’altro canto il testo evidenzia, quale categoria liturgica fondamentale, la participatio actuosa di tutti i fedeli all’azione sacra. Quel che nella Costituzione sta ancora pacificamente insieme, successivamente, nella recezione del Concilio, è stato sovente in un rapporto di drammatica tensione. 
Ambienti significativi del Movimento liturgico ritenevano che, per le grandi opere corali e financo per le messe per orchestra, in futuro ci sarebbe stato spazio solo nelle sale da concerto, non nella liturgia. Qui ci sarebbe potuto esser posto solo per il canto e la preghiera comune dei fedeli. 
D’altra parte c’era sgomento per l’impoverimento culturale della Chiesa che da questo sarebbe necessariamente scaturito
In che modo conciliare le due cose? Come attuare il Concilio nella sua interezza? Queste erano le domande che si imponevano a me e a molti altri fedeli, a gente semplice non meno che a persone in possesso di una formazione teologica.

A questo punto forse è giusto porre la domanda di fondo: Che cos’è in realtà la musica? Da dove viene e a cosa tende?

Penso si possano localizzare tre “luoghi” da cui scaturisce la musica.

Una sua prima scaturigine è l’esperienza dell’amore. Quando gli uomini furono afferrati dall’amore, si schiuse loro un’altra dimensione dell’essere, una nuova grandezza e ampiezza della realtà. Ed essa spinse anche a esprimersi in modo nuovo. La poesia, il canto e la musica in genere sono nati da questo essere colpiti, da questo schiudersi di una nuova dimensione della vita.

Una seconda origine della musica è l’esperienza della tristezza, l’essere toccati dalla morte, dal dolore e dagli abissi dell’esistenza. Anche in questo caso si schiudono, in direzione opposta, nuove dimensioni della realtà che non possono più trovare risposta nei soli discorsi.

Infine, il terzo luogo d’origine della musica è l’incontro con il divino, che sin dall’inizio è parte di ciò che definisce l’umano. A maggior ragione è qui che è presente il totalmente altro e il totalmente grande che suscita nell’uomo nuovi modi di esprimersi
Forse è possibile affermare che in realtà anche negli altri due ambiti – l’amore e la morte – il mistero divino ci tocca e, in questo senso, è l’essere toccati da Dio che complessivamente costituisce l’origine della musica. Trovo commovente osservare come ad esempio nei Salmi agli uomini non basti più neanche il canto, e si fa appello a tutti gli strumenti: viene risvegliata la musica nascosta della creazione, il suo linguaggio misterioso. Con il Salterio, nel quale operano anche i due motivi dell’amore e della morte, ci troviamo direttamente all’origine della musica sacra della Chiesa di Dio. Si può dire che la qualità della musica dipende dalla purezza e dalla grandezza dell’incontro con il divino, con l’esperienza dell’amore e del dolore. Quanto più pura e vera è quest’esperienza, tanto più pura e grande sarà anche la musica che da essa nasce e si sviluppa.

A questo punto vorrei esprimere un pensiero che negli ultimi tempi mi ha preso sempre più, tanto più quanto le diverse culture e religioni entrano in relazione fra loro. Nell’ambito delle diverse culture e religioni è presente una grande letteratura, una grande architettura, una grande pittura e grandi sculture. E ovunque c’è anche la musica. E tuttavia in nessun’altro ambito culturale c’è una musica di grandezza pari a quella nata nell’ambito della fede cristiana: da Palestrina a Bach, a Händel, sino a Mozart, Beethoven e Bruckner. La musica occidentale è qualcosa di unico, che non ha eguali nelle altre culture. E questo - mi sembra - ci deve far pensare.

Certo, la musica occidentale supera di molto l’ambito religioso ed ecclesiale. E tuttavia essa trova comunque la sua origine più profonda nella liturgia nell’incontro con Dio.
In Bach, per il quale la gloria di Dio rappresenta ultimamente il fine di tutta la musica, questo è del tutto evidente. La risposta grande e pura della musica occidentale si è sviluppata nell’incontro con quel Dio che, nella liturgia, si rende presente a noi in Cristo Gesù. Quella musica, per me, è una dimostrazione della verità del cristianesimo. Laddove si sviluppa una risposta così, è avvenuto un incontro con la verità, con il vero creatore del mondo. Per questo la grande musica sacra è una realtà di rango teologico e di significato permanente per la fede dell’intera cristianità, anche se non è affatto necessario che essa venga eseguita sempre e ovunque. D’altro canto è chiaro però anche che essa non può scomparire dalla liturgia e che la sua presenza può essere un modo del tutto speciale di partecipazione alla celebrazione sacra, al mistero della fede.

Se pensiamo alla liturgia celebrata da san Giovanni Paolo II in ogni continente, vediamo tutta l’ampiezza delle possibilità espressive della fede nell’evento liturgico; e vediamo anche come la grande musica della tradizione occidentale non sia estranea alla liturgia, ma sia nata e cresciuta da essa e in questo modo contribuisca sempre di nuovo a darle forma. Non conosciamo il futuro della nostra cultura e della musica sacra. Ma una cosa è mi sembra chiara: dove realmente avviene l’incontro con il Dio vivente che in Cristo viene verso di noi, lì nasce e cresce nuovamente anche la risposta, la cui bellezza viene dalla verità stessa.

L’attività delle due università che mi conferiscono – mi hanno conferito - questo dottorato honoris causa – per il quale posso ancora dire grazie di tutto cuore - rappresenta un contributo essenziale affinché il grande dono della musica che proviene dalla tradizione della fede cristiana resti vivo e sia di aiuto perché la forza creativa della fede anche in futuro non si estingua. 

Per questo ringrazio di cuore tutti voi, non solo per l’onore che mi avete riservato, ma anche per tutto il lavoro che svolgete a servizio della bellezza della fede. Il Signore vi benedica tutti.