Visualizzazione post con etichetta JOSEPH RATZINGER. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta JOSEPH RATZINGER. Mostra tutti i post

lunedì 3 febbraio 2020

“Ero convinto – io stesso non so come – che Dio voleva qualcosa da me, che poteva essere raggiunto solo diventando sacerdote”.


Da Peter Seewald, Joseph Ratzinger, "Il sale della terra: Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo" – Un colloquio con Peter Seewald, Edizioni San Paolo 2005

Com’e arrivato alla sua vocazione? Quando si è reso conto di ciò a cui era destinato? Una volta Lei ha detto: “Ero convinto – io stesso non so come – che Dio voleva qualcosa da me, che poteva essere raggiunto solo diventando sacerdote”.

Si, ma non c’è stato nessun momento di improvvisa illuminazione, in cui potei riconoscere che sarei diventato prete. Al contrario, questa idea è maturata lentamente in me e ha dovuto essere continuamente rimeditata e fatta propria.
Non potrei nemmeno assegnare una data precisa a questa decisione. Ma mi sono presto reso conto che Dio ha un progetto per ciascun uomo, anche per me, che esiste un piano di Dio per me e così, a poco a poco, mi è apparso chiaro che quel che Egli aveva in mente aveva a che fare con il sacerdozio.


In un tempo successivo ha avuto dei momenti paragonabili a un’illuminazione o un’esperienza di illuminazione in senso proprio?

Per la verità, non ho mai avuto un’illuminazione nel senso classico del termine, come un’esperienza quasi mistica. Sono un cristiano del tutto normale. Ma in un senso più ampio, la fede dona al cristiano una luce.
Insieme con il pensiero, il cristiano ritiene – per dirla con Heidegger – di riuscire a scorgere un po’ di luce oltre i sentieri interrotti.

Dopo che Lei si fu deciso per il sacerdozio, Le è capitato di doversi confrontare con dei dubbi personali, crisi o tentazioni?

Ci sono certamente stati momenti del genere. In particolare, proprio nei sei anni di studio della teologia ci si imbatteva in tanti problemi dell’uomo e in tante domande. Il celibato è davvero ciò che fa per me? Essere parroco è ciò che fa per me? Già venire a capo di queste domande non era sempre una cosa semplice. Ho sempre avuto presente la via da seguire, ma non sono mancati dei momenti di crisi.

In che cosa consistettero queste crisi? Potrebbe ricordare un esempio?

Negli anni in cui studiavo teologia a Monaco dovetti confrontarmi soprattutto con due questioni. Ero affascinato dalla teologia scientifica. Trovavo meraviglioso poter penetrare nel grande mondo della storia della fede; mi si aprivano grandi orizzonti di pensiero e di fede e, nel contempo, imparavo a riflettere sulle domande originarie dell’esperienza umana, che erano poi le stesse domande che riguardavano la mia vita.


Ma mi resi sempre più conto che la chiamata al sacerdozio era molto di più del piacere di fare teologia, anzi, che il lavoro in una parrocchia spesso può distogliere da essa ed esigere tutt’altro tipo di impegni. Non potevo certo studiare teologia per diventare professore universitario, anche se questo era il mio tacito desiderio. Ma il si al sacerdozio significava per me dire si a quel compito nel suo insieme, anche nelle sue forme più semplici.


Dal momento che ero piuttosto timido e poco pratico, che non ero né sportivo né dotato di capacità organizzative o amministrative, dovetti chiedermi se sarei stato capace di entrare in rapporto con le persone – se, per esempio, come coadiutore sarei riuscito a guidare e animare la gioventù cattolica, se sarei stato capace di insegnare religione ai più piccoli, se sarei stato capace di assistere gli anziani e i malati, e così via. Dovetti chiedermi se ero disposto a tutto questo per tutta la vita e se quella era davvero la mia vocazione.


A ciò si aggiungeva, naturalmente, la domanda se sarei stato capace di vivere il celibato per tutta la vita. A quel tempo gli edifici universitari erano distrutti e non c’era spazio per la facoltà di teologia.
Per questo risiedemmo per due anni nel castello di Furstenried e negli edifici da esso dipendenti, alla periferia della città.


Lì si viveva a stretto contatto, professori e studenti, ma anche studenti e studentesse, così che la questione della rinuncia e del suo senso si poneva in termini assai pratici proprio in forma di questa convivenza quotidiana. Mi sono spesso confrontato con queste domande nel bel parco di Furstenried e, ovviamente, nella cappella, finchè nell’autunno del 1950 potei pronunciare un si convinto in occasione della mia ordinazione diaconale.


mercoledì 23 gennaio 2019

lunedì 5 novembre 2018

Mentre B esalta la sinistra e gli immigrati, Papa Ratzinger elogia Salvini e la Lega.

Qualche anno Matteo Salvini, durante una sua conferenza, ha elogiato Papa Benedetto XVI con questa affermazione:
«Il mio papa è Benedetto XVI». Salvini confrontò Benedetto XVI con il migrazionismo di Bergoglio.
Salvini ricordò l’ insegnamento di papa Ratzinger e Giovanni Paolo II secondo cui prima del diritto di emigrare, va riaffermato il diritto di non emigrare. E va difesa l’ identità dei popoli.
Ma molto più vasta di questo particolare tema è la sovrapposizione fra le battaglie politiche della sua Lega e l’ insegnamento di Benedetto XVI (e di Giovanni Paolo II).
Su liberoquotidiano leggiamo :
DA KANT A SARTRE – In questa sede perciò non proverò nemmeno a riassumere le tante e meravigliose pagine di Benedetto XVI che spaziano da Kant a Solzenicyn, dal primato della coscienza a Sacharov, da Popper a Sartre, dalla meditazione sulla musica di Bach per la Passione di Cristo in relazione al «Venerdì Santo del XX secolo» alla concezione dello Stato dei primi cristiani, dal crocifisso di Grünewald (il celebre Altare di Isenheim) a Marx e Lenin. Ognuno potrà deliziarsi di queste pagine ratzingeriane che sono luminose e vaste come una bella vallata della campagna toscana.
Qui invece vorrei considerare questo libro come se fosse un vero e proprio intervento sull’ attualità politica, anzitutto quella italiana ed enucleare i temi e i pensieri che – pur rappresentando un potente suggerimento per tutti – costituiscono per Matteo Salvini e la Lega un contributo autorevole a certe loro battaglie. Anzitutto la questione islamica. 
In questo volume non viene riproposto il mitico discorso di Ratisbona (è stato pubblicato altrove), ma è comunque preziosa l’ apologia che – in dialogo con Marcello Pera – Benedetto XVI fa dei diritti umani come «forza riconosciuta dalla ragione universale in tutto il mondo contro le dittature di ogni tipo»: se nel Novecento questa affermazione riguardava solo i sistemi totalitari atei oggi – dice il papa – riguarda soprattutto «gli Stati fondati sulla base di una giustificazione religiosa, così come li incontriamo soprattutto nel mondo islamico».
Tutto questo libro di Benedetto XVI – in linea col discorso di Ratisbona – è un’ apologia della ragione e della vera laicità che è stata partorita dal cristianesimo (in opposizione alla divinizzazione del potere imperiale dell’ antichità).
Un altro tema che arricchisce la prospettiva politica del leader leghista è la polemica di Benedetto XVI con l’ attuale Europa la cui tecnocrazia cerca di imporre un pensiero unico positivista che però rappresenta il suicidio dell’ Europa.

CULTURA D’ EUROPA – Perché – come ricorda il papa – «il patrimonio culturale dell’ Europa» è molto più vasto e, storicamente, proprio «sulla base della convinzione circa l’ esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’ idea dei diritti umani, l’ idea dell’ uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’ inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire.
Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’ amputazione della nostra cultura (). La cultura dell’ Europa è nata dall’ incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’ incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’ intima identità dell’ Europa».

Da cui viene la responsabilità di battersi «per la dignità inviolabile dell’ uomo». Questo triplica incontro «ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico». Ma oltre ad abbattere il mito ideologico dell’ Europa relativista di Maastricht, Benedetto XVI demolisce l’ altra divinità del momento: i mercati.
Una divinità osannata e adorata a cui vengono sacrificati gli Stati e i popoli.
Contro la religione mercatista il libro ripropone il Messaggio del 1° gennaio 2013 dove, nell’ imperversare della crisi economica, Benedetto XVI prospetta «un nuovo modello economico» in cui la «massimizzazione del profitto» ceda il passo al primato del bene comune. Chiede dunque agli Stati di riprendere l’ iniziativa in campo economico con «politiche di sviluppo industriale e agricolo» (quindi Keynes, che è reso impossibile dalla moneta unica in Europa) e poi chiede la «fondamentale e imprescindibile strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali in modo da non arrecare danno ai più poveri».

DIALOGO CON PUTIN – Che significa rivendicare il primato degli Stati e dei popoli sui mercati. Oggi è un pensiero rivoluzionario. Benedetto XVI è così anticonformista e indigesto per il potere globale che, nel recente libro intervista Ultime conversazioni, si è permesso una elegante stroncatura di Obama e un significativo apprezzamento per il leader russo: «(Con Putin) abbiamo parlato in tedesco, lo conosce perfettamente. Non abbiamo fatto discorsi profondi, ma credo che egli – un uomo di potere – sia toccato dalla necessità della fede. È un realista.
Vede che la Russia soffre per la distruzione della morale. Anche come patriota, come persona che vuole riportarla al ruolo di grande potenza, capisce che la distruzione del cristianesimo minaccia di distruggerla. Si rende conto che l’ uomo ha bisogno di Dio e ne è di certo intimamente toccato. Anche adesso, quando ha consegnato a pF l’ icona, ha fatto prima il segno della croce e l’ ha baciata». Si può dire che, insieme alla Costituzione e al Vangelo, Salvini alla prossima manifestazione può sventolare il libro di Benedetto XVI, una grande riflessione politica.
AMDG et DVM

domenica 20 maggio 2018

Cercate le cose di lassù

Il senso della Pentecoste è di destarci all’oggi, alla silenziosa forza della bontà divina che bussa alla nostra esistenza e vorrebbe trasformarla.

tratto da Joseph RatzingerCercate le cose di lassù. Riflessioni per tutto l’anno,  Paoline 1986, Capitolo La festa dello Spirito, § 1. Risvegliarsi alla forza che viene dal silenzio, Paoline, Milano 1986, pp. 51-57.

1. Risvegliarsi alla forza che viene dal silenzio

Pentecoste e Spirito Santo... da quando esiste la cristianità sono parole di una forza quasi magnetica, il cui effetto, proprio nell’età moderna, supera l’ambito dei fedeli praticanti.
Agli inizi, per l’esperienza che la Chiesa terrena faceva dei propri limiti e piccolezze umane, nutriva costantemente il desiderio di una Chiesa dello Spirito, della libertà e dell’amore. Si comincia con i predicatori montanisti del secondo secolo e si giunge fino alle speranze e ai desideri che accompagnarono il Concilio Vaticano II.

Nell’alto medioevo l’abate Gioacchino da Fiore, in Calabria, ha elaborato una teoria su questa attesa che è cresciuta di secolo in secolo addirittura come una valanga. Egli insegnava che al primo regno del Padre e al secondo regno del Figlio avrebbe fatto seguito un terzo regno, il regno dello Spirito, nel quale non sarebbero più state necessarie le leggi e le norme esterne, perché lo Spirito e l’amore avrebbero guidato gli uomini alla libertà, rendendo superfluo ogni dominio esteriore.

Dal dodicesimo secolo, questa visione ha continuato ad ispirare teologi, filosofi e politici. I primi [51] tentativi medievali di ristabilire la repubblica romana in contrapposizione al dominio dei Papi in Italia si richiamavano all’abate profeta, persino il Duce di infausta memoria, conosciuta la dottrina del religioso medievale in una conferenza di Ginevra, voleva portarla a compimento.
E così Hegel si senti ispirato da Gioacchino, e una traccia per quanto esile delle sue teorie è presente anche nelle speranze marxiste di una società senza classi, senza alienazione né sfruttamento.
Le variazioni sul tema dello Spirito Santo sono infinite e giungono addirittura alla speranza di poter istituire il regno dello Spirito come regno della materia.

Ma qual è il vero messaggio della Pentecoste? Con quale risposta la Chiesa, dalla quale il tema è scaturito, ha affrontato le variazioni che nelle loro conseguenze si sono per lo più ribaltate contro di essa? A questo proposito ha da dire qualcosa di significativo anche per l’oggi, che può avere importanza oltre l’ambito ristretto dei suoi seguaci?

Una risposta che resti nella tradizione originaria della fede è tanto più difficile perché non si può contrapporre niente di altrettanto evidente alle speranze e ai programmi tangibili.
Si può avvertire questo dilemma molto presto, fin dal Vangelo di Giovanni, che, in mezzo a parole di grandezza spesso impenetrabile, contiene interrogativi di un realismo quasi sconcertante. Così, per esempio, Giuda Taddeo, proprio durante il discorso di commiato di Gesù, domanda: «Signore, perché devi manifestarti a noi e non al mondo?» (14,22).

Questa è la domanda che segretamente conti[52]nuiamo a sollevare: perché dunque il Risorto è rimasto soltanto nella cerchia dei suoi, invece di presentarsi in tutta la sua potenza agli avversari, cancellando ogni dubbio? Perché, per tutta la storia, si lascia cogliere solo a fatica attraverso le parole del Vangelo, invece di fondare inequivocabilmente un regno dello Spirito e dell’amore?

La risposta di Gesù nel Vangelo di Giovanni è cifrata. Agostino l’ha formulata in questo modo: dipende dal fatto che solo chi ha lo Spirito può vedere lo Spirito. Si rifà ad una frase del filosofo Plotino, da lui ammirato, che Goethe ha così tradotto in tedesco: «Wär nicht das Auge sonnenhaft, die Sonne könnt es nicht erkennen» (se l’occhio non fosse solare non potrebbe riconoscere il sole).
Ma chiediamoci di nuovo: cosa sono realmente la Pentecoste e lo Spirito Santo? Poiché non è possibile mostrarli direttamente, si può ricorrere solo a delle immagini per chiarire il loro significato.

Fin dai tempi antichi la liturgia della Chiesa ha trovato una valida immagine nel Salmo 68 (67), inteso già nella Lettera agli Efesini (4,7) come un inno di trionfo per l’Ascensione di Gesù Cristo e quindi come rappresentazione del nesso che lega la Pasqua alla Pentecoste.
Il versetto 19 di questo Salmo recita: «Sei salito in alto conducendo prigionieri, hai ricevuto uomini in tributo». Nell’interpretazione data da Paolo nella sua Lettera ciò significa: Cristo, in quanto Messia, è un re vittorioso che ha combattuto e vinto la battaglia decisiva della storia del mondo: la battaglia contro la morte, nemica originaria della vita. Ora rivendica il diritto del vincitore a spartire il bottino.

Ma [53] qual è il bottino che egli distribuisce? La risposta è: il dono di Dio è Dio stesso, lo Spirito Santo.
Per la creatura umana era ed è troppo e troppo poco al tempo stesso. Certo, Israele attendeva un vincitore che conducesse battaglie e portasse a casa, al popolo eletto, un bottino di valore senza uguale. Ma questabattaglia – la croce – e questo bottino: lo Spirito Santo come forza nei credenti, deludevano le loro aspettative. Non era ciò che avevano desiderato. Si allontanarono da lui, cercando e trovando altri messia, che combatterono battaglie violente e disperatamente eroiche contro la superpotenza romana, portando infine il paese alla rovina. Il bottino lo fece la morte; essa fu la vera vincitrice di quella lotta secolare.

E il mondo cristiano e noi qui ed ora? Da un liberatore ci aspetteremmo anche noi doni completamente diversi da quelli descritti da Paolo. Noi aspettiamo una casa, del denaro, buon cibo, bei viaggi, successo, prestigio, comodità, pace e sicurezza.
Ma non lo Spirito Santo, perché esso è in realtà il contrario di tutto questo: ci fa sentire a disagio per le nostre proprietà, la nostra comodità e il prestigio, che tanto spesso poggia su dubbi compromessi. È un uragano. Non ci lascia tranquilli nella nostra comodità, ci sottopone al ridicolo mettendoci al servizio della verità e spingendoci a superare noi stessi per amare l’altro «come noi stessi». C’insegna una liberazione completamente diversa da quella del «terzo regno» e di tutti i paradisi terrestri.Eppure... l’uragano che libera l’uomo da se stesso, che lo rende autentico [54] e buono, non è forse la più profonda delle rivoluzioni, la sola vera speranza del mondo?

Ma, viene da domandarsi, non è una contraddizione?
Da una parte sentiamo che lo Spirito Santo è qualcosa che non si può mostrare; che è invisibile in un senso molto profondo, come l’amore che sconvolge l’uomo e lo trasforma, ma che non si può mostrare come si esibisce un’auto nuova. Dall’altra parte si dice che lo Spirito Santo è un uragano, un principio di trasformazione tale da essere indicato come la forza della nuova creazione, il cui intervento sulla realtà non è meno fondamentale di una «creazione».
Com’è possibile? Il nocciolo della risposta è già stato dato accennando all’amore che non si può esibire ma che è la forza fondamentale della vita umana, anzi, della realtà.

Forse una parabola può contribuire a spiegare meglio ciò che intendo dire. Alcuni anni fa è uscito un film impressionante, intitolato «Seelenwanderung» (Metempsicosi). Raccontava di due poveri diavoli che, per la loro bontà, non riuscivano a farsi strada. Ad uno un giorno viene l’idea, non avendo più niente da dar via, di vendere l’anima, che viene acquistata a poco prezzo e sistemata in una scatola. Da quel momento, con sua grande sorpresa, tutto cambia nella sua vita. Inizia una rapida ascesa, diventa sempre più ricco, ottiene grandi onori e alla sua morte è console, largamente provvisto di denaro e di beni. Dal momento in cui si era liberato della sua anima non aveva avuto più riguardi né umanità. Agiva senza scrupoli, badando solo al guadagno e al suc[55]cesso. L’uomo non contava più niente. Lui stesso non aveva più un’anima. Il film dimostrava in maniera impressionante come dietro alla facciata del successo si nasconda un’esistenza vuota. Apparentemente l’uomo non ha perduto niente, ma gli manca l’anima e con essa manca tutto.

È ovvio che l’essere umano non può gettare via letteralmente la propria anima, è ciò che Io rende persona. Rimane comunque persona umana. Eppure ha la spaventosa possibilità di essere un disumano, di rimanere persona vendendo e perdendo al tempo stesso la propria umanità. La distanza tra la persona umana e essere disumano è immensa eppure non si può dimostrare; è la cosa realmente essenziale eppure è apparentemente senza importanza. Mi sembra che questa metafora possa spiegare molti aspetti della Pentecoste.

Se lo Spirito Santo, il dono della nuova creazione penetra nella persona o no, se questa le fa spazio o no, non lo si può vedere né dimostrare esteriormente. Apparentemente non ha importanza. Tuttavia questo fatto apre una nuova dimensione della vita umana, dalla quale, in ultima analisi, dipende tutto.

Perciò il senso della Pentecoste non è quello di farci sognare mondi migliori per il futuro, né tanto meno quello di fare di noi degli strateghi del futuro, che sacrificano alla leggera il presente alla chimera di ciò che sarà. Il senso di questo giorno è piuttosto, al contrario, quello di destarci all’oggi, alla silenziosa forza della bontà divina che bussa alla nostra esistenza e vorrebbe trasformarla. Il risveglio alla forza che viene dal silenzio... non potrebbe essere un compito e una [56] speranza per cristiani e non cristiani, un’interpretazione della Pentecoste che può toccare tutti?

mercoledì 27 settembre 2017

JOSEPH RATZINGER La mia vita

JOSEPH RATZINGER 

La mia vita 

Il cardinale si racconta in un'autobiografia: dalla giovinezza in Baviera al sacerdozio, al Concilio Vaticano II. E ai lettori di "Famiglia Cristiana" indica le sfide del Vangelo nel nuovo millennio.


A settant'anni, il cardinale Joseph Ratzinger esce dall'abituale riservatezza sulla sua persona. Lo fa con un libro autobiografico ( La mia vita ) scritto per le Edizioni San Paolo. Il volume intreccia racconto e riflessione teologica, e se questa può essere la parte più interessante (dato il ruolo di "guardiano" della fede cattolica che l'autore ricopre), le pagine narrative sono la novità e scoprono tratti di candore in una personalità molto determinata.


Il cardinale racconta, ad esempio, d'essere nato il Venerdì Santo (16 aprile) del 1927 e battezzato il giorno dopo con l'acqua benedetta nella notte pasquale. Quindi annota: «L'essere il primo battezzato della nuova acqua era un importante segno premonitore. Personalmente sono sempre stato grato per il fatto che, in questo modo, la mia vita sia stata fin dall'inizio immersa nel mistero pasquale, dal momento che non poteva che essere un segno di benedizione».

Ventiquattro anni dopo, nella festa dei santi Pietro e Paolo, il brillante studente di teologia Joseph Ratzinger è ordinato sacerdote nel duomo di Frisinga dal cardinale Faulhaber. «Era una splendida giornata d'estate, che resta indimenticabile, come il momento più importante della mia vita. Non si deve essere superstiziosi, ma nel momento in cui l'anziano arcivescovo impose le sue mani su di me, un uccellino - forse un'allodola - si levò dall'altare maggiore della cattedrale e intonò un piccolo canto gioioso; per me fu come se una voce dall'alto mi dicesse: va bene così, sei sulla strada giusta».

Tra questi due eventi, il giovane Ratzinger ebbe una formazione di prim'ordine, grazie a genitori esemplari e a studi molto seri. In diverse pagine del libro emerge il sentimento di unione che legava la famiglia Ratzinger (il futuro cardinale era il più giovane dei tre figli) e si coglie forte il senso della "casa". Per il lavoro del padre, che era un gendarme, la famiglia dovette trasferirsi in diversi paesi della Baviera. Grazie alla laboriosità della madre, ogni nuovo alloggio acquistava presto il sapore del focolare.

D ei vari cicli di studio l'autore conserva piacevoli ricordi (non però delle attività sportive: non aveva "il fisico", e poi era sempre il più piccolo della sua squadra e quindi più o meno "tollerato"). Fece ottimi studi umanistici, tanto che nel primo periodo di servizio militare (a sedici anni) passava talvolta il tempo libero componendo versi in greco. In seminario ebbe maestri importanti, alcuni dei quali erano figure di primo piano del rinnovamento in campo biblico e liturgico. A proposito di liturgia, le chiese dei vari paesi in cui trascorse l'infanzia e l'adolescenza sono un altro dei "luoghi" importanti della memoria di Ratzinger. Il cardinale ricorda con gratitudine la possibilità di seguire la celebrazione eucaristica con un messalino (lo Schott) che offriva la traduzione di gran parte dei testi liturgici, rievoca la suggestione dei riti della Settimana Santa e richiama tanti altri momenti legati al culto. «L'inesauribile realtà della liturgia cattolica», osserva, «mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita; per questo non posso non parlarne continuamente».

L a formazione del giovane Ratzinger avviene negli anni della devastante tragedia nazista. Egli ricorda la fermezza di giudizio del padre, fondata sulla fede cristiana. Richiamando l'ambiguità di sentimenti (preoccupazione mescolata ad orgoglio) che, all'inizio della seconda guerra mondiale, le vittorie delle armate del Terzo Reich provocavano nei tedeschi, l'autore sottolinea: «Mio padre vedeva con inalterabile chiarezza che la vittoria di Hitler non sarebbe stata una vittoria della Germania, ma dell'Anticristo, e sarebbe stata l'inizio dei tempi apocalittici per tutti i credenti, e non solo per loro». Ratzinger, che dovette prestare un sia pure blando servizio militare, si salvò dall'arruolamento "volontario" nelle SS dichiarando di voler diventare sacerdote cattolico. Alla fine della guerra fu internato per alcune settimane in un campo di prigionia degli Alleati. Poi tornò a casa, e poco dopo rientrò anche il fratello, che aveva combattuto sul fronte italiano. «I mesi successivi, in cui potemmo gustare la ritrovata libertà, che ora avevamo imparato a stimare nel suo giusto valore, sono tra i più bei ricordi della mia vita».

Finita la guerra, il futuro cardinale riprese gli studi di Teologia, fatti con grande fervore e con la fortuna di poter studiare sui testi dei principali teologi dell'epoca, parecchi dei quali precursori del Concilio Vaticano II. Annota Ratzinger: «Quando ripenso agli anni intensi in cui studiavo teologia, posso solo meravigliarmi di tutto quello che oggi si sostiene a proposito della cosiddetta Chiesa "preconciliare". Tutti noi vivevamo nella percezione della rinascita, avvertita già negli anni Venti, di una teologia capace di porre domande con rinnovato coraggio e di una spiritualità che si sbarazzava di ciò che era ormai invecchiato e superato, per farci rivivere in modo nuovo la gioia della redenzione». Dopo l'ordinazione sacerdotale e un breve periodo di attività pastorale, l'autore si dedicò all'insegnamento della Teologia, non senza aver prima sofferto per un contrasto con il grande teologo Michael Schmaus, che gli respinse la prima stesura della tesi per la libera docenza.

Seguirono anni di grande fervore intellettuale, a contatto con illustri colleghi come Karl Rahner, Hubert Jedin, Johann Auer, Hans Küng e altri. Quando cominciò il Vaticano II, Joseph Ratzinger era professore di Teologia a Bonn e l'arcivescovo di Colonia, cardinale Frings, lo volle con sé a Roma, dove lo fece nominare perito del Concilio. Pur avvertendo che «il dramma teologico-ecclesiale di quegli anni non rientra nell'intento di questi ricordi», Ratzinger accenna al "drammatico scontro" sulle "fonti della rivelazione". Il Concilio respinse le tesi che sembravano ancorare la rivelazione solo alla corretta e completa interpretazione delle Scritture (privilegiando così gli esegeti rispetto al magistero) ma, dice il cardinale, «il dramma dell'epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d'ordine e dalle sue conseguenze logiche». E chiarisce: «La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge. Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini, unirli tra loro: per questo essa implica la Chiesa».

Del "clima" conciliare il cardinale ha questo ricordo: «Ogni volta che tornavo a Roma trovavo nella Chiesa e tra i teologi uno stato d'animo sempre più agitato. Sempre più cresceva l'impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto potesse essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un grosso parlamento ecclesiale, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio. Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso». Secondo il cardinale, in quel clima si percepiva anche «l'idea di una sovranità ecclesiale popolare, in cui il popolo stesso stabilisce quel che vuole intendere col termine Chiesa, che anzi appariva ormai chiaramente definita come Popolo di Dio. Si annunciava così l'idea di "Chiesa dal basso", di "Chiesa del popolo", che poi, soprattutto nel contesto della teologia della liberazione, divenne il fine stesso della riforma».

Il dopo-Concilio fu assai amaro per Ratzinger anche come docente. Chiamato ad insegnare Teologia dogmatica a Tubinga, per insistenza di Hans Küng, vi trovò un cambiamento culturale sorprendente: «Quasi nello spazio di una notte, lo schema esistenzialistico crollò e fu sostituito da quello marxista». In quegli anni a Tubinga insegnavano anche il filosofo marxista Ernst Bloch (che «denigrava Heidegger come piccolo borghese») e il teologo evangelico Jürgen Moltmann, che «ripensava completamente la teologia a partire da Bloch». Stanco di polemiche, Ratzinger accettò la cattedra di Teologia a Ratisbona, e per reagire contro «la distruzione della teologia, che avveniva attraverso la sua politicizzazione in direzione del messianismo marxista», cercò il collegamento con teologi come Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, con i quali collaborò alla rivista Communio .

Prima di parlare della sua esperienza di vescovo, Ratzinger espone alcune drastiche critiche sul rinnovamento liturgico avvenuto dopo il Concilio. Scrive di essere rimasto sbigottito dal «divieto del messale antico» e dalla sbrigativa «creatività» in campo liturgico. E afferma: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipenda in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur : come se in essa non importasse più se Dio c'è e se ci parla e ci ascolta».


«Il nunzio portò una lettera... 
essa conteneva la mia nomina ad arcivescovo di Monaco». Pubblichiamo un capitolo delle memorie del cardinale Ratzinger 

Non pensai a niente di pericoloso quando il nunzio Del Mestri, con un pretesto, mi fece visita a Ratisbona, chiacchierò con me del più e del meno e, alla fine, mi mise tra le mani una lettera che dovevo leggere a casa, pensandoci sopra. Essa conteneva la mia nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga. Fu per me una decisione immensamente difficile. Mi era concesso di consultare il mio confessore. Ne parlai con il professor Auer, che conosceva molto realisticamente i miei limiti, teologici e umani. Mi aspettavo che egli mi sconsigliasse. Ma... egli disse, senza pensarci su molto: "Devi accettare". Così, dopo aver ancora una volta esposto i miei dubbi al nunzio, sotto i suoi occhi, sulla carta da lettera dell'albergo dove era alloggiato, scrissi la dichiarazione con cui assentivo alla mia nomina...


...Quel giorno fu straordinariamente bello. Era una raggiante giornata d'inizio estate, alla vigilia di Pentecoste del 1977. La cattedrale di Monaco, che dopo la ricostruzione seguita alla seconda guerra mondiale dava un'impressione di sobrietà, era magnificamente adornata trasmettendo un'atmosfera di gioia, che coinvolgeva in maniera irresistibile. Ho sperimentato la realtà del sacramento, che qui accade davvero qualcosa di reale. Poi, la preghiera davanti alla Colonna della Vergine Maria - la Mariensäule  - nel cuore della capitale bavarese, l'incontro con le molte persone che accoglievano il nuovo venuto, a loro sconosciuto, con una cordialità e una gioia, che non riguardavano tanto me, ma che mi mostravano ancora una volta che cosa è il sacramento. Essi salutavano il vescovo, colui che porta il mistero di Cristo, anche se forse la maggior parte dei presenti non ne era consapevole. Ma la gioia di quel giorno era appunto qualcosa di realmente diverso dal consenso a una determinata persona... Era la gioia di vedere nuovamente presente quel ministero, quel servizio, in una persona, che non agisce e vive per sé stessa, ma per Lui e, dunque, per tutti.

Con la consacrazione episcopale comincia nel cammino della mia vita il presente. Poiché il presente non è una determinata data, è l'Adesso di una vita. E questo Adesso può essere lungo o breve. Per me quello che è cominciato con l'imposizione delle mani durante la consacrazione episcopale nella cattedrale di Monaco è ancora l'Adesso della mia vita...

...Ma, allora, che cosa devo dire a conclusione di questi appunti? Come motto episcopale ho scelto due parole dalla terza lettera di Giovanni, Collaboratori della verità , anzitutto perché mi pareva che potessero bene rappresentare la continuità tra il mio compito precedente e il nuovo incarico: pur con tutte le differenze si trattava e si tratta sempre della stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio. E dal momento che nel mondo di oggi il tema "verità" è quasi scomparso, perché appare troppo grande per l'uomo, e tuttavia tutto crolla se non c'è una verità, proprio per questo il mio motto episcopale mi è sembrato il più in linea con il nostro tempo, il più moderno, nel senso buono del termine. Sullo stemma dei vescovi di Frisinga si trova da circa mille anni il moro incoronato: non si sa quale sia il suo significato. Per me è l'espressione dell'universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe, poiché noi tutti "siamo uno" in Cristo (Gal 3,28).

I noltre, ho scelto per me altri due simboli. Il primo è la conchiglia, che è anzitutto il segno del nostro essere pellegrini, del nostro essere in cammino: "Non abbiamo qui una stabile dimora". Ma essa mi ricorda anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello intorno al mistero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino che giocava con una conchiglia, con cui attingeva l'acqua del mare e cercava di travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto: tanto poco questa buca può contenere l'acqua del mare, quanto poco la tua ragione può afferrare il mistero di Dio. Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza. Infine, dalla leggenda di Corbiniano, fondatore della diocesi di Frisinga, ho preso l'immagine dell' orso .

 Un orso  così racconta questa storia  aveva sbranato il cavallo del santo, che stava recandosi a Roma. Corbiniano lo rimproverò aspramente... e, come punizione, gli caricò sulle spalle il fardello che fino a quel momento era stato portato dal cavallo. L' orso dovette trasportare il fardello fino a Roma e solo qui il santo lo lasciò libero di andarsene. L' orso che portava il carico del santo mi ricorda una delle meditazioni sui Salmi di sant'Agostino. Nei versetti 22 e 23 del salmo 72 (73) Agostino vedeva espressi il peso e la speranza della sua vita. Quel che egli trova espresso in questi versetti, e che presenta nel suo commento, è come un autoritratto, tracciato davanti a Dio e, dunque, non solo un pio pensiero, ma spiegazione della vita e luce nel cammino. Quel che Agostino scrive qui, mi è parso rappresentare il mio destino personale.

Il salmo, appartenente alla tradizione sapienziale, mostra la situazione di bisogno e di sofferenza che è propria della fede e che deriva dal suo insuccesso umano; chi sta dalla parte di Dio, non sta necessariamente dalla parte del successo: proprio i cinici sono spesso persone che la fortuna pare viziare. Come va inteso questo fatto? Il salmista trova la risposta nello stare davanti a Dio, che gli permette di capire che la ricchezza e il successo materiale sono ultimamente irrilevanti e di riconoscere che cosa è davvero necessario e apportatore di salvezza. Ut iumentum factus sum apud te et ego semper tecum . Le traduzioni moderne interpretano così: "Quando si agitava il mio cuore..., ero stolto e non capivo, davanti a te stavo come una bestia. Ma io sono con te sempre...".

Agostino ha interpretato un po' diversamente l'espressione riguardante la bestia. Il termine latino iumentum designava soprattutto gli animali da tiro, che vengono usati dai contadini per lavorare la terra; per questo egli vi riconosce un'immagine di sé stesso, sotto il carico del suo servizio episcopale: "Un animale da tiro sono davanti a te, per te, e proprio così io sono vicino a te". Aveva scelto la vita dell'uomo di studio e Dio lo aveva destinato a fare l'"animale da tiro", il bravo bue che tira il carro di Dio in questo mondo. Quante volte è insorto contro tutte le inezie che si trovava caricate addosso e che gli impedivano il grande lavoro che sentiva come la sua vocazione più profonda. Ma proprio qui il salmo lo aiuta a uscire da tutta l'amarezza: sì, è vero, son divenuto un animale da tiro, una bestia da soma, un bue, ma proprio in questo modo io ti sono vicino, ti servo, tu mi hai nella mano. Come l'animale da tiro è il più vicino al contadino e compie per lui il suo lavoro, così anch'egli, proprio in questo umile servizio, è vicinissimo a Dio, è tutto nella sua mano, è fino in fondo un suo strumento...

...L' orso con il carico, che sostituì il cavallo, o più probabilmente il mulo di san Corbiniano, divenendo  -contro la sua volontà-  il suo animale da soma, non era e non è un'immagine di quel che deve essere e di quel che sono? "Sono divenuto per te come una bestia da soma e proprio così io sono in tutto e per sempre vicino a te".

Che cosa potrei raccontare di più e di più preciso sui miei anni come vescovo? Di Corbiniano si racconta che a Roma restituì la libertà all' orso . Se questo se ne sia andato in Abruzzo o abbia fatto ritorno sulle Alpi, alla leggenda non interessa. Intanto io ho portato il mio bagaglio a Roma e ormai da diversi anni cammino con il mio carico per le strade della Città Eterna. Quando sarò lasciato libero, non lo so, ma so che anche per me vale: «Sono divenuto la tua bestia da soma, e proprio così io sono vicino a te».

AMDG et BVM

venerdì 10 febbraio 2017

«Me l’ha detto Dio»

 Benedetto XVI ha parlato con Dio: ecco perché...





A Joseph Ratzinger le (apparenti) dimissioni sono state chieste da Dio. Lo svela lui stesso in un colloquio riportato pubblicato su Zenit.org, che racconta i motivi dell’addio del cardinale tedesco al soglio pontificio:
«Me l’ha detto Dio». Così Ratzinger avrebbe spiegato le decisioni della sua (apparente) rinuncia al Soglio pontificio, durante un raro colloquio con una fonte anonima, ma riportato dalla testata Zenit.org. 
E, come scrive Salvatore Cernuzio in articolo pubblicato via web, «dopo circa sei mesi dall’annuncio che ha sconvolto il mondo, la decisione di Ratzinger di vivere nel nascondimento fa ancora riflettere e interrogare». Perché comunque Papa Benedetto XVI non ha mai firmato e tanto meno letto dichiarazioni simili a quelle del Papa Celestino V  dopo i sei mesi circa di pontificato -da luglio a dicembre 1294-. 
Si tratta infatti, benché in forma non ufficiale, di una limpida dichiarazione da parte del Pontefice emerito (ma sempre Pontefice) sulle proprie dimissioni, dopo l’annuncio in latino fatto in Concistoro l’11 febbraio 2013 di fronte ai cardinali, spiegando di non poter continuare, causa l’età e l’affaticamento, il suo altissimo ministero. Zenit spiega la scelta del Papa come avvenuta in una forma mistica, di dialogo diretto con il Signore.
Continua Zenit.org: “Nonostante la vita di clausura, Ratzinger concede infatti – sporadicamente e solo in determinate occasioni – alcune visite privatissime nel monastero Mater Ecclesiae. Durante questi incontri il Pontefice non commenta, non svela segreti, non si lascia andare a dichiarazioni che potrebbero pesare come “le parole dette dall’altro Papa”, ma mantiene la riservatezza che lo ha sempre caratterizzato. Al massimo osserva ciò che sta facendo il ...Vescovo di Roma, oppure parla di sé, di come questa scelta sorpresiva di dimettersi sia stata un’ispirazione ricevuta da Dio”.
Così avrebbe detto Benedetto ad uno degli ospiti di questi rari incontri. «Me l’ha detto Dio» è stata la risposta del Pontefice emerito alla domanda sul perché dell'apparente rinuncia al Soglio di Pietro. Ha poi subito precisato che non si è trattato di alcun tipo di apparizione o fenomeno del genere; piuttosto è stata «un’esperienza mistica» in cui il Signore ha fatto nascere nel suo cuore un «desiderio assoluto» di restare solo a solo con Lui, raccolto nella preghiera.
AVE MARIA PURISSIMA!

domenica 30 ottobre 2016

DI STRAORDINARIA IMPORTANZA

La Comunione, sacramento della fraternità cristiana. Un saggio di Joseph Ratzinger del 1960

Un saggio di Joseph Ratzinger del 1960

La Comunione, sacramento della fraternità cristiana

di Joseph Ratzinger

Il saggio presentato in questa pagina è tratto da una conferenza che nel 1960, alla vigilia del Concilio Vaticano II, l’allora trentatreenne professore ordinario di Teologia fondamentale all’Università di Bonn, Joseph Ratzinger, tenne per la "Opera cattolica di formazione religiosa" della città di Leverkusen. Inedito finora in Italia, "Idee fondamentali del rinnovamento eucaristico del XX secolo" rappresenta il saggio di apertura del primo dei due tomi del volume 7 della Opera omnia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, che raccoglie gli scritti sul Concilio e che la Libreria Editrice Vaticana pubblicherà in autunno (Joseph Ratzinger, L’insegnamento del Concilio, vol. 7/1, LEV 2016, traduzione a cura di Pierluca Azzaro). 

Negli ultimi tre/quattro secoli, in modo alquanto unilaterale, era stato posto l’accento sul fatto che nell’ostia consacrata è presente Dio stesso. È, senza dubbio, qualcosa di molto importante e grande, in fin dei conti è comprensibile che tutta l’attenzione si concentrasse su questo punto. E tuttavia non è la cosa decisiva in questo sacramento, e soprattutto non è quello che Cristo con la sua istituzione in realtà si proponeva.

Il risultato della concezione di un tempo era stato che l’Eucaristia veniva intesa soprattutto come sacramento da adorare: Dio è presente, dunque bisogna adorarlo. L’ostensorio fu arricchito sempre più (esiste solo dal tardo Medioevo), il tabernacolo divenne sempre più maestoso, coprendo quasi del tutto la mensa dell’altare, nacquero le processioni e le preghiere per l’adorazione eucaristica. Ma soprattutto non si osava quasi più comunicarsi. 

Dio lo si può adorare: ma lo si può anche ricevere? Quale uomo poteva ancora osare farlo? Ricevere la comunione divenne un avvenimento raro, e già il giorno successivo a quello in cui la si era fatta non si osava più farla di nuovo. 

Nella coscienza comune si era saldamente impressa l’idea che ogni volta, prima di ricevere la comunione, bisognasse anche sempre confessarsi. Se poi (molto di rado) si osava comunicarsi, il senso di quell’atto veniva inteso soprattutto a partire dall’adorazione: Dio era presente ed era necessario glorificare la sua grandezza. In questa forma di pietà c’era senza dubbio molto di buono e di sincero di cui oggi avremmo di nuovo un po’ bisogno; oggi forse abbiamo troppo poco timore e talvolta andiamo troppo alla leggera alla mensa del Signore. L’insieme, però, non corrispondeva del tutto al senso originario di questo sacramento.

Cosa davvero si intende con esso lo si può riconoscere molto facilmente nel segno che Cristo si è scelto per questo sacramento. Egli cela la sua presenza sotto la figura del pane. Possiamo chiederci molto semplicemente: a cosa serve il pane nella vita quotidiana? La risposta è facile: è un alimento. 

Dunque non è da guardare, ma da mangiare. Se il Signore lega la sua presenza alla figura del pane, il senso di un simile procedimento è assolutamente chiaro: anche questo pane santo in primo luogo non è fatto per essere guardato, ma per essere mangiato. Vuol dire che Egli è restato non per essere adorato, ma soprattutto per essere ricevuto. Ancor più dei tabernacoli di pietra, a lui interessano i tabernacoli viventi, gli interessa avere uomini che siano colmi del suo Spirito e che siano pronti a rendere presente lo Spirito e la realtà di Gesù Cristo in questo mondo.

Per sua natura, l’Eucaristia c’è per essere ricevuta, essa è un’esortazione a farci impregnare e colmare dallo Spirito di Cristo, per erigere così i tabernacoli di Dio lì dove sono veramente necessari: in mezzo al mondo in cui viviamo, in mezzo agli uomini che sono intorno a noi. Per questo il tavolo dell’altare, la mensa, è superiore al tabernacolo, perché Cristo fa appello a noi a essere suoi tabernacoli in questo mondo, ad avere il coraggio del suo Spirito, dello Spirito di verità, di rettitudine, di giustizia e di bontà.

L’Eucaristia culmina nella Comunione, vuole essere ricevuta. Se riflettiamo, emerge un ulteriore elemento. Che cosa accade in realtà nella Santa Comunione? Tutti i comunicanti mangiano l’unico e medesimo pane, Cristo, il Signore. Mangiano all’unica mensa di Dio, nella quale non c’è alcuna differenza, nella quale l’imprenditore e il lavoratore, il tedesco e il francese, il dotto e l’incolto hanno tutti lo stesso rango. 

Se vogliono appartenere a Dio, appartengono all’unica mensa: l’Eucaristia li raccoglie tutti in un unico convivio. E, come detto, in comune non c’è solo la mensa, ma quello che essi mangiano; sul serio è assolutamente la stessa e medesima cosa: mangiano tutti Cristo, perché come uomini sono tutti uniti spiritualmente alla medesima realtà fondamentale di Cristo, tutti entrano per così dire in un unico spazio spirituale che è Cristo.

In un momento di rapimento spirituale Agostino credette di udire la voce del Signore che gli diceva: «Io sono il pane dei forti. Mangiami. Non sarai tu però a trasformare me in te, come accade per il cibo comune, ma io trasformerò te in me». Significa che, nella normale alimentazione, l’uomo è più forte del cibo. Egli lo mangia, nel processo digestivo esso viene scomposto e (in ciò che gli è utile) assimilato al corpo, trasformato in sostanze proprie dell’organismo, diviene un pezzo di noi stessi, trasformato nella sostanza del nostro corpo. 

Nell’Eucaristia, il nutrimento, vale a dire Cristo, è più forte ed è più di noi. Così che il senso di questo nutrimento è esattamente opposto: esso vuole trasformare noi, assimilarci a Cristo, così che possiamo uscire da noi stessi, giungere oltre noi e divenire come Cristo. Ma questo significa di conseguenza che tutti i comunicanti, con la Comunione, vengono tratti fuori da sé e assimilati all’unico cibo, vale a dire alla realtà spirituale di Cristo. Questo a sua volta vuol dire che essi vengono anche fusi tra loro. Vengono tutti tratti fuori da se stessi e condotti in un unico centro. 

I Padri dicono: essi diventano (o dovrebbero diventare) "corpo di Cristo". Ed è questo l’autentico senso della Santa Comunione: che i comunicanti divengano tra loro una cosa sola per mezzo dell’uniformarsi all’unico Cristo. Il senso primario della Comunione non è l’incontro del singolo con il suo Dio - per questo ci sarebbero anche altre vie - ma proprio la fusione dei singoli tra loro per mezzo di Cristo. Per sua natura la Comunione è il sacramento della fraternità cristiana.

Questo mi sembra di straordinaria importanza per quel che riguarda la concreta ricezione della Comunione. Già nelle nostre preghiere dopo la Comunione dovremmo prendere sempre di nuovo coscienza che abbiamo ricevuto il sacramento della fraternità e dovremmo cercare di comprendere quale impegno ci impone. Dovremmo così ridivenire consapevoli molto più fortemente del fatto che il cattolicesimo non afferma solo un legame verticale del singolo con Cristo e con il Padre, e nemmeno solo un legame con il supremo vertice gerarchico, il Papa, ma che appartiene essenzialmente alla natura del cattolicesimo anche il legame orizzontale, il legame dei comunicanti e delle comunità eucaristiche fra loro. 

In fondo il nazionalismo dei popoli cattolici è qualcosa di cui vergognarsi profondamente, che mostra in che misura l’autentico senso della Comunione era stato dimenticato. Essere cattolico non significa solo che noi tutti diciamo "sì" a Roma, ma anche che ci diciamo vicendevolmente "sì", riconoscendoci come quell’unica comunità di coloro che hanno parte al corpo di Cristo e, per mezzo di lui, allo Spirito di Cristo. 

Su questa base la cristianità primitiva ha interpretato la natura della Chiesa. Si diceva: la Chiesa è il corpo di Cristo, e la cosa doveva significare che essa è comunità di coloro che insieme ricevono il Corpo di Cristo e in questo modo sono tra loro una cosa sola. La natura dell’unità della Chiesa si compiva visibilmente attraverso il fatto che le singole comunità comunicavano tra loro, vale a dire attraverso il fatto che ogni cristiano poteva ricevere la Comunione in ogni comunità cristiana e che dunque tutti, per mezzo dell’unico pane, sapevano di essere uniti e vincolati all’unico Signore e al suo Spirito. Avremmo di nuovo bisogno di un po’ di questa consapevolezza di quel che è la Chiesa: la Chiesa non è un partito e non è un apparato politico, ma è comunità nel Corpo del Signore. Necessita di certo anche di un’amministrazione e di un apparato, ma comunque è essenzialmente molto più di questo. (...)

Dopo tutto quel che si è detto, non si può considerare la Comunione sacramentale semplicemente come una preghiera privata dove il singolo individuo incontra il suo Dio, per quanto egli debba fare proprio anche questo. La Comunione sacramentale è di più: essa è il sigillo della vicendevole appartenenza dei cristiani fra loro per mezzo del loro comune legame con Cristo. Per questo essa è parte essenziale della Santa Messa nella quale noi celebriamo questa nostra unione come fratelli per mezzo del nostro fratello Gesù Cristo. 

Sulla base di questa convinzione, nel corso del rinnovamento eucaristico degli ultimi decenni, si è reinserita la Comunione all’interno della Messa, dalla quale era stata abusivamente espunta a partire dal tardo Medioevo. Si era spesso giunti al punto di distribuire la Comunione solo al di fuori della Messa. In tal modo la Comunione era stata declassata ad atto di edificazione privato oscurando il suo grande significato, l’essere cioè parte di quell’avvenimento complessivo che è la Santa Messa: il sigillo della fraternità fra Dio e gli uomini e perciò, a partire da Dio, degli uomini fra loro; l’inclusione di tutti gli uomini nell’avvenimento della Croce, così che tutto il mondo è consegnato a Dio e con ciò ricondotto al suo autentico senso; la chiamata di ogni singolo a essere tabernacolo vivente di Dio nel mondo. 

"Comunione" è per sua natura una parte della Santa Messa e per questo di norma è in essa inserita. Se a volte è necessario sia al di fuori, come nel caso della Comunione ai malati, la sua intima correlazione con la celebrazione della Messa continua a sussistere. E non è forse bello per il malato sapere che, con la Santa Comunione, è l’avvenimento della Messa e con esso tutta la Santa Chiesa a giungere a lui presso il suo letto di dolore, così che egli prende parte alla comunità della Chiesa, prende parte non solo a Dio, ma all’atto d’amore del Signore, al suo sacrificio che sta dietro l’ostia e del quale essa è pegno e testimonianza?

A partire da qui è andata sviluppandosi una nuova comprensione della questione relativa alla frequenza della Santa Comunione. La Comunione non è un premio per chi è particolarmente virtuoso (chi, in questo caso, potrebbe riceverla senza essere un fariseo?), ma è invece il pane del pellegrino che Dio ci porge in questo mondo, che ci porge dentro la nostra debolezza. Essa è il nostro "sì" alla Chiesa, alla comunità di quanti credono insieme a noi; è la modalità con la quale veramente e di fatto ci uniamo sempre di nuovo alla Chiesa; è quell’avvenimento che di continuo ci chiama fuori da tutte le relazioni puramente terrene e fa reale il Divino-Eterno nella nostra esistenza. 

Per questo è proprio l’uomo in pericolo ad avere di continuo bisogno di questo attuarsi della sua fede, per mezzo del quale egli vive la comunità di fede in modo veramente concreto. Lo sguardo alla Comunione domenicale deve essere di continuo per lui un’esortazione a essere "comunicante" nella sua vita quotidiana: vale a dire a vivere come cristiano; infatti, nella Chiesa antica, essere cristiano equivaleva a essere "comunicante", a essere uno che partecipava alla comunità del corpo del Signore che è la Chiesa. 

Dal fatto che la Chiesa è comunità eucaristica - e che, di conseguenza, essere cristiano ed essere "comunicante" è la stessa cosa -, che essere cristiano consiste semplicemente nella partecipazione al Corpo del Signore (circostanza, questa, dalla quale tutto il resto deriva), da questo fatto risulta anche la norma per la frequenza della Comunione: per la persona che lavora - e che dunque difficilmente può comunicarsi giornalmente - la Comunione domenicale dovrebbe rappresentare la norma, mentre la Confessione, a seconda della disposizione, potrà essere sufficiente praticarla mensilmente o addirittura trimestralmente. 

Affermare che non sarebbe possibile per il normale cristiano vivere senza cadere in peccato mortale così a lungo è un’asserzione che significa, a un tempo, avere una considerazione troppo bassa del normale cristiano e una considerazione falsamente elevata del peccato mortale. Un cristiano che si sforza sinceramente di vivere come cristiano non vive in stato di peccato mortale, peccato questo che non accade incidentalmente e marginalmente: qualcosa che accade incidentalmente, proprio per questo non è peccato mortale. 

Credo che, qui dovremmo veramente mostrare più coraggio e più fede. L’intero nostro cristianesimo potrebbe un po’ cambiare volto se fosse di nuovo evidente che essere cristiano ed essere "comunicante" è la stessa e identica cosa. Essere cristiano dovrebbe essere nuovamente qualcosa di molto più reale, più dinamico, più originario e genuino. 

La consapevolezza di appartenere alla comunità eucaristica potrebbe essere una nuova luce anche per la nostra quotidianità. La Chiesa riguadagnerebbe in concretezza, il nostro essere cristiani non sarebbe solo un dato statistico, ma una realtà viva. 

Traduzione di Pierluca Azzaro 

(Copyright Libreria Editrice Vaticana)