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domenica 30 ottobre 2016

DI STRAORDINARIA IMPORTANZA

La Comunione, sacramento della fraternità cristiana. Un saggio di Joseph Ratzinger del 1960

Un saggio di Joseph Ratzinger del 1960

La Comunione, sacramento della fraternità cristiana

di Joseph Ratzinger

Il saggio presentato in questa pagina è tratto da una conferenza che nel 1960, alla vigilia del Concilio Vaticano II, l’allora trentatreenne professore ordinario di Teologia fondamentale all’Università di Bonn, Joseph Ratzinger, tenne per la "Opera cattolica di formazione religiosa" della città di Leverkusen. Inedito finora in Italia, "Idee fondamentali del rinnovamento eucaristico del XX secolo" rappresenta il saggio di apertura del primo dei due tomi del volume 7 della Opera omnia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, che raccoglie gli scritti sul Concilio e che la Libreria Editrice Vaticana pubblicherà in autunno (Joseph Ratzinger, L’insegnamento del Concilio, vol. 7/1, LEV 2016, traduzione a cura di Pierluca Azzaro). 

Negli ultimi tre/quattro secoli, in modo alquanto unilaterale, era stato posto l’accento sul fatto che nell’ostia consacrata è presente Dio stesso. È, senza dubbio, qualcosa di molto importante e grande, in fin dei conti è comprensibile che tutta l’attenzione si concentrasse su questo punto. E tuttavia non è la cosa decisiva in questo sacramento, e soprattutto non è quello che Cristo con la sua istituzione in realtà si proponeva.

Il risultato della concezione di un tempo era stato che l’Eucaristia veniva intesa soprattutto come sacramento da adorare: Dio è presente, dunque bisogna adorarlo. L’ostensorio fu arricchito sempre più (esiste solo dal tardo Medioevo), il tabernacolo divenne sempre più maestoso, coprendo quasi del tutto la mensa dell’altare, nacquero le processioni e le preghiere per l’adorazione eucaristica. Ma soprattutto non si osava quasi più comunicarsi. 

Dio lo si può adorare: ma lo si può anche ricevere? Quale uomo poteva ancora osare farlo? Ricevere la comunione divenne un avvenimento raro, e già il giorno successivo a quello in cui la si era fatta non si osava più farla di nuovo. 

Nella coscienza comune si era saldamente impressa l’idea che ogni volta, prima di ricevere la comunione, bisognasse anche sempre confessarsi. Se poi (molto di rado) si osava comunicarsi, il senso di quell’atto veniva inteso soprattutto a partire dall’adorazione: Dio era presente ed era necessario glorificare la sua grandezza. In questa forma di pietà c’era senza dubbio molto di buono e di sincero di cui oggi avremmo di nuovo un po’ bisogno; oggi forse abbiamo troppo poco timore e talvolta andiamo troppo alla leggera alla mensa del Signore. L’insieme, però, non corrispondeva del tutto al senso originario di questo sacramento.

Cosa davvero si intende con esso lo si può riconoscere molto facilmente nel segno che Cristo si è scelto per questo sacramento. Egli cela la sua presenza sotto la figura del pane. Possiamo chiederci molto semplicemente: a cosa serve il pane nella vita quotidiana? La risposta è facile: è un alimento. 

Dunque non è da guardare, ma da mangiare. Se il Signore lega la sua presenza alla figura del pane, il senso di un simile procedimento è assolutamente chiaro: anche questo pane santo in primo luogo non è fatto per essere guardato, ma per essere mangiato. Vuol dire che Egli è restato non per essere adorato, ma soprattutto per essere ricevuto. Ancor più dei tabernacoli di pietra, a lui interessano i tabernacoli viventi, gli interessa avere uomini che siano colmi del suo Spirito e che siano pronti a rendere presente lo Spirito e la realtà di Gesù Cristo in questo mondo.

Per sua natura, l’Eucaristia c’è per essere ricevuta, essa è un’esortazione a farci impregnare e colmare dallo Spirito di Cristo, per erigere così i tabernacoli di Dio lì dove sono veramente necessari: in mezzo al mondo in cui viviamo, in mezzo agli uomini che sono intorno a noi. Per questo il tavolo dell’altare, la mensa, è superiore al tabernacolo, perché Cristo fa appello a noi a essere suoi tabernacoli in questo mondo, ad avere il coraggio del suo Spirito, dello Spirito di verità, di rettitudine, di giustizia e di bontà.

L’Eucaristia culmina nella Comunione, vuole essere ricevuta. Se riflettiamo, emerge un ulteriore elemento. Che cosa accade in realtà nella Santa Comunione? Tutti i comunicanti mangiano l’unico e medesimo pane, Cristo, il Signore. Mangiano all’unica mensa di Dio, nella quale non c’è alcuna differenza, nella quale l’imprenditore e il lavoratore, il tedesco e il francese, il dotto e l’incolto hanno tutti lo stesso rango. 

Se vogliono appartenere a Dio, appartengono all’unica mensa: l’Eucaristia li raccoglie tutti in un unico convivio. E, come detto, in comune non c’è solo la mensa, ma quello che essi mangiano; sul serio è assolutamente la stessa e medesima cosa: mangiano tutti Cristo, perché come uomini sono tutti uniti spiritualmente alla medesima realtà fondamentale di Cristo, tutti entrano per così dire in un unico spazio spirituale che è Cristo.

In un momento di rapimento spirituale Agostino credette di udire la voce del Signore che gli diceva: «Io sono il pane dei forti. Mangiami. Non sarai tu però a trasformare me in te, come accade per il cibo comune, ma io trasformerò te in me». Significa che, nella normale alimentazione, l’uomo è più forte del cibo. Egli lo mangia, nel processo digestivo esso viene scomposto e (in ciò che gli è utile) assimilato al corpo, trasformato in sostanze proprie dell’organismo, diviene un pezzo di noi stessi, trasformato nella sostanza del nostro corpo. 

Nell’Eucaristia, il nutrimento, vale a dire Cristo, è più forte ed è più di noi. Così che il senso di questo nutrimento è esattamente opposto: esso vuole trasformare noi, assimilarci a Cristo, così che possiamo uscire da noi stessi, giungere oltre noi e divenire come Cristo. Ma questo significa di conseguenza che tutti i comunicanti, con la Comunione, vengono tratti fuori da sé e assimilati all’unico cibo, vale a dire alla realtà spirituale di Cristo. Questo a sua volta vuol dire che essi vengono anche fusi tra loro. Vengono tutti tratti fuori da se stessi e condotti in un unico centro. 

I Padri dicono: essi diventano (o dovrebbero diventare) "corpo di Cristo". Ed è questo l’autentico senso della Santa Comunione: che i comunicanti divengano tra loro una cosa sola per mezzo dell’uniformarsi all’unico Cristo. Il senso primario della Comunione non è l’incontro del singolo con il suo Dio - per questo ci sarebbero anche altre vie - ma proprio la fusione dei singoli tra loro per mezzo di Cristo. Per sua natura la Comunione è il sacramento della fraternità cristiana.

Questo mi sembra di straordinaria importanza per quel che riguarda la concreta ricezione della Comunione. Già nelle nostre preghiere dopo la Comunione dovremmo prendere sempre di nuovo coscienza che abbiamo ricevuto il sacramento della fraternità e dovremmo cercare di comprendere quale impegno ci impone. Dovremmo così ridivenire consapevoli molto più fortemente del fatto che il cattolicesimo non afferma solo un legame verticale del singolo con Cristo e con il Padre, e nemmeno solo un legame con il supremo vertice gerarchico, il Papa, ma che appartiene essenzialmente alla natura del cattolicesimo anche il legame orizzontale, il legame dei comunicanti e delle comunità eucaristiche fra loro. 

In fondo il nazionalismo dei popoli cattolici è qualcosa di cui vergognarsi profondamente, che mostra in che misura l’autentico senso della Comunione era stato dimenticato. Essere cattolico non significa solo che noi tutti diciamo "sì" a Roma, ma anche che ci diciamo vicendevolmente "sì", riconoscendoci come quell’unica comunità di coloro che hanno parte al corpo di Cristo e, per mezzo di lui, allo Spirito di Cristo. 

Su questa base la cristianità primitiva ha interpretato la natura della Chiesa. Si diceva: la Chiesa è il corpo di Cristo, e la cosa doveva significare che essa è comunità di coloro che insieme ricevono il Corpo di Cristo e in questo modo sono tra loro una cosa sola. La natura dell’unità della Chiesa si compiva visibilmente attraverso il fatto che le singole comunità comunicavano tra loro, vale a dire attraverso il fatto che ogni cristiano poteva ricevere la Comunione in ogni comunità cristiana e che dunque tutti, per mezzo dell’unico pane, sapevano di essere uniti e vincolati all’unico Signore e al suo Spirito. Avremmo di nuovo bisogno di un po’ di questa consapevolezza di quel che è la Chiesa: la Chiesa non è un partito e non è un apparato politico, ma è comunità nel Corpo del Signore. Necessita di certo anche di un’amministrazione e di un apparato, ma comunque è essenzialmente molto più di questo. (...)

Dopo tutto quel che si è detto, non si può considerare la Comunione sacramentale semplicemente come una preghiera privata dove il singolo individuo incontra il suo Dio, per quanto egli debba fare proprio anche questo. La Comunione sacramentale è di più: essa è il sigillo della vicendevole appartenenza dei cristiani fra loro per mezzo del loro comune legame con Cristo. Per questo essa è parte essenziale della Santa Messa nella quale noi celebriamo questa nostra unione come fratelli per mezzo del nostro fratello Gesù Cristo. 

Sulla base di questa convinzione, nel corso del rinnovamento eucaristico degli ultimi decenni, si è reinserita la Comunione all’interno della Messa, dalla quale era stata abusivamente espunta a partire dal tardo Medioevo. Si era spesso giunti al punto di distribuire la Comunione solo al di fuori della Messa. In tal modo la Comunione era stata declassata ad atto di edificazione privato oscurando il suo grande significato, l’essere cioè parte di quell’avvenimento complessivo che è la Santa Messa: il sigillo della fraternità fra Dio e gli uomini e perciò, a partire da Dio, degli uomini fra loro; l’inclusione di tutti gli uomini nell’avvenimento della Croce, così che tutto il mondo è consegnato a Dio e con ciò ricondotto al suo autentico senso; la chiamata di ogni singolo a essere tabernacolo vivente di Dio nel mondo. 

"Comunione" è per sua natura una parte della Santa Messa e per questo di norma è in essa inserita. Se a volte è necessario sia al di fuori, come nel caso della Comunione ai malati, la sua intima correlazione con la celebrazione della Messa continua a sussistere. E non è forse bello per il malato sapere che, con la Santa Comunione, è l’avvenimento della Messa e con esso tutta la Santa Chiesa a giungere a lui presso il suo letto di dolore, così che egli prende parte alla comunità della Chiesa, prende parte non solo a Dio, ma all’atto d’amore del Signore, al suo sacrificio che sta dietro l’ostia e del quale essa è pegno e testimonianza?

A partire da qui è andata sviluppandosi una nuova comprensione della questione relativa alla frequenza della Santa Comunione. La Comunione non è un premio per chi è particolarmente virtuoso (chi, in questo caso, potrebbe riceverla senza essere un fariseo?), ma è invece il pane del pellegrino che Dio ci porge in questo mondo, che ci porge dentro la nostra debolezza. Essa è il nostro "sì" alla Chiesa, alla comunità di quanti credono insieme a noi; è la modalità con la quale veramente e di fatto ci uniamo sempre di nuovo alla Chiesa; è quell’avvenimento che di continuo ci chiama fuori da tutte le relazioni puramente terrene e fa reale il Divino-Eterno nella nostra esistenza. 

Per questo è proprio l’uomo in pericolo ad avere di continuo bisogno di questo attuarsi della sua fede, per mezzo del quale egli vive la comunità di fede in modo veramente concreto. Lo sguardo alla Comunione domenicale deve essere di continuo per lui un’esortazione a essere "comunicante" nella sua vita quotidiana: vale a dire a vivere come cristiano; infatti, nella Chiesa antica, essere cristiano equivaleva a essere "comunicante", a essere uno che partecipava alla comunità del corpo del Signore che è la Chiesa. 

Dal fatto che la Chiesa è comunità eucaristica - e che, di conseguenza, essere cristiano ed essere "comunicante" è la stessa cosa -, che essere cristiano consiste semplicemente nella partecipazione al Corpo del Signore (circostanza, questa, dalla quale tutto il resto deriva), da questo fatto risulta anche la norma per la frequenza della Comunione: per la persona che lavora - e che dunque difficilmente può comunicarsi giornalmente - la Comunione domenicale dovrebbe rappresentare la norma, mentre la Confessione, a seconda della disposizione, potrà essere sufficiente praticarla mensilmente o addirittura trimestralmente. 

Affermare che non sarebbe possibile per il normale cristiano vivere senza cadere in peccato mortale così a lungo è un’asserzione che significa, a un tempo, avere una considerazione troppo bassa del normale cristiano e una considerazione falsamente elevata del peccato mortale. Un cristiano che si sforza sinceramente di vivere come cristiano non vive in stato di peccato mortale, peccato questo che non accade incidentalmente e marginalmente: qualcosa che accade incidentalmente, proprio per questo non è peccato mortale. 

Credo che, qui dovremmo veramente mostrare più coraggio e più fede. L’intero nostro cristianesimo potrebbe un po’ cambiare volto se fosse di nuovo evidente che essere cristiano ed essere "comunicante" è la stessa e identica cosa. Essere cristiano dovrebbe essere nuovamente qualcosa di molto più reale, più dinamico, più originario e genuino. 

La consapevolezza di appartenere alla comunità eucaristica potrebbe essere una nuova luce anche per la nostra quotidianità. La Chiesa riguadagnerebbe in concretezza, il nostro essere cristiani non sarebbe solo un dato statistico, ma una realtà viva. 

Traduzione di Pierluca Azzaro 

(Copyright Libreria Editrice Vaticana)

venerdì 28 ottobre 2016

Sulle orme di Maria, "donna eucaristica" (Ecclesia de Eucharistia, cap. VI), la comunità cristiana viva dunque di questo mistero! Forte del "pane di vita eterna", diventi presenza di luce e di vita, fermento di evangelizzazione e di solidarietà!

DE  - EN  - ES  - FR  - IT  - PT ]
CELEBRAZIONE DELLA SANTA MESSA,
ADORAZIONE E BENEDIZIONE EUCARISTICA
IN OCCASIONE DELL’INIZIO DELL’ANNO DELL’EUCARISTIA
DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
Altare della Confessione della Basilica Vaticana
Domenica, 17 ottobre 2004

1. "Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28,20).
Raccolti davanti all'Eucaristia, sperimentiamo in questo momento con particolare vivezza la verità della promessa di Cristo: Egli è con noi!
Saluto voi tutti che siete riuniti a Guadalajara per partecipare alla conclusione del Congresso Eucaristico Internazionale. Saluto, in particolare, il Cardinale Giuseppe Tomko, mio Legato, il Cardinale Juan Sandoval Íñiguez, Arcivescovo di Guadalajara, i Signori Cardinali, gli Arcivescovi, i Vescovi, i sacerdoti del Messico e di tanti altri Paesi, lì presenti.
Il mio saluto si estende a tutti i fedeli di Guadalajara, del Messico e delle altre parti del mondo, uniti con noi nell'adorazione del Mistero eucaristico.

2. Il collegamento televisivo tra la Basilica di San Pietro, cuore della cristianità, e Guadalajara, sede del Congresso, è come un ponte gettato tra i continenti e fa del nostro incontro di preghiera una ideale "Statio orbis", nella quale convergono i credenti del mondo intero. Il punto di incontro è Gesù stesso, realmente presente nella Santissima Eucaristia col suo mistero di morte e di risurrezione, in cui si uniscono il cielo e la terra e s'incontrano tra loro popoli e culture diverse. Cristo è "la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo" (Ef 2, 14).

3. "L'Eucaristia luce e vita del nuovo Millennio". Il tema del Congresso ci invita a considerare il Mistero eucaristico non solo in se stesso, ma anche in rapporto ai problemi del nostro tempo.
Mistero di luce! Di luce ha bisogno il cuore dell'uomo, appesantito dal peccato, spesso disorientato e stanco, provato da sofferenze di ogni genere. Di luce ha bisogno il mondo, nella difficile ricerca di una pace che appare lontana, all'inizio di un Millennio sconvolto ed umiliato dalla violenza, dal terrorismo e dalla guerra.
L'Eucaristia è luce! Nella Parola di Dio costantemente proclamata, nel pane e nel vino divenuti corpo e sangue di Cristo, è proprio Luiil Signore Risorto, che apre la mente e il cuore, e si fa riconoscere, come dai due discepoli ad Emmaus, nello "spezzare il pane" (cfr Lc 24,25). In questo gesto conviviale riviviamo il sacrificio della Croce, sperimentiamo l'amore infinito di Dio, ci sentiamo chiamati a diffondere la luce di Cristo tra gli uomini e le donne del nostro tempo.

4. Mistero di vita! Quale aspirazione più grande della vita? Eppure su questo universale anelito umano si allungano ombre minacciose: l'ombra di una cultura che nega il rispetto della vita in ogni suo stadio; l'ombra di una indifferenza che consegna innumerevoli persone a un destino di fame e di sottosviluppo; l'ombra di una ricerca scientifica posta a volte al servizio dell'egoismo del più forte.
Carissimi Fratelli e Sorelle, dobbiamo sentirci interpellati dalle necessità di tanti nostri fratelli. Non possiamo chiudere il cuore alle loro implorazioni di aiuto. E neppure possiamo dimenticare che "non di solo pane vive l'uomo" (cfr Mt 4,4). Abbiamo bisogno del "pane vivo disceso dal cielo" (Gv 6, 51). Gesù è questo pane. Nutrirci di lui significa accogliere la vita stessa di Dio (cfr Gv 10,10), aprendoci alla logica dell'amore e della condivisione.

5. Ho voluto che questo Anno fosse particolarmente dedicato all'Eucaristia. In realtà tutti i giorni, e specialmente la Domenica, giorno della risurrezione di Cristo, la Chiesa vive di questo mistero. Ma la comunità cristiana è invitata, in questo Anno dell'Eucaristia, a prenderne più viva coscienza con una celebrazione più sentita, con una adorazione prolungata e fervente, con un maggiore impegno di fraternità e di servizio agli ultimi. L'Eucaristia è sorgente ed epifania di comunione. E' princìpio e progetto di missione (cfr Mane nobiscum Domine, capp. III e IV).
Sulle orme di Maria, "donna eucaristica" (Ecclesia de Eucharistia, cap. VI), la comunità cristiana viva dunque di questo mistero! Forte del "pane di vita eterna", diventi presenza di luce e di vita, fermento di evangelizzazione e di solidarietà!

6. Mane nobiscum, Domine! Come i due discepoli del Vangelo, ti imploriamo, Signore Gesù: rimani con noi!
Tu, divino Viandante, esperto delle nostre strade e conoscitore del nostro cuore, non lasciarci prigionieri delle ombre della sera.
Sostienici nella stanchezza, perdona i nostri peccati, orienta i nostri passi sulla via del bene.
Benedici i bambini, i giovani, gli anziani, le famiglie, in particolare i malati. Benedici i sacerdoti e le persone consacrate. Benedici tutta l'umanità.
Nell'Eucaristia ti sei fatto "farmaco d'immortalità": dacci il gusto di una vita piena, che ci faccia camminare su questa terra come pellegrini fiduciosi e gioiosi, guardando sempre al traguardo della vita che non ha fine.
Rimani con noi, Signore! Rimani con noi! Amen.

Al termine del Discorso, Giovanni Paolo II pronuncia le seguenti parole:
Ho ora la gioia di annunciare che il prossimo Congresso Eucaristico Internazionale avrà luogo in Québec nel 2008.
Questa prospettiva susciti nei fedeli un ancor più generoso impegno a vivere con intensità il presente Anno dell’Eucaristia!


© Copyright 2004 - Libreria Editrice Vaticana

lunedì 23 maggio 2016

CORPUS DOMINI

"TANTUM VALET 
CELEBRATIO MISSAE,
QUANTUM VALET 
MORS CHRISTI IN CRUCE"
S. G. Crisostomo, Apud Discipul. Serm. 48.


UNA LETTERA E UN SERMONE 
-che per molteplici motivi- SONO DOLOROSAMENTE MOLTO POCO CONOSCIUTI DAI  CRISTIANI DI OGGI. 

Lettura 1
Dalla prima Lettera dell'Apostolo san Paolo ai Corinti.
1 Cor 11:20-22

20 Quando vi radunate insieme, non è più la cena del Signore che voi celebrate.
21 Perché ognuno comincia a mangiare la cena che s'è portata. Così che uno patisce la fame e l'altro si ubbriaca.
22 Ma non avete delle case per mangiare e bere? o volete fare un disprezzo alla Chiesa di Dio, e un affronto a quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Vi loderò? In questo non vi lodo.



V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

Lettura 2
1 Cor 11:23-26

23 Infatti io ho appreso dal Signore, e ve l'ho anche trasmesso, che il Signore Gesù, la notte che fu tradito, prese del pane,
24 E, dopo aver fatto il ringraziamento, lo spezzò e disse; Prendete e mangiate; questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi; fate questo in memoria di me.
25 Similmente, dopo d'aver cenato, prese anche il calice, dicendo; Questo calice è la nuova alleanza fatta col mio sangue; fate questo, tutte le volte che lo berrete, in memoria di me.
26 Perché tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, finché egli venga.



V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

Lettura 3
1 Cor 11:27-32

27 Perciò chiunque mangerà questo pane o berrà il calice del Signore indegnamente, si rende colpevole del corpo e del sangue del Signore. 
28 Perciò ciascuno esamini se stesso; e poi mangi di questo pane e beva di questo calice. 
29 Perché chi ne mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, perché non distingue il corpo del Signore. 
30 Ecco perché tra voi sono molti gli infermi e i deboli, e numerosi i morti. 
31 Or se giudicassimo noi stessi, non saremmo certo giudicati. 
32 Ma per noi il giudizio del Signore è un monito, per non essere condannati insieme con questo mondo.


V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio
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Lettura 4
Sermone di san Tommaso d'Aquino
Opuscolo 57

Gl'immensi benefizi della generosità divina concessi al popolo cristiano, gli conferiscono una dignità inestimabile. Giacché non c'è né ci fu mai «nazione tanto grande da avere gli dei così a sé vicini, com'è vicino a noi il nostro Dio» (Deut. 4,7) Infatti l'unigenito Figlio di Dio, volendo farci partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura per fare, fattosi egli uomo, gli uomini dei. E di più, quanto egli prese di nostro, tutto lo diede per la nostra salvezza. Infatti egli offrì a Dio Padre per la nostra riconciliazione il suo corpo vittima sull'altare della croce, e sparse il suo sangue in prezzo insieme e lavacro; affinché, riscattati da miseranda schiavitù, fossimo mondati da tutti i nostri peccati. E perché di tanto benefizio rimanesse in noi continua memoria, lasciò ai suoi fedeli il suo corpo in cibo e il suo sangue in bevanda da prendersi sotto le specie del pane e del vino.


V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

Lettura 5

O prezioso e ammirabile convito, salutare e pieno di ogni soavità! Infatti che ci può essere di più prezioso di questo convito? nel quale non le carni dei vitelli e dei capretti, come una volta sotto la legge, ma ci si offre a mangiare Cristo, vero Dio. Che più mirabile di questo sacramento? Poiché in esso il pane e il vino si mutano sostanzialmente nel corpo e nel sangue di Cristo; e così che Cristo, Dio e uomo perfetto, si contiene sotto l'apparenza di un po' di pane e di un po' di vino. Egli dunque viene mangiato dai fedeli, ma per nulla lacerato; che anzi, spezzate le specie sacramentali, persevera intero sotto qualsivoglia divisa particella. Gli accidenti poi sussistono in esso senza il loro soggetto, affinché la fede abbia ad esercitarsi allorché si riceve invisibilmente questo corpo, visibile in sé, ma nascosto sotto una specie estranea; e affinché i sensi siano preservati da errore giudicando essi dagli accidenti apparenti.


V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

Lettura 6

Nessun sacramento poi è più salutare di questo, mercé del quale si cancellano i peccati, si accrescono le virtù, e l'anima s'impingua abbondantemente di tutti i carismi spirituali. Si offre nella Chiesa per i vivi e per i morti, affinché giovi a tutti esso che fu istituito per la salvezza di tutti. Nessuno infine può esprimere la soavità di questo Sacramento, per cui la dolcezza spirituale si gusta nella sua sorgente medesima, e si celebra la memoria di quell'eccesso di carità che Cristo ci mostrò nella sua passione. Così, affinché la immensità di questa carità s'imprimesse ognor più profondamente nei cuori dei fedeli, egli, nell'ultima cena, quando celebrata la Pasqua coi suoi discepoli stava per passare da questo mondo al Padre, istituì questo Sacramento come memoriale perenne della sua passione, compimento delle antiche figure, il massimo dei miracoli da lui operati; lasciandolo come singolare sollievo ai discepoli contristati della sua assenza.



V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

La Santa Messa è l'ottimo e il bellissimo della Santa Chiesa:
"Quid enim bonum ejus est et 
quid pulchrum ejus, 
nisi frumentum electorum
et vinum germinans virgines?"
Zacch. 9, 17

mercoledì 23 marzo 2016

GIOVEDI' SANTO




oltre la considerazione della carità di un Dio 
che si fa Cibo agli uomini 
risaltano quattro ammaestramenti principali:
1.La necessità per tutti i figli di Dio di ubbidire alla Legge
2. La potenza della preghiera di Maria
3. Il dominio di se stessi e la sopportazione dell'offesa, carità sublime su tutte...
4. Il Sacramento opera quanto più uno è degno di riceverlo. ...


“CUORE AMOROSISSIMO DI GESÙ,
PER LA TUA SOFFERENZA DI CROCE,
IN QUEST’ORA DI OSCURITÀ,
SII TU LA LUCE PER L’UMANITÀ”.

domenica 1 novembre 2015

“Se non mangerete la carne del Figlio dell’Uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita!”

I DEFUNTI SONO SANTIFICATI COME I VIVI 
DAI DONI DELL’ALTARE
san Nicolas Cabasilas


        Questo divino e sacro rito (la Divina Liturgia) risulta doppiamente santificante. In primo luogo per l’intercessione. Infatti i doni offerti, per il solo fatto di essere offerti, santificano coloro che li offrono e coloro per i quali sono offerti e rendono misericordioso Dio nei loro riguardi. In secondo luogo santificano per mezzo della Comunione, poiché sono un vero cibo ed una vera bevanda, secondo la parola del Signore.

        Di queste due maniere la prima è comune ai vivi ed ai morti, poiché il sacrificio si offre per entrambe le categorie. Il secondo modo vale per i soli vivi, poiché i morti non possono né mangiare né bere. Che dunque? Per questa ragione i defunti non beneficeranno di questa santificazione e sono meno avvantaggiati dei vivi? Per nulla. Poiché il Cristo si comunica a loro nel modo che egli sa.

        Ed affinché sia chiaro, consideriamo le cause di questa santificazione per vedere se anche le anime dei defunti non lo abbiano come quelle dei viventi. Quali sono le cause della santificazione? Forse l’avere un corpo, il correre con i piedi per giungere all’altare, il prendere con le mani i santi doni, il riceverli con la bocca, il mangiare ed il bere? Niente affatto. Molti infatti che li ricevono e che così si accostano ai misteri non ricavano alcun beneficio e si allontanano colpevoli d’infiniti mali.

        Ma quali sono le cause della santificazione per quelli che sono santificati? E quali sono le condizioni che il Cristo richiede da noi? La purezza dell’anima, l’amore verso Dio, la fede, il desiderio del sacramento, l’ardore per la comunione, uno slancio ardente ed il correre ad essa assetati. Queste sono le cause da cui deriva questa santificazione e con le quali è necessario che coloro che al Cristo si accostano partecipino di lui e senza le quali è impossibile la santificazione. Ma tutte queste cause non sono corporali, ma dipendono dalla sola anima. Dunque nulla impedisce che le anime dei defunti le possano possedere come quelle dei viventi. Se dunque le anime sono pronte e disposte a ricevere il santo mistero ed il Signore, che santifica e consacra, vuole sempre consacrare e desidera ogni volta offrirsi in comunione, che cosa impedisce la partecipazione? assolutamente nulla.

        Qualcuno potrebbe dire: se uno che vive ha nell’anima i beni che sono stati menzionati e non si accosta al santo mistero, riceverà non di meno la santificazione che proviene da esso? Non tutti, ma solo chi non può accostarsi con il corpo, come è il caso delle anime dei defunti. Tali sono anche coloro “che errano per i deserti, per i monti, che stanno nelle grotte e nelle caverne della terra” (Ebrei 11, 28), ai quali è impossibile vedere l’altare ed un sacerdote. A questi il Cristo invisibilmente procurava la santificazione. Da che risulta ciò? Dal fatto che avevano in se stessi la vita; se non l’avessero avuta, non avrebbero partecipato a questo mistero. Infatti il Cristo stesso dice: “Se non mangerete la carne del Figlio dell’Uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita!” (Giovanni 6, 53). E per dimostrare ciò mandò a molti di questi santi gli angeli che portavano i santi doni.

        Se qualcuno, pur potendolo, non si accosta all’altare, a costui non è possibile ricevere la santificazione che deriva dai santi misteri, non solo perché non si è accostato, ma perché non l’ha fatto pur potendo. Perciò è evidente che ha l’anima priva delle qualità necessarie per accostarsi ai Santi misteri. Qual è, infatti, l’impulso ed il desiderio dell’altare da parte di colui che può facilmente accostarsi ad esso e non lo vuole? Che fede in Dio c’è in colui che non teme la minaccia presente nelle parole del Signore, ed in quelli che disprezzano questo banchetto? Come si potrebbe credere all’amore di colui che, sebbene lo possa, non lo riceve?

        Perciò non c’è nulla di strano se le anime che sono prive del corpo e che non si possono accusare di tale malvagità, il Cristo rende partecipi dell’altare. Infatti è strano e soprannaturale se un uomo che vive nella corruzione possa nutrirsi d’un corpo puro, ma che cosa c’è di sorprendente se un’anima per natura immortale partecipa ad un alimento immortale nel modo che le è proprio? E se poi Dio nel suo indicibile amore per gli uomini e nella sua misteriosa sapienza ha trovato il modo di realizzare questo primo fatto strano e soprannaturale, come non si crederà che compia il secondo che è verosimile e conseguente?


Da “Spiegazione della Divina Liturgia”, cap. XLII; trad. A. S.

Magna es Domina, et laudabilis nimis, in civitate Dei nostri
et universa Ecclesia electorum eius.

«VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?» FEDE FEDE FEDE

«VOLETE ANDARVENE ANCHE VOI?»
       Augustin Guillerand *


Nato nel 1877 nel Nivernese (Francia), A. Guillerand diventò sacerdote nel 1900. Era cappellano in una piccola parrocchia di campagna, quando, nel 1916, il fascino che provava per la solitudine e la preghiera lo condusse alla Certosa della Valsainte.      Nel 1935, viene nominato priore di Vedana, in Italia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, fece parte del piccolo gruppo di certosini francesi che, non potendo restare in Italia, trovò rifugio nella Grande Certosa i cui edifici erano in completo abbandono. Fu là che scrisse, per sostenere la propria meditazione, degli appunti che furono pubblicati dopo la sua morte avvenuta nel 1945.

Tutto il discorso di Gesù sul pane della vita s'impernia sulla fede, la esige, ne fa la condizione di salvezza e di unione a lui. Ottenere la nostra fede è la ragione della sua venuta e della sua parola. Chiunque gliela concede, fosse pure una Samaritana, lo raggiunge e gli appartiene. Invece, un abisso si scava fra lui e chiunque tale fede gli rifiuti, foss'anche un Giudeo o un seguace assiduo del suo ministero; e la separazione è definitiva.

Gesù resta solo con i Dodici. La folla si è ritirata, incapace di una fede siffatta e del sacrificio ch'essa comporta. Non una parola per trattenerla. Al contrario, s'impone sempre di più l'esigenza divina fino al momento in cui tutti lo abbandonano, circondato soltanto da quel piccolo gruppo scelto nel quale egli già intravvede una defezione. Giovanni non cerca di parlare della sofferenza del suo Maestro di fronte a tale abbandono; egli racconta i fatti, annota le parole. Non descrive gli stati d'animo; li lascia indovinare; e la sua discrezione nel narrare ci permette di andare più in là in quell'immensità di cui egli non parla.

Tuttavia Gesù non vuoi diminuire la portata di questa esigenza che gli causa, in un sol giorno, la perdita completa del frutto del suo ministero e del beneficio dei miracoli più grandi. Non solo; egli addirittura è pronto a vedere scomparire quei pochi che gli restano, piuttosto che ripiegare: Allora Gesù disse ai Dodici: Volete andarvene anche voi?Il Padre, però, non gli chiede questo sacrificio totale. San Pietro, a nome dei Dodici, fa una professione di fede che lo consola nell'abbandono della folla: Simon Pietro Gli rispose: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, noi abbiamo creduto conosciuto che Tu sei il Santo di Dio (Gv. 6, 68-69).

Gli apostoli non comprendevano il linguaggio di nostro Signore più degli altri; anche per loro esso era molto enigmatico. 
Non credevano all'evidenza di ciò che veniva loro detto, ma all'autorità di colui che parlava. 
Credevano al Maestro nel quale avevano riconosciuto il Figlio di Dio, il Verbo eterno, la Luce e la Vita. 
Credevano che le parole del Verbo erano parole di vita e che, sebbene sgradevoli al loro spirito, meritavano e dovevano ottenere la loro adesione. 
Essi non aderivano dunque alla luce della loro ragione, ma alla luce che procedeva dal Verbo, riconosciuto tale dalla loro ragione. 
Essi aderivano, perché il Padre generava in loro questa luce, la luce del suo Spirito d'amore, mediante la quale li attirava a vedere nel divino Maestro e nelle sue parole, la verità. 
Era lui, in definitiva, che li metteva in movimento. Era da lui che quel movimento partiva, ed era a lui, mediante il Verbo incarnato, che questo movimento li riconduceva. Ed era per questo che tale movimento era la vita.

Il miracolo e le parole ottenevano il loro effetto: la fedeQuesta è l'opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato (Gv. 6, 29). L'opera di Dio si compiva in quel ristretto numero di cuori. Essi si nutrivano delle parole vivificatrici che il Verbo aveva sparso in loro e che, tramite loro, avrebbe sparso nel mondo.


 Au seuil de l'abîme de Dieu, Benedettine di Priscilla, Roma 1961 - pp. 273-276.

martedì 20 ottobre 2015

Tutti siamo chiamati a vivere in grazia di Dio, e per farlo dobbiamo imparare a chiedere perdono dei nostri peccati.

«Nessuno può modificare la legge divina Per questo non è lecita l’eucarestia ai divorziati [risposati]»
di Lorenzo Bertocchi19-10-2015
Le legge divina non permette l'eucarestia ai divorziati
  «Per avere una risposta chiara alle vostre domande», mi dice sorridendo P. Thomas Michelet Op, «io direi ai vostri lettori di leggere un bel commento di P. John Hunwike, ex anglicano ora incardinato nell’Ordinariato Personale di Our Lady of Walsingham». Il giovane teologo domenicano, già autore di un articolo sul tema della comunione ai divorziati risposati sulla famosa rivista Nova et Vetera (clicca qui), mi prende in contropiede. «Mi scusi», chiedo, «ma per avere risposte cattoliche devo chiedere ad un ex prete anglicano?». Ride. «No, però la sua esperienza è interessante».

Allora cominciamo da P. Hunwike, il quale scrive, senza mezzitermini, che la ricerca di una via penitenziale per concedere la comunione ai divorziati risposati è cosa «noiosa». Teologo, ex professore di latino e greco al Lancing College, ricercatore ad Oxford, forse esagera con lo humor. Però dice che gli anglicani hanno «cercato di implementare queste idee nella Chiesa d’Inghilterra anni fa, e hanno dimostrato di essere soltanto un primo passo verso l’accettazione automatica di tutte le unioni di fatto». 

Quindi, dire che quello che si cerca al Sinodo è soltanto un cambiamento delle disposizioni disciplinari della Chiesa, come sostengono alcuni fuori e dentro l’Aula sinodale, è corretto, oppure no?

«La parola disciplina viene spesso utilizzata per descrivere un insieme di disposizioni giuridiche definite dalla Chiesa. Così, molti comprendono questa parola alla maniera delle leggi umane: ciò che la Chiesa legifera, si può cambiare. Questo è legalismo, e positivismo giuridico. Così, gli inglesi dicevano: "il Parlamento può fare tutto, salvo cambiare un uomo in una donna". Ma, anche questo ultimo limite sembra essere saltato. Non potremo mai capire il dato del problema se non ammettiamo che la Chiesa non può fare qualsiasi cosa; è custode e serva del mistero divino, non proprietaria».

E allora, nel caso dei divorziati risposati e l’accesso all’Eucaristia che succede?

«La disciplina è l’arte di essere discepoli. Non è principalmente una legge. Quindi non tutto è messo sullo stesso piano: alcune cose possono essere cambiate, altre no. Poiché alcune disposizioni sono semplici decisioni della Chiesa, assistita dallo Spirito Santo a governare il popolo di Dio. Altre sono espressione della legge divina, che Dio stesso pone, e che la Chiesa non può cambiare perché non è lei che ha deciso: non fa che ripeterle. La comunione ai divorziati risposati appartiene al secondo livello: la Chiesa non ha alcun potere di cambiare. Altrimenti, se lo facesse, cambierebbe il Vangelo. E non sarebbe più la Chiesa».

Però non mancano accuse di fissismo giuridico alla Chiesa. Come trovare l’equilibrio che non faccia cadere nell’interpretazione positivistica delle leggi ecclesiastiche e, nello stesso tempo, eviti l’accusa di fissismo?

«É vero, le leggi ecclesiastiche non sono leggi divine, ma le leggi della Chiesa non sono tutte leggi ecclesiastiche. Alcune non fanno che esprimere il diritto divino. Per esempio, in liturgia Dio non emana dei rituali. Ma un rituale sarà giusto e vero quando sarà “adeguato con la realtà” che celebra, vale a dire il Mistero di Dio. Si tratta, quindi, di un criterio di verità. Non si può ammettere questo criterio se non si accetta che la Chiesa ha in carico un deposito sacro sul quale non ha alcun potere e che deve trasmettere fedelmente. Per uscire dal positivismo bisogna dunque ammettere la trascendenza, e l’articolazione necessaria tra questi segni visibili, che sono le leggi o i rituali o le definizioni dogmatiche, da una parte, e la verità che questi segni esprimono, che è la realtà invisibile del mistero. Il giusto equilibrio quindi è quello della fede teologale, che non si ferma all’enunciato, ma che raggiunge la realtà che l’enunciato contiene».

Qualcuno, ad esempio i padri sinodali del circolo Germanicus, si richiamano al principio di epikeia per indicare la possibilità di affrontare le vicende delle coppie di divorziati risposati “caso per caso”

«Il criterio dell’epikeia è esso stesso controverso. Prendere un principio di questo tipo per risolvere contenziosi controversi, scusate il gioco di parole, mi sembra… controverso. Il criterio dell’epikeia interviene quando il legislatore non si è pronunciato su di una determinata situazione. Quindi, siccome si deve rendere tutto alla giustizia, si deve trattare il caso come il legislatore l’avrebbe trattato, se questo caso fosse venuto alla conoscenza del legislatore. Ma noi non siamo affatto in questa situazione: si tratta di diritto divino, non ci sono dei casi di cui Dio non possa avere conoscenza perché vede tutto dall’eternità, e inoltre sul caso specifico s’è già espresso. Quindi richiamare il principio di epikeia mi sembra fuori luogo». 

Padre Thomas, mi scusi, cosa dire allora alle persone che si trovano in unioni “di fatto”?

«Che la Chiesa ha sempre le porte aperte. Tutti siamo chiamati a vivere in grazia di Dio, e per farlo dobbiamo imparare a chiedere perdono dei nostri peccati. Chi vuole ricevere l’Eucaristia deve prima chiedere perdono nel sacramento della penitenza. E chi vuole ricevere l’assoluzione nel sacramento della penitenza deve cambiare vita, rinunciare al suo peccato. Se si modifica la "disciplina" dell'Eucaristia su questo, si modifica il Vangelo. Che è un messaggio di salvezza misericordiosa per i peccatori, non una parola rivolta a coloro che si credono giusti e pensano di non avere bisogno di perdono».

AVE MARIA!

sabato 2 agosto 2014

Domenica 3 Agosto 2014, XVIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 14,13-21.


"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta


Domenica 3 Agosto 2014, XVIII Domenica delle ferie del Tempo Ordinario - Anno A

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 14,13-21.
Udito ciò, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguì a piedi dalle città.
Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati. 
Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». 
Ma Gesù rispose: «Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare». 
Gli risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci!». 
Ed egli disse: «Portatemeli qua». 
E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. 
Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. 
Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini. 
Traduzione liturgica della Bibbia





Corrispondenza nell "Evangelo come mi è stato rivelato" 
di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 273 pagina 329. 

1Il luogo è sempre quello. Soltanto il sole non viene più da oriente, filtrando fra la boscaglia che costeggia il Giordano in questo luogo selvaggio presso lo sbocco delle acque del lago nel letto del fiume, ma viene, ugualmente obliquo, da ponente, mentre cala in una gloria di rosso, sciabolando il cielo coi suoi ultimi raggi. E, sotto questo fogliame denso, già la luce è molto temperata, tendente alle tinte pacate della sera. Gli uccelli, inebriati dal sole avuto per tutto il giorno, dal cibo abbondante carpito alle limitrofe campagne, si danno ad un baccanale di trilli e canti, sulle vette delle piante. La sera cade con le pompe finali del giorno.
Gli apostoli lo fanno notare a Gesù, che sempre ammaestra a seconda degli argomenti a Lui esposti. «Maestro, la sera si avvicina. Il luogo è deserto, lontano da case e paesi, ombroso e umido. Fra poco qui non sarà più possibile vederci, né camminare. La luna alza tardi. Licenzia il popolo affinché vada a Tarichea o ai villaggi del Giordano a comprarsi cibo e cercare alloggio». 
«Non occorre che se ne vadano. Date loro da mangiare. Possono dormire qui come dormirono attendendomi». 
«Non ci sono rimasti che cinque pani e due pesci, Maestro, lo sai». 
«Portatemeli». 
«Andrea, va’ a cercare il bambino. È lui di guardia alla borsa. Poco fa era col figlio dello scriba e due altri, intento a farsi coroncine di fiori giocando ai re». 
2Andrea va sollecito. E anche Giovanni e Filippo si danno a cercare Marziam fra la folla che sempre si sposta. Lo trovano quasi contemporaneamente, con la sua borsa dei viveri a tracolla, un grande tralcio di vitalba girato intorno alla testa e una cintura di vitalba dalla quale pende a far da spada un nocchio: l’elsa è il nocchio vero e proprio, la lama il gambo a canna dello stesso. Con lui sono altri sette, ugualmente bardati, e fanno corteggio al figlio dello scriba, un esilissimo fanciullo dall’occhio molto serio di chi ha tanto sofferto, che più infiorato degli altri fa da re. 
«Vieni, Marziam. Il Maestro ti vuole!». 
Marziam lascia in asso gli amici e va lesto senza neppure levarsi le sue… insegne floreali. Ma lo seguono anche gli altri e presto Gesù è circondato da una coroncina di fanciulli inghirlandati di fiori. Egli li carezza, mentre Filippo leva dalla borsa un fagotto con del pane, nel centro del quale sono avvolti due grossi pesci: due chili di pesce, poco più. Insufficienti anche ai diciassette, anzi diciotto con Mannaen, della comitiva di Gesù. 3Portano questi cibi al Maestro. 
«Va bene. Ora portatemi dei cesti. Diciassette, quanti voi siete. Marziam darà il cibo ai bambini…». Gesù guarda fisso lo scriba, che gli è sempre stato vicino, e chiede: «Vuoi dare anche te il cibo agli affamati?». 
«Mi piacerebbe. Ma ne sono privo io pure». 
«Dài del mio. Te lo concedo». 
«Ma… intendi sfamare un cinquemila uomini, oltre le donne e i bambini, con quei due pesci e quei cinque pani?». 
«Senza dubbio. Non essere incredulo. Chi crede vedrà compiersi il miracolo». 
«Oh! allora voglio proprio distribuire il cibo anche io!». 
«Fàtti dare allora una cesta tu pure». 
Tornano gli apostoli con ceste e cestelli larghi e bassi, oppure fondi e stretti. E torna lo scriba con un paniere piuttosto piccolo. Si capisce che la sua fede o la sua incredulità gli hanno fatto scegliere quello come il massimo. 
«Va bene. Mettete tutto qui davanti. E fate sedere le turbe con ordine, a linee regolari per quanto si può». 
E, mentre ciò avviene, Gesù alza il pane con sopra i pesci, li offre, prega e benedice. Lo scriba non lo abbandona un istante con l’occhio. Poi Gesù spezza i cinque pani in diciotto parti e spezza i due pesci in diciotto parti, e mette il pezzo di pesce - un pezzettino ben meschino – in ogni cesta, e fa a bocconi i diciotto pezzi di pane: ogni pezzo in molti bocconi. Molti relativamente: una ventina, non di più. Ogni pezzo spezzettato, in un cesto, col pesce. 
«E ora prendete e date a sazietà. Andate. 4Vai, Marziam, a darlo ai tuoi compagni». 
«Uh! come è peso!» dice Marziam alzando il suo cesto e andando subito dai suoi piccoli amici, camminando come chi porta un peso. 
Gli apostoli, i discepoli, Mannaen, lo scriba, lo guardano andare, incerti... Poi prendono i cesti e, scuotendo il capo, dicono l’un coll’altro: «Il bambino scherza! Non pesano più di prima!». E lo scriba guarda anche dentro e vi mette la mano a frugare nel fondo, perché ormai non c’è più molta luce, lì nel folto dove Gesù è, mentre più là, nella radura, vi è ancora una buona luce. 
Ma però, nonostante la constatazione, vanno verso la gente e iniziano a distribuire. E dànno, dànno, dànno. E ogni tanto si volgono stupiti, sempre più lontani, verso Gesù, che a braccia conserte, addossato ad un albero, sorride finemente del loro stupore. 
La distribuzione è lunga ed abbondante… e l’unico che non mostra stupore è Marziam, che ride felice di empire di pane e pesce il grembo di tanti bambini poverelli. È anche il primo a tornare da Gesù dicendo: «Ho dato tanto, tanto, tanto!… perché io so cosa è la fame…» e alza il visetto non più macilento, che nel ricordo però impallidisce sbarrando gli occhi… Ma Gesù lo carezza e il sorriso torna luminoso su quel volto fanciullo che, fidente, si appoggia contro Gesù, suo Maestro e Protettore. 
Pian piano tornano gli apostoli ed i discepoli, ammutoliti dallo stupore. Ultimo lo scriba che non dice nulla. Ma fa un atto che è più di un discorso. Si inginocchia e bacia l’orlo della veste di Gesù. 
«Prendete la vostra parte e datemene un poco. Mangiamo il cibo di Dio». 
Mangiano infatti pane e pesce, ognuno secondo il bisogno… 
5Intanto la gente satolla si scambia le sue impressioni. Anche chi è intorno a Gesù osa parlare osservando Marziam che, finendo il suo pesce, scherza con altri fanciulli. 
«Maestro» chiede lo scriba «perché il bambino ha sentito subito il peso e noi no? Io ho anche frugato dentro. Erano sempre quei pochi bocconi di pane e quell’unico di pesce. Ho cominciato a sentire il peso andando verso la folla. Ma, se avesse pesato per quanto ne ho dato, ci sarebbe voluto una coppia di muli a portarlo, non già il cesto ma un carro, pieno, stivato di cibo. In principio andavo parco… poi mi sono messo a dare, dare, e per non essere ingiusto sono ripassato dai primi dando di nuovo, perché ai primi avevo dato poco. Eppure è bastato». 
«Io pure ho sentito farsi pesante il cesto mentre mi avviavo, ed ho dato subito molto perché ho capito che avevi fatto miracolo» dice Giovanni. 
«Io invece mi sono fermato e mi sono seduto per rovesciare in grembo il peso e vedere… E ho visto pani e pani. Allora sono andato» dice Mannaen. 
«Io li ho anche contati, perché non volevo fare brutte figure. Erano cinquanta piccoli pani. Ho detto: “Li darò a cinquanta persone e poi tornerò indietro”. E ho contato. Ma arrivato a cinquanta il peso era uguale ancora. Ho guardato dentro. Erano ancora tanti. Sono andato avanti e ne ho dati a centinaia. Ma non diminuivano mai» dice Bartolomeo. 
«Io, lo confesso, non credevo e ho preso in mano i bocconi di pane e quel briciolo di pesce, e li guardavo dicendo: “E a chi servono? Gesù ha voluto scherzare!…” e li guardavo, li guardavo stando nascosto dietro un albero, sperando e disperando di vederli crescere. Ma rimanevano sempre gli stessi. Stavo per tornare indietro quando è passato Matteo dicendo: “Hai visto come sono belli?”. “Cosa?” ho detto. “Ma i pani e i pesci!…”. “Sei matto? Io vedo sempre pezzi di pane”. “Va’ a distribuirli con fede e vedrai!”. Ho gettato dentro nel cestone quei pochi bocconi e sono andato a riluttanza… E poi… Perdonami, Gesù, perché sono un peccatore!» dice Tommaso. 
«No. Sei uno spirito del mondo. Ragioni da mondo». 
«Anche io, Signore, allora. Tanto che pensavo dare una moneta insieme al pane pensando: “Mangeranno altrove”» dice l’Iscariota. «Speravo aiutarti a fare una figura migliore. Che sono io, dunque? Come Tommaso o più ancora?». 
«Molto più di Tommaso tu sei “mondo”». 
«Ma pure ho pensato di fare elemosina per essere Cielo! Erano denari miei privati…». 
«Elemosina a te stesso, al tuo orgoglio. Ed elemosina a Dio. Quest’ultimo non ne ha bisogno, e l’elemosina al tuo orgoglio è colpa, non merito». 
Giuda china il capo e tace. 
«Io invece pensavo che quel boccone di pesce, che quei bocconi di pane li avrei dovuti sbriciolare per farli bastare. Ma non dubitavo che sarebbero stati sufficienti, né per numero né per nutrimento. Una goccia d’acqua data da Te può essere più nutriente di un banchetto» dice Simone Zelote. 
«E voi che pensavate?» chiede Pietro ai cugini di Gesù. 
«Noi ricordavamo Cana… e non dubitavamo» dice serio Giuda. 
«E tu, Giacomo, fratello mio, questo solo pensavi?». 
«No. Pensavo fosse un sacramento, come Tu hai detto a me… È così o sbaglio?». 
Gesù sorride: «È e non è. Alla verità della potenza del nutrimento in una goccia d’acqua, detta da Simone, va unito il tuo pensiero per una figura lontana. Ma ancora non è un sacramento». 
6Lo scriba conserva una crosta tra le dita. 
«Che ne fai?». 
«Un… ricordo». 
«Lo tengo anche io. La metterò al collo di Marziam in una piccola borsa» dice Pietro. 
«Io la porterò alla madre nostra» dice Giovanni. 
«E noi? Abbiamo mangiato tutto…» dicono mortificati gli altri. 
«Alzatevi. Girate di nuovo coi cesti, raccogliete gli avanzi, separate fra la gente i più poveri e portatemeli qui insieme ai cesti, e poi andate tutti, voi discepoli miei, alle barche, e prendete il largo andando alla pianura di Genezaret. Io congederò la gente dopo aver beneficato i più poveri e poi vi raggiungerò». 
Gli apostoli ubbidiscono… e tornano con dodici panieri colmi di avanzi e seguiti da una trentina di mendicanti o persone molto misere. 
«Va bene. Andate pure». 
Gli apostoli e quelli di Giovanni salutano Mannaen e se ne vanno con un poco di riluttanza a lasciare Gesù. Ma ubbidiscono. Mannaen attende a lasciare Gesù quando la folla, alle ultime luci del giorno, o si avvia ai villaggi, o si cerca un posto per dormire fra gli alti ed asciutti falaschi. Poi si accomiata. Prima di lui se ne è andato lo scriba, uno dei primi, anzi, perché, insieme al figlioletto, si è avviato in coda agli apostoli. 
7Partiti tutti, oppure caduti nel sonno, Gesù si alza, benedice i dormienti e a passo lento si porta verso il lago, verso la penisoletta di Tarichea, sopraelevata di qualche metro sul lago come fosse un frastaglio di colle spinto sul lago. E, raggiunto che ne ha le basi, senza entrare in città, ma costeggiandola, sale il monticello e si mette su uno scrimolo, in preghiera davanti all’azzurro e al candore della notte serena e lunare.

Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/ 

 “Vieni, Spirito Santo, vieni
per mezzo della potente intercessione
del Cuore Immacolato di Maria ,
tua amatissima Sposa”