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martedì 13 ottobre 2020

Elogio del giglio....



VOLUME VI CAPITOLO 412

CDXII. Elogio del giglio delle convalli, simbolo di Maria, e sacrificio di Pietro per il bene di Giuda.­

   8 aprile 1946.


 1 Il gruppo apostolico ha volto le spalle alla pianura e per vie collinose, fra monti e convalli, si dirige verso G erusalemme. Per abbreviare la via non hanno preso le strade maestre, ma scorciatoie solitarie, faticose ma molto spedite.
   In questo momento sono nel fondo di una verde convalle ricca d'acque e di fioretti, né mancano gli steli odorosi delle convallarie, cosa che fa osservare al Taddeo che molto giusto è appellare il mughetto «giglio della convalle» e lodarne la bellezza, fragile eppure resistente e così delicatamente fragrante.
   «Però sono gigli all'incontrario», osserva Tommaso. «Guardano in giù invece che in su».
   «E come sono piccini! Abbiamo fiori più pomposi di questo. Non so perché l'hanno tanto lodato…», dice Giuda urtando con sprezzo un ciuffetto di mughetti in fiore.
   «No! Perché? Sono così gentili!», interviene Andrea in difesa dei poveri fiori, e si china a raccogliere gli steli spezzati.
   «Sembrano fieno e nulla più. Più bello è il fiore dell'agave, così maestoso, potente. Degno di Dio e di fiorire per Dio».
   «Io ci vedo più ancora Dio in questi calici minuti… Ma guarda che grazia!… Dentellati, così concavi… Paiono di alabastro, di cera vergine, e lavorati da manine piccolissime… Invece è l'Immenso che li ha fatti! Oh! Potenza di Dio!…». Andrea è quasi estatico nella contemplazione e meditazione dei fiori e della Perfezione creativa.
   «Mi sembri una femminuccia malata di nervi!…», motteggia Giuda di Keriot ridendo maligno.
   «No. Veramente trovo anche io, e orafo sono e perciò me ne intendo, che questi steli sono una perfezione. Più difficili a farsi nel metallo che non l'agave. Perché sappi, amico, che è l'infinitamente piccolo che rivela la capacità dell'artefice. Dammi uno stelo, Andrea… E tu, dall'occhio bovino che ammira solo il grandioso, vieni qui e osserva. Ma quale artefice poteva fare queste coppe così leggere, perfette, decorarle di quel topazio minuscolo là nel fondo e unirle al gambo con questo stelo di filigrana curvo così, aereo così… Ma è una meraviglia!…».
   «Oh! che poeti sono sorti fra noi! Anche tu, Toma, così…».
   «Non stolto, sai, non femmina, sai? Ma artista. E sensibile artista. E me ne vanto.



 2 Maestro, ti piacciono questi fiori?». Tommaso interpella il Maestro, che ha tutto ascoltato senza parlare.
   «Tutto della creazione mi piace. Ma questi fiori sono fra i prediletti…».
   «Perché?», chiedono in diversi. E contemporaneamente chiede Giuda: «Anche le vipere ti piacciono?», e ride.
   «Anche esse. Servono…».
   «A che?», interrogano in molti.
   «A mordere. Ah! Ah! Ah!», ride offensivo Giuda.
   «Allora dovrebbero piacere moltissimo a te», gli ribatte il Taddeo spezzandogli la risata sotto il sottinteso molto esplicito. Ora sono gli altri che ridono della botta ben data.
   Gesù non ride. È anzi pallido e triste. Guarda i suoi dodici, e specie i due antagonisti che si guardano l'uno con ira, l'altro con severità, e risponde a tutti per rispondere all'Iscariota in particolare.
   «Se Dio le ha fatte, segno è che servono. Nulla di inutile, di totalmente nocivo è nel creato. Solo il Male è nettamente e solamente nocivo, e guai a quelli che se ne lasciano mordere. Uno dei frutti del suo morso è l'incapacità di distinguere più il Bene dal Male, è la deviazione della ragione e della coscienza pervertita verso cose non buone, ed è la cecità spirituale per la quale, o Giuda di Simone, non si vede più risplendere la potenza di Dio sulle cose, anche se minute. In questo fiore essa sta scritta per la bellezza, il profumo, la forma così diversa da quella di ogni altro fiore, per questa goccia di rugiada che trema e splende sospesa al ciglio cereo del minuscolo petalo e pare una lacrima di riconoscenza per il Creatore che ha fatto tutto, e tutto bene, tutto utile, tutto variato. Ma è detto che tutto era bello ai progenitori finché non ebbero le cataratte del peccato… E tutto parlava loro di Dio finché sulle cose, meglio, nella loro pupilla non fu istillato l'umore che svisò la loro capacità di vedere Dio… Anche al momento attuale, Dio tanto più si disvela più lo spirito è re in una creatura…».
   «Salomone cantò le meraviglie di Dio e così Davide… e non avevano certo lo spirito re! Maestro, questa volta ti ho colto in fallo».
   «Ma impudente che sei! Come osi dire questo?», scatta Bartolomeo.
   «Lascialo parlare… Non ne tengo conto. Parole che il vento disperde e delle quali non si scandalizzano erbe e piante. Noi, unici che le ascoltiamo, sappiamo dare ad esse il peso che meritano, non è vero? E non le ricordiamo più. La giovinezza è spesso irriflessiva, Bartolmai. Compatiscila…


 3 ­Ma qualcuno mi aveva chiesto perché preferisco il giglio delle convalli… Ecco che rispondo: "Per la sua umiltà". Tutto parla in esso di umiltà… I luoghi che ama… l'attitudine del fiore… Mi fa pensare alla Madre mia… Questo fiore… Così piccino! Eppure, sentite come odora un solo stelo. L'aria intorno se ne profuma… Anche mia Madre umile, schiva, ignota, che chiedeva solo di rimanere ignota… Pure il suo profumo di santità fu tanto forte che mi aspirò dal Cielo…».
   «Ci vedi un simbolo di tua Madre in quel fiore?».
   «Sì, Toma».
   «E pensi che i nostri antichi, lodando il giglio della convalle, presentissero Lei?», chiede Giacomo d'Alfeo.
   «Allora l'hanno anche paragonata ad altre piante e fiori. Alla rosa, all'ulivo e ai più gentili animali: tortore, colombe…», dice quasi con ira l'Iscariota.
   «Ognuno le diceva ciò che egli vedeva di più bello nel creato. E del creato Ella realmente è la Tutta Bella. Ma Io la chiamerei Giglio della convalle e pacifico Ulivo se dovessi celebrare le sue lodi», e Gesù si rasserena e illumina pensando a sua Madre, e si dilunga per isolarsi…
 

4 ­Il cammino continua, nonostante l'ora calda, perché il fondo valle è un susseguirsi di piante che riparano il sole.
   Pietro, dopo qualche tempo, affretta il passo e raggiunge il Maestro. Lo chiama piano: «Maestro mio!».
   «Mio Pietro!».
   «Ti disturbo se vengo con Te?».
   «No, amico. Che vuoi dirmi di così urgente che ti spinge a venire presso il Maestro tuo?».
   «Una domanda… Maestro, io sono un uomo curioso…».
   «Ebbene?». Gesù sorride nel guardare il suo apostolo.
   «E mi piace sapere tante cose…».
   «Ciò è difetto, Pietro mio».
   «Lo so… Ma non credo che questa volta sia difetto. Volessi sapere delle cose brutte, delle birbonate per poter criticare chi le ha fatte, oh! allora sarebbe difetto. Ma Tu vedi che io non ti ho chiesto se Giuda c'entrava nella chiamata a Bétèr e perché…».
   «Ma ne avevi una grande voglia…».
   «Sì. È vero. Ma anzi ciò è merito più grande, no?».
   «È merito più grande. Come grande merito è dominare se stessi. Questo dimostra, in chi lo fa, una buona, seria evoluzione nello spirituale, un veramente attivo apprendere e assimilare le lezioni del Maestro».
   «Sì, eh?! E Tu ne sei contento?».
   «Oh! Pietro, me lo chiedi? Beato ne sono».
   «Sì? Proprio sì? O Maestro mio! Ma allora il tuo povero Simone è quello che ti fa così felice?».
   «Sì. Ma non lo sapevi già?».
   «Non osavo crederlo. Ma vedendoti tanto felice, ieri ti ho fatto interrogare. Perché pensavo che poteva essere anche Giuda quello che si migliorava… benché non abbia prove di ciò… Ma io posso vedere male. Giovanni mi ha detto che Tu gli hai detto che sei felice perché c'è uno che si fa santo… Poi, poco fa, Tu mi dici che di me sei contento perché mi faccio più buono. Ora so. Quello che ti fa felice e allegro sono io, il povero Simone…



 5 Però adesso vorrei che i miei sacrifici facessero mutare
   Giuda. Non sono invidioso. Vorrei tutti perfetti per farti perfettamente felice. Ci riuscirò?».
   «Confida, Simone, confida e persevera».
   «Lo farò! Certo che lo farò. Per Te… e anche per lui. Perché non ci deve certo godere ad essere sempre così. In fondo… potrebbe essermi quasi figlio… Uhm! Veramente preferisco essere padre a Marziam! Ma… gli farò da padre lavorando per dargli un'anima degna di Te».
   «E di te, Simone», e Gesù si china e lo bacia sui capelli.
   Pietro è tutto beato… Dopo un po' chiede: «E non mi dici altro? Non c'è altro di buono, qualche fiore fra le spine che trovi da per tutto?».
   «Sì. Un amico di Giuseppe che viene alla Luce».
   «Davvero? Un sinedrista?».
   «Sì. Ma non bisogna dirlo. Pregare si deve. Soffrire per questo. Non mi chiedi chi è? Non sei curioso?».
   «Molto! Ma non lo chiedo. Un sacrificio per questo sconosciuto».
   «Te benedetto, Simone! Oggi mi fai proprio felice. Continua così e ti amerò sempre più e sempre più ti amerà Dio. Ora fermiamoci attendendo gli altri…».

lunedì 2 dicembre 2013

LA SANTITÀ DI MARIA - 3 -



Maria e il Padre celeste 
- LA SANTITÀ DI MARIA SUPERA DI GRAN LUNGA OGNI ALTRA SANTITÀ 
ED È LA PIÙ SIMILE A QUELLA DI DIO

P. LANTERI

Ci sono state in tutti i tempi due qualità di devoti di Maria: i devoti che potremmo chiamare paurosi e i devoti che chiameremo coraggiosi.
I devoti paurosi, e mettiamo tra costoro soltanto i devoti in buona fede (escludendo fin da principio, e per sempre, i devoti finti, i non-devoti, i nemici in pratica della devozione a Maria), sono sempre in ansia, presi dalla paura che la devozione a Maria non faccia troppo ombra a Gesù; che il parlare spesso della Madre non ridondi a danno del Figlio; che insistere troppo sui privilegi, sui favori e sulla potenza della Regina del ciclo e della terra non convogli verso di Lei le schiere dei sudditi fedeli facendo disertare le strade che portano al trono del Re del ciclo e della terra...

Preoccupazioni, queste, che hanno avuto gli eretici di tutti i tempi — quindi i non-devoti di Maria — dall'epoca di Nestorio, di Vigilanzio, di Luterò, di Calvino, dei giansenisti, degli illuministi, e giù giù fino ai tempi di Pio IX e del dogma dell'Immacolata, e, perché nulla esiste di nuovo sotto il sole, fino ai nostri tempi recentissimi prima e dopo il Vaticano II. È ora di farla finita con Maria, dicono i non-devoti, farla finita col Rosario, coi santuari, coi pellegrinaggi, con le novene... È ora di farla finita con certe esagerazioni, dicono i devoti paurosi di rincalzo, dobbiamo ridimensionare la devozione mariana, parlarne poco o niente, e parlare invece molto di Gesù, centro della nostra fede e della nostra pietà, unico Redentore, unico Mediatore tra Dio e gli uomini.

Padre Lanteri non apparteneva certamente alla categoria dei devoti paurosi di Maria. Egli era un devoto autentico, perciò scriveva:
« Siccome la Chiesa trionfante canta: Santo, Santo, Santo, così la Chiesa militane canta a Maria: Saneta Maria, Sanata Dei Genetrix, Sancta Virgo Virginum, dicendola così santa, santa, santa, santo di nome, santa di officio, santa di costumi, ed in questo modo vien predicata santa a somiglianzà della santità di Dio, e ciò perché la santità di Maria supera di gran lunga ogni altra santità ed è la più simile a quella di Dio ».
C'è un detto di mariologia che è diventato un assioma: De Maria numquam satis: non si parla mai abbastanza di Maria perché a parlare di Maria non si esaurisce mai l'argomento e al già detto resta sempre da aggiungere qualche cosa. Assioma che è stato, ed è, acremente impugnato dai non-devoti di Maria o dai devoti paurosi, ma che conserva tutta la sua validità se non trasborda fuori dai giusti limiti, come talvolta è avvenuto e tuttora avviene.

Infatti a parlare di Maria non si esagera mai quando si tengono presenti due verità fondamentali, cioè da una parte che anch'Essa è una creatura, quindi non è Dio e non Le si deve un culto di adorazione ed è stata anch'essa redenta da Cristo; e dall'altra che Essa è la « piena di grazia » fin dal primo istante della sua concezione, e quindi non è una creatura comune come tutte le altre. Tenendo ben fissi nelle mani questi due capi della catena, abbiamo larghissimo spazio per parlare di Maria, alla quale « ha fatto grandi cose Colui che è potente, e Santo è il suo nome », senza nulla esagerare di Lei e senza nulla togliere a Colui di cui Essa è stata Madre, ostensorio, ponte, tempio.

Un secondo criterio deve essere tenuto presente quando si parla o si scrive di Maria per non eccedere nelle sue lodi o non restar sotto ai suoi meriti: attenersi fedelmente e docil-mente all'insegnamento del magistero ecclesiastico. L'autorità magisteriale della Chiesa ha determinato tutto ormai ciò che riguarda la sostanza della teologia mariana, o come dogma definito o come dottrina comune della Chiesa e dei teologi ortodossi.
Basta mantenersi entro questi limiti, senza cercare pericolose avventure o novità peregrine, per non errare in materia così delicata e così importante. Docili all'insegnamento della Chiesa, si eviterà anche il pericolo a cui pare particolarmente inclinato il tempo presente, di prendere cioè per autentici certi presunti messaggi o certe presunte apparizioni della Vergine, che non sono in ultima analisi che o invenzioni di gente interessata, o pie fantasie di gente malata, atte più a portare confusione che chiarezza e pace nelle schiere dei veri credenti e dei veri devoti di Maria.

Nell'esaltare le grandezze di Maria non si fa, in pratica, che glorificare la potenza e la munificenza di Colui che ha fatto in Lei queste grandezze. È Dio che ha fatto Maria « piena di grazia » in vista della divina maternità. E affinchè in ogni circostanza della sua vita Maria potesse amare il suo Figlio con tutta la perfezione concepibile, con tutta la purezza, con tutta la forza, con tutta la continuità possibile, Dio le concesse, insieme a tanta pienezza di grazia, una moltitudine di altri privilegi assolutamente eccezionali. Perché potesse amarlo fin dal primo istante la creò immacolata; perché potesse amarlo senza impedimenti, nello slancio del suo amore la esentò dalla concupiscenza; perché potesse amarlo senza alcuna defezione, la preservò da ogni colpa attuale e da ogni imperfezione; perché potesse amarlo di un amore esclusivo, ne fece la Vergine delle vergini; perché potesse dargli la prova suprema del proprio amore la associò alla sua passione redentrice; perché in ciclo potesse amarlo con tutte le facoltà della sua persona glorificata riunì senza indugio quel corpo glorioso alla sua anima beata; perché potesse comunicare il suo amore a tutte le creature la istituì Madre degli uomini e dispensatrice di tutte le grazie (NEUBERT, 43).

Se Dio non ha avuto paura di conferire a Maria un capitale di grazie singolari ed eccezionali, di innalzarla a una sommità capace di far venire le vertigini a chiunque altro meno fondato di Maria nella fede e nell'umiltà; di prepararla fin dal principio del mondo a una missione unica, la divina maternità, ed alla lotta vittoriosa contro il serpente, perché dobbiamo avere paura noi di parlarne? che significato può avere questa reticenza, questa esitazione?...

venerdì 24 maggio 2013

Maria !

AUXILIUM CHRISTIANORUM
ORA PRO NOBIS
  • Maria è la santa necessità, Gesù è il Compimento. Ella prepara. Egli completa. Ella mantiene la fame e la sete e l’aumenta, per  portarvi, con la dolcezza dei suoi santi sapori, al sempre più vivo e rinnovato desiderio di vivere di Cristo. E’ l’Eva vera. La radice e l’Albero dei Viventi: Il Padre l’ha creata, l’Amore l’ha fecondata, e dal suo midollo è venuta la linfa di Grazia che v'ha dato il Frutto che è la Grazia stessa. (…) Vero Albero di Vita, Ella tende i suoi rami, carichi del Frutto del suo Seno, perché voi ne mangiate. Ora chi mai non va all’albero per cogliere i frutti? E non vi torna quando i frutti sono soavi? Nessuno, a meno che non sia stolto. Così voi pure andateci, o spiriti cristiani, e mangiate e bevete di Maria per giungere al santo appetito di Gesù che, a voi comunicandosi, vi dia la Vita Eterna. Az 264 - 8.9.46



AUXILIUM CHRISTIANORUM: L'INTERVENTO DI MARIA NELLA BATTAGLIA DI LEPANTO DEL 1571 CONTRO I MUSULMANI
Le ragioni storiche dello scontro
da fonte non disponibile

Dopo che il 31 maggio 1453 Maometto II aveva conquistato la città di Costantinopoli e con essa il millenario Impero cristiano d'Oriente, i turchi ottomani ritenevano imminente il giorno del loro dominio universale. Nel 1521 si erano impadroniti di Belgrado; nel 1526 avevano conquistato l'Ungheria ed erano arrivati fino alle porte di Vienna. 

In Italia avevano invaso e saccheggiato tutte le coste del meridione. Tripoli era già stata tolta agli spagnoli, l'isola di Chio ai genovesi, Rodi ai cavalieri che la possedevano e la stessa isola di Malta, nuova sede dei cavalieri, sarebbe caduta nelle mani turche se Jean de La Valette, Gran Maestro dell'Ordine non l'avesse difesa e salvata con eroico valore. 

Nel febbraio 1570 era giunto a Venezia un ambasciatore turco con un ultimatum della Sublime Porta: o la cessione al sultano dell'isola di Cipro o la guerra. Venezia aveva rifiutato con sdegno. Ma dopo undici mesi di assedio il 1 agosto 1571, nell'isola di Cipro era caduta la città di Famagosta. Il patto di resa garantiva la vita ai difensori superstiti, ma quando il comandante turco era penetrato a Famagosta aveva fatto scorticare vivo il comandante della piazza cristiana Marcantonio Bragadin. Il corpo era stato squartato, la pelle di Bragadin era stata quindi riempita di paglia, rivestita con la sua uniforme e trascinata per la città. 

Il terrore regnava nel Mediterraneo, l'antico Mare nostrum. La sorte dei cristiani di Cipro era quella che l'Islam sembrava preparare ai cristiani di tutta Europa. Sulla cattedra di Pietro sedeva un teologo domenicano, Michele Ghislieri, salito al pontificato all'inizio del 1566 con il nome di Pio V. Egli valutò la gravità del pericolo e comprese che solo una guerra preventiva avrebbe salvato l'Occidente. Con parole gravi e commosse esortò le potenze cristiane ad unirsi contro gli aggressori e di questa difesa della cristianià fece l'asse del suo breve pontificato. 

Non tutti, però, risposero all'appello. L'espansione dei turchi si sviluppava anche grazie alla complicità decisiva di paesi cristiani, come la Francia, che in nome della realpolitik, oggi diremmo dei suoi interessi geopolitici, incoraggiava e finanziava i turchi per indebolire il suo tradizionale nemico: la casa imperiale d'Austria. Tuttavia grazie alle preghiere e alle insistenze del pontefice, il 25 luglio del 1570, la Spagna, Venezia e il Papa conclusero l'alleanza contro i turchi. Subito dopo aderirono il duca di Savoia, la Repubblica di Genova e quella di Lucca, il granduca di Toscana, i duchi di Mantova, Parma, Urbino, Ferrara, l'Ordine sovrano di Malta. Si trattava di una prefigurazione dell'unità italiana su basi cristiane, la prima coalizione politica e militare italiana nella storia. 

Alla testa della Lega Cristiana fu posto un giovane di 25 anni: don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Carlo V e dunque fratellastro del re di Spagna Filippo II. La flotta pontificia, costituita grazie all'aiuto decisivo dei cavalieri di Santo Stefano, era comandata da Marcantonio Colonna, duca di Paliano, a cui il Papa affidò la bandiera della Chiesa. La Santa Lega fu ufficialmente proclamata a Roma nella basilica di San Pietro. Lasciata Messina, dove si era concentrata alla fine di agosto, dopo venti giorni di navigazione con rotta verso levante, la flotta cristiana attaccò il nemico alle undici di mattina di quella domenica 7 ottobre dell'anno 1571.
Lo svolgimento della battaglia 

All'alba del 7 ottobre 1571
una gigantesca flotta ottomana, la più numerosa mai schierata nel Mediterraneo, avanzava lentamente, con il vento di scirocco in poppa. Circa 270 galee e una quantità indescrivibile di legni minori formavano un semicerchio, una enorme e minacciosa mezzaluna che occupava tutte le acque che dalle coste montagnose dell'Albania, a nord, arrivano alle secche della Morea, a sud. Al centro della mezzaluna che avanzava, sulla nave ammiraglia, chiamata la Sultana, sventolava uno stendardo verde, venuto dalla Mecca, che recava ricamato in oro per 28.900 volte il nome di Allah. 

Di fronte, in formazione a croce, era schierata la flotta cristiana, sulla cui ammiraglia, comandata da don Giovanni d'Austria, garriva un enorme stendardo blu con la raffigurazione del Cristo in Croce. La battaglia durò cinque ore e si decise al centro dello schieramento, dove le navi ammiraglie si speronarono l'un l'altra formando un campo di battaglia galleggiante in cui si susseguirono attacchi e contrattacchi finchè il reggimento scelto degli archibugieri di Sardegna riuscì a sferrare l'attacco decisivo. Alì Pascià fu colpito a morte e sulla Sultana fu ammainata la Mezzaluna e issato il vessillo cristiano. 

Si coprirono di valore tra gli altri i Colonna e gli Orsini, sette della stessa famiglia, il conte Francesco di Savoia che cadde in battaglia, il ventitreenne Alessandro Farnese, destinato a divenire uno dei maggiori condottieri del secolo, Giulio Carafa che, preso prigioniero si liberò e si impadronì del brigantino nemico, ed i veneziani tutti che pagarono il maggior tributo di sangue. 

Il provveditore veneziano Agostino Barbarigo che comandava l'ala sinistra dello schieramento cristiano, si batté, fino a che non gli mancarono le forze, con una freccia infitta nell'occhio sinistro. Sulla sua ammiraglia, Sebastiano Venier, combatté a capo scoperto e in pantofole perché, risponde a chi gliene chiede il motivo, fanno migliore presa sulla coperta. Ha settantacinque anni e imbraccia la balestra, aiutato da un marinaio per il caricamento dell'arma, un'operazione che era ormai superiore alle sue forze. Sopraffatto dal numero viene soccorso dalle galee di Giovanni Loredan e Caterino Malipiero, che trovano la morte nella lotta.


Al termine della battaglia la Lega aveva perso più di 7.000 uomini, di cui 4.800 veneziani, 2.000 spagnoli, 800 pontifici, e circa 20.000 feriti; i turchi, contarono più di 25.000 perdite e 3.000 prigionieri. Il nome di Lepanto era entrato nella storia. Per la prima volta dopo un secolo il Mediterraneo tornò libero. A partire da questo giorno iniziò il declino dell'impero ottomano.
Nel pomeriggio del 7 ottobre, Pio V che aveva moltiplicato le preghiere a Colei che sempre aveva soccorso i cristiani nelle ore drammatiche della cristianità, stava esaminando i conti con alcuni prelati. D'improvviso fu visto levarsi, avvicinarsi alla finestra fissando lo sguardo come estatico e poi, ritornando verso i prelati esclamare: "Non occupiamoci più di affari, ma andiamo a ringraziare Iddio. La flotta cristiana ha ottenuto vittoria". 

Il Pontefice attribuì il trionfo di Lepanto all'intercessione della Vergine e volle che nelle Litanie lauretane si aggiungesse l'invocazione Auxilium Christianorum, aiuto dei cristiani. Anche il Senato Veneziano che non era composto da donnicciole, ma da uomini fieri e rotti a sfidare i più gravi pericoli in mare e in terra, volle attribuire alla Santissima Vergine il merito principale della vittoria e sul quadro fatto dipingere nella sala delle sue adunanze fece scrivere queste parole: "Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit" (non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori).



sabato 16 marzo 2013

V DOMINGO DE CUARESMA - C - 17-3-2013: San Juan 8, 1-11.



"INDICO A LOS CULPABLES EL CAMINO 
QUE TIENE QUE SEGUIR PARA 
REDIMIRSE"






Dice Jesús:

LO QUE MÁS ME DOLÍA ERA LA FALTA DE CARIDAD 
Y SINCERIDAD EN LOS ACUSADORES

"Lo que más me dolía era la falta de caridad y sinceridad en los acusadores. No mentían al acusarla. La mujer era realmente culpable, pero eran insinceros al hacer escándalo de una cosa que ellos miles de veces habían cometido y que sólo debido a su astucia o a su buena estrella había quedado oculta. Era la primera vez que pecaba, y había sido menos astuta y menos afortunada. Pero ninguno de sus acusadores y acusadoras -porque también las mujeres auque no levantaban su voz, la acusaban en el fondo del corazón- estaban exentos de culpa.

ADÚLTERO ES EL QUE LLEGA AL ACTO Y QUIEN APETECE EL ACTO 
Y LO DESEA CON TODAS SUS FUERZAS

Adúltero es el que llega al acto y quien apetece el acto y lo desea con todas sus fuerzas. La lujuria existe tanto en el que peca como en el que desea pecar. No basta no hacer el mal, es menester no desear hacerlo.
Acuérdate, María, de las primeras palabras de tu Maestro cuando te llamó del borde del precipicio donde estabas: "no basta no hacer el mal, es menester no desear hacerlo".

QUIEN SE COMPLACE EN PENSAMIENTOS SENSUALES Y ENCIENDE 
CON LECTURAS Y ESPECTÁCULOS APROPIADOS Y CON COSTUMBRE
 MALSANAS, SENSACIONES DE SENSUALIDAD, ES TAN IMPURO 
COMO EL QUE PECA MATERIALMENTE

Quien se complace en pensamientos sensuales y enciende con lecturas y espectáculos apropiados y con costumbre malsanas, sensaciones de sensualidad, es tan impuro como el que peca materialmente. Me atrevo a decir:es mucho más culpable, porque con el pensamiento va contra la naturaleza, además de que va contra la moralidad. No me refiero a actos reales que son contra la naturalezaLo único atenuante de éstos es que estén enfermos orgánica y síquicamente. Quien no tiene semejante excusa es muy inferior a la bestia más repugnante. Para condenar con justicia, es menester estar inmunes de culpa.
Os remito a dictados anteriores, cuando hablé de las condiciones esenciales para ser juez.
No me eran desconocidos los corazones de aquellos fariseos y escribas, ni los de que se unían en atacar a la culpable. Eran pecadores contra Dios y contra el prójimo. En ellos habían culpas contra el culto, contra sus padres, contra el prójimo, culpas, y muy numerosas, contra sus mujeres. Si por un milagro hubiese dicho a su sangre que escribiese sobre su frente su pecado, entre las muchas acusaciones hubiera prevalecido la de"adúlteros" de hecho o de deseo. He dicho: "Lo que sale del corazón del hombre es lo que contamina al hombre". Y fuera de mi corazón, no había ninguno de los jueces que hubiese tenido su corazón puro.

"QUE CUANTO ALGUIEN ES MÁS BUENO, TANTO MÁS ES COMPASIVO
 PARA CON LOS CULPABLES"

Sin sinceridad y sin caridad. Ni siquiera el ser semejantes a ella por la concupiscencia que los consumía, los llevaba a tener caridad. Yo era el que tenía caridad por aquella mujer humillada. Yo, el Único que debía haber tenido asco. Pero acordaos de esto: "Que cuanto alguien es más bueno, tanto más es compasivo para con los culpables".
Porque muchas veces la culpa se comete, sobre todo en el sexo débil, por esta búsqueda de consueloPor esto afirmo que quien carece de cariño para con su mujer, y aun para su hija propia, es noventa por ciento responsable de la culpa de su mujer o de sus hijas y de esas culpas responderá. Tanto el afecto necio, que es sólo una esclavitud estúpida de un hombre para con una mujer, de un padre para con una hija, cuanto una falta de afecto o, peor, una culpa de propia libido que lleva un marido a otros amores y los padres a otras preocupaciones que no sean los hijos, son incentivo para el adulterio y prostitución y como tales los condeno.Sois seres dotados de razón y os guía una ley divina y una ley moral. Envilecerse hasta llevar una conducta de salvajes o de animales debería horrorizar a vuestra gran soberbia. Pero de ésta, que en tales casos sería hasta útil,os servís para otras cosas muy diversas. 
Miré a Pedro y a Juan de modo diverso, porque al primero quise darle a entender: "Pedro, tampoco faltes tú a la caridad y sinceridad", y darle a entender como a mi futuro Pontífice: "Recuerda esta hora y juzga como tu Maestro en el porvenir"entre tanto que al segundo: joven en años, corazón de niño, le quise decir: "Tú puedes juzgar y no lo haces porque tienes mi mismos sentimientos. Gracias porque eres muy semejante a Mí". Quise que ambos se retirasen, antes de que me dirigiera a la mujer para no aumentar su pena con la presencia de dos testigos.
Aprended, ¡oh hombres inmisericordes! Por más que alguien sea culpable, hay que tratarlo con respeto y caridad. No gozarse con su envilecimiento, ni encarnizarse en él, ni siquiera con miradas curiosas. ¡Piedad, piedad para el caído!

SEÑALO A LA CULPABLE EL CAMINO QUE TIENE QUE SEGUIR 
PARA REDIMIRSE.

Señalo a la culpable el camino que tiene que seguir para redimirse. Volver a su hogar, pedir humildemente perdón y obtenerlo con una vida honesta. No ceder más a las tentaciones de la carne. No abusar de la Bondad divina y de la bondad humana para no purgar dos o más veces la culpa. Dios perdona y perdona porque es la Bondad, pero el hombre, por más que yo haya dicho: "Perdona a tu hermano setenta veces", no sabe perdonar dos.

NO LE DI LA PAZ NI LA BENDICIÓN PORQUE NO EXISTÍA EN ELLA
 TODAVÍA LA COMPLETA SEPARACIÓN DEL PECADO 
QUE ES NECESARIA PARA OBTENER EL PERDÓN

No le di la paz ni la bendición porque no existía en ella todavía la completa separación del pecado que es necesaria para obtener el perdón. Todavía no existía en su carne, y ni siquiera en su corazón la náusea por el pecado. María de Mágdala, al haber saboreado mis palabras, había experimentado disgusto por el pecado y se había acercado a Mí con una voluntad total de ser otra. En aquella otra había un fluctuar de voces de la carne y del espíritu. Ni ella misma, en medio de la turbación de la hora, había logrado poner el hacha en la raíz de su carne y cortarla para verse así libre y poder entrar en el Reino de Dios. Libre de lo que le servía de ruina, pero enriquecida con lo que era la salvación.

¿QUIERES SABER SI SE SALVÓ? NO FUI PARA TODOS SALVADOR. 
QUISE SERLO PARA CON TODOS, PERO NO LO FUI PORQUE NO TODOS
 TUVIERON LA VOLUNTAD DE QUE SE LES SALVASE

¿Quieres saber si se salvó? No fui para todos Salvador. Quise serlo para con todos, pero no lo fui porque no todos tuvieron la voluntad de que se les salvase. Y esto fue uno de los dardos más dolorosos en mi agonía de Getsemaní.
Quédate en paz, María de María, y no quieras volver a faltar más ni siquiera en las bagatelas. Bajo el manto de María no hay más que cosas puras. Recuérdalo.
Un día María mi Madre te dijo: "Yo ruego con lágrimas a mi Hijo". Y en otra ocasión: "Dejo a mi Jesús el cuidado de que me amen... Cuando me amáis vengo. Y mi llegada siempre es alegría y salvación."
Mi Madre te ama. Te he entregado a ella. Más bien te llevé conmigo, porque sé que donde puedo obtener lo que quiero con mi autoridad, ella os guía con sus caricias amorosas y os lleva mejor que YoSu tocar es un sello delante del que huye Satanás. Tienes ahora su hábito y si eres fiel a las oraciones de ambas Ordenes medita diariamente toda la vida de nuestra Madre. Sus alegrías y sus dolores. Esto es mis alegrías y mis dolores. Porque desde el momento en que el Verbo se hizo Jesús con ella y por los mismos motivos me he alegrado y llorado.

MIRA, PUES, QUE AMAR A MARÍA ES AMAR A JESÚS. 
ES AMARLO MÁS FÁCILMENTE.

AUN EN LA MUERTE EL SENO DE MARÍA ES MÁS DULCE QUE LA CUNA.
 QUIEN EXPIRA EN ELLA NO OYE MÁS QUE LAS VOCES DE LOS COROS
 ANGELICALES QUE VUELAN ALREDEDOR DE MARÍA.

Mira, pues, que amar a María es amar a Jesús. Es amarlo más fácilmente. Porque te hago que lleves la cruz y sobre ella te pongo. Por el contrario Mi Madre te lleva o está a los pies de la cruz para recibirte sobre el corazón que no sabe otra cosa más que amar. Aun en la muerte el seno de María es más dulce que la cuna. Quien expira en ella no oye más que las voces de los coros angelicales que vuelan alrededor de María. No ve tinieblas sino los rayos de la Estrella matutina. No ve lágrimas, sino su sonrisa. No conoce el miedo. ¿Quién se atreverá a arrebatar de nosotros, de los brazos de María al moribundo que amamos, que es nuestro?
No me des "gracias" a Mí. Dáselas a ella que no ha querido acordarse de otra cosa fuera del poco bien que has hecho y del amor que tienes por Mí y por este te quiere, para poner bajo sus pies lo que tu buena voluntad no lograba hacerlo. Grita: "¡Viva María!" Y quédate a sus pies, a los pies de la Cruz. Te adornarás tu vestido con rubíes de mi Sangre y de perlas de su llanto. Tendrás un vestido de reina para entrar en mi Reino.
Quédate en paz. Te bendigo."
IX. 408-411
A. M. D. G.

Ultima in mortis hora
Filium pro nobis ora,
Bonam mortem impetra,
Virgo, Mater, Domina!