sabato 29 aprile 2017

PATRONA D'ITALIA



Santa Caterina da Siena
(1347- 1380)
(estratto da Virgo virago")


"Non è buono il cavaliero se non si prova sul campo della battaglia".1
Santa Caterina da Siena

Non solo religiosa e mistica  fu l’esperienza di vita di Santa Caterina da Siena, canonizzata da Pio II nel 1461, proclamata, assieme a San Francesco d’Assisi,  Patrona d ‘Italia nel 1939 e Protettrice delle infermiere nel 1943 da  Papa Pio XII, Dottore della Chiesa Universale nel 1970 da Paolo VI  e Compatrona d'Europa da Giovanni Paolo II nel 1999, ma, coniugando la spiritualità con una grande attività pratica, anche politica e letteraria, alimentata da un intenso travaglio interiore e sostenuta da una profonda intuizione: quella dell’amore, testimoniato con ardente passione, verso il divino e verso il mondo.

Caterina nacque a Siena il 25 marzo 1347, ventesima figlia di Jacopo Benincasa, tintore di lana, e di Monna Lapa, figlia del poeta senese Puccio il Piacente.

Fin dalla più tenera età cominciò a mortificarsi fisicamente, ed  in seguito ad una visione del Cristo, ricevuta a sei anni, decise di rimanere vergine.

Intorno ai dodici anni i genitori le prospettarono il matrimonio, ma  lei, che di nascosto si dedicava a pratiche ascetiche e proprio non intendeva prendere marito, per non cedere si rase i capelli, coprì il capo con un velo e si chiuse in casa, senza piegarsi nemmeno alle opprimenti fatiche domestiche alle quali la sottoponevano per distoglierla  dai suoi propositi ascetici. 

Osteggiata dai genitori, per diversi anni condusse una vita di sacrifici, dedita solo alla preghiera, restando chiusa nella sua stanza, poi a diciotto anni, pur rimanendo nella propria abitazione, prese il velo delle Mantellate, le suore così chiamate dal mantello nero indossato sul vestito bianco dell'Ordine Terziario Domenicano. 

Nel 1370 decise di aprirsi all’esterno, cominciando a dedicarsi all'assistenza degli ammalati in ospedale, insieme ad un gruppo di discepoli che la seguivano nei numerosi spostamenti compiuti per predicare, dividendo il suo tempo tra la casa, la chiesa di San Domenico, l'ospedale e il lebbrosario, dove assisteva i malati e i moribondi. 

Si narra che un giorno, pentita del disgusto provato al cospetto  delle piaghe di un malato, bevesse l'acqua che aveva utilizzato per lavarne la  ferita, e che poi abbia esclamato:
-Non aveva gustato mai cibo o bevanda tanto dolce e squisita! -
I sonni di Caterina erano spesso accompagnati da visioni, come quella della  notte di carnevale del 1367, in cui le  apparve, accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi, il Cristo, che le donò un anello e la sposò misticamente; quando la visione sparì, l'anello restò, solo a lei visibile.

In un'altra visione Cristo le prese il cuore e lo portò via, poi ritornò con un altro ancor più  vermiglio, che affermò essere il suo e che le inserì nel costato; a ricordo del miracolo in quel punto le restò una cicatrice.

Ma Caterina non fu solo una mistica, si dedicò ad opere di carità, curò i malati, soccorse i poveri, assistette i carcerati, fu missionaria di pace, e la sua piccola stanza, una sorta di “cella" di terziaria, divenne un cenacolo di persone colte quando cominciò ad affollarsi di religiosi, di artisti e di dotti,  ma fu anche luogo di ritrovo di gente semplice e di appartenenti a ordini religiosi diversi (Domenicani, Francescani, Agostiniani, Vallobrosani, Guglielmiti) i cosiddetti "Caterinati" che, attratti dal suo carisma, vedevano in lei un punto di riferimento. 

Ciò suscitò preoccupazione nei  superiori dell'ordine, che, insospettiti, la chiamarono a Firenze per sottoporla ad un esame per valutare la veridicità dei suoi accadimenti; lei si difese splendidamente e,  dissipati dubbi e perplessità, si vide assegnare un  maestro, frate Raimondo da Capua, divenuto  in seguito suo erede spirituale. 

Ben presto in tutta Europa si diffuse la voce della sua fama e delle sacre stigmate che aveva ricevuto  il 1° aprile 1375 in una chiesetta del Lungarno, detta ora di Santa Caterina, mentre era assorta in preghiera, e cominciò ad essere onorata come santa. 

Nel 1376 i fiorentini le chiesero di intercedere presso Papa Gregorio IX per far togliere loro la scomunica, che si erano guadagnati per aver formato una lega contro lo strapotere dei francesi; allora Caterina si recò ad Avignone con le sue discepole, tre confessori ed un altare portatile, e riuscì a convincere il papa, che si lasciò  anche persuadere ad abbandonare la “cattività avignonese”, 2  in cui la Curia papale era troppo influenzata dalla politica della Francia,  ottenendo, così,  il rientro della sede papale in Roma dopo quasi settant'anni di esilio.

Nel 1378 Papa Urbano VI la chiamò a Roma per essere aiutato a ristabilire l'unità della Chiesa, contro i francesi che a Fondi avevano eletto l'antipapa Clemente VII.; Caterina lo sostenne, scrivendo diverse lettere a lui e ai capi di stato e cardinali di tutto il mondo. Insieme ai suoi discepoli e discepole,  andò, poi,  a Roma ed ancora lo difese strenuamente, ma,  il 29 aprile del 1380, a soli trentatre anni, morì, non prima, però,  di essere riuscita ad imporre come suo successore frate Raimondo di Capua, il suo padre spirituale. 

Fu sepolta nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva ma, nell'ottobre del 1381, il Papa Urbano VI accordò il permesso di staccare dal busto la Sacra Testa, che venne affidata a due frati e portata in segreto a Siena. L’11 maggio 1385, poi, con un'imponente processione, con giovani, ragazzi e    ragazze, vestiti di bianco, recanti festoni di rose e  gigli, un gruppo di Mantellate di San Domenico, presente anche Monna Lapa, la madre di Caterina,  la reliquia fu trasportata nella chiesa di San Domenico, dove tuttora giace. Le rimanenti parti del corpo, divenute reliquie, furono poste nel sarcofago sotto l'altare maggiore, ma moltissime sono oggi le altre reliquie corporali sparse nelle varie chiese italiane (ad esempio a Roma, nel monastero del Rosario a Monte Mario, si venera la mano sinistra, nella chiesa dei Ss. Domenico e Sisto una scapola, etc.).

Caterina era semianalfabeta e non di grande cultura, perché non era andata a scuola e non aveva avuto maestri, ma imparò, seppur  faticosamente a leggere, e più tardi anche a scrivere (anche se poi dettò la maggior parte dei suoi messaggi); pur non avendo, dunque, propositi letterari, i documenti che ci ha lasciato, il “Dialogo della divina provvidenza”,  e le “Lettere”,  pagine d’insolita altezza spirituale, sono fra le più belle, e le meno note, del ‘300, anche se scarsamente elaborate e, talvolta, con esagerazione d’immagini, dovute, probabilmente, all’eccessivo ardore del sentimento.

Il “Dialogo della divina provvidenza”,  una delle più notevoli opere mistiche di tutti i tempi, è in forma di colloquio tra Dio e l'anima umana, e costituisce la vera summa delle sue esperienze di fede e della sua dottrina.

Le “Lettere, in tutto 381,  indirizzate a persone di ogni condizione, uomini e donne, a tutti i potenti del suo tempo (papi, sovrani, cardinali, nobili, come Gregorio XI, il re di Francia, la regina d’Ungheria, la regina di Napoli), ma anche a frati, suore, gente comune, di mala vita, persino ad una meretrice in Perugia a petizione d’un suo fratello,3s’inseriscono nel filone letterario religioso trecentista, prevalentemente volto non alla creazione d’immagini poetiche ma ad un fine esclusivamente pratico, ed infatti  Santa Caterina se ne servì per i suoi scopi nobili: lenire i dolori del prossimo, predicare la riforma della Chiesa, restituire a Roma la sede pontificia.

Animata da intenso fervore religioso, spinta dall’autentico desiderio di rinnovamento dell’umanità, attraverso la pratica delle grandi opere predicate dal Cristo e di cui lei stessa dava nobile esempio, la carità e l'amore, la Santa scriveva (dettava ai discepoli) messaggi vigorosi, forti, e proprio l’impeto del linguaggio adoperato per spronare al rinnovamento della convivenza umana, auspicando  l'avvento della pace fra gli uomini, è l’elemento che più emoziona e maggiormente affascina ancora oggi.

Tra le varie lettere a papi, principi, prelati, popolani, senza dubbio la più suggestiva è quella che scrisse in occasione della morte di Nicolò di Tuldo, un giovane gentiluomo fiorentino accusato, nel 1375,  di aver ordito una congiura ai danni di Siena. 

Condannato a morte ingiustamente, senza che vi fossero prove precise della sua colpevolezza, nella sua cella l’uomo, adirato, non aveva voluto ricevere i conforti religiosi  da nessuno,  solo Caterina riuscì a vincere le sue resistenze; andò da lui e gli parlò, infondendo nel suo animo tanta serenità che Nicolò morì in pace e, addirittura,  il luogo del patibolo, gli apparve, invece che tenebroso, luogo santo della giustitia

La lettera è di eccezionale bellezza per l’intensità, l’impetuosità ed il vigore del linguaggio, ma colpisce  anche per la tenerezza, la commozione e la delicatezza, qualità tipicamente  femminili, e per l’accesa passionalità (uno dei testi più agghiaccianti della nostra letteratura4), tanto che spesso in passato, soprattutto ad opera di un certo decadentismo critico, fra Ottocento e Novecento, vi  si volle ravvisare un significato, pur se inconsapevolmente,  sensuale, come se il versamento reale del sangue ricevuto dal capo di Nicolò nelle sue mani avesse impresso ebbrezza fisica nell’animo di Santa Caterina. 

In realtà l’esaltazione del sangue per Caterina, non solo religiosa ardente, abbandonata a visioni, estasi e mistici abbandoni, ma anche donna energica, risoluta, autorevole, attiva all’esterno, in tempi in cui limitati erano gli spazi offerti alla donna (o la casa o il convento), che trattava alla pari i potenti dell’epoca,  disposta a predicare e pure a muovere critiche a politici e prelati, a denunciare i vizi del clero, adoperandosi instancabilmente, compiendo viaggi gravosi,  concretamente impegnata nel rinnovamento per la riforma della Chiesa, per la riconciliazione e per la pace, era solo un’ingenua maniera stilistica per esprimere la sete di martirio che, nel nome di Cristo,  per tutta la vita, aveva ricercato in favore del riscatto degli uomini.

JHS
MARIA!

venerdì 28 aprile 2017


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Sebirblu: CHE VERGOGNA! TOLTA LA PARROCCHIA A DON MINUTELLA!...: Sebirblu, 31 marzo 2017 Come lo stesso Don Minutella si aspettava, dopo la sua chiamata a raccolta per il 22 aprile prossimo ...

IL PIU' BEL CANTICO

 MAGNIFICAT


È un vero guaio, tante volte, gettarsi nella critica letteraria, pur tanto necessaria quanto deleteria, quando mette in dubbio cose ovvie. Sì, è vero che alcuni, pochi a dire il vero, ed insignificanti manoscritti attribuiscono il Magnificat ad Elisabetta, ma quando si legge il testo si comprende immediatamente che se l’unico locutore nella scena della Visitazione fosse Elisabetta, tutto l’episodio risulterebbe assurdo.


È vero che Maria nel racconto precedente ha fatto scena muta, ma verso la fine, dopo due accenni alla sua capacità di riflettere, ha pronunciato parole cariche di senso: “Ecco, io sono la serva del Signore, si compia in me quanto hai detto”. Maria si è sentita tutta di Dio, totalmente abbandonata al suo Signore. E qui, invece, si vorrebbe che Maria restasse muta, dopo le tante parole di Elisabetta e dopo aver sentito tante lodi rivolte a Lei per quello che il Signore ha operato in Lei? È assurdo. È più che logico che trasformi le cose udite in canto, inserendosi nella storia del suo popolo. Anna, la madre di Samuele, dopo aver ricevuto un figlio dal Signore ha intonato un canto (1 Sam 2,1-30). Debora, la profetessa, dopo la vittoria su Sisara, cantò al Signore (Gdc 4,5). Lo stesso fece il popolo dopo la traversata del Mar Rosso (Es 15). Lasciamo dunque cantare anche Maria, che non stona affatto, anzi, il suo canto di sapore veterotestamentario si inserisce assai bene in tutta la storia innica del suo popolo.

Elisabetta l’ha appena dichiarata “Beata” e Maria scoppia in un inno di lode: “L’anima mia magnifica il Signore...”. Sembra di vederla con le mani tese verso l’alto; guarda il cielo e scruta le profondità di Dio, e il suo canto si fa rivelazione di Dio per noi. Maria, cantando, ci parla di Dio, si fa catechista di Dio, ci educa al senso di Dio e si fa nostra voce nel lodare Dio.

Il Magnificat è un canto composto da quindici frasi, undici hanno un verbo che ha come soggetto Dio e subito appare chi è Dio per Maria e insegna chi è Dio per noi: è il Signore, l’Onnipotente, il Santo, il Misericordioso, Colui che è fedele, il Salvatore. Sono tutte definizioni che ci fanno sentire Dio presente nella nostra storia. Perciò ascoltiamo Maria.


***

“L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore. Ha guardato l’umiltà della sua serva, d’ora in poi tutti mi diranno Beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente, Santo è il suo nome”.

Dio è il Signore. Con la parola Signore si traducono quelle quattro consonanti ebraiche che esprimono il nome con cui Dio si è rivelato a Mosè che tanti traducono con: “Colui che è”. Una definizione che piace ai filosofi perché dà l’idea della staticità, dell’immutabilità ma che non ci sembra aderente al pensare biblico. Preferiamo tradurre con: “Colui che fa esistere”. In questa definizione cogliamo l’esperienza di un popolo che sente Dio all’inizio della sua esistenza, inserito nella sua storia, pronto a entrare in alleanza con loro. Anche Maria lo sperimenta così: come Colui che trasforma la sua esistenza. Essa lo contempla e lo percepisce in tutta la sua sovranità e ne ha già sperimentato e ne sperimenta tutta la potenza.
Per questo lo riconosce come l’Onnipotente e dice: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”, un titolo che risale ai Padri. Così l’hanno sperimentato Abramo, Isacco e Giacobbe quando Dio ha stretto con loro un’alleanza carica di promesse, quando è entrato nella loro vita per iniziare una storia di salvezza estesa a tutti gli uomini ed esprimevano questo titolo con immagini che fanno anche sorridere. Osservando il cielo dicevano a Dio che “tutto è opera delle sue dita”. Dio è così Onnipotente che gli è bastato un dito per creare tutte la cose. Quando però parlano di salvezza, allora dicono, come fa Maria, che “ha spiegato la potenza del suo braccio”, una frase che viene dai Salmi e dal libro dell’Esodo e che dice qualcosa alla nostra vita: quando Dio ci libera dal peccato e ci salva, deve mettere in azione tutta la sua onnipotenza, perché deve vincere anche le nostre ribelli volontà.
Ma torniamo alla Bibbia. Quando il popolo, e con esso Maria, percepiscono Dio in tutta la sua potenza, lo percepiscono anche come il “tutt’Altro”, come “il Santo”. Gli antichi dicevano: “Santo e terribile è il suo Nome”. Maria addolcisce: “Santo è il suo nome”. Dice così perché la grazia, l’immacolatezza, la santità che sente in sé non è opera sua. È Dio, il Santo, che le ha comunicato la sua santità e noi in Maria scopriamo che Dio ci chiama a essere partecipi della sua santità.
Diceva San Paolo: “Ci ha scelti per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1,4) e nel Battesimo “ci ha lavati, santificati, resi giusti” (1 Cor 6,11), Per questo San Pietro dice ai cristiani: “A immagine del Santo che vi ha scelti, siate santi anche voi” (1 Pt 1,15). La volontà di Dio è la nostra santificazione, Egli vuole, come a Maria, comunicarci la sua santità.
***“Di generazione in generazione la sua misericordia si estende su quelli che lo temono”.
Maria, contemplandolo come il Santo, non lo vede separato dal mondo degli uomini e anche noi lo possiamo costatare quando vediamo gente impegnata nel bene e in una vita onesta. È il Santo che agisce nella nostra vita. Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Poiché Dio è il Santo può perdonare all’uomo che davanti a lui si riconosce peccatore: «Non darò sfogo alla mia ira perché sono Dio e non un uomo, sono il Santo in mezzo a voi»” (Os 11,9). Dio agisce così perché “è Misericordioso e fedele”. Maria dice: “Ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia” (1,54).
Anticamente Dio stesso parlando con Mosè si era definito: “Dio misericordioso e fedele, lento all’ira e grande nell’amore”. Il concetto di Misericordia e di Fedeltà è strettamente legato a quello di “Alleanza”. Per mantenere la sua fedeltà all’uomo con cui vuole entrare in Alleanza, Dio dev’essere Misericordioso. L’uomo infatti può trovarsi in difficoltà e può cadere nell’infedeltà. Solo la misericordia, la fedeltà, la bontà, la compassione di Dio può farsi perdono, riconciliazione, salvezza. Per questo il Dio dei Padri, con la sua misericordia che attraversa i secoli, si rivela come il Dio “Salvatore”.
Anticamente si parlava anche di salvezza materiale, ma poi si è capito che si necessitava di una salvezza piena e totale, di una salvezza che è liberazione dalla radicalità stessa del male, perché è perdono, riconciliazione con i fratelli, dono di pace fatta di vicendevole aiuto e amore. Dice Dio per mezzo di Geremia: “Io perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò più del loro peccato… porrò la mia legge nel loro cuore”. (Ger 31,33ss). E per mezzo di Ezechiele: “Vi libererò da tutte le vostra iniquità, vi purificherò, sarete il mio popolo e io il vostro Dio”. (Ez 36).
Ecco Dio è la mia salvezza. E Maria dice: “Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore” (Ez 1,47). Anche Maria, la piena di grazia, chiama Dio “mio Salvatore”. Si sente una salvata. Essa sa che la sua adesione totale a Dio è inizio della definitiva salvezza; che Dio potrà definitivamente rivelarsi come il Salvatore dell’umanità intera. E nel suo canto lo contempla che irrompe nella storia per distruggere il male.
***
Dice:
 “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
Sono frasi che ci fanno sentire la grande rivoluzione di Dio. La compie senza spargimento di sangue, perché tutto tende a una totale riconciliazione. Comunque, Egli non sopporta i superbi nei pensieri del loro cuore; detesta i potenti che abusano del loro potere, aborrisce i ricchi che disprezzano i poveri. Egli non tollera queste distinzioni sociali, perché vuole che tutti vivano da fratelli, ma non vuole distruggere e annientare i superbi, i potenti e i ricchi: li vuole convertire; vuole togliere la superbia dal loro cuore e mettervi l’amore; vuole che la potenza e il potere siano veramente al servizio degli umili; vuole che i sazi riempiano di beni la mensa degli affamati.
Questo cerca Dio. Solo chi non si converte, sarà condannato, spazzato via, ma finché c’è storia Dio agisce a salvezza per tutti. E Dio, per rifare la storia umana, fatta di peccato e di sangue, indica la strada dimostrandosi come colui che preferisce gli umili, i poveri; come colui che è dalla parte degli schiantati dai potenti, dalla parte degli emarginati.
In questo senso il canto del Magnificat è una profezia di come Gesù rivelerà con il suo agire l’agire del Padre. Gesù, il Figlio di Dio, non solo è nato tra i poveri, ma è anche vissuto da povero ed ha cercato i poveri, gli umili. In linea con il canto di Maria, Gesù si presenta a Nazaret e dice: “Lo Spirito del Signore è su di me... Mi ha mandato ad annunziare il Lieto Annuncio ai poveri..., a mettere in libertà gli oppressi...” (Lc 4,14-20).

Per fare questo si avvicina anche ai ricchi, a coloro che si sentono sazi e dice: “Date in elemosina quello che avete nel piatto” (Lc 11,41). E nel Vangelo scorgiamo un ricco che dà la metà dei suoi beni ai poveri e restituisce quel che ha rubato dando quattro volte tanto. E Gesù dice che la salvezza è entrata nella sua casa (Lc 19,1-10). Un’altra volta, mentre è a pranzo, vede gente che corre a prendere i primi posti... e dice loro: “chi si esalta sarà umiliato”.
La salvezza cantata da Maria ha come base la liberazione dal peccato e, quando si dice peccato, si dice rottura di relazione tra l’uomo e Dio e degli uomini tra loro”. Imprimiamola bene nella mente questa definizione di peccato: “Rottura di relazione con Dio e con gli uomini miei fratelli”. “Rottura” perché il peccato è sempre ricerca di sé e chiusura a Dio e agli altri. Ebbene Dio, come ci ha insegnato Maria, vuole abolire queste rotture e costruire comunione, vuole confondere i superbi e quelli che si credono superiori agli altri, perché scendano dai loro troni e mettano la loro autorità a servizio della gente. Gesù è venuto per servire, e quando risorto appare pieno di potere in cielo e in terra, mette subito la sua autorità a servizio: “Sarò con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Egli, ne è simbolo l’Eucaristia, ci invita alla sua mensa, perché vuole che tutti ci sentiamo partecipi dello stesso pane, che tutti ci sentiamo in comunione con gli altri.
L’insegnamento è chiaro: la rivoluzione di Dio cantata da Maria indica il progetto di Dio sull’umanità: costruire una comunità di fratelli perché la parola d’ordine è unica: “fare comunione”.

***“Ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia. Come aveva promesso ai nostri Padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre”.
È la conclusione più logica del Magnificat. Tutta la storia di Israele, di solito infedele a Dio, è un atto di “misericordia”. Non c’era altro mezzo per mantenere le promesse fatte ai Padri e alla loro discendenza. Sia Maria però, sia la comunità cristiana sa che Dio è andato oltre questa storia antica e in Gesù, suo Figlio, ha portato a compimento in modo perfetto tutte le promesse, perché Gesù è il vero compimento di tutta la Legge e di tutti i profeti.


Preghiamo
Come è stato bello, o Maria, ascoltare il tuo canto. Sei una vera catechista di Dio, ce lo hai presentato come un Padre colmo di misericordia e di amore, ce lo hai fatto sentire vicino, accanto a noi in ogni situazione e ci hai insegnato a lodarlo. O Maria, invoca su di noi il dono dello Spirito Santo che ci aiuti a sentire le cose belle che facIciamo e che sono in noi come opera sua e a scorgerlo operante nella storia. Donaci quel sentimento profondo che ci aiuti a colloquiare con il Padre, e il Figlio e lo Spirito in una vera preghiera, fatta di lode, di ringraziamento e di adorazione. Allora riusciremo a sentire che non siamo soli perché Essi non ci abbandonano mai. Amen!
                                                                                    
Mario Galizzi SDB


IMMAGINI:1-2  © Elledici / P. Favaro / L’esultanza del canto del Magnificat di Maria, nasce dalla sua appartenenza totale a Dio. La fede l’ha condotta ad abbandonarsi totalmente al Signore, per questo è capace di gioia e di giubilo. La Vergine Maria, Marc Chagall, Zurigo / È la semplicità e umiltà di Maria che la erge al di sopra di tutte le creature. Lei non ha mai ospitato nel suo cuore la possibilità di rifiutare Dio. Il dubbio non ha attraversato la sua esistenza. Il dubbio, non il dolore. © Elledici / P. Favaro / Maria prega e canta. In lei la preghiera si fa canto perché è capace di vedere la magnificenza di Dio nella creazione e nella storia. © Elledici / N. Musio / Mediante la preghiera Maria scopre di appartenere a pieno titolo alla storia del suo popolo. Storia nella quale lei ha ora un ruolo di eccezionale importanza.

AVE MARIA PURISSIMA!

Santa Gianna Beretta Molla



Santa Gianna Beretta Molla 
Madre di famiglia
Magenta, Milano, 4 ottobre 1922 - 28 aprile 1962

Estremamente limpida, estremamente graziosa. Così appare la dottoressa Gianna Beretta all’ingegnere Pietro Molla nei primi incontri. Si conoscono nel 1954 e si sposano a Magenta il 24 settembre 1955. Nella famiglia di lei, i Beretta milanesi, i 13 figli erano stati ridotti a otto dall’epidemia di “spagnola” dopo la guerra 1915/18 e da due morti nella prima infanzia. Dagli otto vengono fuori una pianista, due ingegneri, quattro medici e una farmacista. Uno degli ingegneri, Giuseppe, si fa poi sacerdote; e due dei medici diventeranno religiosi: Madre Virginia e Padre Alberto, missionari. 

Gianna, la penultima degli otto, nata nella casa dei nonni a Magenta, è medico chirurgo nel 1949 e specialista in pediatria nel 1952. Continua però a curare tutti, specialmente chi è vecchio e solo. Medico a 360 gradi. Per lei tutto è dovere, tutto è sacro: "Chi tocca il corpo di un paziente", dice, "tocca il corpo di Cristo". I coniugi vivono la robusta tradizione religiosa familiare (Messa e preghiera quotidiana, vita eucaristica) inserendola felicemente nella modernità. Gianna ama lo sport (sci) e la musica; dipinge, porta a teatro e ai concerti il marito, grande dirigente industriale sempre occupato. Vivono a Ponte Nuovo di Magenta, e lei arricchisce di novità gioiose anche la vita della locale Azione cattolica femminile: i “ritiri” sono momenti di forte interiorità, e lei vi aggiunge occasioni continue di festa: è davvero la collaboratrice della loro gioia. Vive questo incarico come la missione di medico: dopo la sua morte, il marito leggerà gli appunti con cui lei preparava gli incontri, scoprendovi "una connessione indissolubile tra amore e sacrificio". 
Nascono i figli: Pierluigi nel 1956, Maria Rita (Mariolina) nel 1957, Laura nel 1959. Settembre 1961, quarta gravidanza, ed ecco la scoperta di un fibroma all’utero, ecco l’ospedale, la gravità sempre più evidente del caso, la prospettiva di rinuncia alla maternità per non morire. E per non lasciare soli tre orfani. Ma Gianna ha la sua gerarchia di valori, che colloca al primo posto il diritto a nascere. E così decide: a prezzo della sua vita e del dolore dei suoi, a dispetto di tutto, Gianna Emanuela nasce, e sua madre può ancora tenerla tra le braccia, prima di morire il 28 aprile 1962. Una morte che è un messaggio luminoso d’amore. Ma ogni giorno della sua esistenza era stato già vissuto da Gianna nella luce. Proclamandola beata in Roma il 24 aprile 1994, Giovanni Paolo II ha voluto esaltare, insieme all’eroismo finale, la sua esistenza intera, l’insegnamento di tutta una vita. Così parla per lei Gianna Emanuela, la figlia nata dal suo sacrificio: "Sento in me la forza e il coraggio di vivere, sento che la vita mi sorride". E vuole rendere onore alla mamma, "dedicando la mia vita alla cura e all’assistenza agli anziani".
E' stata proclamata santa da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004.


La famiglia


Gianna Beretta Molla nacque a Magenta (Milano), nella casa di campagna dei nonni paterni, da genitori profondamente cristiani, entrambi Terziari francescani, il 4 ottobre 1922, festa di San Francesco d’Assisi, e l’11 ottobre, nella Basilica di San Martino, ricevette il S. Battesimo con il nome di Giovanna Francesca.
Era la decima di tredici figli, cinque dei quali morirono in tenera età e tre si consacrarono a Dio: Enrico, medico missionario cappuccino a Grajaù, in Brasile, col nome di padre Alberto; Giuseppe, sacerdote ingegnere nella diocesi di Bergamo; Virginia, medico religiosa canossiana missionaria in India.
La famiglia Beretta  visse sino al 1925 a Milano, in Piazza Risorgimento n.10; durante i 18 anni della sua residenza milanese, frequentò assiduamente la Chiesa dei Padri Cappuccini in Corso Monforte.
Nel 1925, dopo che l’influenza spagnola si era portata via tre dei cinque figli che morirono in tenera età, e a seguito di un principio di tubercolosi della sorella maggiore Amalia, di sedici anni, la famiglia si trasferì a Bergamo in Borgo Canale n.1, dove l’aria di collina era più salubre.
Il papà di Gianna, Alberto, nato come lei a Magenta, era impiegato al Cotonificio Cantoni, e fece enormi sacrifici perché tutti i figli potessero studiare sino alla laurea, riducendo tutte quelle spese che riteneva essere spese inutili, come quando, di punto in bianco, smise di fumare il suo sigaro. Uomo dalla fede profonda, dalla pietà sincera, convinta e gioiosa, fu loro di grande esempio cristiano: ogni giorno si alzava alle 5 per recarsi alla S. Messa ed iniziare così, davanti al Signore e nel Suo nome, la sua giornata di lavoro. Anche la mamma, Maria De Micheli, nata a Milano, era donna dalla fede profonda, dall’ardente spirito di carità, dal carattere umile e al tempo stesso forte, fermo e deciso. Si recava anch’ella ogni giorno alla S. Messa, insieme ai suoi figlioli, dopo che il marito era partito per raggiungere con il treno, a Milano, il suo posto di lavoro. Mamma Maria si occupò di ciascun figlio come se ne avesse avuto uno solo; correggeva i suoi figlioli aiutandoli a capire i loro sbagli e talvolta bastava il solo sguardo. Fu loro sempre vicina: imparò persino il latino e il greco per seguirli meglio negli studi.



La giovinezza



Gianna, sin dalla prima giovinezza, accolse con piena adesione il dono della fede e l’educazione limpidamente cristiana che ricevette dai suoi ottimi genitori, che con vigile sapienza la accompagnarono nella crescita umana e cristiana e la portarono a considerare la vita come un dono meraviglioso di Dio, ad avere una fiducia illimitata nella Divina Provvidenza, ad essere certa della necessità e dell’efficacia della preghiera. Fu da loro educata all’essenziale, alla sensibilità verso i poveri e le missioni, secondo lo stile francescano.
Immersa in questa atmosfera familiare di grande fede e amore per il Signore, Gianna ricevette la sua Prima Comunione a soli cinque anni e mezzo, il 4 aprile 1928, nella Parrocchia Prepositurale di Santa Grata a Bergamo Alta. Da quel giorno andò con la mamma tutte le mattine alla Messa: la S. Comunione divenne “il suo cibo indispensabile di ogni giorno”, sostegno e luce della sua fanciullezza, adolescenza e giovinezza. Il 9 giugno 1930 ricevette la S. Cresima nel Duomo di Bergamo.
Crebbe serena, prodigandosi per i fratelli e le sorelle, senza mai stare in ozio: amava tutte le cose belle, la musica, la pittura, le gite in montagna.
In quegli anni non le mancarono prove, sofferenze e difficoltà, che però non produssero traumi o squilibri in Gianna, data la ricchezza e la profondità della sua vita spirituale, ma anzi ne affinarono la sensibilità e ne potenziarono la virtù.
Nel gennaio 1937 morì la sua carissima sorella Amalia, all’età di 26 anni, e la famiglia si trasferì a Genova Quinto al Mare, città che era anche sede universitaria e favoriva, così, lo stare tutti insieme, come era sempre stato desiderio di papà Alberto. Qui Gianna si iscrisse alla 5ª ginnasio presso l’Istituto delle Suore Dorotee.
Negli anni della residenza genovese, Gianna maturò profondamente la sua vita spirituale.
Durante un corso di S. Esercizi Spirituali, predicato per le alunne della scuola delle Suore Dorotee dal Padre Gesuita Michele Avedano nei giorni 16-18 marzo 1938, Gianna, a soli quindici anni e mezzo, fece l’esperienza fondamentale e decisiva della sua vita. Di questi Esercizi è rimasto il quadernetto, di trenta paginette, di Ricordi e Preghiere di Gianna, tra i cui propositi si legge: “Voglio temere il peccato mortale come se fosse un serpente; e ripeto di nuovo: mille volte morire piuttosto che offendere il Signore”. E tra le sue preghiere: “O Gesù ti prometto di sottomettermi a tutto ciò che permetterai mi accada, fammi solo conoscere la tua Volontà…”.
Contribuì in modo determinante a far maturare in pienezza il cammino spirituale di Gianna anche l’azione pastorale dell’ottimo Parroco di Quinto al Mare, il noto liturgista Mons. Mario Righetti: egli, che divenne suo direttore spirituale, l’ebbe attiva collaboratrice nell’Azione Cattolica come delegata delle Piccolissime, e le inculcò l’amore alla liturgia, che fu per lei una fonte di vita spirituale; proprio a Genova ella acquistò il messalino quotidiano del Caronti, che usò ogni giorno.
Finita la quinta ginnasiale, i genitori di Gianna credettero bene farle sospendere le scuole per un anno affinchè rinforzasse la sua delicata costituzione, e lei si sottomise docilmente, passando così un anno in dolce compagnia dei genitori, contenta di avere l’occasione di conoscerli maggiormente per poter poi imitare sempre più le loro virtù.
Nell’ottobre 1939 riprese gli studi, frequentando il liceo classico nell’Istituto delle Suore Dorotee di Lido d’Albaro.
I bombardamenti su Genova provarono molto mamma Maria, già debole di cuore, e così la famiglia, nell’ottobre 1941, ritornò a Bergamo, nella casa dei nonni materni a San Vigilio.
Fu qui che Gianna, proprio nell’anno della maturità classica, perse entrambi i genitori, a poco più di quattro mesi di distanza l’una dall’altro, prima la mamma, il 29 aprile 1942, all’età di 55 anni, e poi il papà, il 10 settembre, all’età di 60 anni.
La maturità



Dopo la morte dei genitori, nell’ottobre 1942 Gianna ritornò, con tutti i fratelli e le sorelle, a Magenta, nella casa dove era nata.
Nel novembre dello stesso anno si iscrisse e frequentò la Facoltà di Medicina e Chirurgia, prima a Milano e poi a Pavia, dove si laureò il 30 novembre 1949.
Negli anni dell’università fu giovane dolce, volitiva e riservata, e andò sempre più affinando la sua spiritualità: quotidianamente ella partecipava alla S. Messa e alla S. Comunione, nel Santuario dell’Assunta nei giorni feriali, faceva la Visita al SS. Sacramento e la meditazione, recitava il S. Rosario.
Furono questi gli anni in cui, insieme alle sorelle Zita e Virginia, Gianna si inserì nella vita della comunità parrocchiale di San Martino, offrendo la propria collaborazione al Parroco, Mons. Luigi Crespi, e lavorando intensamente nell’educazione della gioventù nell’Oratorio delle Madri Canossiane, che divenne la sua seconda casa.
Mentre si dedicava con diligenza agli studi di medicina, tradusse la sua grande fede in un impegno generoso di apostolato tra le giovani nell’Azione Cattolica e di carità verso i vecchi e i bisognosi nelle Conferenze delle Dame di San Vincenzo, sapendo che “a Dio piace chi dona con entusiasmo” (2 Cor. 9,7): amava Dio e desiderava e voleva che molti lo amassero.
L’impressione che lasciava è riassunta da una sua compagna di liceo: “Gianna donava il suo sorriso aperto, pieno di dolcezza e di calma, riflesso della gioia serena e profonda dell’anima in pace”.
Dopo la laurea in Medicina, il 1 luglio 1950 Gianna aprì un ambulatorio medico INAM a Mesero, mentre a Magenta continuò a sostituire, al bisogno, il fratello medico Ferdinando.
Si specializzò in Pediatria a Milano il 7 luglio 1952, e predilesse, tra i suoi assistiti, poveri, mamme, bambini e vecchi.
Mentre compiva la sua opera di medico, che sentiva e praticava come una missione, premurosa di aggiornare la sua competenza e di giovare al corpo e all’anima della sua gente, accrebbe il suo impegno generoso nell’Azione Cattolica, prodigandosi per le “giovanissime”, e, al tempo stesso, continuò a sfogare con la musica, la pittura, lo sci e l’alpinismo la sua grande gioia di vivere e di godersi l’incanto del creato.
Si interrogava, pregando e facendo pregare, sulla sua vocazione, che considerava anch’essa un dono di Dio, perché: “Dal seguire bene la nostra vocazione dipende la nostra felicità terrena ed eterna.”
Le lettere del fratello padre Alberto, che parlavano del lavoro cui doveva far fronte da solo ogni giorno, maturarono in lei la specifica vocazione missionaria e la decisione di raggiungerlo a Grajaù per aiutarlo. Ma la sua costituzione fisica non era robusta, e il suo direttore spirituale riuscì a convincerla che questa non era la sua strada. Gianna si rasserenò e attese che il Signore le desse un segno.
L’8 dicembre 1954, in occasione della celebrazione della Prima Messa di padre Lino Garavaglia da Mesero, Gianna ebbe il suo primo incontro ufficiale con l’uomo della sua vita, l’ingegner Pietro Molla, dirigente della S.A.F.F.A., la famosa fabbrica di fiammiferi di Magenta, appartenente egli pure all’Azione Cattolica e laico impegnato nella sua parrocchia di Mesero; Gianna e Pietro erano stati entrambi invitati da padre Lino Garavaglia.



Il fidanzamento e il matrimonio



Il fidanzamento ufficiale si tenne l’11 aprile 1955, lunedì di Pasqua, con la S. Messa celebrata da Don Giuseppe, fratello di Gianna,  nella Cappella delle Madri Canossiane a Magenta.
Gianna e Pietro vissero il loro amore alla luce della fede. “Carissimo Pietro…”, gli scrisse Gianna nella sua prima lettera, il 21 febbraio 1955, “ora ci sei tu, a cui già voglio bene ed intendo donarmi per formare una famiglia veramente cristiana.” “Ti amo tanto tanto, Pietro, - gli scrisse il 10 giugno 1955 - e mi sei sempre presente, cominciando dal mattino quando, durante la S. Messa, all’Offertorio, offro, con il mio, il tuo lavoro, le tue gioie, le tue sofferenze, e poi durante tutta la giornata fino alla sera”.
Gianna godette il periodo del fidanzamento, radiosa nella gioia e nel sorriso. Ringraziava e pregava il Signore. Era chiarissima nei suoi propositi e nelle progettazioni della nuova famiglia, e, al tempo stesso, era meravigliosa nel trasmettere a Pietro la sua grande gioia di vivere, nel chiedergli come doveva essere e ciò che doveva fare per renderlo felice, nell’invitarlo a ringraziare con lei il Signore per il dono della vita e di tutte le cose belle.
Si preparò spiritualmente a ricevere il “Sacramento dell’Amore” con un triduo, S. Messa e S. Comunione, che propose anche al futuro marito: Pietro nella Chiesetta della Madonna del Buon Consiglio a Ponte Nuovo, lei nel Santuario dell’Assunta a Magenta. Pietro ringraziò Gianna del santo pensiero del Triduo, e lo accolse con tutto l’entusiasmo.
Gianna e Pietro si unirono in matrimonio il 24 settembre 1955, nella Basilica di San Martino a Magenta. Si stabilirono a Ponte Nuovo, nell’accogliente villetta riservata alla famiglia del Direttore degli Stabilimenti S.A.F.F.A., a pochi metri di distanza dalla Chiesetta della Madonna del Buon Consiglio, dove Gianna si recò quotidianamente a pregare e a partecipare alla S. Messa.
Nella piccola frazione di Ponte Nuovo Gianna, dal 1956, svolse con dedizione il compito di responsabile del Consultorio delle mamme e dell’Asilo nido facenti capo all’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (O.N.M.I.), e prestò assistenza medica volontaria nelle Scuole Materna ed Elementare di Stato.
Fu moglie felice, e il Signore presto esaudì il suo grande desiderio di diventare mamma più che felice di tanti bambini: il 19 novembre 1956 nacque Pierluigi, l’11 dicembre 1957 Maria Zita (Mariolina) e il 15 luglio 1959 Laura, tutti e tre nati nella casa di Ponte Nuovo.
Gianna seppe armonizzare, con semplicità ed equilibrio, i suoi doveri di madre, di moglie, di medico a Mesero e a Ponte Nuovo, e la sua grande gioia di vivere.
In questa armonia, continuò a vivere la sua grande fede, conformando ad essa il suo operare e ogni sua decisione, con coerenza e gioia.
Nella comunione di vita e d’amore della famiglia, che la nascita dei figli aveva reso ancora più ampia ed impegnativa, Gianna si sentì sempre pienamente appagata.

Il mistero del dolore e la fiducia nella Provvidenza



Nel settembre 1961, verso il termine del secondo mese di una nuova gravidanza, Gianna fu raggiunta dalla sofferenza e dal mistero del dolore: si presentò un voluminoso fibroma, tumore benigno, all’utero. Prima dell’intervento operatorio di asportazione del fibroma, eseguito nell’Ospedale San Gerardo di Monza, pur ben sapendo il rischio che avrebbe comportato il continuare la gravidanza, supplicò il chirurgo di salvare la vita che portava in grembo e si affidò alla preghiera e alla Provvidenza. La vita fu salva. Gianna ringraziò il Signore e trascorse i sette mesi che la separavano dal parto con impareggiabile forza d’animo e con immutato impegno di madre e di medico. Trepidava e temeva anche che la creatura che portava in grembo potesse nascere sofferente e pregava Dio che così non fosse.
Alcuni giorni prima del parto, pur confidando sempre nella Provvidenza, era pronta a donare la sua vita per salvare quella della sua creatura. “Mi disse esplicitamente” - ricorda il marito Pietro - “con tono fermo e al tempo stesso sereno, con uno sguardo profondo che non dimenticherò mai: Se dovete decidere fra me e il bimbo, nessuna esitazione: scegliete - e lo esigo - il bimbo. Salvate lui”.
Pietro, che conosceva benissimo la generosità di Gianna, il suo spirito di sacrificio, la ponderatezza e la forza delle sue scelte e delle sue decisioni, si sentì nell’obbligo di coscienza di doverle rispettare, anche se potevano avere conseguenze estremamente dolorose per lui e per i loro figli.
Per Gianna la creaturina che portava in grembo aveva gli stessi diritti alla vita di Pierluigi, Mariolina e Laura, e lei sola, in quel momento, rappresentava, per la creaturina stessa, lo strumento della Provvidenza per poter venire al mondo; per gli altri figli, la loro educazione e la loro crescita, ella faceva pieno affidamento sulla Provvidenza attraverso i congiunti.
La scelta di Gianna fu dettata dalla sua coscienza di madre e di medico e può essere ben compresa solo alla luce della sua grande fede, della sua ferma convinzione del diritto sacro alla vita, dell’eroismo dell’amore materno e della piena fiducia nella Provvidenza.

Il sacrificio e il dono della vita



Nel pomeriggio del 20 aprile 1962, Venerdì Santo, Gianna fu nuovamente ricoverata nell’Ospedale S. Gerardo di Monza, dove le fu provocato il parto, per espletarlo per vie naturali, ritenuta la via meno rischiosa, senza esito favorevole.
Il mattino del 21 aprile, Sabato Santo, diede alla luce Gianna Emanuela, per via cesarea, e per Gianna iniziò il calvario della sua passione, che si accompagnò a quella del suo Gesù sul Monte Calvario.
Già dopo qualche ora dal parto le condizioni generali di Gianna si aggravarono: febbre, sempre più elevata, e sofferenze addominali atroci per il subentrare di una peritonite settica.
“Gianna”, ricorda la sorella Madre Virginia, che, rientrata inspiegabilmente e provvidenzialmente dall’India potè assisterla nella sua agonia, “solo raramente svelava le sue sofferenze. Ha rifiutato ogni calmante per essere sempre consapevole di quanto avveniva e presente a se stessa. Non solo, ma per essere lucida nel suo rapporto con il suo Gesù, che costantemente invocava”. “Sapessi quale conforto ho ricevuto baciando il tuo Crocifisso!”, le disse Gianna, “Oh, se non ci fosse Gesù che ci consola in certi momenti!…”.
“Attingeva la forza del suo saper soffrire”, ricorda ancora Madre Virginia, “dalla preghiera intima manifestata in brevi espressioni di amore e di offerta: “Gesù ti amo” – “Gesù ti adoro” – “Gesù aiutami” – “Mamma aiutami” – “Maria…”, seguite da silenziose riflessioni”.
Nonostante tutte le cure praticate, le sue condizioni peggiorarono di giorno in giorno.
Desiderò ricevere Gesù Eucaristico anche giovedì e venerdì: causa l’incoercibile vomito, con suo grande rincrescimento, per non mancare di rispetto al Signore, si accontentò di ricevere sulle labbra una minima parte dell’Ostia.
Il fratello Ferdinando aveva accettato da Gianna l’incarico di avvisarla quando fosse giunto il momento della sua morte con una frase stabilita. Ferdinando non ebbe il coraggio di eseguirlo: ne incaricò Madre Virginia, che, al momento opportuno, disse a Gianna: “Coraggio, Gianna, Papà e Mamma sono in Cielo che ti aspettano: sei contenta di andarvi?” “Nel movimento del suo ciglio”, ricorda Madre Virginia, “si potè leggere la sua completa e amorevole adesione alla Volontà Divina, anche se velata dalla pena di dover lasciare i suoi amati figli ancor tanto piccoli. Gianna, come il suo Gesù, si consegnò al Padre”.
All’alba del 28 aprile, Sabato in Albis, venne riportata, come da suo desiderio precedentemente espresso al marito Pietro, nella sua casa di Ponte Nuovo, dove morì alle ore 8 del mattino. Aveva solo 39 anni.
I suoi funerali, celebrati nella Chiesetta di Ponte Nuovo, furono una grande manifestazione unanime di profonda commozione, di fede e di preghiera.
Fu sepolta nel Cimitero di Mesero, dove riposa tuttora nella Cappella di famiglia, mentre rapidamente si diffuse la fama di santità per la sua vita e per il gesto di amore grande, incommensurabile, che l’aveva coronata.

Fonte: www.giannaberettamolla.org

JHS
MARIA!