giovedì 27 aprile 2017

Sursum corda!

In alto i cuori!

11. L’11ma opera fatta dal nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo in questo mondo fu che dopo aver digiunato nel deserto cominciò a predicare e proclamare ad alta voce: Convertitevi, perché è vicino il Regno dei Cieli! (Mt. 4, 17). 

Prima del digiuno non si manifestò, ma volle fare penitenza di nascosto e in occulto nel deserto. Lasciato poi il deserto, istruiva le genti dicendo: “Fate penitenza” e indicava loro qual vita dovevano vivere e insegnava loro come potessero evitare i peccati. 

E facendo questo ricorreva villaggi, città e castelli. E come con parole insegnava la sua santa dottrina, così anche la mostrava con le sue opere. Perciò il libro degli Atti degli Apostoli (At. 1, 1) dice: Ciò che Gesù fece ed insegnò fin dal principio.

      Buona gente [nel manoscritto: bona gent], grande sarebbe la benignità del re di Aragona se egli medesimo percorresse l’intero suo Regno ed egli stesso nelle piazze pubblicasse e raccomandasse la sua legge e i suoi ordinamenti. 
Bene, proprio così ha fatto  Gesù, Re dei Re e Signore dei signori, lodando potentemente la sua legge, e nel caso non trovasse un pulpito adatto niente lo fermava ma usava qualunque podio o scala delle piazze e di là esponeva la sua legge; se all’inizio non aveva tanta reputazione tra giudei e farisei perché si fermassero ad ascoltare le sue prediche, dopo però, perché la sua fama crebbe tanto, volevano toglierlo di mezzo.

      Questo lo ripresenta il sacerdote quando dice ad alta voce il Prefazio: “In alto i cuori!”. Per mostrare che così come Gesù Cristo parlava con la bocca e insegnava con l’esempio, ugualmente anche il sacerdote, dicendo il Prefazio, tiene o deve tenere le mani alzate e non abbassate, per così mostrare ch’egli, che predica la parola di Dio, deve con l’esempio e i fatti  dimostrare quelle parole che annunzia e proclama. 

Perciò san Paolo attribuendo a Gesù Cristo tutto questo diceva: Non oserei infatti parlare di ciò che Cristo non avesse operato per mezzo mio per condurre i pagani all’obbedienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito Santo (Rm. 15, 18-19).  Così ogni predicatore, ecc.
JHS
MARIA!

SAN LUIGI MARIA G. de MONTFORT


La formazione spirituale


Secondo dei diciotto figli di Jean-Baptiste (1647-1716), avvocato, e di Jeanne Robert de la Vizeule (1649-1718), Luigi Grignion nasce il 31 gennaio 1673 a Montfort-la-Cane, oggi Montfort-sur-Meu, in Bretagna, nella Francia nordoccidentale. La sua vita, breve secondo i normali criteri di valutazione - morirà a quarantatré anni -, s’iscrive quasi perfettamente entro i limiti cronologici (1680-1715) del periodo trattato dallo storico Paul Hazard (1878-1944) nella sua opera sulla crisi della coscienza europea, cioè l’epoca dei razionalisti e dei libertini, del deismo e del giansenismo, dell’attacco contro le credenze tradizionali, soprattutto in Francia. 
L’aver intuito l’esistenza di un’unità di fondo di queste correnti e tendenze è il grande merito di Montfort, che si dedicherà alla riconquista delle anime con ardente carità missionaria.

Egli riceve la prima educazione in una famiglia profondamente cristiana e manifesta molto presto attenzione alla vita interiore, vocazione all’apostolato e una tenera devozione alla Santa Vergine, espressa anche con l’aggiunta del nome di Maria a quello di Luigi in occasione della Cresima. Compie quindi gli studi umanistici e filosofici nel collegio San Tommaso Becket di Rennes, tenuto dai padri gesuiti, dove stringe amicizia con il futuro canonico Jean-Baptiste Blain (1674-1751), che ha lasciato una preziosa testimonianza di prima mano sulla sua vita, e con Claude-François Poullart des Places (1679-1709), più tardi fondatore della Congregazione dello Spirito Santo, e matura la vocazione sacerdotale.

Nell’autunno del 1692 si trasferisce a Parigi per studiare teologia alla Sorbona ed entra, grazie a una borsa di studio, nel seminario di Saint-Sulpice, vivaio del clero di Francia, distinguendosi per il rigore ascetico e per i gesti di carità, e alimentandosi alla grande scuola spirituale francese del secolo XVII, il cui inizio è fatto risalire al card. Pierre de Bérulle (1575-1629), principale artefice della Riforma cattolica in Francia. Il 5 giugno 1700, a ventisette anni, riceve l’ordinazione sacerdotale e comincia a dedicarsi al riscatto spirituale del popolo, rianimandone la fede e difendendone la pietà contro gli attacchi degli innovatori.

Nel novembre del 1701, nominato cappellano dell’ospedale di Poitiers dal vescovo diocesano, mons. Claude de La Poype de Vertrieu (1655-1732), si preoccupa di porre ordine, spirituale e materiale, in quella "povera Babilonia", stimolando riforme e dando esempi di grande abnegazione. 
In città conosce Marie-Louise Trichet (1684-1759), la futura beata suor Maria Luisa di Gesù, figlia del procuratore generale, con la quale fonderà le Figlie della Carità, che si dedicheranno all’istruzione dei fanciulli e all’assistenza negli ospedali. 

Tuttavia, un uragano furioso — scatenato dagli scettici e dai giansenisti, che mal ne sopportavano lo zelo missionario, la purezza morale e la profonda devozione mariana — si leva contro la sua predicazione fin dall’inizio. Le resistenze e le ostilità sono tali che dopo quattro anni deve lasciare l’incarico, nonostante l’affetto e la gratitudine dei malati, dimostrati anche in modo clamoroso.

Si trattiene a Poitiers ancora un anno, quindi, provando il desiderio di dedicarsi alla salvezza degl’infedeli, compie un pellegrinaggio a Roma, a piedi, per consigliarsi con il Vicario di Cristo. Papa Clemente XI (1700-1721), ricevendolo in udienza il 6 giugno 1706, lo dissuade da quel proposito, gli conferisce il titolo di Missionario Apostolico e gl’ingiunge di riprendere l’apostolato in Francia.

L’attività missionaria


Poiché la diocesi di Poitiers continua a essergli preclusa, Montfort si dedica alla predicazione nella nativa Bretagna e in Vandea, proseguendo la tradizione delle missioni al popolo, espressione del movimento missionario sorto agli inizi del secolo XVII e realizzato da personalità eminenti come san Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), san Giovanni Eudes (1601-1680) e il gesuita beato Giuliano Maunoir (1606-1683).


Luigi Maria Grignion è l’ultimo di questi grandi missionari e, sebbene i suoi metodi innovassero solo aspetti secondari, immette nella loro applicazione un dinamismo creativo e un ardore apostolico eccezionali. Le sue missioni sono caratterizzate dalla predicazione del catechismo e da grandi manifestazioni pubbliche di culto, soprattutto da solenni processioni, che culminano nella rinnovazione da parte dei partecipanti delle promesse battesimali e nell’innalzamento, in luogo eminente, della croce della missione. 


Egli dà grande importanza a queste pratiche, sia per rendere visibili le principali verità della fede e per radicare gli effetti della sua ardente predicazione, sia per prendere una posizione chiara nei confronti degli innovatori, che attaccavano proprio queste manifestazioni in nome e sotto il pretesto di una religiosità più intima e più austera. 
Una parte di rilievo nella sua predicazione hanno anche i canti popolari, da lui composti in gran numero e utilizzati non solo per trasmettere il messaggio cristiano e per educare le menti, ma anche per scaldare i cuori dei semplici e per scuotere quelli più induriti.

Allo scopo di perpetuare la sua opera Montfort fonda la "Compagnia di Maria", una congregazione di sacerdoti, detti monfortani, votati unicamente alle missioni al popolo. 

Nel 1708, a Nantes, fonda anche l’associazione laicale degli Amici della Croce, alla quale indirizzerà sei anni dopo la Lettera agli Amici della Croce — l’unico scritto dato alle stampe quando era ancora in vita —, in cui condensa il suo pensiero sul significato della Croce nella vita cristiana.
Nella Croce egli vede la fonte di una superiore sapienza, la sapienza cristiana, che si è incarnata ed e stata crocifissa, che insegna all’uomo a preporre la fede alla ragione orgogliosa, la retta ragione ai sensi ribelli, la morale alla volontà sregolata, l’eterno al contingente e al transitorio. 

Analoghe considerazioni aveva svolto nel suo primo scritto, L’amore dell’eterna Sapienza, composto a Parigi fra la fine del 1703 e l’inizio del 1704, in cui oppone la Saggezza vera e profonda, quella consistente nell’unirsi a Cristo e alla sua Croce, alla saggezza superficiale e salottiera che cominciava a dominare la cultura francese laica e, in parte, quella cattolica.

Il successo delle sue iniziative è grande, ma grandi sono anche le ostilità incontrate e le prove affrontate. 


-Così, per esempio, il vescovo di Saint-Malo, mons. Vincenzo Francesco Desmarets (1657-1739), che simpatizza per i giansenisti, in un primo tempo gli proibisce ogni predicazione, quindi, ritirato questo drastico ordine, gli limita comunque la possibilità d’azione. 
-Ancor più dolorosa è la prova che lo aspetta nella diocesi di Nantes, il cui vescovo, mons. Egidio de Beauveau (1653-1717), nega la benedizione al Calvario di Pontchâteau, costruito in quindici mesi grazie al concorso di una moltitudine di persone di ogni sesso, età e condizione sociale, e distrutto poco dopo per ordine di re Luigi XIV di Borbone (1638-1715), sobillato da nemici di Montfort. 
-Il Calvario, ricostruito anni dopo, sarà distrutto una seconda volta durante la Rivoluzione francese; oggi, nuovamente ricostruito, è un centro di pietà e una meta di pellegrinaggi.
-Finalmente, quasi a divina ricompensa della carità e dell’umiltà dimostrate, Luigi Maria Grignion viene chiamato nelle diocesi di Luçon e di La Rochelle dai rispettivi vescovi, mons. Jean-François de Valdèries de Lescure (1644-1723) e mons. Etienne de Champflour (1647-1724), ferventi antigiansenisti, e vi predica durante gli ultimi cinque anni di vita. In quel periodo compone Il segreto ammirabile del Santo Rosario per ribattere alle obiezioni formulate contro tale forma di devozione, per spiegare i sacri misteri e per diffonderne ulteriormente la pratica.
Consumato dalle fatiche e dalle sofferenze, nonostante una tempra straordinariamente resistente, muore il 28 aprile 1716, al suo posto di combattimento, come un autentico soldato di Cristo, predicando una missione a Saint-Laurent-sur-Sèvre.

San Luigi Maria attraverso i secoli


La causa di beatificazione di Luigi Maria Grignion viene introdotta nel 1838, Papa Pio IX (1846-1878) ne proclama l’eroicità delle virtù il 29 settembre 1869, Papa Leone XIII (1878-1903) lo proclama beato il 22 gennaio 1888 e Papa Pio XII (1939-1958) lo eleva alla gloria degli altari il 20 luglio 1947.


* Il più alto riconoscimento della dottrina spirituale di Grignion da Montfort, che molti vorrebbero fosse dichiarato Dottore della Chiesa, è venuto da Papa beato Giovanni Paolo II il quale, oltre a trarre il motto del suo pontificato, Totus tuus, proprio dagli scritti del santo, nell’enciclica Redemptoris Mater, del 25 marzo 1987, lo indica come testimone e come guida della spiritualità mariana. Inoltre, il 20 luglio 1996 ha stabilito che il suo nome fosse iscritto nel Calendario generale della Chiesa, proponendone quindi la venerazione a tutti i fedeli.


Tuttavia, per oltre un secolo dopo la morte, l’influenza del "buon padre di Montfort", come il santo era chiamato comunemente dai fedeli, si manifesta soprattutto grazie alle sue fondazioni, fra cui anche quella dei Fratelli dell’Istruzione cristiana di San Gabriele, riorganizzata dal sacerdote Gabriel Deshayes (1767-1841). Queste istituzioni, inizialmente poco consistenti e oggetto di violenti attacchi da parte di giansenisti e di razionalisti nonché di persecuzioni durante la Rivoluzione francese e a opera della massonica Terza Repubblica francese, avranno nel tempo un grande sviluppo, segno del fecondo lascito spirituale del loro fondatore.


In particolare, l’opera missionaria di Montfort e dei suoi successori porrà le basi spirituali della resistenza contro-rivoluzionaria delle genti della Bretagna e della Vandea, cioè delle regioni nelle quali egli poté svolgere liberamente il suo apostolato. I sacerdoti della Compagnia furono le guide spirituali di quei coraggiosi improvvisatisi soldati per Dio, per la Francia e per il re, e i canti composti da Luigi Maria Grignion si contrapposero a quelli rivoluzionari.


Il ritrovamento fortuito, nel 1842, del manoscritto del Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, sepolto per oltre un secolo "nel silenzio d’un cofano", secondo la profetica visione del suo autore, dà inizio alla diffusione delle opere e del pensiero monfortano in tutto il mondo.


Nel Trattato Montfort raccomanda che i devoti si consacrino interamente a Gesù attraverso Maria nelle forme di un’amorosa schiavitù, cioè di una dedizione di mirabile radicalità, comprendente non solo i beni materiali dell’uomo ma anche il merito delle sue buone opere e preghiere. 
In cambio di questa consacrazione la Vergine agisce nell’interiorità della persona in modo meraviglioso, istituendo con lei un’unione ineffabile. L’opera, insieme a Il segreto di Maria — stampato integralmente soltanto nel 1898 ma pubblicato ormai in trecentocinquanta edizioni e in venticinque lingue — e con Le glorie di Maria, di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), rappresenta uno dei libri mariani più conosciuti e amati degli ultimi secoli, e fra quelli che più hanno alimentato la pietà cristiana.

Inoltre, gli scritti monfortani forniscono alla scuola di pensiero e d’azione della Contro-Rivoluzione cattolica del secolo XX, di cui è figura eminente il pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), una teologia della storia in cui inserire l’ascesi sociale, cioè l’apostolato mirante alla restaurazione di una civiltà cristiana. Questa scuola condivide con il santo missionario della Vandea la speranza, alimentata dalla promessa di Fatima — "Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà" —, di una grande conversione e di un tempo storico di trionfo della Chiesa cattolica. La "vera devozione" prepara gli eroi che schiacceranno la Rivoluzione, i santi missionari dei "tempi ultimi" - il cui profilo morale è tracciato da san Luigi Maria Grignion nella famosa Preghiera infuocata - che lotteranno per la realizzazione del regno di Maria.
Nella diocesi di Milano la sua memoria si celebra il 26 aprile. Il 27 aprile in quella di Pavia.. 

Autore: Francesco Pappalardo
AVE MARIA PURISSIMA!


Martire d'amore incompreso e sottovalutato

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GIOVANNI PAOLO I
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 6 settembre 1978

La grande virtù dell'umiltà
Alla mia destra e alla mia sinistra ci sono Cardinali e Vescovi, miei fratelli nell'episcopato. Io sono soltanto il loro fratello maggiore. Il mio saluto affettuoso a loro e anche alle loro diocesi.

Giusto un mese fa, a Castelgandolfo, moriva Paolo VI, un grande Pontefice, che ha reso alla Chiesa, in 15 anni, servizi enormi. Gli effetti si vedono in parte già adesso, ma io credo che si vedranno specialmente nel futuro. Ogni mercoledì egli veniva qui e parlava alla gente. Nel Sinodo 1977 parecchi vescovi hanno detto: « I discorsi di Papa Paolo del mercoledì sono una vera catechesi adatta al mondo moderno ». Io cercherò di imitarlo, nella speranza di poter anch'io, in qualche maniera, aiutare la gente a diventare più buona. Per esser buoni, però, bisogna essere a posto davanti a Dio, davanti al prossimo e davanti a noi stessi. Davanti a Dio, la posizione giusta è quella di Abramo, che ha detto: « Sono soltanto polvere e cenere davanti a te, o Signore! ». Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio. Quando io dico: Signore io credo; non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma; si crede alla mamma; io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato. I comandamenti sono un po' più difficili, qualche volta tanto difficili da osservare; ma Dio ce li ha dati non per capriccio, non per suo interesse, bensì unicamente per interesse nostro. Uno, una volta, è andato a comperare un'automobile dal concessionario. Questi gli ha fatto un discorso: guardi che la macchina ha buone prestazioni, la tratti bene, sa? Benzina super nel serbatoio, e, per i giunti, olio, di quello fino. L'altro invece: Oh, no, per sua norma, io neanche l'odore della benzina posso sopportare, e neanche l'olio; nel serbatoio metterò spumante, che mi piace tanto e i giunti li ungerò con la marmellata. Faccia come crede; però non venga a lamentarsi, se finirà in un fosso, con la sua macchina! Il Signore ha fatto qualcosa di simile con noi: ci ha dato questo corpo, animato da un'anima intelligente, una buona volontà. Ha detto: questa macchina vale, ma trattala bene.

Ecco i comandamenti. Onora il Padre e la Madre, non uccidere, non arrabbiarti, sii delicato, non dire bugie, non rubare... Se fossimo capaci di osservare i comandamenti, andremmo meglio noi e andrebbe meglio anche il mondo. Poi c'è il prossimo... ma il prossimo è a tre livelli: alcuni sono sopra di noi, alcuni sono al nostro livello, altri sono sotto. Sopra ci sono i nostri genitori. Il catechismo diceva: rispettarli, amarli, obbedirli. Il Papa deve inculcare rispetto ed obbedienza dei figli per i genitori. Mi dicono che qua ci sono i chierichetti di Malta. Venga uno, per favore... I chierichetti di Malta, che, per un mese, hanno fatto servizio in San Pietro. Allora, tu come ti chiami? - James! - James. E, senti, sei mai stato ammalato, tu? - No. - Ah, mai? - No. - Mai stato ammalato? - No. - Neanche una febbre? - No. - Oh, che fortunato! Ma, quando un bambino è ammalato, chi è che gli porta un po' di brodo, un po' di medicina? Non è la mamma? Ecco. Dopo tu diventi grande, e la mamma diventa vecchia, e tu diventi un gran signore, e la mamma poverina sarà a letto ammalata. Ecco. E allora chi è che porterà alla mamma un po' di latte e la medicina? Chi è? - Io e i miei fratelli. - Bravo! Lui e i suoi fratelli, ha detto. E questo mi piace. Hai capito?
Ma non succede sempre. Io, vescovo di Venezia, andavo qualche volta, nelle case di ricovero. Una volta ho trovato un'ammalata, un' anziana: « Come va Signora? » - « Beh, da mangiare, bene! Caldo? Riscaldamento? Bene » - « Allora è contenta Signora? » - « No » - si è messa quasi a piangere. « Ma perché piange? » - « Mia nuora, mio figlio non vengono mai a trovarmi. Vorrei vedere i nipotini ». Non basta il caldo, il cibo, c'è un cuore; bisogna pensare anche al cuore dei nostri vecchi. Il Signore ha detto che i genitori devono essere rispettati e amati, anche quando sono vecchi. E oltre ai genitori c'è lo Stato, ci sono i Superiori. Può il Papa raccomandare l'obbedienza? Bossuet, che era un grande vescovo, ha scritto: « Dove nessuno comanda tutti comandano. Dove tutti comandano, nessuno più comanda, ma il caos ». Qualche volta si vede anche in questo mondo qualcosa del genere. Quindi rispettiamo quelli che sono superiori. 

Poi ci sono i nostri eguali. E qui, di solito, ci sono due virtù da osservare: la giustizia, la carità. Ma la carità è l'anima della giustizia. Bisogna voler bene al prossimo, il Signore ce l'ha raccomandato tanto. Io raccomando sempre non solo le grandi carità, ma le piccole carità. 

Ho letto in un libro, scritto da Carnegie, americano, intitolato « l'arte di far gli amici », questo piccolo episodio: una signora aveva quattro uomini in casa: il marito, un fratello, due figli grandi. Lei sola doveva fare le spese, lei la biancheria e stirare, lei la cucina, lei tutto. Una domenica vengono a casa. La tavola è preparata per il pranzo, ma sul piatto c'è solo un pugnetto di fieno. Oh! Gli altri protestano e dicono: cosa, fieno! e lei dice « no, è tutto preparato. Lasciate che vi dica: cambio i cibi, vi tengo puliti, faccio di tutto. Mai, mai una volta che abbiate detto: ci hai preparato un bel pranzetto. Ma dite qualche cosa! Non sono di sasso. Si lavora più volentieri, quando si è riconosciuti. Sono le piccole carità. In casa nostra abbiamo tutti qualcuno, che aspetta un complimento ». Ci sono i più piccoli di noi, ci sono i bambini, i malati, perfino i peccatori. 
Io sono stato molto vicino, come vescovo, anche a quelli che non credono in Dio. Mi son fatto l'idea che essi combattono, spesso, non Dio, ma l'idea sbagliata che essi hanno di Dio. Quanta misericordia bisogna avere! E anche quelli che sbagliano... Bisogna veramente essere a posto con noi stessi. 

Mi limito a raccomandare una virtù, tanto cara al Signore: ha detto: imparate da me che sono mite e umile di cuore. Io rischio di dire uno sproposito, ma lo dico: il Signore tanto ama l'umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli, quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili. Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: mettersi in mostra. Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi.


Alle coppie di sposi novelli
La presenza di sposi novelli commuove particolarmente, perché la famiglia è una grande cosa. Io una volta ho scritto un articolo sul giornale e mi sono permesso di scherzare, citando Montaigne, uno scrittore francese, il quale diceva: « Il matrimonio è come una gabbia: quelli che son fuori, fanno di tutto per entrare, quelli che son dentro fan di tutto per uscire ». No no no. Però, però alcuni giorni dopo mi è capitata una lettera di un vecchio Provveditore agli studi, che aveva scritto libri e mi ha rimproverato dicendo: « Eccellenza, ha fatto male a citare Montaigne, io e mia moglie ci siamo uniti da 60 anni ed ogni giorno è come il primo giorno ». Anzi, mi ha citato un altro poeta francese, in francese, ma io lo dico in italiano: ti amo ogni giorno di più: oggi molto più di ieri, ma molto meno di domani. E faccio l'augurio che, a voi, succeda la stessa cosa.


Ai partecipanti al VII Convegno Internazionale organizzato dalla Società Internazionale dei Trapianti
Nous devons un salut particulier aux membres du septième Congrès international de la Société pour les transplantations d'organes. Nous sommes très touché de votre visite, qui est un hommage au Pape, et surtout de votre désir d'éclairer et d'approfondir les graves problèmes humains et moraux en jeu dans les recherches ou dans la technique chirurgicale qui sont votre lot. Nous vous encourageons, en ce domaine, à solliciter l'aide d'amis catholiques, experts en théologie et en morale et très au fait de vos problèmes, possédant une connaissance très sûre de la doctrine catholique et un sens profondément humain.
Nous nous contentons aujourd'hui de vous exprimer nos félicitations et notre confiance, pour l'immense travail que vous mettez au service de la vie humaine, afin de la prolonger dans les meilleures conditions. Tout le problème est d'agir dans le respect de la personne et de ses proches, qu'il s'agisse des donneurs d'organes ou des bénéficiaires, et de ne jamais transformer l'homme en objet d'expérience. Il y a le respect de son corps, il y a aussi le respect de son esprit. Nous prions Dieu, l'Auteur de la vie, de vous inspirer, de vous assister, dans ces magnifiques et redoutables responsabilités. Qu'il vous bénisse, avec tous ceux qui vous sont chers!

Adesso, se permettete, vorrei invitarvi ad unirvi alle mie preghiere, per una intenzione che mi sta molto a cuore. Voi avete saputo dalla stampa, dalla televisione, che, oggi, a Camp David, negli Stati Uniti, comincia una importante riunione tra i governanti di Egitto, Israele e Stati Uniti, per trovare una soluzione al conflitto del Medio Oriente. Questo conflitto, che da più di 30 anni si combatte sulla terra di Gesù, ha già causato tante vittime, tante sofferenze, sia fra gli arabi, sia fra gli israeliani, e come una brutta malattia ha contagiato i Paesi vicini. Pensate al Libano, un Libano martire, sconvolto dalle ripercussioni di questa crisi. Per questo, quindi, vorrei pregare, insieme, per la riuscita della riunione di Camp David: che queste conversazioni spianino la via ad una pace giusta e completa. Giusta, cioè con soddisfazione di tutte le parti in conflitto. Completa, senza lasciar irrisolta alcuna questione: il problema dei Palestinesi, la sicurezza d'Israele, la città Santa di Gerusalemme. Preghiamo il Signore di illuminare i responsabili di tutti i popoli interessati, perché siano lungimiranti e coraggiosi nel prendere le decisioni che devono portare la serenità e la pace in Terra Santa ed in tutto il mondo d'Oriente.

Chiediamo Loro di intercedere presso il Padre...
poiché dal Cielo... molto possono aiutarci i Santi.

JHS
MARIA!

PAPA LUCIANI


L'amico di Papa Luciani: "Potevo salvarlo ma invece non l'ho fatto"

"L'arcivescovo Perantoni voleva che gli portassi in Vaticano una lettera per avvisarlo del pericolo. Mi rifiutai. 'Te ne pentirai', mi rimproverò il presule. Tre giorno dopo Giovanni Paolo I era morto"


Non vuole portarsi il segreto nella tomba: «Avrei potuto salvare la vita a Papa Giovanni Paolo I. Non l'ho fatto. E oggi non riesco a perdonarmelo. A qualcuno devo pur dirlo». Giuseppe Pedullà compirà 83 anni il 20 giugno. A guardarlo, viene da pensare che camperà oltre i 100. Ma lo scrupolo di coscienza è giustificato dal peso che si porta sulle spalle. È un macigno enorme, che lo opprime, che lo schiaccia, che non lo fa dormire da quel martedì 26 settembre 1978, quando si rifiutò di consegnare in Vaticano una lettera che il frate francescano Pacifico Maria Luigi Perantoni, arcivescovo emerito di Lanciano e Ortona, voleva far giungere direttamente nelle mani del comune amico Albino Luciani, da appena un mese salito al soglio di Pietro, per avvisarlo che era in pericolo di vita. «Ignoro come Perantoni fosse giunto al convincimento che qualcuno intendesse uccidere il Papa.
So soltanto che, nel momento in cui gli dissi che non me la sentivo di farmi latore di un messaggio così spaventoso, egli mi rimproverò stizzito: “Te ne pentirai!”. Oh, se me ne sono pentito! Tre giorni dopo il Santo Padre era già morto». La voce gli si smorza in gola, fino a diventare un pianto sommesso.
Pedullà, originario di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), abita a Piacenza d'Adige, nella Bassa padovana, in un appartamento trasformato in sacrario. Il salotto è dominato da un ritratto di Luciani assiso sul trono papale. Ma già dall'ingresso si percepisce che questo è un luogo speciale. Ai muri sono appesi vari reperti: il dagherrotipo di un austero Giovanni Luciani, padre del futuro pontefice, in posa con il bastone da passeggio, il panciotto, la camicia dal colletto diplomatico, la Lavallière, la lobbia; immagini della sorella del «Papa del sorriso», scattate dal padrone di casa, e del patriarca di Venezia con Paolo VI durante la storica visita in laguna del 1972, quando Giovanni Battista Montini gli pose sulle spalle la stola, quasi a indicarlo come proprio successore; istantanee di Pedullà con padre Pio da Pietrelcina e sulla tomba di Giovanni Paolo I nelle Grotte vaticane; infine 54 foto delle stimmate e delle ferite che piagavano mani, polsi, ginocchia e gambe di Natuzza Evolo («frequentavo la mistica», spiega il conterraneo calabrese), deceduta nel 2009, nelle quali il sangue disegna la croce, il volto di Cristo e la sigla JHS, Jesus Hominum Salvator.
È uno squilibrato, un fanatico, un visionario, Giuseppe Pedullà? Catone Sbardellini, ex sindaco dc di Villabartolomea, 20 chilometri da qui, che conosco da più di 30 anni e che lo ebbe come cliente all'ingrosso della sua Caver (cappelli di paglia), testimonia che no, non è né un pazzo né un mitomane, semmai un uomo semplice e pio, molto perbene, che si è trovato al centro di vicende assai più grandi di lui. E mi assicura che sono vere tutte le conoscenze accumulate dall'anziano in ambito ecclesiastico. E non solo nelle alte sfere curiali, aggiungo io: Pedullà indossa una cravatta recante sul retro l'etichetta «E. Marinella per Silvio Berlusconi» e, fra i molti trofei casalinghi, vanta un astuccio contenente l'orologio, con scudetto tricolore e firma dell'allora presidente del Consiglio, che il Cavaliere fece produrre in tiratura limitata per il vertice Nato-Russia del 28 maggio 2002 a Roma, «ma non l'ho mai indossato perché detesto Vladimir Putin, ha perseguitato i cristiani», chiarisce, facendosi sopraffare da uno dei tanti singulti che scandiranno l'intervista.
Ho rivolto la domanda in modo brutale al diretto interessato: è mai stato in cura per problemi psichiatrici? Avrei voluto anche chiedergli se fosse in grado di esibire un certificato di salute mentale. Non ve n'è stato bisogno. Ha reagito con estrema serenità. È sceso in strada a recuperare dall'auto il referto con cui lo scorso 9 aprile, alle 10.36, è stato accettato al polo ospedaliero di Schiavonia d'Este dell'Ulss 17. «Mi ci hanno portato con l'ambulanza del 118 perché quella mattina mi ero alzato dal letto con forti giramenti di testa». Quattro ore dopo è tornato a casa sulle proprie gambe con un'unica terapia: due compresse di Arlevertan, un farmaco contro le sindromi vertiginose, per 20 giorni. Dopo cinque aveva già smesso di prenderle. «Quadro neurologico normale», ha attestato la dottoressa Annalisa Donà. «Tac cerebrale ed esami bioumorali nella norma», ha concordato il suo collega Filippo Ometto. Nemmeno un valore fuori posto nelle analisi ematochimiche. Sano di mente e di corpo. Tanto che gli hanno rinnovato la patente ed è ancora capace di scendere in Calabria guidando senza soste per 1.120 chilometri.
Volendo sgravarsi almeno un po' del suo insopportabile fardello, Pedullà ebbe tre incontri con Edoardo Luciani, il fratello del pontefice morto in circostanze misteriose dopo appena 33 giorni di regno, e parecchi altri con Antonia, la sorella più giovane, detta Nina, della quale finì per diventare amico. «Se ne sono andati entrambi, lui nel 2008 e lei nel 2009. Antonia abitava a Levico. Approfittavo delle cure termali per passare lunghi periodi nella località del Trentino. Era un pretesto per stare con lei. Mi mettevo ai fornelli e cucinavo a casa sua. Mi donò questi oggetti appartenuti ad Albino», e mostra due cappelli a busta di astrakan, sei paia di occhiali e due vecchi libri di scuola recanti il cognome «Luciani» scritto con la stilografica dal futuro papa sulla carta velina che fodera le copertine. «Sono rimasto in contatto con il figlio Roberto, professore, che vive ancora a Levico. L'altra figlia, Lina, abita a Roma. Infatti fu la prima della famiglia ad accorrere nel Palazzo Apostolico e a vedere il cadavere dello zio pontefice adagiato nel letto. Qualche anno dopo venne assunta presso la Sala stampa della Santa Sede».
Il trait d'union fra Pedullà e il cardinale Luciani fu monsignor Perantoni, nato nel 1895 a Cavalcaselle (Verona) da umili contadini, entrato a 15 anni nell'Ordine dei frati minori (del quale fu ministro generale dal 1945 al 1951), ordinato prete nel 1920 e consacrato vescovo nel 1952, quando gli venne affidata la diocesi di Gerace. Trascorso un decennio, il frate fu nominato arcivescovo di Lanciano e Ortona. Nel 1970, quasi alla fine del mandato, dispose una ricognizione medico-scientifica sulle reliquie del miracolo eucaristico di Lanciano, avvenuto nel secolo VIII sotto gli occhi di un monaco dubbioso, che vide l'ostia consacrata e il vino nel calice da messa trasformarsi in carne e sangue. Il professor Odoardo Linoli, docente di anatomia e istologia patologica, primario degli Ospedali riuniti di Arezzo, concluse che «il sangue è vero sangue e la carne è vera carne, costituita da tessuto muscolare del cuore; che il sangue e la carne appartengono alla specie umana; che il sangue e la carne appartengono allo stesso gruppo sanguigno AB e ciò sta ad indicare la unicità della persona».
Come conobbe Perantoni?
«In Calabria facevo parte di un gruppetto di fedeli che lo seguivano ovunque andasse, fra i quali Guido Laganà, esponente della Dc. Purtroppo l'arcivescovo di Reggio Calabria, Giovanni Ferro, stroncò la carriera di padre Pacifico nella convinzione che egli avesse contatti con la 'ndrangheta».
Si sbagliava?
«Certo! Era accaduto che il nostro pastore si fosse battuto per trasferire la sede episcopale da Gerace a Locri, sul litorale, provocando le ire della 'ndrangheta, che arrivò al punto di erigere uno sbarramento sulla strada Gerace-Locri per impedire al vescovo di scendere a valle. Finché Antonio Macrì, capo della cosca che controllava la Locride, non diede ordine di lasciarlo passare».
E ciò insospettì l'arcivescovo Ferro.
«Esatto. In realtà Perantoni era uno studioso, lontanissimo dai malavitosi. Aveva una cultura sterminata, conosceva parecchie lingue, stare accanto a lui era un arricchimento continuo. Andavo a trovarlo spesso in vescovado, gli facevo da autista, gli portavo le torte».
Sua eccellenza era goloso?
«No, è che io sono pasticciere».
E perché lo seguiva ovunque?
«Sono molto religioso. Un dono della mamma. La sera, dopo aver lavorato tutto il giorno, leggeva le vite dei santi. E di notte si alzava per aggiungere olio alla lucerna che illuminava il suo altarino privato sul comò della camera».
Ecco, mi parli della sua famiglia.
«Mio padre Domenico partecipò come volontario alla guerra in Africa orientale. Tornò invalido al 100 per cento. Mia madre Marianna gestiva il bar-tabaccheria Odeon a Marina di Gioiosa Ionica. Sette figli. Io sono il secondogenito. Vivevamo dentro un magazzino, privo di luce, acqua e gas. Dopo la quinta elementare fui mandato a lavorare nella pasticceria di Silvio Scardò, a Siderno Marina. Fino ai 25 anni affiancai mia madre all'Odeon. In questo modo quattro miei fratelli poterono diplomarsi o laurearsi. Prima di salire al Nord, comprai un terreno, firmando una montagna di cambiali, e costruii un nuovo bar, con due piani soprastanti. Lo lasciai ai miei, pagato. Un patrimonio di almeno 60 milioni di lire, parliamo del 1957, comprendente sala biliardo ed emporio di liquori, profumi e cancelleria».
Che lavori fece al Nord?
«Aiuto gestore in un lido con ristorante, sala da ballo e campeggio a Baveno. Cameriere al bar Motta di corso Italia a Genova. Autista del professor Michele Burnengo, docente all'Università di Parma. Commerciante di pelletteria in fiere e mercati del Veneto. Nel 1968 mi sposai a Canda. Tre anni dopo, il matrimonio, dal quale non erano nati figli, fu dichiarato nullo dalla Rota romana. Ho vissuto a Trecenta e Badia Polesine. Nel 2005 ho portato in Italia un'insegnante, Ecaterina Boghean, che in Moldavia, dove svolgo attività filantropiche, guadagnava 50 euro al mese. Oggi siamo marito e moglie».
Perché scelse proprio il Veneto?
«Per stare vicino a monsignor Perantoni, che nel 1974 diede le dimissioni e si ritirò a Peschiera del Garda, presso il santuario della Madonna del Frassino, dove morì nel 1982. È sepolto lì. Lui e il cardinale Luciani erano devotissimi alla Vergine. Entrambi facevano parte della Pontificia academia mariana internationalis. Mi confidò che il patriarca di Venezia gli aveva raccontato della sua visita a suor Lucia dos Santos. Luciani era uscito sconvolto dal colloquio, avvenuto l'11 luglio 1977 nel carmelo di Coimbra. La veggente di Fatima gli predisse: “Lei sarà papa dopo Paolo VI, ma per pochissimo tempo”». (Piange).
Mi risulta che il contenuto di quel dialogo non fosse stato svelato da Luciani neppure al fratello Edoardo.
«Si vede che Perantoni per lui era più di un fratello: un confessore. Tant'è che io, incontrando un giorno il patriarca lì al Frassino, me ne uscii ingenuamente con questa frase: eminenza, sono sicuro che sarà lei il prossimo papa. Al che Perantoni mi fulminò con lo sguardo. Ma Luciani, bonario, sviò da sé il pronostico con un gesto della mano: “No, no, per carità, preghiamo affinché il Signore ci conservi Paolo VI”».
Ebbe altri incontri con il cardinale?
«Sì, a Peschiera e a Venezia, in patriarcato. Vedendo il rapporto filiale che mi legava all'arcivescovo Perantoni, mi aveva preso a benvolere».
Che tipo era Luciani?
«Catechista, catechista, catechista. Di una fedeltà granitica al magistero e di una bontà angelica. Una volta mi disse: “Dovrai soffrire tanto”. Rimasi turbato: erano le stesse parole che mi aveva rivolto padre Pio».
In che modo conobbe il santo di Pietrelcina?
«Nel 1962 andai a San Giovanni Rotondo perché mia sorella Antonietta, bella ragazza, si era fidanzata con un geometra gelosissimo che le rovinava la vita con urli e scenate. Chiesi al frate di aiutarla. Mi batté una mano sulla spalla: “Sta' tranquillo, non preoccuparti”. L'indomani Antonietta trovò la forza di mollare quell'individuo. Oggi è felicemente sposata con un perito agrario».
Incontrò padre Pio in quell'unica occasione?
«No, andavo a trovarlo ogni due o tre mesi. Mi chiamava Pepè, il medesimo nomignolo usato da Perantoni. Alle 4 di mattina c'era già la fila di postulanti ad aspettarlo. Ai malati che sarebbero guariti diceva la frase con cui accolse me: “Sta' tranquillo”. Gli altri li congedava con una formula diversa: “Sia fatta la volontà di Dio”. Lui già sapeva che sarebbero morti. Una mattina gridò a uno sconosciuto: “Vieni qui, non vergognarti di mostrarti accanto a me”. Si trattava di un caporione del Pci che cadde convertito ai suoi piedi».
Lei, così vicino alle gerarchie, frequentava un religioso malvisto addirittura da Pio XII?
«Nel periodo di maggiore incomprensione con il Vaticano vidi quel sant'uomo costretto a celebrare messa dentro una celletta che misurava sì e no 2 metri per 1,80. Soffrì anche sotto Giovanni XXIII. E la vuol sapere una cosa? Prima di morire, Papa Roncalli consegnò al suo segretario una lettera dicendogli: “Questa è per padre Pio. Non vorrei essermi sbagliato sul suo conto”. Così mi riferì fra' Angelico, cuoco di Perantoni, che l'aveva appreso dallo stesso arcivescovo».
Ne conosceva di segreti, questo Perantoni.
«Al trentesimo giorno del pontificato di Giovanni Paolo I, mi telefonò: “Pepè, vieni subito qui”. Mi trovavo a Trecenta. Presi l'auto e corsi a Peschiera. Passeggiammo per due ore sul piazzale del Frassino. Alla fine cercò di pormi fra le mani una lettera: “Questa la devi portare tu, di persona, ad Albino Luciani in Vaticano. Il Papa è in grave pericolo”. Aveva scritto a mano sulla busta il nome di Sua Santità. Mi rifiutai di compiere quell'ambasciata».
Perché?
«Pensavo che Perantoni esagerasse ed ero terrorizzato».
Non gli chiese su che cosa si fondassero i suoi timori?
«No. Capisco che le sembri strano, ma io sono un povero signor Nessuno. Per me era inimmaginabile che qualcuno potesse attentare alla vita del Papa. E invece... Tre giorni dopo ero di nuovo al santuario del Frassino a piangere, amaramente pentito, esattamente come mi aveva predetto Perantoni».
Neppure in questa circostanza domandò all'arcivescovo notizie sul contenuto della lettera che lei non ebbe il coraggio di recapitare a Papa Luciani?
«No».
Ma è contro ogni logica!
«Sarà contro ogni logica, ma io mi comportai così. Non tutti sono preparati come voi giornalisti, abituati a fare interrogatori tipo quello cui mi sta sottoponendo. Certo, avrei potuto prendere in consegna la lettera e tenermela. Oggi costituirebbe una prova. Ma non commisi questo sacrilegio».
Si sarà almeno fatto un'idea su chi avrebbe avuto interesse a eliminare Giovanni Paolo I.
«Gesù Cristo non venne forse messo in croce per 30 denari?».
Sia più esplicito.
«Con il tempo, mi sono ricordato di una frase che il cardinale Luciani disse a Perantoni: “I soldi che abbiamo appartengono ai poveri, perché sono i poveri, e non i ricchi, a mantenere la Chiesa. E noi che facciamo? Li diamo a Calvi!”. Non gli andava giù che la Banca Cattolica del Veneto fosse finita sotto il controllo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi». (Nel 1972 il patriarca di Venezia ebbe un aspro scontro con l'arcivescovo Paul Marcinkus, presidente dell'Istituto per le opere di religione, circa la gestione del Banco San Marco e la vendita al Banco Ambrosiano del 37 per cento delle azioni della Banca Cattolica, effettuata dallo Ior senza informarne l'episcopato veneto. Secondo molte fonti, Luciani, appena eletto papa, avrebbe manifestato la volontà di rimuovere Marcinkus dalla presidenza, «perché un vescovo non deve dirigere una banca», ndr).
Perantoni le parlò mai di contrasti fra Giovanni Paolo I e monsignor Marcinkus?
«No. L'unico dissidio di cui mi parlò fu quello con il cardinale Sebastiano Baggio, originario di Rosà, prefetto della congregazione che aveva il potere di promuovere o retrocedere i vescovi. Il Papa insisteva con Baggio per nominare patriarca di Venezia un uomo di propria fiducia, in modo che continuasse l'opera da lui lasciata in sospeso. Per due volte il cardinale si rifiutò di uniformarsi alla volontà del Santo Padre. Al terzo tentativo Luciani si spazientì: “Se a Venezia non mandi chi ti dico, ci dovrai andare tu”. Baggio uscì dallo studio papale sbattendo la porta. Il giorno dopo Luciani era morto. Di lì a un mese il cardinale vicentino fu riconfermato prefetto della Congregazione per i vescovi». (Con il titolo di copertina «La grande loggia vaticana», sul settimanale Op diretto da Mino Pecorelli, poi morto assassinato, apparve il 12 settembre 1978, cioè nove giorni dopo l'insediamento di Giovanni Paolo I, un elenco di 113 alti prelati iscritti alla massoneria, nel quale figuravano i nomi di Baggio e Marcinkus, ndr).
Se i presunti nemici di Luciani fossero stati tanto potenti da farlo ammazzare nelle stanze vaticane, non crede che avrebbero potuto agire molto prima, e in modo indolore, «orientando» lo Spirito Santo a scegliere un papa diverso quale successore di Paolo VI?
«Perantoni mi raccontò ciò che il suo amico Albino gli aveva rivelato circa l'andamento del conclave. Il patriarca di Venezia era talmente atterrito dall'idea di essere eletto che una mattina, vedendo quattro cardinali intenti a parlottare nei corridoi, rientrò precipitosamente nella sua stanza per non dare nell'occhio. Uno dei porporati chiese: “Chi è?”. Un altro rispose: “Ma come, non l'hai riconosciuto? È il patriarca di Venezia”. Quei quattro cardinali erano tutti del Sudamerica e, conquistati da tanta ritrosia, votarono compatti per lui insieme ad altri porporati stranieri».
Lei non provò mai a informare qualche autorità religiosa dei sospetti dell'arcivescovo Perantoni?
«Mi stia a sentire. Una sera sono a cena a Bagnolo di Po dai fratelli Fantinati, latifondisti. Il Tg1 annuncia che Papa Wojtyla intende beatificare padre Pino Puglisi, ucciso dalla mafia a Palermo nel 1993. Mi viene spontaneo battere un pugno sul tavolo: e Giovanni Paolo I, allora, non è stato anche lui vittima di un complotto mafioso? Decido di avviare una raccolta di firme perché Luciani sia proclamato beato. Parto per Roma. Entro nella basilica di San Pietro. Vedo una trentina di berretti rossi che, finita una celebrazione, si avviano verso una navata laterale. Li raggiungo nella sacrestia in fondo a sinistra e ne fermo uno, di colore. Scoprirò poi che era il cardinale Bernardin Gantin, originario del Benin, e che Papa Luciani il giorno successivo al proprio insediamento lo aveva nominato presidente del Pontificio consiglio Cor Unum, il dicastero della Curia romana che promuove le iniziative umanitarie della Santa Sede. Chiedo di parlargli. Lui mi accarezza la guancia e risponde: “Aspetti”. Si toglie i paramenti liturgici, congeda i presenti e mi chiede: “Sono qui, che vuole?”. Io gli illustro il mio proposito per una petizione a favore di Giovanni Paolo I beato. Lui replica: “È già santo”. Allora mi viene spontaneo fargli il nome dell'arcivescovo Perantoni. All'udirlo, il porporato ha un soprassalto e smette di guardarmi in faccia. Io lo supplico, gli tiro persino la veste: eminenza, eminenza, perché distoglie lo sguardo?, mi dica come devo comportarmi. Però Gantin taglia corto: “Lei è furbo, lei sa come fare”. Quindi, con aria complice, si lascia andare a un gesto tutto italiano: mi dà leggermente di gomito».
Fatico a decifrare la scena.
«Ma dottore, suvvia! In Vaticano le cose le sanno. Fra di loro se le dicono». (Esibisce un biglietto autografo di auguri per il 2002 scritto dal cardinale Gantin «con grande cordialità» e spedito a Badia Polesine, Riviera Matteotti 177, il precedente indirizzo di Pedullà).
E lei che fece?
«Cominciai la campagna affinché Luciani venisse elevato alla gloria degli altari. Raccolsi oltre 100.000 firme, girando tutti i santuari d'Italia e piazzando il mio banchetto in molte città, persino in Germania, Moldavia, Ucraina». (Mostra fasci di fotocopie con dati anagrafici e firme). «Le portai al vescovo di Belluno, Vincenzo Savio, il quale, prima di morire per un tumore, fece aprire la causa di beatificazione. Anche Savio era un santo. Sua madre visse quasi tutta la sua vita semiparalizzata. Mentre agonizzava, lui le chiese: “Mamma, facciamo il patto di Elia ed Eliseo?”. Il profeta Elia, prima di salire in paradiso, lasciò il mantello al discepolo Eliseo, che divenne a sua volta profeta. Il vescovo Savio ottenne dalla madre il mantello della sofferenza, sopportò il male con grande dignità, fino ad avere il coraggio di annunciare dal pulpito che il cancro lo stava uccidendo e di chiedere ai preti e ai fedeli di pregare per la sua anima».
Ma chi è lei? Un collezionista di futuri santi e beati?
«Ci scherza, eppure ho speso la vita per la Chiesa. Ho portato in giro con la mia auto suor Brigida Maria Postorino, fondatrice delle Figlie di Maria Immacolata. Sono stato amico di padre Bonaventura Maria Raschi, il francescano a cui la Madonna chiese di costruirle un santuario sul monte Fasce di Genova, un esorcista legato a padre Massimiliano Kolbe, il santo polacco martirizzato dai nazisti nel “bunker della fame” di Auschwitz: per più di 70 volte aveva scacciato Satana. Preparavo pranzi e dolci per l'arcivescovo di Trento, Giovanni Maria Sartori. Ho visitato fino all'ultimo suor Gesuina Vago delle Piccole Serve del Sacro Cuore di Gesù, morta a 109 anni nell'istituto di Casatenovo senza che il medico sapesse cosa scrivere sul certificato di morte: non era mai stata malata in vita sua, semplicemente si mise a letto, smise di mangiare e 20 giorni dopo il suo respiro cessò».
Non parlò con nessun altro della lettera di Perantoni?
«Con mia madre: scoppiò in lacrime e mi supplicò di tacere per non danneggiare il clero. E con un vescovo del Centro Italia». (Ne fa il nome però mi prega di non rivelarlo per evitargli imbarazzi). «Nel 2005 chiesi udienza a Benedetto XVI. Dalla Segreteria di Stato vaticana mi rispose monsignor Gabriele Caccia: “Ella potrà comunicare per iscritto quanto intende riferire al Santo Padre”. Non ebbi il coraggio di farlo. Ma ora il tempo stringe e ho deciso di rimediare. Tutti devono sapere che Albino Luciani fu vittima di un complotto».
A me pare più verosimile che sia rimasto vittima delle sue coronarie malandate.
«I fratelli Edoardo e Antonia in privato non erano di questo parere. La sorella mi nominava spesso don Licio Boldrin, parroco di Frassinelle Polesine, molto legato a Luciani, quasi a lasciar intendere che sapesse qualcosa». (Don Boldrin nel 1981 divenne campione di Flash, telequiz condotto in Rai da Mike Bongiorno, ndr). «È mio amico. Andò a trovare il Papa in Vaticano, portandogli una torta. Ancora se lo rimprovera: “Non vorrei che gli avesse fatto male il dolce cucinato da mia madre”».
Perché dopo queste peripezie continua ad avere fiducia nella Chiesa?
«Perché è mia mamma. Vede, noi Pedullà siamo sette figli: tre hanno ucciso moralmente nostra madre per motivi di eredità, ma quattro l'hanno sempre venerata. Se è capitato questo nella mia famiglia, come posso condannare la Chiesa? Io la amavo, la amo e la amerò anche dopo morto». (Piange).
http://cristianesimo.it/luciani.htm
http://w2.vatican.va/content/john-paul-i/it.html

JHS
MARIA!

mercoledì 26 aprile 2017

La 10ma opera


10. – La 10ma opera che fece il nostro Salvatore Gesù Cristo in questo mondo fu – secondo quanto si legge in san Marco (cf. Mc. 1, 12) e san Matteo (Mt. 4, 1-11) – che dopo essere battezzato venne condotto nel deserto dove per quaranta giorni e quaranta notti digiunò, in questo tempo non prese nessun alimento corporale, ma se ne stette sempre in orazione non per sé stesso, non avendone bisogno, ma per noi peccatori.
      E ciò si ripresenta nella Messa quando il sacerdote davanti al centro dell’altare a mani giunte si umilia tanto quanto può chinando la testa e dicendo: Guarda l’umiltà delle nostre anime e la contrizione dei nostri cuori, per mostrare quelle umiliazioni e prostrazioni che il nostro Salvatore faceva nel deserto pregando. 

Poi il sacerdote volgendosi verso il popolo dice: “Pregate, fratelli, affinché il mio e vostro sacrificio sia gradito”, col fine di mostrare che Gesù Cristo pregava per noi. 

E così come le orazioni che Gesù Cristo elevava nel deserto erano molto segrete e non le udiva nessun altro uomo, così anche questa preghiera Segreta che dice il sacerdote, la deve dire anche in segreto e non può essere ascoltata da altri.

JHS
MARIA!