martedì 29 novembre 2016

"TEMPIO DEL NUOVO ORDINE MONDIALE"

"TEMPIO DEL
NUOVO ORDINE MONDIALE"




Gesù Eucaristico... immenso Amore
Ti amo e Ti adoro

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San Francesco Antonio Fasani



San Francesco Antonio Fasani
Lucera, 6 agosto 1681 - Lucera, 29 novembre 1742

Nacque da umile famiglia il 6 agosto 1681 a Lucera, antica città della Daunia nella Puglia. Entrò da giovane tra i Minori conventuali del suo paese natale per poi completare il Noviziato a Monte Sant'Angelo sul Gargano dove emise la professione il 23 agosto 1696. Quindi, nel 1703 fu mandato nel convento di Assisi dove fu ordinato sacerdote l'11 settembre 1705. Passato a Roma, nel collegio di San Bonaventura, tornò ad Assisi fino al 1707 quando rientrò a Lucera. Eletto ministro provinciale fu protagonista di un'intensa attività apostolica percorrendo buona parte della Capitanata. Sempre attento ai bisogni dei poveri e dei sofferenti, e devotissimo della Vergine Immacolata, fu particolarmente vicino ai carcerati e ai condannati che accompagnava fino al luogo del supplizio. Morì il 29 novembre 1742. Ancora oggi la sua tomba, nella chiesa di San Francesco a Lucera è meta di frequenti pellegrinaggi. Proclamato beato il 15 aprile 1951 da Pio XII, fu canonizzato dal papa Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986. 

Martirologio Romano: A Lucera in Puglia, san Francesco Antonio Fasani, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, che, uomo di raffinata cultura pervaso da un grande amore per la predicazione e la penitenza, si adoperò al tal punto per i poveri e i bisognosi da non esitare mai a privarsi della veste per coprire un
mendicante e offrire a tutti il suo cristiano sostegno. 
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Nacque a Lucera, antica città della Daunia in Puglia, il 6 agosto 1681, da umili e modesti lavoratori, Giuseppe e Isabella Della Monaca. 
Battezzato con i nomi di Donato Antonio Giovanni, fu chiamato familiarmente Giovanniello.
Entrò giovinetto nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali di san Francesco nel convento della città di Lucera e vi rifulse per innocenza di vita, spirito di penitenza e povertà, ardore serafico e zelo apostolico, sì da sembrare un "san Francesco redivivo".
Compiuto il noviziato a Monte S. Angelo sul Gargano ed emessavi la professione il 23 agosto 1696, fu mandato, nel 1703, a completare la formazione nel sacro convento di Assisi dove ebbe come direttore spirituale il servo di Dio Giuseppe A. Marcheselli, e fu ordinato sacerdote l'11 settembre 1705.
Passato a Roma nel collegio di San Bonaventura, vi fu creato maestro in teologia, per cui, in seguito, sarà da tutti chiamato a Lucera "Padre Maestro". Ritornato ad Assisi, vi rimase dedicandosi alla predicazione nelle campagne fino al 1707, quando rientrerà definitivamentc a Lucera.
Dalla scuola, dal pulpito e dal confessionale esplicò un intenso e fecondo apostolato, percorrendo tutti i paesi della Capitanata e località limitrofe, sì da meritarsi l'appellativo di apostolo della sua terra. "Profondo in filosofia e dotto in teologia", come attesta il beato Antonio Lucci, suo confratello e vescovo di Bovino, fu dapprima lettore e reggente di studi nel collegio filosofico di Lucera, e poi guardiano del convento e maestro dei novizi, modello ai confratelli di osservanza regolare, per cui fu nominato nel 1721, con speciale Breve di Clemente XI, ministro provinciale della provincia religiosa conventuale di S. Angelo, che in quel tempo si estendeva dalla Capitanata al Molise.
Scrisse alcune operette predicabili, tra cui un Quaresimale, un Mariale, una esposizione al Pater e al Magnificat, e vari Sermoni, alcuni in lingua latina. Suo principale intendimento nel predicare era quello di "farsi capire da tutti", come nella sua modestia era solito dire, e la sua catechesi, tipicamente francescana, era rivolta di preferenza all'umile popolo verso cui sentivasi particolarmente attratto. Inesauribile fu la sua carità verso i poveri e sofferenti; fra le varie iniziative, promosse la simpatica usanza di raccogliere e distribuire pacchi-dono ai poveri in occasione del S. Natale. Ma il suo zelo e la sua carità sacerdotale rifulsero in modo singolarissimo nell'assistenza ai carcerati e ai condannati che accompagnava personalmente fino al luogo del supplizio per confortarne gli estremi momenti, precorrendo in ciò l'ammirabile esempio di carità di san Giuseppe Cafasso. Fece restaurare decorosamente il bel tempio di S. Francesco in Lucera, centro per quasi trentacinque anni continui della sua indefessa attività sacerdotale. Fu devotissimo dell'Immacolata Concezione, e alle anime che egli dirigeva era solito inculcare gli atti di ossequio alla Madonna e la meditazione delle sue virtù. Anche oggi è oggetto di particolare venerazione nella chiesa di S. Francesco la bella statua dell'Immacolata, che il beato fece venire da Napoli, ed il popolo canta tuttora la canzone mariana da lui composta.
Morì a Lucera il 29 novembre 1742, nel primo giorno della novena dell'Immacolata ed il suo corpo è venerato nella chiesa del Serafico Padre San Francesco.


AMDG et BVM

Autore: 
Gaetano Stano

Amatevi e amatemi in Maria.


  • Mia Madre, prima di Me, va trasfigurata agli occhi dei più meritevoli, per mostrarla quale Essa è. (…)
    Vieni qua, Madre mia. Non arrossire. Non ritrarti intimidita, colomba soave di Dio. Tuo Figlio è la Parola di Dio e può parlare di te e del tuo mistero, dei tuoi misteri, o sublime Mistero di Dio. (…)
    L’anima ha vita, esiste dal momento in cui Dio la pensa. E’ il Pensiero di Dio che la crea. L’anima di mia Madre è da sempre pensata da Dio. Perciò è eterna nella sua bellezza, nella quale Dio ha riversato ogni perfezione per averne delizia e conforto. 
    Prov.8 (Dio mi possedette all’inizio delle sue opere …)
    Sì, o Madre, di cui Dio, l’Immenso, il Sublime, il Vergine, l’Increato, era gravido, e ti portava come il suo dolcissimo pondo, giubilando di sentirti agitarti in Lui, dandogli i sorrisi dei quali fece il Creato! Tu che a dolore partorì per darti al Mondo, anima soavissima, nata dal Vergine per essere la “Vergine”, Perfezione del Creato, Luce del Paradiso, Consiglio di Dio, che guardandoti poté perdonare la Colpa, perché tu sola, sai amare come tutta l’Umanità messa insieme non sa amare. In te il Perdono di Dio! In te il Medicamento di Dio, tu carezza dell’Eterno sulla ferita dall’uomo fatta a Dio! In te la Salute del mondo, Madre dell’Amore Incarnato e del concesso Redentore! L’anima della Madre mia! Fuso nell’Amore col Padre Io ti guardavo dentro di Me, o anima della Madre mia! …. E il tuo splendore, la tua preghiera, l’idea d'essere da Te portato mi consolava in eterno del mio destino di dolore e di esperienze disumane di ciò che è il mondo corrotto per il Dio perfettissimo. Grazie, o Madre!  348.9 – 348.10
  • Amatevi e amatemi in Maria. Non fallirete mai perché Ella è l’Albero della Vita, la vivente Arca di Dio, la forma di Dio, in cui la Sapienza si fece una Sede e la Grazia si fece Carne. 583.9
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AVE MARIA PURISSIMA!

Maria SS.ma IMMACOLATA

(Maria è la) perla nata nell’Oceano della Trinità per portare sulla terra la seconda Persona. Ella è compatta intorno al suo fulcro che è scintilla dell’Amore eterno. Scintilla che trovando in Lei rispondenza, ha generato i vortici della Divina Meteora, il Cristo stella del mattino. 629.
  • Maria, come Corredentrice dovette patire, nel suo cuore e nel suo spirito immacolati, quanto il Figlio suo patì nella carne, nel cuore e nello spirito santissimo.
    Per la pienezza dei doni divini che era in Lei , Maria conobbe anticipatamente o contemporaneamente e intellettivamente tutta la complessa sofferenza del Figlio suo. Sulla sua anima di Immacolata, piena della luce Dio, si proiettò sempre l’ombra dolorosa della Croce e di tutte le lotte e ostacoli che avrebbero preceduta la passione e afflitto il suo Gesù. (Nota a pag.718- 4°vol. ediz 1975 nel corso del capo 242.6).
***
AVE MARIA PURISSIMA!

lunedì 28 novembre 2016

Catechesi di Papa Benedetto XVI per amare la nostra FEDE CRISTIANA

BE DE EN ES FR HU IT LA NL PL PT ZH ]


LETTERA ENCICLICA
SPE SALVI
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI

AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULLA SPERANZA CRISTIANA

Introduzione
1. « SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La « redenzione », la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l'affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c'è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?

La fede è speranza

2. Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite, dobbiamo ascoltare ancora un po' più attentamente la testimonianza della Bibbia sulla speranza. 
« Speranza », di fatto, è una parola centrale della fede biblica –al punto che in diversi passi le parole « fede » e « speranza » sembrano interscambiabili. 
Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla « pienezza della fede » (10,22) la «immutabile professione della speranza» (10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede ».

Quanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto l'esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero « senza speranza e senza Dio nel mondo » (Ef 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i loro dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli dèi, essi erano « senza Dio » e conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. 
« In nihil ab nihilo quam cito recidimus » (Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) [1] dice un epitaffio di quell'epoca – parole nelle quali appare senza mezzi termini ciò a cui Paolo accenna. 
Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete « affliggervi come gli altri che non hanno speranza » (1 Ts 4,13). 
Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una « buona notizia » – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. 
Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo « informativo », ma « performativo ». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. 
La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. 
Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova.

3. Ora, però, si impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza che, come speranza, è « redenzione »? Bene: il nucleo della risposta è dato nel brano della Lettera agli Efesini citato poc'anzi: gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano « senza Dio nel mondo ». Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile.

L'esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. 

Penso all'africana Giuseppina Bakhitacanonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. 
All'età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. 

Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, tornò in Italia. 
Qui, dopo « padroni » così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un « padrone » totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava « paron » il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. 
Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un « paron » al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. 
Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal « Paron » supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. 

Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava « alla destra di Dio Padre ». 

Ora lei aveva « speranza » – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona. 

Mediante la conoscenza di questa speranza lei era « redenta », non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo – senza speranza perché senza Dio. 
Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era disposta a farsi di nuovo separare dal suo « Paron ». Il 9 gennaio 1890, fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. 

L'8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò i voti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora – accanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Gesù Cristo, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. 

La speranza, che era nata per lei e l'aveva « redenta », non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.
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AMDG et BVM