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giovedì 12 ottobre 2017

“Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio!”


SANTA GIUSEPPINA BAKHITA VERGINE 
DELLE FIGLIE DELLA CARITA’ CANOSSIANE 

“LA MADRE MORETA” 

 Concluse la sua vita terrena a Schio (Vicenza), l’8 Febbraio del 1947, nella casa della sua Comunità, all’età di 78 anni, cinquanta dei quali trascorsi come umile Figlia della Carità, vera testimone dell’amore di Dio, prestandosi alle varie occupazioni cui era chiamata di volta in volta : ora cuciniera, ora sagrestana, ora aiuto infermiera (durante la prima guerra mondiale), ora guardarobiera, ora ricamatrice, ora (dal 1922) portinaia. Quando si dedicò a quest’ultimo servizio, le sue mani dolci e carezzevoli si posavano sulle teste dei bambini che frequentavano le scuole dell’Istituto, ed a loro, la sua voce amabile, che aveva l’inflessione delle nenie della sua terra, giungeva gradita, come pure confortevole ai poveri ed ai sofferenti, incoraggiante a quanti bussavano alla porta dell’Istituto. Veniva infatti dalle lontane terre di Oglassa , piccolo villaggio del Darfur nel Sudan Occidentale, ove era nata nel 1869. Nipote del capotribù, aveva tre fratelli, una sorella gemella ed una già sposata. Un giorno la sorella maggiore fu rapita da razziatori arabi, venditori di schiavi, e anche lei, intorno ai sei anni, subì la stessa sorte. Fu rinchiusa in un porcile, ove rimase per giorni e giorni, dimenticando alla fine le sue origini, assumendo il nome, impostole dai suoi aguzzini, di Bakhita che significa “felice”,”fortunata”. 

 Fu venduta più volte al mercato degli schiavi di El Obeid e di Khartoum. Venne ceduta ad un generale turco, nella cui famiglia subì umiliazioni, sofferenze fisiche e morali ; venne financo tatuata, in modo cruento, sul ventre, sul braccio destro e sul petto, disegnandole oltre cento segni, incisi poi con un rasoio e ricoperti di sale, al fine di ottenere cicatrici permanenti : si riprese dopo due mesi. 

 Dopo un anno, dal generale turco, deciso a tornare in Turchia, venne venduta al Console italiano a Khartoum, Callisto Legnani. Nella sua casa fu accolta, per la prima volta, umanamente e potè indossare una tunica (il console già in precedenza aveva comprato bambini schiavi per restituirli alle loro famiglie ; per Bakhita ciò non fu possibile per il vuoto di memoria della bimba sulla sua provenienza). 

I modi affettuosi e paterni del Console suscitarono in lei domande che non si era mai posta, come :”Chi è che accende in cielo tutti quei puntini luminosi ?” Presso di loro trascorse serenamente due anni, lavorando con gli altri domestici senza essere più considerata una schiava. Quando nel 1884, per la rivolta mahadista, il console dovette fuggire da Khartoum, Bakhita lo supplicò di non abbandonarla. Assieme al console ed un suo amico, Augusto Michieli, raggiunse il porto di Suakin sul Mar Rosso, da dove, dopo un mese, partirono per Genova. 

 All’arrivo in Italia, per le insistenze della moglie del Michieli, il console acconsente a che Bakhita vada nella casa dei suoi amici a Zianigo (fraz. di Mirano Veneto). Qui, la nostra futura santa, rimane tre anni, divenendo la bambinaia di Mimmina, la figlia dei Michieli che nel frattempo era nata. La piccola le si affeziona e la chiama la sua ”mammina negra” . Viene poi data in affidamento temporaneo, per dieci mesi, assieme a Mimmina , all’Istituto dei Catecumeni in Venezia, gestito dalle Figlie della Carità (Canossiane), poiché i coniugi Michieli rientravano in Africa, per gestire un loro albergo a Suakin. Ospitata gratuitamente come catecumena, Bakhita comincia così a ricevere un’istruzione religiosa cattolica, ed è qui che matura il convincimento di donarsi completamente a Dio, che lei chiamava, con espressione dolce,”el me Paròn”. 

 Quando la signora Michieli ritorna dall’Africa per riprendersi sia la figlia che Bakhita, la nostra piccola santa oppone un netto rifiuto, manifestando la ferma decisione di rimanere presso le suore Canossiane. Pur contrastando tenacemente tale proposito, alla fine la signora Michieli deve arrendersi ai disegni della Divina Provvidenza che aveva deciso altrimenti. 
Il 29 Novembre 1889 Bakhita viene dichiarata legalmente libera e rimane nel convento delle Canossiane. Da questa data è un continuo susseguirsi di tappe di avvicinamento a Nostro Signore . Il 9 Gennaio 1890 riceve i sacramenti dell’iniziazione cristiana con i nomi di Giuseppina Margherita Fortunata. Quel giorno non sapeva come esprimere la sua gioia ed in seguito la si vide spesso baciare il fonte battesimale e dire : “Qui sono diventata figlia di Dio”. 

Il 7 Dicembre 1893 entra nel noviziato. L’8 Dicembre 1896 pronuncia i suoi primi voti religiosi. Nel 1902 viene trasferita in un convento dell’ordine, a Schio (Vicenza), ove trascorrerà il resto della sua vita. La sua umiltà, la sua semplicità ed il suo costante sorriso conquistarono il cuore di tutti i cittadini di Schio che la ribattezzarono “Madre Morèta”. 

Le consorelle la stimavano per la sua dolcezza inalterabile, la sua squisita bontà ed il suo profondo desiderio di far conoscere il Signore. Diceva : “Siate buoni, amate il Signore, pregate per quelli che non lo conoscono. Sapeste che grande grazia è conoscere Dio!” 

 Il suo carisma e la sua fama di santità vennero notati dai suoi superiori, che più volte le chiesero di dettare le sue memorie. 
Un primo racconto venne dettato a suor Teresa Fabris nel 1910, che produsse un manoscritto di 31 pagine. 
Un secondo racconto fu dettato a suor Mariannina Turco, ma è andato perduto. Su richiesta della Superiora generale dell’Ordine, venne intervistata a Venezia, nel Novembre del 1930, da Ida Zanolini, laica canossiana, la quale, nel 1931 pubblicò il libro “Storia Meravigliosa” che venne ristampato 4 volte nel giro di sei anni. 

Bakhita divenne così famosa in tutta Italia e iniziò a girare tutta la Penisola per tenere conferenze di propaganda missionaria. Era molto timida e si esprimeva solo in lingua veneta. Nel Dicembre 1936, con un gruppo di missionarie, venne ricevuta da Mussolini, a Roma. Dal 1939 cominciò ad avere problemi di salute e non si allontanò più da Schio.

Venne la vecchiaia, venne la malattia lunga e dolorosa, ma Madre Bakhita continuò ad offrire testimonianza di fede, di bontà e di speranza cristiana. A chi le chiedeva come stesse, rispondeva sorridendo : “Come vòl el Paròn” Per i suoi carnefici diceva : ”Poveretti, non sapevano di farmi tanto male”. Per i suoi rapitori ebbe a dire : “Mi inginocchierei davanti a loro, perché senza di essi non sarei cristiana, né suora”. 

 Nell’agonia rivisse i giorni della sua schiavitù e più volte supplicò l’infermiera che l’assisteva : ”Mi allarghi le catene….pesano!”. Fu Maria Santissima a liberarla da ogni pena. Le sue ultime parole furono : “La Madonna! La Madonna! Negli ultimi momenti le fu accanto don Giovanni Munari, (sacerdote, a lei legato da profonda riconoscenza, perché da seminarista, ammalato e ricoverato in sanatorio, a Bassano, per le preghiere ed offerte della Santa, ottenne la guarigione) pronunciando su di lei le preghiere dell’ultima ora : “Proficiscere, anima christiana….. Parti anima cristiana e và incontro al tuo Dio….”. “Sì, sì, - rispose -“Madre Morèta” è ora che vada al me Paròn”. E si spense. 

La salma della Santa riposa nel Tempio della Sacra Famiglia del Convento delle Canossiane di Schio dal 1969. Il processo per la causa di Canonizzazione iniziò dodici anni dopo la sua morte , ed il 1 Dicembre 1978 la Chiesa emanò il decreto sull’eroicità della sue virtù. 
Viene beatificata da Giovanni Paolo II il 17 Maggio 1992 e canonizzata dallo stesso Papa il 1 Ottobre 2000. 

Papa Benedetto XVI l’ha definita, nell’Enciclica Spe salvi, testimone di speranza, luminoso esempio di generosità nel perdono e di grande fiducia in Dio. Di fronte al mondo di oggi, mai soddisfatto, sempre alla ricerca del potere, del possesso, dei piaceri, l’esempio di Bakhita mette in guardia da ciò che ci allontana da Dio e ci rende schiavi del proprio Io e delle proprie passioni. Santa Giuseppina Bakhita è la Santa protettrice degli schiavi. 

Gianni Mangano 
“Vieni, Spirito Santo, vieni
per mezzo della potente intercessione
del Cuore Immacolato di Maria ,
tua amatissima Sposa”

lunedì 28 novembre 2016

Catechesi di Papa Benedetto XVI per amare la nostra FEDE CRISTIANA

BE DE EN ES FR HU IT LA NL PL PT ZH ]


LETTERA ENCICLICA
SPE SALVI
DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XVI

AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE
E A TUTTI I FEDELI LAICI
SULLA SPERANZA CRISTIANA

Introduzione
1. « SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La « redenzione », la salvezza, secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda: ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l'affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c'è, noi siamo redenti? E di quale tipo di certezza si tratta?

La fede è speranza

2. Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite, dobbiamo ascoltare ancora un po' più attentamente la testimonianza della Bibbia sulla speranza. 
« Speranza », di fatto, è una parola centrale della fede biblica –al punto che in diversi passi le parole « fede » e « speranza » sembrano interscambiabili. 
Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla « pienezza della fede » (10,22) la «immutabile professione della speranza» (10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede ».

Quanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto l'esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni. Paolo ricorda agli Efesini come, prima del loro incontro con Cristo, fossero « senza speranza e senza Dio nel mondo » (Ef 2,12). Naturalmente egli sa che essi avevano avuto degli dèi, che avevano avuto una religione, ma i loro dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli dèi, essi erano « senza Dio » e conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. 
« In nihil ab nihilo quam cito recidimus » (Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) [1] dice un epitaffio di quell'epoca – parole nelle quali appare senza mezzi termini ciò a cui Paolo accenna. 
Nello stesso senso egli dice ai Tessalonicesi: Voi non dovete « affliggervi come gli altri che non hanno speranza » (1 Ts 4,13). 
Anche qui compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una « buona notizia » – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti. 
Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo « informativo », ma « performativo ». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. 
La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. 
Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova.

3. Ora, però, si impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza che, come speranza, è « redenzione »? Bene: il nucleo della risposta è dato nel brano della Lettera agli Efesini citato poc'anzi: gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano senza speranza, perché erano « senza Dio nel mondo ». Giungere a conoscere Dio – il vero Dio, questo significa ricevere speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci siamo assuefatti ad esso, il possesso della speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più percepibile.

L'esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e realmente questo Dio. 

Penso all'africana Giuseppina Bakhitacanonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869 circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. 
All'età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per tutta la vita 144 cicatrici. 

Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano per il console italiano Callisto Legnani che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, tornò in Italia. 
Qui, dopo « padroni » così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un « padrone » totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava « paron » il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo. 
Fino ad allora aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un « paron » al di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo Signore è buono, la bontà in persona. 
Veniva a sapere che questo Signore conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche lei era amata, e proprio dal « Paron » supremo, davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi stessi soltanto miseri servi. 

Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi, questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato e ora la aspettava « alla destra di Dio Padre ». 

Ora lei aveva « speranza » – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore. E così la mia vita è buona. 

Mediante la conoscenza di questa speranza lei era « redenta », non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo – senza speranza perché senza Dio. 
Così, quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si rifiutò; non era disposta a farsi di nuovo separare dal suo « Paron ». Il 9 gennaio 1890, fu battezzata e cresimata e ricevette la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. 

L'8 dicembre 1896, a Verona, pronunciò i voti nella Congregazione delle suore Canossiane e da allora – accanto ai suoi lavori nella sagrestia e nella portineria del chiostro – cercò in vari viaggi in Italia soprattutto di sollecitare alla missione: la liberazione che aveva ricevuto mediante l'incontro con il Dio di Gesù Cristo, sentiva di doverla estendere, doveva essere donata anche ad altri, al maggior numero possibile di persone. 

La speranza, che era nata per lei e l'aveva « redenta », non poteva tenerla per sé; questa speranza doveva raggiungere molti, raggiungere tutti.
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AMDG et BVM