venerdì 26 settembre 2014

COELI BEATUS




COELI BEATUS: OSSERVAZIONI DI UN BIOLOGO

Data: Sabato, 02 aprile @ 11:08:18 CEST
Argomento: Sacerdozio e vita religiosa


Di Jérôme Lejeune

Sulla terra l'uomo è il solo che si domanda chi è, dove va, e che talvolta si sente rivolgere queste temibili domande: "Cosa ne è di tuo fratello?", "Cosa hai fatto di tuo figlio?".
Le pulsioni elementari che sono alla base della perpetuazione delle specie sono presenti in tutti gli esseri viventi, ma l'uomo è il solo a conoscere il misterioso rapporto tra l'amore e il futuro. Né lo scimpanzé più malizioso né quello meglio ammaestrato potranno mai concepire che esista un rapporto tra la monta della sua femmina e l'arrivo, nove mesi più tardi, di un cucciolo che gli assomiglia.
L'uomo, da parte sua, ha sempre saputo che l'appetito sessuale e la sua soddisfazione voluttuosa sono collegati, per loro natura, alla procreazione. In modo poetico, e assolutamente realista, gli antichi non rappresentavano forse la passione amorosa con i tratti di un bambino?





Natura umana

Oggigiorno, ognuno di noi sa bene che la natura umana non esiste più. Le nostre pulsioni e i nostri atti, soprattutto nella sfera sessuale, non sono altro che mere convenzioni imposte dalla società e che variano secondo i tempi. Non c'è nessuna legge biologica che sia in grado di guidarci né di illuminarci, come è stato formalmente decretato dai nuovi umanisti.

Dato che lo spirito scientifico non accetta affermazioni perentorie se non con beneficio d'inventario è permesso pensarci due volte prima di ammettere che gli istinti nella nostra specie non esistono, o che le pulsioni amorose non sono altro che brividi senza significato né logica. La neuroanatomia ci mostra quale imprudenza sarebbe disconoscere il modo in cui siamo fatti.

Il "sacco di pelle" che copre e delimita questa casa di carne di cui siamo gli abitanti è repertoriato punto per punto nella corteccia cerebrale. All'incirca all'altezza del cerchietto con il quale le ragazze tengono fermi talvolta i capelli, si osserva, sul versante posteriore della scissura di Rolando, la rappresentazione sensitiva di tutto il nostro corpo.
L'omuncolo neurologico si trova come allungato sulla parietale ascendente, la testa rivolta verso il basso, le gambe verso l'alto, con i piedi penzoloni nel solco che separa i due emisferi.
Ogni parte si ritrova nell'ordine consueto: la testa, il collo, la mano, il braccio, il tronco, il bacino, la gamba, il piede e le sue dita e, in fondo alle dita del piede, gli organi genitali. Questa disposizione, a prima vista scioccante, diventa assolutamente ovvia non appena ci si ricorda che viviamo in piedi. Se l'uomo camminasse a quattro zampe, vedremmo che l'organo genitale si troverebbe effettivamente all'estremità posteriore del tronco e, di conseguenza, verrebbe proiettato immediatamente dopo la rappresentazione della gamba e delle dita del piede.
In questo modo, la sfera genitale è la sola parte del nostro corpo la cui rappresentazione cerebrale viene direttamente in contatto con l'enorme lobo limbico, sede di tutte le emozioni; è in quest'ultimo, infatti, che si organizzano le pulsioni che ci muovono: quelle che mirano alla sopravvivenza dell'essere (la fame, la sete, l'aggressività), e quelle che mirano alla continuazione della specie (l'appetito genitale, l'attrazione verso il partner, la difesa del piccolo, la fedeltà al proprio simile).
Ne consegue che siamo fatti in modo tale che ciò che coinvolge la sfera genitale turba direttamente il morale dal punto di vista neurologico. Da cui l'impossibilità, sembrerebbe, di dominare il comportamento emotivo e di controllare gli istinti, se l'impero della volontà non si estende anche, e forse anzitutto, al comportamento genitale cosciente e deliberato.
La vecchia battuta degli amorali di un tempo: "se la morale esiste si trova molto mal collocata in fondo ai calzoni" , non era che ignoranza della neuroanatomia. Non è lo smarrimento dei rigoristi che ha collocato l'organo genitale in stretto contatto con le emozioni, è la memoria della vita...

Fontes vitae

Durante tutto il corso della vita, le pulsioni amorose si presentano di volta in volta sia isolatamente sia tutte insieme, e spetta alla persona equilibrarle.
Pulsione particolarmente potente, l'appetito genitale può manifestarsi del tutto isolatamente negli esseri viventi di grado più basso. Certi pesci maschi, per esempio, spargono il loro sperma sulle uova deposte da una femmina sconosciuta che non incontreranno mai. Ridotto alla pulsione genitale, il comportamento sessuale sarebbe soddisfatto da un mero sfogo automatico.
Negli esseri superiori, l'attrazione verso l'altro sesso orienta questo appetito e, in noi, la tenerezza gli dà tutto il suo significato: è necessaria l'unione di due persone per generarne una terza.
Questa trilogia caratteristica della riproduzione naturale impone che la tenerezza unisca persone di sesso diverso. Da cui l'espressione del linguaggio comune, che reputa contro natura il rapporto omosessuale, che soddisfa l'appetito in modo contraffatto e non può in alcun modo rispettare il partner, e ancor meno il figlio.
La trasmissione della vita non si esaurisce nella procreazione; la difesa del piccolo ne rappresenta il seguito obbligato. Questa pulsione è cosi forte in tutti i vertebrati (e persino negli invertebrati) che non parrebbe necessario insistere sulla sua importanza per noi esseri umani. Al primo strillo del neonato ognuno percepisce la forza di questo irresistibile richiamo. Tuttavia, l'aborto e l'infanticidio dimostrano quanto la natura umana sia terribilmente dilaniata.

Infine, la fedeltà alla famiglia e al gruppo, questo sentimento di appartenenza, questo bisogno di darsi totalmente costituisce la base della società. Tuttavia, l'abbandono de bambini o la soppressione dei malati che certi innovatori esaltano, rispolverando instancabilmente i più antichi sofismi rivelano la vulnerabilità degli istinti nella nostra specie.

Le scienze naturali, però, non sono in grado di condurre oltre; pur non rinunciando a un'analisi approfondita, il biologo osserva con prudenza e rispetto questo fenomeno, squisitamente umano, dell'impegno delle persone:
- lasciare il padre e la madre per formare una carne sola, per sempre, con il proprio sposo, appare facilmente immaginabile;
- proteggere i propri figli, i propri genitori e tutti i membri del gruppo si rivela assolutamente auspicabile;
- dare la propria vita per coloro che si amano, anche questo pare concepibile, almeno teoricamente.
Senza pretendere di ignorare le difficoltà e le sofferenze, o semplicemente gli inconvenienti, si vede che il matrimonio da equilibrio ai rapporti d'amore.
Allora, perché rifiutare le umili gioie del focolare, il fascino dei figli, il calore della famiglia e del gruppo?
Perché questo abbandono volontario delle felicità più garantite?
Nessuna inclinazione ci predispone in questo senso. Cionondimeno, il celibato consacrato dimostra chiaramente che un altro equilibrio è possibile.

Coelibatus

La riflessione di un biologo non può pretendere di spiegare un fenomeno religioso, ma rimane la possibilità di studiarne gli effetti più evidenti.

Il sentimento d'appartenenza può trovare nel celibato il suo maggior sviluppo.
Ne è testimone questa confidenza di un missionario di grande esperienza: "In tutta la mia carriera - diceva - e nelle regioni più sperdute, non ho mai incontrato stranieri. Dovunque ho trovato dei fratelli".

Vista dal cielo, infatti, se si potesse dire così, la prospettiva è più ampia. Il sacerdote riconosce nel suo prossimo un suo simile, ma egli, al tempo stesso, sente, nel fratello che vede, lo spirito del Padre che non vede. La natura umana è uno specchio deformante scalfito e gonfiato dalla cicatrice del nostro peccato originale, intelligenza divisa tra la ragione e il cuore. Ma questa similitudine incerta, questa immagine indecisa, quasi irriconoscibile, rimane tuttavia accessibile a colui il cui occhio è cambiato.

La difesa del piccolo viene anch'essa esercitata in pieno. L'inibizione geniale dei popoli cristiani è quella di associare al carattere genitoriale una virtù, la bontà.

Di quelle che servono i più poveri, i diseredati, i poco amati, si dice molto giustamente che sono sorelle e, meglio ancora, che sono buone. Più di ogni parametro sociologico o statistico, il ruolo delle buone sorelle rappresenta la misura empirica del grado di cristianità. Un dettaglio dell'abbigliamento viene in aiuto alla loro azione. Il velo è estremamente efficace affinché l'affetto manifestato e la carità prodigata non si prestino a false interpretazioni.

Una piccola sorella degli infermi osservava che, vestita alla meno peggio, come si fa oggigiorno, non osava più entrare con la stessa sicurezza di una volta negli ambienti mal frequentati: "La gente", diceva lei, "non riesce più a vedere nel nome di Chi io vengo".

Essa esprimeva così l'impegno della persona, sola ragione del celibato, così come me lo ha fatto comprendere una superiora che guidava il suo convento con la più efficace delle dolcezze.
"L'impegno, la scelta dello sposo, ed è di vocazione che si parla! Il prete e la suora, dicono, non devono sposarsi perché possano restare pienamente disponibili per consacrare a Dio e dedicarsi agli altri.
- Certo, questo non è sbagliato, ma è vero nell'ordine inverso: quando ci si è impegnati totalmente per Dio, come potrebbe contrarre un altro matrimonio?
- Alle postulanti rispondo: se voi non vi sentite chiamate a seguire il Signore come se foste le sue compagne, cercatevi un marito. Entrambe le vocazioni sono legittime, ma non contemporaneamente! ".

Resta l'appetito genitale, questa pulsione esplosiva più insistente nell'uomo, almeno a livello fisico. Per fondamentale che essa sia (ne dipende l'avvenire della specie), questa funzione biologica è l'unica la cui mancata soddisfazione non comporta alcuna patologia.
Non si può dire lo stesso della fame, della sete, o del bisogno di dormire.

Nel celibato, la pulsione persiste, sempre altrettanto specializzata, ma l'appetito si generalizza. Da genitale che era si accresce genialmente, risalendo l'albero della vita fino a Colui che la genera. Cercando la propria felicità sull'altro versante del tempo, l'essere umano, finalmente guarito, si unisce all'infinito Presente.
Questo appetito sublime è forse l'origine della parola coelibatus. Seneca la impiegava per lo stato non matrimoniale; Giulio Valeriano l'applicava alla vita celeste. Lo storico poco conosciuto è forse andato più vicino alla verità di un moralista di fama: il cuore che rinuncia agli amori per l'amore più grande è davvero Coeli beatus [= un celeste beato, un cittadino celeste.!]







Questo Articolo proviene da Pagine cattoliche



MAGNIFICAT * ANIMA MEA DOMINUM !












MEMENTO, DOMINA, VERBI TUI
SERVO TUO
IN QUO MIHI SPEM DEDISTI

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giovedì 25 settembre 2014

4. - UN REGALO ECCEZIONALE di EMMANUEL ANDRÈ


LIBRO QUARTO

Le virtù necessarie all'esercizio del ministero




CAPITOLO I
LA GRANDEZZA DEL MINISTERO È LA MISURA DELLE VIRTÙ CHE RICHIEDE

Il ministero è un'opera divina: "Questa è l'opera di Dio credere in colui che egli ha mandato" (Gv. 6,29). San Paolo lo chiama opera del Signore: "Opus Domini" (I Cor. 16,10) Dio, infatti è il primo autore della salvezza degli uomini; fu il primo a volerla, il primo che ne pose le condizioni e ne istituì i mezzi, il primo che vi si è adoperato in Gesù Cristo Nostro Signore: "È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo" (2 Cor. 5,19). 
Dio chiamo gli uomini a suoi cooperatori nell'opera della salvezza degli uomini, tuttavia Egli è l'agente principale nell'esecuzione dell'opera divina: "Affidando a noi la parola della riconciliazione; noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro" (Ivi 19,20). Ne consegue che il sacerdote è veramente l'ambasciatore, l'incaricato d'affari, il ministro di Dio, e come dice San Paolo: l'uomo di Dio: "Homo Dei" (I Tim. 6,2). 
Da questo San Paolo conclude che l'uomo di Dio è preparato, disposto, diremmo quasi equipaggiato per ogni opera: "L'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" (2 Tim. 3,17). Ossia l'uomo di Dio diventa così, a suo modo, l'uomo-Dio e per i poteri divini che esercita dev'essere ornato di ogni virtù. Dev'essere perfetto come il Padre celeste è perfetto (Matteo, 5,48). 
Perciò abbiamo molto da fare prima di poter dire come San Paolo: "Ci ha resi ministri adatti di una nuova alleanza" (2 Cor. 3,6). 
Fra tutte le virtù necessarie al sacerdote, al ministro della salvezza delle anime, al pastore, San Gregorio Magno ne richiede principalmente dieci: ne parla in modo ammirevole nella seconda parte del suo Pastorale: voglia egli perdonarci se scriviamo al suo seguito qualche cosa intorno a quelle virtù ch'egli possedeva e che noi non possediamo.



CAPITOLO II
LA CASTITÀ

Dio è santo, anzi è la stessa santità; per questo egli vuole che i suoi ministri siano santi. Orbene: il carattere proprio della santità del sacerdote è la castità. 
Il vescovo nell'atto di ordinare i diaconi dice loro: "Estote assumpti a carnalibus desideriis, a terrenis concupiscentiis; estote nitidi, puri, casti sicut decet ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei" (Pont. Rom). Per cui se nel diacono si deve effettuare un tale ministero di assunzione, tanto più deve divenir grande nel sacerdote. L'uomo di Dio non può essere uomo della carne, perché Dio è tutto spirito. 

Il sacerdote sia che si consideri in faccia a Dio e in faccia a nostro Signore, vedrà che deve a Dio e a nostro Signore l'omaggio della più perfetta castità. Se poi si considererà in faccia ai fedeli vedrà che a tutti deve sempre castità per essere sempre per loro l'uomo di Dio, pronto a dare i sacramenti, pronto a lavorare per guarire le piaghe delle anime. 
La castità del sacerdote dev'essere una castità eccellente; se no sarebbe in difetto rispetto a Dio per la quotidiana celebrazione del Sacrificio e per la comunione quotidiana; in difetto rispetto ai fedeli per i quali non sarebbe mai un medico capace, qualora diventasse un uomo colpevole. 

La purezza del sacerdote esige da lui una vita seria, regolata, mortificata, assente alle dissipazioni mondane, una vita di preghiera, ritirata e di studio. 

È a questo prezzo che il sacerdote sarà l'uomo di Dio e si manterrà in alto nello stato di assunzione che il vescovo gli ha augurato, ordinandolo diacono. In questo modo egli potrà ascoltare la voce di Dio nella preghiera; potrà vedere con tranquillità e dall'alto lo stato delle anime sulla terra: potrà impegnarsi a guarirle senza esporsi a contrarre egli stesso il male. 
Insomma, la castità è una virtù così indispensabile al sacerdote che assolutamente non esitiamo di affermare che la potenza del sacerdote è in ragione diretta della sua castità
Per giudicarne, si guardino da un lato i Santi e dall'altro un sacerdote caduto o che sta per cadere: i Santi sono potenti "in opere et sermone"; i sacerdoti caduti o che stanno per cadere non possono nulla: danno a sé stessi la testimonianza della loro impotenza ed hanno il solo diritto di tacere.



CAPITOLO III
IL BUON ESEMPIO

"Sii esempio ai fedeli", dice San Paolo al suo discepolo Timoteo (I Tim. 4,12). "Offri te stesso come esempio in tutto", dice a Tito (Tit. 2,7). 
Scrive San Giovanni Crisostomo che l'anima del sacerdote dev'essere più pura dei raggi del sole (De Sacerdotio lib. VI, cap. 2). 
Scrive anche che i vizi di un sacerdote non possono restare nascosti e quando fossero poca cosa si rivelano molto presto: "Ne utiquam possunt sacerdotum vitia latere, sed etiam exigua cito conspicua sunt" (Ibid. lib. III, cap. 14). 

Senza il buon esempio il sacerdote non può né agire, né parlare utilmente per le anime. Egli deve avere il diritto d'insegnare agli altri. 
San Gregorio Nazianzeno non pensava altrimenti quando diceva: "Prima di purificare bisogna essere purificati e prima d'insegnare la sapienza bisogna averla acquistata. Prima di rischiarare bisogna diventare luminosi; prima di condurre gli altri a Dio bisogna esserne vicini noi stessi e prima di santificare, bisogna essere santo" (Oratio I o II). 
Il sacerdote non saprà mai insegnare le virtù che non possiede e non riuscirà a far praticare il bene ch'egli non avrà praticato. L'esempio è la prima forma di predicazione e senza questa non servirà a nulla tutta l'eloquenza di questo mondo: "Bronzo che risuona o un cembalo che tintinna"
San Girolamo suppone il caso di un sacerdote che avesse intorno a sé dei fedeli virtuosi senza essere virtuoso egli stesso, o meno di coloro che devono imparare da lui e nettamente afferma che un sacerdote così fatto è la distruzione, la rovina della Chiesa, e una rovina violenta: "Vehementer enim Ecclesiam Dei destruit,  meliores esse laicos quam clericos". 
È facile cogliere la ragione di questo detto. I fedeli non trovando nei loro pastori ciò di cui hanno bisogno per progredire nelle virtù e anche per preservarsi, andranno verso il declino che sarà tanto più rapido quanto il pastore sarà meno atto a sostenerli là dov'essi avrebbero potuto spiccare il volo. 
L'esempio è perciò necessario e dev'essere tanto più perfetto quando si devono istruire delle anime più perfette.




CAPITOLO IV
LA DISCREZIONE NEL SILENZIO

Il sacerdote deve saper conservare un silenzio discreto: il rispetto che deve a Dio, a nostro Signore, al Santo Sacramento e alle anime, delle quali è pastore gl'impongono una legge indispensabile di discreto silenzio. 
Una sua parola di troppo può compromettere il suo ministero e nuocere alla stessa parola di Dio quando l'annuncerà. 

Il sacerdote dovrebbe parlare soltanto quando ha da Dio l'ordine di parlare: ciò appartiene agli obblighi del ministro che deve aprire la bocca soltanto secondo le intenzioni del principe che lo ha inviato. Se il sacerdote è uomo di preghiera non avrà difficoltà ad osservare la legge della discrezione e del silenzio: quando si ha l'onore d'intrattenerci con Dio nella preghiera, con Nostro Signore durante il Santo Sacrificio, non si ha punta inclinazione a conversare con gli uomini. 
Il sacerdote chiacchierone non sarà mai considerato dalle anime come uomo di Dio e in questo le anime non sbagliano mai.



CAPITOLO V
L'UTILITÀ DELLA PAROLA

C'è, dice lo Spirito Santo, un tempo per tacere e un tempo per parlare. L'uomo di Dio deve saper discernere questi tempi, e quando viene il tempo di parlare bisogna ch'egli vigili per dire ciò che Dio vuole ch'egli dica, e ciò che le anime hanno diritto di aspettarsi da un inviato di Dio. 
San Pietro, ammaestrando tutti i cristiani disse: "Chi parla, lo faccia come con parole di Dio" (1 Pt. 4,11). Ma s'egli avesse scritto ai soli sacerdoti, avrebbe detto senza dubbio: "Se il sacerdote parla, lo faccia con parole di Dio". Avrebbe cioè soppressa la parola "come". 
Sul pulpito il sacerdote deve parlare come Dio stesso; fuori di là, come l'uomo di Dio
È nota l'espressione di San Bernardo riguardo alle parole buffe: "In ore saecularium nugae nugae sunt; in ore sacerdotum blasphemiae". La parola del sacerdote dev'essere sempre senza affettazione, affabile senza trivialità, dolce senza adulazioni, grave senza durezza, deve richiamare alle anime il ricordo di Nostro Signore del quale si dice: "Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!" (Gv. 7,46).




CAPITOLO VI
LA CARITÀ COMPASSIONEVOLE VERSO TUTTI

Il sacerdote è debitore a Dio e al prossimo: a Dio deve la preghiera, al prossimo deve una tenera e compassionevole carità. 
Nostro Signore che nell'Evangelo ci ha dato un si grande numero di divini insegnamenti di tenerezza verso i peccatori e ci ha insegnato le parabole si commoventi del figlio prodigo, della pecorella sperduta, la storia della donna adultera, è egli stesso il modello della tenera carità che deve avere il pastore delle anime. 
"Che il pastore, scrive San Gregorio, sia avvicinato da tutti i suoi fedeli per la sua compassione: che con le viscere della sua misericordia attiri a sé e prenda su di sé per caricarle, le infermità di tutti. Che il pastore si mostri in modo tale che i fedeli non abbiano alcuna ripugnanza a rivelargli quanto hanno di più segreto, e quando i piccoli sono agitati dai flutti delle tentazioni facciano ricorso a lui, come al seno d'una madre, "quasi ad matris sinum!".


CAPITOLO VII

L'UNIONE A DIO NELLA PREGHIERA

Quando la carità compassionevole, la tenerezza paterna e anche materna deve avvicinare il pastore ai suoi fedeli, altrettanto lo zelo della preghiera deve mantenerlo unito a Dio. 
Il pastore è l'uomo di Dio: non può nulla se non con l'aiuto della grazia: deve ricevere da Dio le istruzioni di Dio: da Dio deve sollecitare le grazie necessarie e a sé e al suo gregge. Come farà se prima di tutto egli non sarà uomo di preghiera? 

Dice San Paolo: Noi siamo gli ambasciatori di Gesù Cristo: "Pro Christo legatione fungimur" (2 Cor. 5,20). Ora, ogni ambasciatore deve ricevere le istruzioni di colui che lo manda per farne gl'interessi: perciò come il sacerdote potrà adoperarsi per gl'interessi di Dio presso le anime se da Dio non ebbe una parola? E come avrà egli una parola da Dio se non con la preghiera? 
E qui ritorna l'affermazione di San Pietro che abbiamo più volte ricordata: "Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola" (At. 6,4). Dove si vede che l'Apostolo pone prima di ogni cosa la preghiera nella quale riceverà le luci di Dio che poi trasmetterà ai fedeli con la predicazione. "Preghiera e ministero della parola". La parola che non è stata "pregata" sarà sempre un vano rumore; impotente e infeconda: invece di essere la parola di Dio sarà la parola dell'uomo. Perciò, prima di tutto e sopra tutto: bisogna pregare.




CAPITOLO VIII
L'UMILTÀ

Il sacerdote ha doppiamente bisogno della grazia di Dio: ne ha bisogno per se stesso, ne ha bisogno per il suo gregge. Siccome poi Iddio, seguendo la più che saggia legge della sua misericordia e della sua giustizia, resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili, ne consegue che il sacerdote ha una duplice necessità, una necessità più viva, di quanto ne hanno i fedeli, di essere veramente umile. Ha bisogno di conoscere le vie di Dio e i suoi segreti; ha bisogno di conciliarsi la grazia di Dio e di conciliarla alle anime delle quali è pastore. Come potrà egli essere mediatore associato a Dio se non è umile? Forse Iddio si rivelerà all'uomo che vuol penetrare nei suoi segreti per rapirgli la sua gloria e attribuirla a sé stesso? Farà Iddio canale della sua grazia l'uomo che col suo orgoglio si fa nemico della grazia? Come potrà trattare con Dio della riconciliazione delle anime colpevoli chi pone sé stesso in rivolta con Dio col suo orgoglio? 
Senza umiltà non c'è ministero possibile: Dio certamente ci vuole elargire la sua grazia, ma non vuole che lo rapiniamo della sua gloria: e dal momento che un sacerdote cerca la gloria per sé, cessa di essere il mediatore della grazia: "Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia" (Giac. 4,6).


CAPITOLO IX

DELLO ZELO DELLA GIUSTIZIA

Lo zelo della giustizia è perfetta abnegazione agli interessi di Dio e negli interessi di Dio sono necessariamente compresi gl'interessi delle anime: perché Dio vuole la salvezza delle anime; è lo stesso interesse di Dio, dal momento che lì sta la sua maggior gloria. 

Gl'interessi di Dio sovente sono compromessi dagli uomini: in questo caso il pastore, che sta tra Dio e gli uomini, si troverà spesse volte in lotta con gli uomini per difendere gl'interessi di Dio. Lotta che non è senza difficoltà: poiché se il pastore deve sé stesso a Dio di cui è l'uomo, deve anche sé stesso alle anime delle quali è pastore, e pastore responsabile. Se egli vede gl'interessi di Dio, per così dire con un occhio solo, si affaticherà in un modo imperfetto e comprometterà le anime: e, per altro, se mira a non compromettere le anime, potrà tuttavia mancare gl'interessi di Dio. 

La difficoltà è grande, sovente estrema: vi è un pericolo d'ambo i lati. Da un lato il pastore dovrà temere di venir meno nei riguardi di Dio e dall'altro di mancare verso le anime. 
In un tale modo di essere le cose, lo zelo non è un consigliere sufficiente: può, se è solo, far cadere negli eccessi e può compromettere lo stesso bene che cerca. Con lo zelo ci vuole anche la scienza; con la scienza, l'umiltà, la purezza delle vedute e dell'intenzione; cose tutte che il pastore non troverà mai se non è prima di tutto uomo di preghiera: "Orationi... instantes erimus".



CAPITOLO X
IL SACERDOTE DEV'ESSERE UOMO INTERIORE

La molteplicità delle cose che fanno parte delle sollecitudini di un pastore è necessariamente grandissima: le persone e le cose, i corpi e le anime, gl'interessi spirituali dei fedeli e quelli temporali della chiesa, tutto pesa insieme sul pastore. 
Tutti gli avvenimenti possono avere un influsso sugli interessi delle anime e il pastore deve necessariamente vigilare su tutto. Tutte le età, tutte le condizioni, tutti i buoni e tutti gli altri devono essere per lui oggetto d'incessante sollecitudine. Pero non ci può essere lì il pericolo di lasciarsi assorbire dalle sollecitudine esterne, dalle preoccupazioni delle persone e delle cose? 
La carità che il pastore deve al suo gregge non potrebbe essere per lui una causa, un pretesto e un'occasione per lasciarsi assorbire nella cura delle cose esteriori, della salute, degli interessi temporali e di qualsiasi altro interesse? 
Un pastore deve pensare un po' a tutto, tener conto di tutto, estendere la sua carità a tutto, ma questo tutto non deve punto assorbirlo. Sopra questo tutto che è il gregge, c'è il tutto che è Dio, e il sacerdote deve applicarsi a Dio più che a tutto, e non potrà essere veramente utile a tutto a condizione che sia tutto di Dio. Il pastore troverà in Dio la luce, la misura, il vero zelo, la discrezione e le virtù necessarie per transitare in mezzo alle sollecitudini esterne del ministero per esser utile al gregge senza nuocere a sé stesso; per dedicarsi al prossimo senza cessare di stare unito con Dio.


CAPITOLO XI
IL SACERDOTE DEV'ESSERE DISINTERESSATO


"Avaro nihil est scelestius", dice lo Spirito Santo (Eccl. X,9). Noi possiamo dire anche che nulla è più contrario allo spirito del ministero quanto l'amore al denaro. 
Dio non è né oro, né denaro e l'uomo del denaro non può essere l'uomo di Dio. 
Il sacerdote, se fosse possibile, non dovrebbe toccare per terra, "Perché è il messaggero del Signore degli eserciti" (Ml. 2,7). 
Messaggero celeste, ambasciatore di Dio, il pastore deve aspirare soltanto al cielo e volere soltanto Dio; l'eredità da lui scelta quando divenne chierico: "Il Signore è mia parte di eredità" (Sal. 16,5). 
Il pastore dedito a Dio e alle anime non può essere preso dalle sollecitudini del bene e del mangiare: "Non affannatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo?" (Mt. 6,31). 
Il pastore che si rimettesse semplicemente per tutte queste cose alle cure della Provvidenza, non mancherebbe di nulla. 
Questo esattamente accadde per gli Apostoli. Nostro Signore li aveva inviati a predicare, e li aveva inviati con nulla, e non manco loro alcunché: "Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa? Risposero: nulla" (Lc. 22,35-6). 

Il pastore riceverà da Dio il suo pane quotidiano, e non riceverà soltanto per sé stesso, ma anche per i suoi poveri. Riceverà con una mano e darà con l'altra; e avrà tanto più da dare quanto più si rimetterà soltanto a Dio per ciò che gli occorrerà. Testimone San Vincenzo de' Paoli, l'uomo che in questo mondo ha dato di più.


La via della luce


Indicazioni per trovarla:

<<Ama chi ti ha creato e temi chi ti ha plasmato.
Glorifica chi ti ha redento dalla morte.
Odia tutto ciò che dispiace a Dio.
Disprezza ogni ipocrisia:
“Lingua doppia, laccio di morte”.
Meglio tacere che parlar precipitoso.
Non abbandonare i comandamenti del Signore.
Non esaltarti mai, ma sii umile in tutte le cose.
Non disinteressarti dei figli, ma insegna loro
il santo timor di Dio fin dall’infanzia.
Ama il prossimo tuo più della tua vita.
Non essere avaro, né insaziabile.
Frequenta persone umili e giuste.
Qualunque cosa ti accada prendila in bene
sapendo che nulla avviene che Dio non voglia.
Ama come pupilla degli occhi chi ti dice la parola di Dio.
Massimo impegno nel mantenerti casto.
Giorno e notte, sempre, ricorda il giudizio finale
e sospira il Paradiso.
Medita assiduamente come salvare
un’anima sia pure con una parola.
Odia il male, giudica con giustizia,
evita dissidi, porta la pace.
Confessa umilmente i tuoi peccati,
e prega sempre con coscienza pura.

Questa è la via della luce.>>

(San Barnaba)


3. - UN REGALO ECCEZIONALE di EMMANUEL ANDRÈ


LIBRO TERZO

Il campo del ministero

 

CAPITOLO I
DONDE LA NECESSITÀ DEL MINISTERO ECCLESIASTICO

L'autorità ecclesiastica come l'autorità civile, e, conseguentemente tutta l'economia del santo ministero, hanno la loro ragione di essere dopo la caduta originale. 
Se Adamo non fosse caduto, l'umanità fedele a Dio avrebbe goduto di una felicità così grande che avrebbe avuto al di sopra di se stessa soltanto la felicità della vita eterna. 
L'uomo sottomesso a Dio avrebbe attinto direttamente la vita dalla grazia; non avrebbe avuto bisogno di una guida per trovare Dio, e con la santa e divina grazia sarebbe andato a Lui senza inciampare e senza venir meno. 
Ma l'umanità non è più così; il peccato è entrato nel mondo e ha mutato in un modo sorprendente tutte le condizioni di questa terra. Per difenderci contro gli iniqui, Dio volle che nella società vi fosse l'autorità dei re e per ricondurci al bene e alla vita eterna volle che ci fosse un'autorità ecclesiastica e un ministero ecclesiastico e infine volle che le sue grazie giungessero agli uomini attraverso mezzi proporzionati ai bisogni degli uomini decaduti. 
Adamo, dimentico di ciò che doveva a Dio, considero cosa buona piacere ad Eva, come Eva aveva considerato cosa buona ubbidire a Satana; e Dio volendo che il rimedio rispondesse alla natura della colpa, da parte sua considero cosa buona che l'uomo fosse assoggettato all'uomo, sottomesso ai sacramenti, sottomesso a un minuzzolo di pane, a una goccia d'acqua. 
Cioè Dio umilio la sua creatura orgogliosa e qui il nostro ministero ha la sua ragione di essere; per essere i ministri della salvezza degli uomini, noi siamo i ministri dell'umiliazione degli uomini.


Quanto queste prospettive devono umiliarci se abbiamo gli occhi per vedere la profondità dell'umana caduta, la vera natura dei rimedi dei quali siamo ministri e, per conseguenza, la vera natura del nostro ministero!
Oh! Non abbiamo certamente nulla per gloriaci dell'autorità che Dio ci ha dato, dal momento che questa autorità è essa stessa una prova sempre parlante, una testimonianza sempre irrevocabile della caduta dell'umanità, della nostra caduta in essa e con essa. Ora che siamo caduti abbiamo il duplice obbligo di rialzarci e di lavorare a rialzare gli altri.
Il primo sta al di sopra delle forze dell'uomo; che diremo dunque, che faremo noi che con questo primo obbligo dobbiamo rispondere anche al secondo?
Siamo dei caduti: è qui, nell'attuale condizione dell'umanità, la ragione del ministero ecclesiastico.

CAPITOLO II
LA NATURA DEL MALE PRESENTE

Il male presente è semplicemente il peccato originale e le sue conseguenze. Qualunque sia il nome col quale si chiama, il male presente non è, non può essere un'altra cosa. Il peccato è entrato nel mondo per mezzo di Adamo; il peccato di Adamo è diventato il peccato dell'intero genere umano: è da quest'unica sorgente, ma fecondissima, troppo feconda, da dove sono venute tutte le sventure delle anime.
Il peccato originale, anche là dov'è stato cassato dal battesimo, ha lasciato la triplice concupiscenza: l'orgoglio, l'avarizia, la voluttà.
La nostra maggior disgrazia sta nel fatto che queste infelici concupiscenze hanno ripreso il sopravvento nei battezzati; e in questo modo vi regnano così potentemente che il battesimo, la cresima e la comunione sembrano aver perduto la loro efficacia sulle anime d'oggi.
Molti cristiani aihmè! sembrano battezzati soltanto per diventare degli apostati; molti sembrano stati cresimati per rinunciare allo Spirito Santo piuttosto che per riceverlo; non ci sono quelli che partecipano all'Eucarestia solo per calpestare più autenticamente il Figlio d'Iddio?
Perciò i rimedî che dovevano salvare si mutano in veleno mortifero: i sacramenti, che sono i canali della grazia, troppo spesso diventano i sigilli del peccato.
In troppi luoghi l'apostasia è lo stato generale delle anime, un'apostasia sovente più stupida che voluta: si vive fuori di Dio, di nostro Signore, dello Spirito Santo, fuori da tutto ciò che è soprannaturale.
E nonostante ciò si è dei battezzati! Quale oltraggio alla grazia divina! Quale oltraggio allo Spirito Santo! Quale ingratitudine verso Dio, verso l'adorabile persona del Salvatore, verso lo Spirito Santo!

CAPITOLO III

COME SI PROPAGA IL MALE PRESENTE

La sorgente del male, l'abbiamo detto, è il peccato originale. Questa sorgente, pero, è segretissima, e proprio dal segreto che l'avvolge trae maggior facilità per propagare i suoi veleni.
Il peccato originale è poco conosciuto, e spesso mal conosciuto. Poiché ha gettato le anime nell'ignoranza, sembra impegnarsi a nascondere soprattutto la sua malizia che essenzialmente consiste in due cose: la perdita della giustizia originale e il deterioramento della natura: ma oggi, pur ammettendo la perdita della giustizia originale, si vorrebbe tuttavia non riconoscere che la natura è stata deteriorata.
Questa conoscenza così monca del peccato originale lascia campo libero ad una folla di errori, ed è assolutamente impotente nella salvezza di alcunché, seguendo la massima assai conosciuta: "Bonum ex integra causa: malum ex quocunque defectu".
Da questo non saper e non voler riconoscere il deterioramento della natura causato dal peccato originale derivano conseguenze funestissime.
La natura diventa orgogliosa di sé stessa nonostante la solenne espressione dell'Apostolo: "Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l'avessi ricevuto" (1 Cor. 4,7).
La natura, essendosi fetta cieca sul suo male, è portata ad abusare del suo proprio bene. Ne abusa col farsene una arma contro Dio e nello stesso tempo per ferire sé stessa con nuove ferite. Possiede la ragione, la libertà e i sensi e ne abusa. La sua insolente rivolta contro Dio l'imprigiona nel naturalismo; e con uno strascico di inevitabili conseguenze la sua ragione sprofonda nel razionalismo, la sua libertà nel liberalismo e i suoi sensi nella sensualità.
Eppure dopo tutte queste spaventose conquiste nel male, la natura, essendo rimasta insoddisfatta, si volta contro il Salvatore; nega la sua divinità, l'umanità, la grazia, la sua Chiesa, per finire col negare tutto. Poi dice a se stessa come l'antica Babilonia: "Io e nessuno fuori di me" (Is. 48,8).
È vero che il male non è grande in tutte le anime; ma negli stessi credenti le verità sono singolarmente diminuite. Esiste per essi un naturalismo addolcito che non si preoccupa di esser elevato a dogma, ma che si contenta perfettamente di esser accettato come dottrina pratica. C'è un razionalismo mitigato che non condanna la fede, ma che spesso si riserva il diritto di giudicarla; c'è anche un liberalismo cattolico; e benché non si sia ancora osato di pronunciare il nome di un sensualismo cattolico, si deve tuttavia ammettere che il sensualismo ha già invaso molte anime cattoliche nelle quali la vita sensuale è giunta a soffocare la conoscenza della stessa mortificazione cristiana, senza la quale, pero, secondo la testimonianza dell'Apostolo non esiste la vita davanti a Dio: "Poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del vostro corpo, vivrete" (Rm. 8,13).
Qui bisogna sottolineare un fatto capitale sul quale il razionalismo ha singolarmente falsificata le idee delle stesse anime buone. Se si studiassero gli autori che hanno trattato della grezia fino al secolo XV o XVI e si confrontassero con essi gli autori dei tempi moderni, si potrebbe osservare che esiste tra loro una differenza considerevole. In quella si riconosce in tutta la sua potenza la grazia medicinale del Redentore, la gratuità e l'efficacia. Nei moderni, invece, l'efficacia della grazia per lo più è attribuita alla volontà della creatura mentre anticamente la si considerava come un dono della stessa grazia. Riteniamo perciò che gli uomini, anche quelli cristiani, del nostro tempo non sono in grado di leggere il trattato di San Bernardo: "De gratia et libero arbitrio" senza smarrirsi, e, forse, senza scandalizzarsi. L'Abate Rohrbacher non ha forse scritto che San Bernardo non seppe fare distinzione della natura e della grazia? Voi pigmei del secolo XIX, voi avete scritto ciò riguardo San Bernardo; voi avete scritto lo stesso di Sant'Agostino.
I piccoli uomini del tempo presente non hanno ricevuto dalla grazia le percezioni che ricevettero gli antichi, perciò non ritengono di aver tanta necessità di pregare per chiedere, ottenere e conservare la grazia. Che cos'è la preghiera oggi? Dove le anime che pregano? Non è forse vero che la maggior parte dei cristiani che ancora pregano fanno consistere la preghiera nella recita di formule? Oh quanto sono lontani dal cristianesimo di nostro Signore e dei suoi Apostoli che è spirito e vita!

CAPITOLO IV

COME PUÒ ESSERE GUARITO IL MALE PRESENTE

Nostro Signore è l'unico Salvatore degli uomini, perciò fuori di Lui non si trova assolutamente alcun rimedio ai mali che ci affliggono: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At. 4,12).
Se la natura è ammalata del male chiamato naturalismo, per essere guarita deve sottomettersi a Gesù, altrimenti conserverà il proprio male che la perderà senza posa e per sempre.
Bisogna pero osservare che la sottomissione necessaria per la guarigione dev'essere totale e affettuosa: è necessario abbandonarsi al medico celeste per ricevere l'intera efficacia dei suoi divini rimedî: ogni riserva nella sottomissione non solo compromette la guarigione, ma spesso la fa diventare impossibile: "Io voglio essere battezzato, disse l'eunuco della regina d'Etiopia". Si, gli rispose Filippo, se tu credi con tutto il tuo cuore; "si credis ex toto corde tuo" (Atti ,8,37). La salvezza si compie a questa condizione.
La ragione ha il suo male che è il razionalismo. Anch'essa per guarire ha bisogno di sottomettersi, di sottomettersi alla fede. Che cosa di più giusto! La ragione creata si deve tutta intera alla ragione increata, la ragione umana alla ragione divina.
Erra la ragione umana quando crede di farsi grande studiandosi di mostrare la sua indipendenza da Dio. Proprio come il figlio prodigo nell'abbandonare la casa paterna. Che cosa trovo egli lontano da suo padre? L'indigenza e la vergogna. La ragione che si scosta dalla fede non può sognare altro. La sua salvezza sta nella parola del figlio prodigo: "Mi alzerò e andrò da mio padre" (Lc. 15,18).
Qui bisogna sottolineare un'altra illusione grandemente funesta nella quale sono cadute molte persone sebbene di rispetto. Poiché è necessario che la ragione umana cammini con la fede, queste persone reputarono di far bene diminuendo la fede; cioè attenuarono le divine esigenze della fede e diminuirono i suoi diritti imprescrittibili, con lo scopo, dicevano a se stessi. di farla più facilmente accettabile. Ma perché fare per le anime ciò che non farebbero per i corpi i medici degni di questo nome? Essi conoscono la dose necessaria perché un farmaco faccia guarire e non si lasciano indurre a prescrivere una dose minore col pretesto che sarà più facile a prendersi; sanno bene che a questa condizione noi vi sarebbe guarigione, e non faranno mai questo. Medici delle anime, perché saremo noi sacerdoti meno abili dei medici dei corpi? "I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce" (Lc. 16,8).
La libertà ha il suo male che è il liberalismo. La libertà è una bellissima e degnissima facoltà dell'anima; il liberalismo è un modo di essere della libertà, ma un modo di essere falso e forzato. Perché la libertà si è data per il bene e per il merito, mentre il liberalismo è una libertà che si compisce fuori del bene e del merito. Come il razionalismo è un abuso della ragione, il liberalismo è un abuso della libertà: abuso che consiste nel fare della libertà stessa la regola della libertà. Ma Dio solo è regola a sé stesso e ogni creatura che vuole imitare Dio in questo non fa che imitare Satana, il primo fra i ribelli. La ragione ha la sua regola nella ragione di Dio che è la fede, e la libertà ha la sua regola nella volontà di Dio che è la carità.
La carità illumina, dirige, sostiene, fortifica la libertà e le fa compiere meravigliosi progressi: perché più l'uomo progredisce nel bene e nel merito, più è libero. Ascoltiamo la grande voce della Chiesa: "Populum tuum, quaesumus Domine, coelesti dono prosequere ut et perfectam libertatem consequi mereatur et ad vitam proficiat sempiternam" (Orazione del lunedì di Pasqua prima della riforma liturgica).
Ciò ci porta a citare nuovamente, per meglio comprenderla e ammirarla, la sublime frase di Sant'Agostino: "Libertas est charitas" (De natura et gratia, lib. I, cap. LXV).
Se poi ci inoltriamo nello studio del male presente, troviamo il sensualismo, l'amore del benessere materiale, l'amore della soddisfazione dei sensi; l'impulso di Eva verso il frutto che le sembrava bello a vedersi e buono a mangiarsi.
Il rimedio a questo male tanto comune e così profondamente radicato nella natura è la penitenza. Fate penitenza, diceva nostro Signore ed era la prima parola della sua predicazione. La penitenza è così necessaria che un giorno egli disse: "Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo" (Lc. 13,3).
La parola penitenza è diventata poco gradita a intendersi e vi è una specie di pudore, di nuovo genere, a pronunciarla.
Ci si è allontanati dalla strada della penitenza che una specie di sant'uomo spacciò gravemente questa massima: "Il digiuno non appartiene più allo spirito della Chiesa; oggi è l'orazione, è l'orazione". Ecco: col pretesto della spiritualità si è giunti a cancellare una buona parte del Vangelo: se poi qualcosa ne ha tratto un guadagno, ci si dica che non è sensualismo?

CAPITOLO V
IL VERO STATO DELLE ANIME

L'umanità è passata per tre stati successivi
il primo dopo la caduta fino a Mosè e si chiama stato della legge di natura; 
il secondo da Mosè a nostro Signore ed è lo stato della legge scritta; 
il terzo da nostro Signore fino a noi, lo stato di grazia che durerà fino alla fine dei tempi.

Sant'Agostino li riassume in tre parole: "Ante legem, sub lege, sub gratia" e, andando più lontano, osserva che questi diversi stati della umanità s'incontrano facilmente nelle anime le quali possono stare "Ante legem", o "sub lege" o "sub gratia". 

*Un'anima sta "Ante legem" quando sta nell'ignoranza, sia perché non le fu data l'istruzione, sia perché l'ha trascurata, non conoscendone il valore.

*Un'anima è "sub lege" quando conosce il bene che deve fare e il male che deve evitare; ma o perché non ha ancora ricevuto la fede, o perché ha trascurato il vivere secondo la fede, sta in peccato pur sapendo che cos'è il peccato.

*Un anima è "sub gratia", quando, con conoscenza, ha ricevuto il dono della fede e la grazia di vivere secondo la fede che opera per mezzo della carità: "La fede che opera per mezzo della carità" (Gal. 5,6).
In questo felice stato d'anima cammina in pace nella via dei santi comandamenti: ama le leggi di Dio e soprattutto Dio; è libera nel bene che ama e avanza con fiducia verso la ricompensa che Dio le promette. Bisogna fare questa distinzione nelle anime per proporzionare le istruzioni alla loro necessità e per non esigere da esse ciò che sorpasserebbe le loro forze. 
Cosi un'anima che sta ancora "ante legem" ha maggior bisogno di ricevere di quanto non è capace di dare; in essa la buona volontà consiste nel ricevere la luce nella misura che le è data, e non le si deve chiedere di più.

L'anima, poi, che è "sub lege" ha bisogno di essere illuminata intorno alla natura della fede, ai misteri dell'Incarnazione, della redenzione, della grazia medicinale del Salvatore, e della natura della carità. Ha bisogno di essere portata alla preghiera e soprattutto al desiderio di una grazia maggiore e più abbondante.

L'anima che sta "sub gratia" chiede di essere ben istruita sulla natura della grazia, della sua gratuità, della sua necessità e sulle sue meravigliose operazioni, e così rimettendosi ad essa con amore, possa camminare nelle strade di tutte le buone opere. Tale anima ha pur bisogno di essere istruita e affermata nell'umiltà onde non esporsi alle cadute: "Chi crede di stare in piedi guardi di non cadere" (I Cor. 10,12). "Tu resti li in ragione della fede. Non montare in superbia, ma temi" (Rm. 11,20). Da qui la necessità che l'istruzione sia proporzionata allo stato delle anime, e che da parte loro l'azione risponda all'istruzione: sarebbe grande sventura chiedere loro più di quanto possono davanti a Dio: per esempio se si volesse condurre alla comunione chi non è neppure "sub lege" o chi stesse "ante legem" in una deplorevole ignoranza Il male fatto alle anime, agendo in questo modo, è incalcolabile e tanto più deplorevole in quanto si sono usati i sacramenti che sono stati ricevuti senza conoscenza, senza preparazione, senza frutto e senza gusto: per cui i sacramenti ricevuti in tal maniera spesso sono gli ultimi sacramenti.

CAPITOLO VI
ANCORA SUL VERO STATO DELLE ANIME

Siccome nei paesi detti cristiani generalmente si esercita il ministero verso persone battezzate, i sacerdoti potrebbero essere indotti a considerare quei battezzati "sub gratia" o almeno "sub lege", ma si sbaglierebbero pesantemente. Perché? Perché c'è un'infinità di anime che hanno smarrito la grazia e, spesso, anche la fede, e alle quali certamente si farebbe un torto considerevole trattandole come si trattano i fedeli, e cercando di ricondurle alle pratiche religiose prima di essersi adoperati di far nascere o rinascere in esse la fede. Si potrebbe far loro credere che la religione è questione di forme e di cerimonie e in questo modo sarebbero gettate in uno stato peggiore del precedente.
Il padre Faber diceva che gli inglesi dovevano essere trattati con la stessa circospezione che in antico i padri usavano verso i pagani. Eppure gl'inglesi sono dei battezzati; e benché protestanti, sono spesso più religiosi di molti cattolici francesi per i quali ultimi noi chiederemmo volentieri ciò che il padre Faber chiedeva per i suoi compatrioti. Oh si, certamente si farebbe a loro un grande beneficio insegnando ad essi la fede e insegnandola in modo che non fossero mai esposti a credere che accontenteranno Dio con delle sole formalità e che la religione consiste nelle cerimonie.
Ciò è detto per le anime sviate, ma ce ne sono altre, quelle cioè che pur servendo Iddio non hanno sempre gli aiuti spirituali necessarî: bisogno di lui e di discernimento delle loro vie e dell'operato di Dio in esse. Anime che raramente trovano ciò di cui hanno bisogno: per esempio quante anime sprofondano negli scrupoli, quante perdono il coraggio nelle difficoltà, quante languiscono per la mancanza d'un'istruzione basata sulla fede, e che potrebbero dire come il paralitico del Vangelo: "Signore non ho nessuno che mi immerga" (Gv. 5,7).
I sacerdoti troppo facilmente pensano di saperne sempre abbastanza per confessare i contadini. Si sbagliano perché le anime dei contadini hanno lo stesso valore delle anime dei cittadini, e non vi è meno necessità di luce e di discernimento per aiutare un'anima in un villaggio come un'anima in una grande città.
Un'anima è dovunque un'anima; le necessità delle anime sono grandi ovunque e lo Spirito Santo non opera meno nei luoghi più umili che nei grandi centri.
Parecchie volte abbiamo constatato l'angoscia di cui soffrono le anime mancanti d'aiuto, di luci e di sicura direzione.
Vi sono di quelli che ritengono di rimediare a tutto, prendendo il tono dell'autorità sulle anime: "Fate questo, ve lo comando: obbedite..." Tali modi di comportarsi non sono e non portano luce. L'autocrazia del sacerdote non è accettabile, là dove lo Spirito Santo vuole avere la sua parola.
A parte il caso, d'altronde assai raro, d'uno scrupolo che proviene dalla timidezza, l'autorità non è un mezzo efficace di direzione: "Non dominamur fidei vestrae" (1 Cor. 2, 23).
Il vero modo consiste soprattutto nella premura d'illuminare il cammino, d'istruire solidamente nella fede, sulle operazioni dello Spirito di Dio, dello spirito proprio, e qualche volta anche dello spirito maligno.

CAPITOLO VII

L'ADORAZIONE IN SPIRITO E VERITÀ

L'abbiamo detto: vi è un grandissimo pericolo nel far consistere la religione nella osservanza e negli atti esterni. Se fosse concentrata lì, la religione dei cristiani sarebbe poco dissimile dall'antico paganesimo, perché diventerebbe un esercizio fisico, piuttosto che un fatto dell'anima.
Nostro Signore ha insegnato agli uomini che Dio è spirito, vuole che Dio sia adorato dallo spirito, o in spirito; ed egli chiama ciò adorare Dio nella verità.
Perciò se il culto che diamo a Dio, non fosse dato in spirito o dallo spirito, non gli sarebbe dato nella verità.
Considerato sotto questo aspetto, il male attuale è grandissimo, e presso i nostri cristiani è il frutto disgraziato d'una disgraziata ignoranza.

I nostri cristiani non conoscono, o almeno non abbastanza, le tre cose che costituiscono il culto di Dio in spirito: la fede, la grazia di Dio e il grande comandamento.

Nono conoscono la fede, non diciamo l'oggetto della fede, dono gratuito d'Iddio per mezzo del quale il nostro spirito, aderendo alla verità d'Iddio, è posto sulla strada della vita soprannaturale. C'è un immenso lavoro da fare per ristabilire la fede, la fede completa, luminosa nei cristiani dei nostri tempi.

Essi allo stesso modo non conoscono la grazia d'Iddio; parola molto vaga per essi e che non dice loro alcunché di preciso e di determinato. Hanno bisogno d'imparare che cos'è la grazia, la sua gratuità (pensano spesso che se Dio non la donasse indifferentemente a tutti, non sarebbe giusto). Abbiamo dovuto persino renderci conto che certi grandi dottori in Israele avevano essi stessi bisogno d'imparare ciò che è la grazia: e se i maestri stanno a questo punto, a che punto staranno i discepoli?

I nostri cristiani hanno anche urgente bisogno d'imparare il grande comandamento di Dio.

Siccome oggi si pretende di sostituire la fede al sentimento religioso (spesso là dove i nostri dottori dovrebbero usare la parola "fede" usano o scrivono "sentimento religioso") benché fra i due termini vi sia una distanza incommensurabile, essendo il sentimento religioso una disposizione naturale e la fede un dono soprannaturale; si crede pure di aver trovato un mezzo da sostituire all'amor di Dio; si crede di poterlo sostituire con una certa sensibilità, o pia sensibilità, che ci lascerebbe credere che veramente abbiamo ancora qualche cosa "per il buon Dio".
C'è una grande lontananza da questa disposizione all'amore di Dio come Egli lo intende; amore che raccoglie tutti i nostri affetti alle cose di quaggiù e li orienta integralmente a Dio, amore che libera l'anima dalle tre concupiscenze, che regola la vita intiera e tutta intiera la ordina al solo scopo di piacere a Dio.
Oh! Quanto c'è da fare per insegnare ai cristiani la fede, la grazia e l'amore di Dio!