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giovedì 6 novembre 2014

I confessori ideali sono rari.






Riporto un altro breve estratto dal medesimo libro citato nel post precedente. In questo caso l'argomento riguarda i confessori e come devono confessare. In un'epoca in cui la confessione è piuttosto trascurata non è raro che lo stesso clero possa non praticarla in modo preciso, come chi non adopera da un certo tempo uno strumento di lavoro. È parso opportuno, dunque, riportare delle linee generali per far presente a sacerdoti e fedeli, quale dev'essere il profilo e lo stile del confessore.


Nella realtà i confessori ideali sono rari.
Ciononostante le opere di riferimento che ne parlano insistono sul fatto che il confessore dev’essere illuminato, virtuoso, con un comportamento irreprensibile ed esemplare per poter confessare correttamente ed istruire realmente coloro che confessa nelle vie della virtù, sia con il suo stile di vita sia con le sue parole.

Il Trebnik [il “benedizionale” slavo ad uso del clero] precisa:

“Chi riceve le confidenze degli uomini dev’essere un modello in tutte le virtù; temperante, umile, beneficiante, praticante la preghiera in tutte le ore per poter dare una parola sapienziale e correggere coloro che lo raggiungono. Innanzitutto, lui stesso deve digiunare i mercoledì e i venerdì di tutto l’anno, come prescrivono i santi canoni, affinché quanto pratica lo possa ordinare ad altri. Poiché se è ignorante, intemperante e voluttuoso, come potrà insegnare le virtù ad altri? E, d’altra parte, quale insensato può ascoltarlo nelle cose che dice se lo vede sregolato e ubriaco, mentre insegna ad altri a non ubriacarsi e a praticare qualche altra virtù da lui trascurata? Infatti lo sguardo è più certo dell’udito, dice la santa Scrittura. Così veglia su te stesso, padre spirituale, che se una delle tue pecore perisce per tua negligenza la si esigerà da te stesso”.

Nel suo Exomologhitarion [manuale greco per la confessione], san Nicodemo l’Aghiorita si rivolge così al futuro confessore:

“Devi aver guarito e vinto le tue passioni, poiché se cerchi inappropriatamente di guarire quelle altrui prima di aver guarito le tue, sentirai queste parole: ‘Medico, cura te stesso’ (Lc 4, 23). Se vuoi veramente illuminare e perfezionare gli altri, devi tu stesso essere stato illuminato e perfezionato […] Alla fine, devi essere modello ed esempio di ogni bene e di ogni virtù agli occhi dei tuoi figli spirituali. […] Nella confessione avrai a che fare con molti argomenti pericolosi. Sentirai molti peccati vergognosi delle persone e molte impurità relative alle loro passioni. Devi essere come una bacinella d’oro o d’argento per lavare e detergere la sporcizia altrui senza che nulla si trattenga a sporcarla. […] San Melezio il Confessore dice: ‘Come un leone non può essere pastore di un agnello, così quanti sono sottomessi alle passioni non possono condurre le anime. […] Devono necessariamente presentarsi a Dio liberi dalle passioni” (1).




Ogni confessore è tenuto, nella stessa pratica della confessione, a rispettare un certo numero di regole fissate dalla Chiesa.
Prima di tutto, un confessore non deve confessare una persona nello stesso peccato nel quale è implicato, né una persona con la quale è in conflitto; non deve neppure confessare la propria sposa né i propri figli, se è un sacerdote sposato, per il fatto che la vita di costoro e le circostanze dei loro peccati sono soventi legati alla propria vita e alla propria persona. In ogni caso, le persone che si confessano se si trovano in una posizione ambigua e dissimmetrica, rischiano di farlo in modo parziale poiché non possono esprimersi apertamente e liberamente e non possono neppure ricevere i consigli e le epitimìe [penitenze] in modo appropriato. Il confessore, allora, deve inviare tali persone da un altro confessore (2).

Il confessore dovrà conservare un segreto assoluto per quanto riguarda quello che gli è stato confidato in confessione, compreso il caso di delitti gravi (3).
Deve mostrarsi accogliente verso tutte le persone che gli giungono ricevendole a braccia aperte come, nella parabola, il padre nell’atto di ricevere il figlio prodigo (4).
Il confessore deve prendere tutto il tempo necessario per la confessione, condurla lentamente, non mostrare alcuna impazienza di fronte a chi gli si confessa né alcuna fretta per quanto sta compiendo. Vi si deve attenere  anche se ci fosse una lunga fila d’attesa. Ciò è necessario, da una parte, perché il penitente abbia tutto il tempo di dire quanto deve nel proprio modo e, dall’altra, perché il confessore abbia il tempo di riflettere e dare i consigli più appropriati. San Nicodemo l’Aghiorita scrive a tal proposito:

“Padre spirituale, devi condurre la tua confessione lentamente, minuziosamente, senza fretta se vuoi che la confessione sia come dev’essere e se vuoi che la correzione dei peccati sia vera e salvifica, pure se ci sono molte persone che attendono di vederti. A tal fine, devi dire ai penitenti di presentarsi sufficientemente in anticipo. Poiché, conducendo lentamente la confessione, avrai tempo di riflettere accuratamente ai medicamenti adeguati richiesti  per ciascun peccatore. Infatti molti confessori che sovente si sono affrettati e che, conseguentemente, non hanno avuto tempo di riflettere correttamente, hanno distrutto molte persone invece di correggerle e, nello stesso tempo, si sono distrutti loro stessi con esse, pentendosi amaramente fino alla loro morte” (5).

Nel tempo in cui la persona si confessa, il confessore è tenuto ad essere totalmente neutrale (ossia, ad esempio, non deve avere sbalzi d’umore, non deve gesticolare o avere mimiche o parole di disapprovazione o che lascino intravvedere un qualsiasi giudizio). San Nicodemo l’Aghiorita consiglia a tal proposito:

“Confessore, devi osservare il silenzio e ascoltare colui che confessa i suoi peccati e, pure se sono grandi e numerosi, devi essere attento e non parere scioccato, non devi sospirare o presentare alcun gesto o segno che mostrerebbe quanto sei disgustato o sconvolto. Infatti come un daino si accovaccia e il minimo movimento di una foglia è capace d’impedirglielo, ugualmente è per il peccatore mentre sta confessando, mentre si sta sforzando di dire i suoi peccati: un minimo gesto può provocargli delle difficoltà e, di conseguenza, impedirgli di accovacciarsi, ossia di confessarsi come sta scritto: ‘I figli sono sul punto di nascere e non c’è forza  che gliene dia  la possibilità’ (Is 37, 3). Piuttosto, incoraggiateli in ogni istante, dicendogli di non aver vergogna e che pure voi, per le cose che state sentendo, siete come lui su ogni punto, un identico peccatore, e dopo essersi confessato tornerà a casa alleggerito e totalmente gioioso perché avrà liberato la sua coscienza dalla bruciatura del peccato” (6).

In linea di principio, il confessore deve evitare di porre domande poiché questo implica il rischio, da parte del penitente, di non confessarsi liberamente e completamente e, come rimarca san Nicodemo l’Aghiorita, si tratterrebbe di un interrogatorio, non più di una confessione (7).
Nonostante ciò, può porre delle domande se vede che la persona non sa confessarsi (è sovente il caso delle prime confessioni) (8) o è ignorante su quanto dev’essere confessato, o si è bloccato per eccesso di vergogna (9); il confessore può pure chiedere delle precisazioni su quanto non gli pare chiaro o gli sembra incompleto (poiché è importante per il penitente che la sua confessione sia chiara e completa). Ma conviene che, se interroga, lo faccia con tatto.

Se il confessore pone delle domande, non dev’essere assolutamente mosso da curiosità ma:

a)     da una parte dev’essere spinto dalla preoccupazione di permettere a chi si confessa d’esporre le sue mancanze senza dissimularle, senza omissioni, senza essere trattenuto dalla vergogna né accecato dall’ignoranza e in modo sufficientemente aperto e chiaro per averne coscienza e una sufficiente “simbolizzazione” del peccato (attraverso l’espressione linguistica) e che la sua confessione sia liberatoria;
b)    dall’altra, dev’essere spinto dalla preoccupazione di comprendere sufficientemente la natura del peccato per poter proporre, nei suoi consigli e nell’eventuale epitimìa da dare, i rimedi adeguati.

In nessun caso il confessore deve indagare sull’identità delle persone con le quali è stato commesso il peccato (10); non deve neppure richiedere dettagli sulle circostanze del peccato, se queste possono dar luogo ad una rappresentazione tale da costituire un nuovo peccato (nei pensieri o nell’immaginazione) per colui che si confessa o per il confessore (nel particolare caso dei peccati sessuali).

Nei consigli dati dopo la confessione (e che deve evitare di dare durante la stessa), il confessore non deve sgridare il penitente se non nella misura in cui costui ne può trarre profitto. San Nicodemo l’Aghiorita consiglia:

“Confessore, non è bene sgridare tutti e neppure nessuno. Colui che è istruito e avvisato sa trarre profitto dal fatto che lo si sgridi (cfr. Pr 19, 25); coloro che si confessano con audacia e ardimento hanno ugualmente bisogno di essere sgridati (cfr. Tit 1,13). In compenso, coloro che non sono istruiti non sono recettivi quando li si sgrida (cfr. Pr 15, 12); né i pusillanimi, che rischiano di cadere nella disperazione o nella paura; né coloro che si confessano con contrizione, poiché essi non hanno bisogno d’essere ripresi ma consolati; né coloro che hanno un’autorità secondo il detto ‘non sgridare un anziano ma trattalo come un padre’ (1 Tm 5, 1) […].

Che ne sia, devi sgridare un po’ per volta, come fa Dio stesso (cfr. Sg 12, 2). In una parola, devi sempre sgridare con dolcezza (cfr. 2 Tm 2, 25)” (11).


____________________

Note

(1) Exomologhitarion, I, 1.
(2) Vedi Nicodemo l’Aghiorita, Exomologhitarion, I, 9, 10.
(3) La conoscenza, attraverso un sacerdote, di quanto gli è stato detto in confessione, è sanzionata da un provvedimento di deposizione. Vedi Nicodemo l’Aghiorita, Exomologhitarion, I, 11, 12 il quale si rivolge così al confessore: “Non deve restare nulla dopo la confessione se non il fatto di conservare segreti i peccati ascoltati e di non riferirli mai con una parola, uno scritto, un gesto del corpo o in ogni altro modo, pure se sei in pericolo di morte, secondo quanto dice la Sapienza di Sirach: “Avete sentito una parola? Che muoia con voi” (Sir 19, 10). […] Poiché se la rivelerai, sarai sospeso, ossia completamente deposto dai canoni ecclesiastici […] e in seguito sarai causa per molti cristiani di non confessarsi nel timore che tu rivela i loro peccati”. Su quest’ultimo punto vedi pure San Giovanni Climaco, Lettera al pastore, 83.
(4) Exomologhitarion, I, 9, 1.
(5) Cfr. Exomologhitarion, I, 9, 18.
(6) Exomologhitarion, I, 9, 4.
(7) Exomologhitarion, I, 9, 3.
(8) Il Grande Eucologio e il Trebnik, nella loro descrizione del rituale, espongono queste domande. […].
(9) Cfr. Nicodemo l’Aghiorita, Exomologhitarion, I, 9, 3.
(10) Cfr. Ibid. , I, 9, 5.

(11) Exomologhitarion, I, 9, 7.

giovedì 25 settembre 2014

4. - UN REGALO ECCEZIONALE di EMMANUEL ANDRÈ


LIBRO QUARTO

Le virtù necessarie all'esercizio del ministero




CAPITOLO I
LA GRANDEZZA DEL MINISTERO È LA MISURA DELLE VIRTÙ CHE RICHIEDE

Il ministero è un'opera divina: "Questa è l'opera di Dio credere in colui che egli ha mandato" (Gv. 6,29). San Paolo lo chiama opera del Signore: "Opus Domini" (I Cor. 16,10) Dio, infatti è il primo autore della salvezza degli uomini; fu il primo a volerla, il primo che ne pose le condizioni e ne istituì i mezzi, il primo che vi si è adoperato in Gesù Cristo Nostro Signore: "È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo" (2 Cor. 5,19). 
Dio chiamo gli uomini a suoi cooperatori nell'opera della salvezza degli uomini, tuttavia Egli è l'agente principale nell'esecuzione dell'opera divina: "Affidando a noi la parola della riconciliazione; noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro" (Ivi 19,20). Ne consegue che il sacerdote è veramente l'ambasciatore, l'incaricato d'affari, il ministro di Dio, e come dice San Paolo: l'uomo di Dio: "Homo Dei" (I Tim. 6,2). 
Da questo San Paolo conclude che l'uomo di Dio è preparato, disposto, diremmo quasi equipaggiato per ogni opera: "L'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" (2 Tim. 3,17). Ossia l'uomo di Dio diventa così, a suo modo, l'uomo-Dio e per i poteri divini che esercita dev'essere ornato di ogni virtù. Dev'essere perfetto come il Padre celeste è perfetto (Matteo, 5,48). 
Perciò abbiamo molto da fare prima di poter dire come San Paolo: "Ci ha resi ministri adatti di una nuova alleanza" (2 Cor. 3,6). 
Fra tutte le virtù necessarie al sacerdote, al ministro della salvezza delle anime, al pastore, San Gregorio Magno ne richiede principalmente dieci: ne parla in modo ammirevole nella seconda parte del suo Pastorale: voglia egli perdonarci se scriviamo al suo seguito qualche cosa intorno a quelle virtù ch'egli possedeva e che noi non possediamo.



CAPITOLO II
LA CASTITÀ

Dio è santo, anzi è la stessa santità; per questo egli vuole che i suoi ministri siano santi. Orbene: il carattere proprio della santità del sacerdote è la castità. 
Il vescovo nell'atto di ordinare i diaconi dice loro: "Estote assumpti a carnalibus desideriis, a terrenis concupiscentiis; estote nitidi, puri, casti sicut decet ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei" (Pont. Rom). Per cui se nel diacono si deve effettuare un tale ministero di assunzione, tanto più deve divenir grande nel sacerdote. L'uomo di Dio non può essere uomo della carne, perché Dio è tutto spirito. 

Il sacerdote sia che si consideri in faccia a Dio e in faccia a nostro Signore, vedrà che deve a Dio e a nostro Signore l'omaggio della più perfetta castità. Se poi si considererà in faccia ai fedeli vedrà che a tutti deve sempre castità per essere sempre per loro l'uomo di Dio, pronto a dare i sacramenti, pronto a lavorare per guarire le piaghe delle anime. 
La castità del sacerdote dev'essere una castità eccellente; se no sarebbe in difetto rispetto a Dio per la quotidiana celebrazione del Sacrificio e per la comunione quotidiana; in difetto rispetto ai fedeli per i quali non sarebbe mai un medico capace, qualora diventasse un uomo colpevole. 

La purezza del sacerdote esige da lui una vita seria, regolata, mortificata, assente alle dissipazioni mondane, una vita di preghiera, ritirata e di studio. 

È a questo prezzo che il sacerdote sarà l'uomo di Dio e si manterrà in alto nello stato di assunzione che il vescovo gli ha augurato, ordinandolo diacono. In questo modo egli potrà ascoltare la voce di Dio nella preghiera; potrà vedere con tranquillità e dall'alto lo stato delle anime sulla terra: potrà impegnarsi a guarirle senza esporsi a contrarre egli stesso il male. 
Insomma, la castità è una virtù così indispensabile al sacerdote che assolutamente non esitiamo di affermare che la potenza del sacerdote è in ragione diretta della sua castità
Per giudicarne, si guardino da un lato i Santi e dall'altro un sacerdote caduto o che sta per cadere: i Santi sono potenti "in opere et sermone"; i sacerdoti caduti o che stanno per cadere non possono nulla: danno a sé stessi la testimonianza della loro impotenza ed hanno il solo diritto di tacere.



CAPITOLO III
IL BUON ESEMPIO

"Sii esempio ai fedeli", dice San Paolo al suo discepolo Timoteo (I Tim. 4,12). "Offri te stesso come esempio in tutto", dice a Tito (Tit. 2,7). 
Scrive San Giovanni Crisostomo che l'anima del sacerdote dev'essere più pura dei raggi del sole (De Sacerdotio lib. VI, cap. 2). 
Scrive anche che i vizi di un sacerdote non possono restare nascosti e quando fossero poca cosa si rivelano molto presto: "Ne utiquam possunt sacerdotum vitia latere, sed etiam exigua cito conspicua sunt" (Ibid. lib. III, cap. 14). 

Senza il buon esempio il sacerdote non può né agire, né parlare utilmente per le anime. Egli deve avere il diritto d'insegnare agli altri. 
San Gregorio Nazianzeno non pensava altrimenti quando diceva: "Prima di purificare bisogna essere purificati e prima d'insegnare la sapienza bisogna averla acquistata. Prima di rischiarare bisogna diventare luminosi; prima di condurre gli altri a Dio bisogna esserne vicini noi stessi e prima di santificare, bisogna essere santo" (Oratio I o II). 
Il sacerdote non saprà mai insegnare le virtù che non possiede e non riuscirà a far praticare il bene ch'egli non avrà praticato. L'esempio è la prima forma di predicazione e senza questa non servirà a nulla tutta l'eloquenza di questo mondo: "Bronzo che risuona o un cembalo che tintinna"
San Girolamo suppone il caso di un sacerdote che avesse intorno a sé dei fedeli virtuosi senza essere virtuoso egli stesso, o meno di coloro che devono imparare da lui e nettamente afferma che un sacerdote così fatto è la distruzione, la rovina della Chiesa, e una rovina violenta: "Vehementer enim Ecclesiam Dei destruit,  meliores esse laicos quam clericos". 
È facile cogliere la ragione di questo detto. I fedeli non trovando nei loro pastori ciò di cui hanno bisogno per progredire nelle virtù e anche per preservarsi, andranno verso il declino che sarà tanto più rapido quanto il pastore sarà meno atto a sostenerli là dov'essi avrebbero potuto spiccare il volo. 
L'esempio è perciò necessario e dev'essere tanto più perfetto quando si devono istruire delle anime più perfette.




CAPITOLO IV
LA DISCREZIONE NEL SILENZIO

Il sacerdote deve saper conservare un silenzio discreto: il rispetto che deve a Dio, a nostro Signore, al Santo Sacramento e alle anime, delle quali è pastore gl'impongono una legge indispensabile di discreto silenzio. 
Una sua parola di troppo può compromettere il suo ministero e nuocere alla stessa parola di Dio quando l'annuncerà. 

Il sacerdote dovrebbe parlare soltanto quando ha da Dio l'ordine di parlare: ciò appartiene agli obblighi del ministro che deve aprire la bocca soltanto secondo le intenzioni del principe che lo ha inviato. Se il sacerdote è uomo di preghiera non avrà difficoltà ad osservare la legge della discrezione e del silenzio: quando si ha l'onore d'intrattenerci con Dio nella preghiera, con Nostro Signore durante il Santo Sacrificio, non si ha punta inclinazione a conversare con gli uomini. 
Il sacerdote chiacchierone non sarà mai considerato dalle anime come uomo di Dio e in questo le anime non sbagliano mai.



CAPITOLO V
L'UTILITÀ DELLA PAROLA

C'è, dice lo Spirito Santo, un tempo per tacere e un tempo per parlare. L'uomo di Dio deve saper discernere questi tempi, e quando viene il tempo di parlare bisogna ch'egli vigili per dire ciò che Dio vuole ch'egli dica, e ciò che le anime hanno diritto di aspettarsi da un inviato di Dio. 
San Pietro, ammaestrando tutti i cristiani disse: "Chi parla, lo faccia come con parole di Dio" (1 Pt. 4,11). Ma s'egli avesse scritto ai soli sacerdoti, avrebbe detto senza dubbio: "Se il sacerdote parla, lo faccia con parole di Dio". Avrebbe cioè soppressa la parola "come". 
Sul pulpito il sacerdote deve parlare come Dio stesso; fuori di là, come l'uomo di Dio
È nota l'espressione di San Bernardo riguardo alle parole buffe: "In ore saecularium nugae nugae sunt; in ore sacerdotum blasphemiae". La parola del sacerdote dev'essere sempre senza affettazione, affabile senza trivialità, dolce senza adulazioni, grave senza durezza, deve richiamare alle anime il ricordo di Nostro Signore del quale si dice: "Mai un uomo ha parlato come parla quest'uomo!" (Gv. 7,46).




CAPITOLO VI
LA CARITÀ COMPASSIONEVOLE VERSO TUTTI

Il sacerdote è debitore a Dio e al prossimo: a Dio deve la preghiera, al prossimo deve una tenera e compassionevole carità. 
Nostro Signore che nell'Evangelo ci ha dato un si grande numero di divini insegnamenti di tenerezza verso i peccatori e ci ha insegnato le parabole si commoventi del figlio prodigo, della pecorella sperduta, la storia della donna adultera, è egli stesso il modello della tenera carità che deve avere il pastore delle anime. 
"Che il pastore, scrive San Gregorio, sia avvicinato da tutti i suoi fedeli per la sua compassione: che con le viscere della sua misericordia attiri a sé e prenda su di sé per caricarle, le infermità di tutti. Che il pastore si mostri in modo tale che i fedeli non abbiano alcuna ripugnanza a rivelargli quanto hanno di più segreto, e quando i piccoli sono agitati dai flutti delle tentazioni facciano ricorso a lui, come al seno d'una madre, "quasi ad matris sinum!".


CAPITOLO VII

L'UNIONE A DIO NELLA PREGHIERA

Quando la carità compassionevole, la tenerezza paterna e anche materna deve avvicinare il pastore ai suoi fedeli, altrettanto lo zelo della preghiera deve mantenerlo unito a Dio. 
Il pastore è l'uomo di Dio: non può nulla se non con l'aiuto della grazia: deve ricevere da Dio le istruzioni di Dio: da Dio deve sollecitare le grazie necessarie e a sé e al suo gregge. Come farà se prima di tutto egli non sarà uomo di preghiera? 

Dice San Paolo: Noi siamo gli ambasciatori di Gesù Cristo: "Pro Christo legatione fungimur" (2 Cor. 5,20). Ora, ogni ambasciatore deve ricevere le istruzioni di colui che lo manda per farne gl'interessi: perciò come il sacerdote potrà adoperarsi per gl'interessi di Dio presso le anime se da Dio non ebbe una parola? E come avrà egli una parola da Dio se non con la preghiera? 
E qui ritorna l'affermazione di San Pietro che abbiamo più volte ricordata: "Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola" (At. 6,4). Dove si vede che l'Apostolo pone prima di ogni cosa la preghiera nella quale riceverà le luci di Dio che poi trasmetterà ai fedeli con la predicazione. "Preghiera e ministero della parola". La parola che non è stata "pregata" sarà sempre un vano rumore; impotente e infeconda: invece di essere la parola di Dio sarà la parola dell'uomo. Perciò, prima di tutto e sopra tutto: bisogna pregare.




CAPITOLO VIII
L'UMILTÀ

Il sacerdote ha doppiamente bisogno della grazia di Dio: ne ha bisogno per se stesso, ne ha bisogno per il suo gregge. Siccome poi Iddio, seguendo la più che saggia legge della sua misericordia e della sua giustizia, resiste ai superbi e dà la sua grazia agli umili, ne consegue che il sacerdote ha una duplice necessità, una necessità più viva, di quanto ne hanno i fedeli, di essere veramente umile. Ha bisogno di conoscere le vie di Dio e i suoi segreti; ha bisogno di conciliarsi la grazia di Dio e di conciliarla alle anime delle quali è pastore. Come potrà egli essere mediatore associato a Dio se non è umile? Forse Iddio si rivelerà all'uomo che vuol penetrare nei suoi segreti per rapirgli la sua gloria e attribuirla a sé stesso? Farà Iddio canale della sua grazia l'uomo che col suo orgoglio si fa nemico della grazia? Come potrà trattare con Dio della riconciliazione delle anime colpevoli chi pone sé stesso in rivolta con Dio col suo orgoglio? 
Senza umiltà non c'è ministero possibile: Dio certamente ci vuole elargire la sua grazia, ma non vuole che lo rapiniamo della sua gloria: e dal momento che un sacerdote cerca la gloria per sé, cessa di essere il mediatore della grazia: "Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia" (Giac. 4,6).


CAPITOLO IX

DELLO ZELO DELLA GIUSTIZIA

Lo zelo della giustizia è perfetta abnegazione agli interessi di Dio e negli interessi di Dio sono necessariamente compresi gl'interessi delle anime: perché Dio vuole la salvezza delle anime; è lo stesso interesse di Dio, dal momento che lì sta la sua maggior gloria. 

Gl'interessi di Dio sovente sono compromessi dagli uomini: in questo caso il pastore, che sta tra Dio e gli uomini, si troverà spesse volte in lotta con gli uomini per difendere gl'interessi di Dio. Lotta che non è senza difficoltà: poiché se il pastore deve sé stesso a Dio di cui è l'uomo, deve anche sé stesso alle anime delle quali è pastore, e pastore responsabile. Se egli vede gl'interessi di Dio, per così dire con un occhio solo, si affaticherà in un modo imperfetto e comprometterà le anime: e, per altro, se mira a non compromettere le anime, potrà tuttavia mancare gl'interessi di Dio. 

La difficoltà è grande, sovente estrema: vi è un pericolo d'ambo i lati. Da un lato il pastore dovrà temere di venir meno nei riguardi di Dio e dall'altro di mancare verso le anime. 
In un tale modo di essere le cose, lo zelo non è un consigliere sufficiente: può, se è solo, far cadere negli eccessi e può compromettere lo stesso bene che cerca. Con lo zelo ci vuole anche la scienza; con la scienza, l'umiltà, la purezza delle vedute e dell'intenzione; cose tutte che il pastore non troverà mai se non è prima di tutto uomo di preghiera: "Orationi... instantes erimus".



CAPITOLO X
IL SACERDOTE DEV'ESSERE UOMO INTERIORE

La molteplicità delle cose che fanno parte delle sollecitudini di un pastore è necessariamente grandissima: le persone e le cose, i corpi e le anime, gl'interessi spirituali dei fedeli e quelli temporali della chiesa, tutto pesa insieme sul pastore. 
Tutti gli avvenimenti possono avere un influsso sugli interessi delle anime e il pastore deve necessariamente vigilare su tutto. Tutte le età, tutte le condizioni, tutti i buoni e tutti gli altri devono essere per lui oggetto d'incessante sollecitudine. Pero non ci può essere lì il pericolo di lasciarsi assorbire dalle sollecitudine esterne, dalle preoccupazioni delle persone e delle cose? 
La carità che il pastore deve al suo gregge non potrebbe essere per lui una causa, un pretesto e un'occasione per lasciarsi assorbire nella cura delle cose esteriori, della salute, degli interessi temporali e di qualsiasi altro interesse? 
Un pastore deve pensare un po' a tutto, tener conto di tutto, estendere la sua carità a tutto, ma questo tutto non deve punto assorbirlo. Sopra questo tutto che è il gregge, c'è il tutto che è Dio, e il sacerdote deve applicarsi a Dio più che a tutto, e non potrà essere veramente utile a tutto a condizione che sia tutto di Dio. Il pastore troverà in Dio la luce, la misura, il vero zelo, la discrezione e le virtù necessarie per transitare in mezzo alle sollecitudini esterne del ministero per esser utile al gregge senza nuocere a sé stesso; per dedicarsi al prossimo senza cessare di stare unito con Dio.


CAPITOLO XI
IL SACERDOTE DEV'ESSERE DISINTERESSATO


"Avaro nihil est scelestius", dice lo Spirito Santo (Eccl. X,9). Noi possiamo dire anche che nulla è più contrario allo spirito del ministero quanto l'amore al denaro. 
Dio non è né oro, né denaro e l'uomo del denaro non può essere l'uomo di Dio. 
Il sacerdote, se fosse possibile, non dovrebbe toccare per terra, "Perché è il messaggero del Signore degli eserciti" (Ml. 2,7). 
Messaggero celeste, ambasciatore di Dio, il pastore deve aspirare soltanto al cielo e volere soltanto Dio; l'eredità da lui scelta quando divenne chierico: "Il Signore è mia parte di eredità" (Sal. 16,5). 
Il pastore dedito a Dio e alle anime non può essere preso dalle sollecitudini del bene e del mangiare: "Non affannatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo?" (Mt. 6,31). 
Il pastore che si rimettesse semplicemente per tutte queste cose alle cure della Provvidenza, non mancherebbe di nulla. 
Questo esattamente accadde per gli Apostoli. Nostro Signore li aveva inviati a predicare, e li aveva inviati con nulla, e non manco loro alcunché: "Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa? Risposero: nulla" (Lc. 22,35-6). 

Il pastore riceverà da Dio il suo pane quotidiano, e non riceverà soltanto per sé stesso, ma anche per i suoi poveri. Riceverà con una mano e darà con l'altra; e avrà tanto più da dare quanto più si rimetterà soltanto a Dio per ciò che gli occorrerà. Testimone San Vincenzo de' Paoli, l'uomo che in questo mondo ha dato di più.


La via della luce


Indicazioni per trovarla:

<<Ama chi ti ha creato e temi chi ti ha plasmato.
Glorifica chi ti ha redento dalla morte.
Odia tutto ciò che dispiace a Dio.
Disprezza ogni ipocrisia:
“Lingua doppia, laccio di morte”.
Meglio tacere che parlar precipitoso.
Non abbandonare i comandamenti del Signore.
Non esaltarti mai, ma sii umile in tutte le cose.
Non disinteressarti dei figli, ma insegna loro
il santo timor di Dio fin dall’infanzia.
Ama il prossimo tuo più della tua vita.
Non essere avaro, né insaziabile.
Frequenta persone umili e giuste.
Qualunque cosa ti accada prendila in bene
sapendo che nulla avviene che Dio non voglia.
Ama come pupilla degli occhi chi ti dice la parola di Dio.
Massimo impegno nel mantenerti casto.
Giorno e notte, sempre, ricorda il giudizio finale
e sospira il Paradiso.
Medita assiduamente come salvare
un’anima sia pure con una parola.
Odia il male, giudica con giustizia,
evita dissidi, porta la pace.
Confessa umilmente i tuoi peccati,
e prega sempre con coscienza pura.

Questa è la via della luce.>>

(San Barnaba)