lunedì 29 ottobre 2012

Santa Ildegarda di Bingen, Monaca Professa dell’ordine di San Benedetto, è proclamata Dottore della Chiesa universale



LETTERA APOSTOLICA
Santa Ildegarda di Bingen, Monaca Professa dell’ordine di San Benedetto, 

è proclamata Dottore della Chiesa universale

BENEDETTO PP. XVI

A PERPETUA MEMORIA


1. «Luce del suo popolo e del suo tempo»: con queste parole il Beato Giovanni Paolo II, Nostro venerato Predecessore, definì Santa Ildegarda di Bingen nel 1979, in occasione dell’800° anniversario della morte della Mistica tedesca. E veramente, sull’orizzonte della storia, questa grande figura di donna si staglia con limpida chiarezza per santità di vita e originalità di dottrina. Anzi, come per ogni autentica esperienza umana e teologale, la sua autorevolezza supera decisamente i confini di un’epoca e di una società e, nonostante la distanza cronologica e culturale, il suo pensiero si manifesta di perenne attualità.
In Santa Ildegarda di Bingen si rileva una straordinaria armonia tra la dottrina e la vita quotidiana. In lei la ricerca della volontà di Dio nell’imitazione di Cristo si esprime come un costante esercizio delle virtù, che ella esercita con somma generosità e che alimenta alle radici bibliche, liturgiche e patristiche alla luce della Regola di San Benedetto: rifulge in lei in modo particolare la pratica perseverante dell’obbedienza, della semplicità, della carità e dell’ospitalità. In questa volontà di totale appartenenza al Signore, la badessa benedettina sa coinvolgere le sue non comuni doti umane, la sua acuta intelligenza e la sua capacità di penetrazione delle realtà celesti.

2. Ildegarda nacque nel 1089 a Bermersheim, presso Alzey, da genitori di nobile lignaggio e ricchi possidenti terrieri. All’età di otto anni fu accettata come oblata presso la badia benedettina di Disibodenberg, ove nel 1115 emise la professione religiosa. Alla morte di Jutta di Sponheim, intorno al 1136, Ildegarda fu chiamata a succederle in qualità di magistra. Malferma nella salute fisica, ma vigorosa nello spirito, si impegnò a fondo per un adeguato rinnovamento della vita religiosa. Fondamento della sua spiritualità fu la regola benedettina, che pone l’equilibrio spirituale e la moderazione ascetica come vie alla santità. In seguito all’aumento numerico delle monache, dovuto soprattutto alla grande considerazione della sua persona, intorno al 1150 fondò un monastero sul colle chiamato Rupertsberg, nei pressi di Bingen, dove si trasferì insieme a venti consorelle. Nel 1165, ne istituì un altro a Eibingen, sulla riva opposta del Reno. Fu badessa di entrambi.
All’interno delle mura claustrali curò il bene spirituale e materiale delle Consorelle, favorendo in modo particolare la vita comunitaria, la cultura e la liturgia. All’esterno s’impegnò attivamente a rinvigorire la fede cristiana e a rafforzare la pratica religiosa, contrastando le tendenze ereticali dei catari, promuovendo la riforma della Chiesa con gli scritti e la predicazione, contribuendo a migliorare la disciplina e la vita del clero. Su invito prima di Adriano IV e poi di Alessandro III, Ildegarda esercitò un fecondo apostolato — allora non molto frequente per una donna — effettuando alcuni viaggi non privi di disagi e difficoltà, per predicare perfino nelle pubbliche piazze e in varie chiese cattedrali, come avvenne tra l’altro a Colonia, Treviri, Liegi, Magonza, Metz, Bamberga e Würzburg. La profonda spiritualità presente nei suoi scritti esercita un rilevante influsso sia sui fedeli, sia su grandi personalità del suo tempo, coinvolgendo in un incisivo rinnovamento la teologia, la liturgia, le scienze naturali e la musica.
Colpita da malattia nell’estate del 1179, Ildegarda, circondata dalle consorelle, si spense in fama di santità nel monastero del Rupertsberg, presso Bingen, il 17 settembre 1179.

3. Nei suoi numerosi scritti Ildegarda si dedicò esclusivamente a esporre la divina rivelazione e far conoscere Dio nella limpidezza del suo amore. La dottrina ildegardiana è ritenuta eminente sia per la profondità e la correttezza delle sue interpretazioni, sia per l’originalità delle sue visioni. I testi da lei composti appaiono animati da un’autentica “carità intellettuale” ed evidenziano densità e freschezza nella contemplazione del mistero della Santissima Trinità, dell’Incarnazione, della Chiesa, dell’umanità, della natura come creatura di Dio da apprezzare e rispettare.
Queste opere nascono da un’intima esperienza mistica e propongono una incisiva riflessione sul mistero di Dio. Il Signore l’aveva resa partecipe, fin da bambina, di una serie di visioni, il cui contenuto ella dettò al monaco Volmar, suo segretario e consigliere spirituale, e a Richardis di Strade, una consorella monaca. Ma è particolarmente illuminante il giudizio dato da San Bernardo di Chiaravalle, che la incoraggiò, e soprattutto da papa Eugenio III, che nel 1147 la autorizzò a scrivere e a parlare in pubblico. La riflessione teologica consente ad Ildegarda di tematizzare e comprendere, almeno in parte, il contenuto delle sue visioni. Ella, oltre a libri di teologia e di mistica, compose anche opere di medicina e di scienze naturali. Numerose sono anche le lettere — circa quattrocento — che indirizzò a persone semplici, a comunità religiose, a papi, vescovi e autorità civili del suo tempo. Fu anche compositrice di musica sacra. Il corpus dei suoi scritti, per quantità, qualità e varietà di interessi, non ha paragoni con alcun’altra autrice del medioevo.
Le opere principali sono lo Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum. Tutte narrano le sue visioni e l’incarico ricevuto dal Signore di trascriverle. Le Lettere, nella consapevolezza delle stessa autrice, non rivestono una minore importanza e testimoniano l’attenzione di Ildegarda alle vicende del suo tempo, che ella interpreta alla luce del mistero di Dio. A queste vanno aggiunti 58 sermoni, diretti esclusivamente alle sue Consorelle. Si tratta delle Expositiones evangeliorum, contenenti un commento letterale e morale a brani evangelici legati alle principali celebrazioni dell’anno liturgico. I lavori a carattere artistico e scientifico si concentrano in modo specifico sulla musica con la Symphonia armoniae caelestium revelationum; sulla medicina con il Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum e il Causae et curae; sulle scienze naturali con la Physica. Infine si notano anche scritti di carattere linguistico, come la Lingua ignota e le Litterae ignotae, nei quali compaiono parole in una lingua sconosciuta di sua invenzione, ma composta prevalentemente di fonemi presenti nella lingua tedesca.
Il linguaggio di Ildegarda, caratterizzato da uno stile originale ed efficace, ricorre volentieri ad espressioni poetiche dalla forte carica simbolica, con folgoranti intuizioni, incisive analogie e suggestive metafore.

4. Con acuta sensibilità sapienziale e profetica, Ildegarda fissa lo guardo sull’evento della rivelazione. La sua indagine si sviluppa a partire dalla pagina biblica, alla quale, nelle successive fasi, resta saldamente ancorata. Lo sguardo della mistica di Bingen non si limita ad affrontare singole questioni, ma vuole offrire una sintesi di tutta la fede cristiana. Nelle sue visioni e nella successiva riflessione, pertanto, ella compendia la storia della salvezza, dall’inizio dell’universo alla consumazione escatologica. La decisione di Dio di compiere l’opera della creazione è la prima tappa di questo immenso percorso, che, alla luce della Sacra Scrittura, si snoda dalla costituzione della gerarchia celeste fino alla caduta degli angeli ribelli e al peccato dei progenitori. A questo quadro iniziale fa seguito l’incarnazione redentrice del Figlio di Dio, l’azione della Chiesa che continua nel tempo il mistero dell’incarnazione e la lotta contro satana. L’avvento definitivo del regno di Dio e il giudizio universale saranno il coronamento di questa opera.
Ildegarda pone a se stessa e a noi la questione fondamentale se sia possibile conoscere Dio: è questo il compito fondamentale della teologia. La sua risposta è pienamente positiva: mediante la fede, come attraverso una porta, l’uomo è in grado di avvicinarsi a questa conoscenza. Tuttavia Dio conserva sempre il suo alone di mistero e di incomprensibilità. Egli si rende intelligibile nel creato, ma questo, a sua volta, non viene compreso pienamente se viene distaccato da Dio. Infatti, la natura considerata in sé fornisce solo delle informazioni parziali, che non di rado diventano occasioni di errori e di abusi. Perciò anche nella dinamica conoscitiva naturale occorre la fede, altrimenti la conoscenza resta limitata, insoddisfacente e fuorviante.
La creazione è un atto di amore, grazie al quale il mondo può emergere dal nulla: dunque tutta la scala delle creature è attraversata, come la corrente di un fiume, dalla carità divina. Fra tutte le creature, Dio ama in modo particolare l’uomo e gli conferisce una straordinaria dignità, donandogli quella gloria che gli angeli ribelli hanno perduto. L’umanità, così, può essere considerata come il decimo coro della gerarchia angelica. Ebbene, l’uomo è in grado di conoscere Dio in se stesso, cioè la sua individua natura nella trinità delle persone. Ildegarda si accosta al mistero della Santissima Trinità nella linea già proposta da Sant’Agostino: per analogia con la propria struttura di essere razionale, l’uomo è in grado di avere almeno un’immagine della intima realtà di Dio. Ma è solo nell’economia dell’incarnazione e della vicenda umana del Figlio di Dio che questo mistero diventa accessibile alla fede e alla consapevolezza dell’uomo. La santa ed ineffabile Trinità nella somma unità era nascosta ai servitori della legge antica. Ma nella nuova grazia veniva rivelata ai liberati dalla servitù. La Trinità si è rivelata in modo particolare nella croce del Figlio.
Un secondo “luogo” in cui Dio si rende conoscibile è la sua parola contenuta nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Proprio perché Dio “parla”, l’uomo è chiamato all’ascolto. Questo concetto offre a Ildegarda l’occasione di esporre la sua dottrina sul canto, in modo particolare quello liturgico. Il suono della parola di Dio crea vita e si manifesta nelle creature. Anche gli esseri privi di razionalità, grazie alla parola creatrice vengono coinvolti nel dinamismo creaturale. Ma, naturalmente, è l’uomo quella creatura che, con la sua voce, può rispondere alla voce del Creatore. E può farlo in due modi principali: in voce oris, cioè nella celebrazione della liturgia, e in voce cordis, cioè con una vita virtuosa e santa. L’intera vita umana, pertanto, può essere interpretata come un’armonia e una sinfonia.

5. L’antropologia di Ildegarda prende inizio dalla pagina biblica della creazione dell’uomo (Gen 1, 26), fatto a immagine e somiglianza di Dio. L’uomo, secondo la cosmologia ildegardiana fondata sulla Bibbia, racchiude tutti gli elementi del mondo, perché l’universo intero si riassume in lui, che è formato della materia stessa della creazione. Perciò egli può in modo consapevole entrare in rapporto con Dio. Ciò accade non per una visione diretta, ma, seguendo la celebre espressione paolina, «come in uno specchio» (1 Cor 13, 12). L’immagine divina nell’uomo consiste nella sua razionalità, strutturata in intelletto e volontà. Grazie all’intelletto l’uomo è capace di distinguere il bene e il male, grazie alla volontà egli è spinto all’azione.
L’uomo è visto come unità di corpo e di anima. Si nota nella mistica tedesca un apprezzamento positivo della corporeità e, anche negli aspetti di fragilità che il corpo manifesta, ella è capace di cogliere un valore provvidenziale: il corpo non è un peso di cui liberarsi e, perfino quando è debole e fragile, “educa” l’uomo al senso della creaturalità e dell’umiltà, proteggendolo dalla superbia e dall’arroganza. In una visione Ildegarda contempla le anime dei beati del paradiso, che sono in attesa di ricongiungersi ai loro corpi. Infatti, come per il corpo di Cristo, anche i nostri corpi sono orientati verso la risurrezione gloriosa, per una profonda trasformazione per la vita eterna. La stessa visione di Dio, nella quale consiste la vita eterna, non si può conseguire in modo definitivo senza il corpo.
L’uomo esiste nella forma maschile e femminile. Ildegarda riconosce che in questa struttura ontologica della condizione umana si radica una relazione di reciprocità e una sostanziale uguaglianza tra uomo e donna. Nell’umanità, però, abita anche il mistero del peccato ed esso si manifesta per la prima volta nella storia proprio in questo rapporto tra Adamo ed Eva. A differenza di altri autori medievali, che vedevano la causa della caduta nella debolezza di Eva, Ildegarda la coglie soprattutto nella smodata passione di Adamo verso di lei.
Anche nella sua condizione di peccatore, l’uomo continua ad essere destinatario dell’amore di Dio, perché questo amore è incondizionato e, dopo la caduta, assume il volto della misericordia. Perfino la punizione che Dio infligge all’uomo e alla donna fa emergere l’amore misericordioso del Creatore. In tal senso, la più precisa descrizione della creatura umana è quella di un essere in cammino, homo viator. In questo pellegrinaggio verso la patria, l’uomo è chiamato ad una lotta per poter scegliere costantemente il bene ed evitare il male.
La scelta costante del bene produce un’esistenza virtuosa. Il Figlio di Dio fatto uomo è il soggetto di tutte le virtù, perciò l’imitazione di Cristo consiste proprio in un’esistenza virtuosa nella comunione con Cristo. La forza delle virtù deriva dallo Spirito Santo, infuso nei cuori dei credenti, che rende possibile un comportamento costantemente virtuoso: questo è lo scopo dell’umana esistenza. L’uomo, in tal modo, sperimenta la sua perfezione cristiforme.

6. Per poter raggiungere questo scopo, il Signore ha donato i sacramenti alla sua Chiesa. La salvezza e la perfezione dell’uomo, infatti, non si compiono solo mediante uno sforzo della volontà, bensì attraverso i doni della grazia che Dio concede nella Chiesa.
La Chiesa stessa è il primo sacramento che Dio pone nel mondo perché comunichi agli uomini la salvezza. Essa, che è la «costruzione delle anime viventi», può essere giustamente considerata come vergine, sposa e madre e, dunque, è strettamente assimilata alla figura storica e mistica della Madre di Dio. La Chiesa comunica la salvezza anzitutto custodendo e annunziando i due grandi misteri della Trinità e dell’Incarnazione, che sono come i due «sacramenti primari», poi mediante l’amministrazione degli altri sacramenti. Il vertice della sacramentalità della Chiesa è l’eucaristia. I sacramenti producono la santificazione dei credenti, la salvezza e la purificazione dei peccati, la redenzione, la carità e tutte le altre virtù. Ma, ancora una volta, la Chiesa vive perché Dio in essa manifesta il suo amore intratrinitario, che si è rivelato in Cristo. Il Signore Gesù è il mediatore per eccellenza. Dal grembo trinitario egli viene incontro all’uomo e dal grembo di Maria egli va incontro a Dio: come Figlio di Dio è l’amore incarnato, come Figlio di Maria è il rappresentante dell’umanità davanti al trono di Dio.
L’uomo può giungere perfino a sperimentare Dio. Il rapporto con lui, infatti, non si consuma nella sola sfera della razionalità, ma coinvolge in modo totale la persona. Tutti i sensi esterni e interni dell’uomo sono interessati nell’esperienza di Dio: «Homo autem ad imaginem et similitudinem Dei factus est, ut quinque sensibus corporis sui operetur; per quos etiam divisus non est, sed per eos est sapiens et sciens et intellegens opera sua adimplere. [...] Sed et per hoc, quod homo sapiens, sciens et intellegens est, creaturas conosci; itaque per creaturas et per magna opera sua, quae etiam quinque sensibus suis vix comprehendit, Deum cognoscit, quem nisi in fide videre non valet» [“L’uomo infatti è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, affinché agisca tramite i cinque sensi del suo corpo; grazie ad essi non è separato ed è in grado di conoscere, capire e compiere quello che deve fare (...) e proprio per questo, per il fatto che l’uomo è intelligente, conosce le creature, e così attraverso le creature e le grandi opere, che a stento riesce a capire con i suoi cinque sensi, conosce Dio, quel Dio che non può essere visto se non con gli occhi della fede”] (Explanatio Symboli Sancti Athanasii: PL 197, 1073). Questa via esperienziale, ancora una volta, trova la sua pienezza nella partecipazione ai sacramenti.
Ildegarda vede anche le contraddizioni presenti nella vita dei singoli fedeli e denunzia le situazioni più deplorevoli. In modo particolare, ella sottolinea come l’individualismo nella dottrina e nella prassi da parte tanto dei laici quanto dei ministri ordinati sia un’espressione di superbia e costituisca il principale ostacolo alla missione evangelizzatrice della Chiesa verso i non cristiani.
Una delle vette del magistero di Ildegarda è l’accorata esortazione a una vita virtuosa che ella rivolge a chi si impegna in uno stato di consacrazione. La sua comprensione della vita consacrata è una vera “metafisica teologica”, perché fermamente radicata nella virtù teologale della fede, che è la fonte e la costante motivazione per impegnarsi a fondo nell’obbedienza, nella povertà e nella castità. Nel realizzare i consigli evangelici la persona consacrata condivide l’esperienza di Cristo povero, casto e obbediente e ne segue le orme nell’esistenza quotidiana. Questo è l’essenziale della vita consacrata.

7. L’eminente dottrina di Ildegarda riecheggia l’insegnamento degli apostoli, la letteratura patristica e gli autori contemporanei, mentre trova nella Regola di san Benedetto da Norcia un costante punto di riferimento. La liturgia monastica e l’interiorizzazione della Sacra Scrittura costituiscono le linee-guida del suo pensiero, che, concentrandosi nel mistero dell’Incarnazione, si esprime in una profonda unità stilistica e contenutistica che percorre intimamente tutti i suoi scritti.

L’insegnamento della santa monaca benedettina si pone come una guida per l’homo viator. Il suo messaggio appare straordinariamente attuale nel mondo contemporaneo, particolarmente sensibile all’insieme dei valori proposti e vissuti da lei. Pensiamo, ad esempio, alla capacità carismatica e speculativa di Ildegarda, che si presenta come un vivace incentivo alla ricerca teologica; alla sua riflessione sul mistero di Cristo, considerato nella sua bellezza; al dialogo della Chiesa e della teologia con la cultura, la scienza e l’arte contemporanea; all’ideale di vita consacrata, come possibilità di umana realizzazione; alla valorizzazione della liturgia, come celebrazione della vita; all’idea di riforma della Chiesa, non come sterile cambiamento delle strutture, ma come conversione del cuore; alla sua sensibilità per la natura, le cui leggi sono da tutelare non da violare.
Perciò l’attribuzione del titolo di Dottore della Chiesa universale a Ildegarda di Bingen ha un grande significato per il mondo di oggi e una straordinaria importanza per le donne. In Ildegarda risultano espressi i più nobili valori della femminilità: perciò anche la presenza della donna nella Chiesa e nella società viene illuminata dalla sua figura, sia nell’ottica della ricerca scientifica sia in quella dell’azione pastorale. La sua capacità di parlare a coloro che sono lontani dalla fede e dalla Chiesa rendono Ildegarda una testimone credibile della nuova evangelizzazione.
In virtù della fama di santità e della sua eminente dottrina, il 6 marzo 1979 il signor cardinale Joseph Höffner, arcivescovo di Colonia e presidente della Conferenza Episcopale Tedesca, insieme con i cardinali, arcivescovi e vescovi della medesima Conferenza, tra i quali eravamo anche Noi quale cardinale arcivescovo di Monaco e Frisinga, sottopose al beato Giovanni Paolo II la supplica, affinché Ildegarda di Bingen fosse dichiarata Dottore della Chiesa universale. Nella supplica, l’eminentissimo porporato metteva in evidenza l’ortodossia della dottrina di Ildegarda, riconosciuta nel XII secolo da Papa Eugenio III, la sua santità costantemente avvertita e celebrata dal popolo, l’autorevolezza dei suoi trattati. A tale supplica della Conferenza Episcopale Tedesca, negli anni se ne sono aggiunte altre, prima fra tutte quella delle monache del monastero di Eibingen, a lei intitolato. Al desiderio comune del Popolo di Dio che Ildegarda fosse ufficialmente proclamata santa, dunque, si è aggiunta la richiesta che sia anche dichiarata «Dottore della Chiesa universale».
Con il nostro consenso, pertanto, la Congregazione delle Cause dei Santi diligentemente preparò una Positio super canonizatione et concessione tituli Doctoris Ecclesiae universalis per la Mistica di Bingen. Trattandosi di una rinomata maestra di teologia, che è stata oggetto di molti e autorevoli studi, abbiamo concesso la dispensa da quanto disposto dall’art. 73 della Costituzione Apostolica Pastor bonus. Il caso fu quindi esaminato con esito unanimemente positivo dai Padri Cardinali e Vescovi radunati nella Sessione Plenaria del 20 marzo 2012, essendo ponente della causa l’eminentissimo cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nell’udienza del 10 maggio 2012 lo stesso cardinale Amato Ci ha dettagliatamente informati sullo status quaestionis e sui voti concordi dei Padri della menzionata Sessione plenaria della Congregazione delle Cause dei Santi. Il 27 maggio 2012, Domenica di Pentecoste, avemmo la gioia di comunicare in Piazza San Pietro alla moltitudine dei pellegrini convenuti da tutto il mondo la notizia del conferimento del titolo di Dottore della Chiesa universale a Santa Ildegarda di Bingen e san Giovanni d’Ávila all’inizio dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi e alla vigilia dell’Anno della Fede.

Oggi, dunque, con l’aiuto di Dio e il plauso di tutta la Chiesa, ciò è fatto. In piazza San Pietro, alla presenza di molti cardinali e presuli della Curia Romana e della Chiesa cattolica, confermando ciò che è stato fatto e soddisfacendo con grande piacere i desideri dei supplicanti, durante il sacrificio Eucaristico abbiamo pronunziato queste parole:
«Noi accogliendo il desiderio di molti Fratelli nell’Episcopato e di molti fedeli del mondo intero, dopo aver avuto il parere della Congregazione delle Cause dei Santi, dopo aver lungamente riflettuto e avendo raggiunto un pieno e sicuro convincimento, con la pienezza dell’autorità apostolica dichiariamo San Giovanni d’Avila, sacerdote diocesano, e Santa Ildegarda di Bingen, monaca professa dell’Ordine di San Benedetto, Dottori della Chiesa universale, Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Queste cose decretiamo e ordiniamo, stabilendo che questa lettera sia e rimanga sempre certa, valida ed efficace, e che sortisca e ottenga i suoi effetti pieni e integri; e così convenientemente si giudichi e si definisca; e sia vano e senza fondamento quanto diversamente intorno a ciò possa essere tentato da chiunque con qualsivoglia autorità, scientemente o per ignoranza.
Dato a Roma, presso San Pietro,col sigillo del Pescatore, il 7 ottobre 2012, anno ottavo del Nostro Pontificato.
BENEDETTO PP. XVI
© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana

15 de Janeiro de 1544: esta es talvéz la carta mas bella que escribiò san Francisco Xavier



20
AOS SEUS COMPANHEIROS
RESIDENTES EM ROMA

Cochim, 15 de Janeiro 1544
Duma cópia em castelhano, feita em Coimbra em 1547

SUMÁRIO: 1. Cartas que tem escrito. – 2. Entre os cristãos do Cabo de Comorim: sua ignorância religiosa, modo de os catequizar, tradução das fórmulas catequéticas em língua malabar. – 3-4. Instruções que dá aos domingos sobre os mandamentos e o credo. – 5. Assiduidade das crianças à catequese e desprezo a que votam os ídolos. – 6. Baptiza as crianças que nascem, catequiza jovens e adultos, envia as crianças da catequese a rezar os evangelhos sobre os enfermos em suas casas. – 7. Nos outros lugares segue o mesmo método. – 8. Ânsias de estimular o zelo dos doutores das universidades a irem para as missões converter pagãos. Trabalhos apostólicos e baptismos até cansar os braços. Apoio do Governador às missões e amizade à Companhia de Jesus. – 9. O colégio para indígenas em Goa, confiado a Micer Paulo. – 10. Vícios dos brâmanes. – 11. Modo de agir com os brâmanes: disputas com eles sobre a imortalidade da alma e a cor de Deus; fealdade dos seus ídolos; respeitos humanos em converterem-se. – 12. Segredos doutrinais que lhe confia um brâmane. – 13-14. Suas grandes consolações e alegrias. Missas pelo cardeal Guidiccioni – 15. Confiança na intercessão dos milhares de crianças que baptizou e morreram na inocência.

A graça e amor de Cristo nosso Senhor seja sempre em nossa ajuda e favor. Amen.

1. Há dois anos e nove meses que parti de Portugal e, desde então, vos escrevi de cá três vezes com esta1. Só umas cartas vossas recebi, desde que estou cá na Índia, as quais foram escritas a 13 de

1 Pelas naus que partiam para Lisboa em 1542 (Xavier-doc. 13, da ilha de Moçambique); pelas naus que partiam em 1543 (Xavier-doc. 15-17, de Goa; Xavier-doc. 19, de Tuticorim).
Doc. 20 – 15 de Janeiro de 1544 135

Janeiro do ano de 15422. A consolação que recebi com elas, Deus Nosso Senhor sabe. Estas cartas entregaram-mas haverá dois meses3. Chegaram tão tarde à Índia, porque o navio em que vinham invernou em Moçambique4.

2. Micer Paulo, Francisco de Mansilhas e eu estamos com muita saúde. Micer Paulo está em Goa, no colégio de Santa Fé: tem o encargo dos estudantes daquela casa. Francisco de Mansilhas e eu estamos com os cristãos do Cabo de Comorim. Há mais de um ano que estou com estes cristãos, dos quais vos faço saber que são muitos5 e se fazem muitos mais cada dia. Logo que cheguei a esta costa, onde eles vivem, procurei saber deles que conhecimento de Cristo Nosso Senhor tinham. Perguntando-lhes, acerca dos artigos da fé, o que criam, ou que mais tinham agora que eram cristãos que quando eram gentios, não obtinha deles outra resposta senão a de que eram cristãos e que, por não entender a nossa língua, não sabiam a nossa lei nem o que haviam de crer6. Como eles não me entendessem nem eu a eles, por ser a sua língua natural a malabar7 e a minha a viscainha, juntei os que entre eles eram mais sabedores e escolhi

2 Esta carta, enviada de Lisboa à Índia em 1542 (Epp. Mixtae I 93) não se encontrou.
3 Provavelmente em Goa, onde Xavier tinha voltado da Pescaria. De Goa partiu de novo Xavier com Mansilhas e o secretário do Governador, António Cardoso, em fins de Dezembro, tendo aportado em Cochim no dia 3 de Janeiro de 1544 (CORREA, Lendas da Índia, IV 335; MX II 180; 185).
4 A urca S. Mateus, que trazia as cartas, teve de invernar em Moçambique e chegou a Goa a 30 de Agosto de 1543 (FIGUEIREDO FALCÃO, Livro 160; CORREA, l.c. IV 264; 305). Inácio voltou a escrever a Xavier em Março de 1543; mas a armada da Índia já tinha partido de Lisboa em 25 de Março, antes de a carta aí chegar (MI Epp. I 267; FIGUEIREDO FALCÃO, Livro 160).
5 Xavier encontrou na Pescaria cerca de 20.000 paravás já baptizados; em fins de 1544 tinha ele baptizado em Travancor uns 10.000 macuas. Por alturas da sua morte, em 1552, a Pescaria e Travancor somavam à volta de 50.000 cristãos (SCHURHAMMER, Die Bekehrung 225-230).
6 Cf. ib. 230-233.
7 Língua tamul.
136

Aos Companheiros residentes em Roma pessoas que entendessem a nossa língua e a sua, deles. E depois de nos termos juntado muitos dias, com grande trabalho, traduzimos as orações, começando pelo modo de se benzer confessando as três pessoas serem um só Deus, depois o Credo, Mandamentos, Pai-nosso, Avè-Maria, Salvè-Rainha, e a Confissão geral, do latim em malabar. Depois de as ter traduzido na sua língua e sabê-las de cor, ia por todo o lugar8, com uma campainha na mão, juntando todos os moços e homens que podia e, depois de os ter juntado, ensinava-os cada dia duas vezes. No espaço de um mês, ensinava as orações, dando a seguinte ordem: que os moços, aos seus pais e mães, e a todos os de casa e vizinhos, ensinassem o que na escola aprendiam.
3. Aos domingos, fazia juntar todos os do lugar, tanto homens como mulheres, grandes e pequenos, a dizer as orações na sua língua; e eles mostravam muito prazer e vinham com muita alegria. Começando pela confissão de um só Deus, trino e uno, diziam a grandes vozes o Credo na sua língua: à medida que eu o ia dizendo, todos repetiam. Acabado o Credo, tornava-o a dizer eu só: dizia cada artigo por si e, detendo-me em cada um dos doze, admoestava-os de que cristãos não quer dizer outra coisa senão crer firmemente, sem dúvida alguma, os doze artigos; e, já que eles confessavam que eram cristãos, perguntava-lhes se criam firmemente em cada um dos doze artigos. E assim, todos juntos, a grandes vozes, homens e mulheres, grandes e pequenos, me respondiam a cada artigo que sim, postos os braços sobre o peito, um sobre o outro, em forma de cruz: assim lhes faço dizer mais vezes o Credo que outra oração, pois só por crer nos doze artigos o homem se chama cristão. Depois do Credo, a primeira coisa que lhes ensino são os Mandamentos, dizendo-lhes que a lei dos cristãos tem só dez mandamentos, e que um cristão se diz bom, se os guarda como Deus manda e, pelo contrário, aquele que não os guarda é mau cristão. Ficam muito espantados, tanto cristãos como gentios, de ver quão santa é a lei de Jesus Cristo e conforme com

8 Tuticorim.
Doc. 20 – 15 de Janeiro de 1544 137

toda a razão natural. Acabado o Credo e os Mandamentos, digo o Pai-nosso e a Avè-Maria: assim como os vou dizendo, assim eles me vão respondendo. Dizemos doze Pai-nossos e doze Avè-Marias em honra dos doze artigos do Credo e, acabados estes, dizemos outros dez Pai-nossos e dez Avè-Marias em honra dos dez Mandamentos, guardando a ordem que se segue. Primeiramente, dizemos o primeiro artigo da fé e, depois de o dizer, digo na sua língua, deles, e eles comigo: Jesus Cristo, Filho de Deus, dai-nos graça para firmemente crer, sem dúvida alguma, o primeiro artigo da fé. E, para que nos dê esta graça, dizemos um Pai-nosso. Acabado o Pai-nosso, dizemos todos juntos: Santa Maria, Mãe de Jesus Cristo, alcançai-nos graça de vosso Filho Jesus Cristo para firmemente sem dúvida alguma crer no primeiro artigo da fé. E, para que nos alcance esta graça, dizemos-lhe a Avè-Maria. Esta mesma ordem seguimos em todos os outros onze artigos.

4. Acabado o Credo e os doze Pai-nossos e Avè-Marias, como disse, dizemos os Mandamentos pela ordem que se segue: primeiramente digo o primeiro mandamento, e todos dizem como eu. Acabando de o dizer, dizemos todos juntos: Jesus Cristo, Filho de Deus, dai-nos graça para amar-vos sobre todas as coisas. Pedida esta graça, dizemos todos o Pai-nosso, acabado o qual, dizemos: Santa Maria, Mãe de Jesus Cristo, alcançai-nos graça de vosso Filho para podermos guardar o primeiro mandamento. Pedida esta graça a Nossa Senhora, dizemos todos a Avè-Maria. Esta mesma ordem seguimos em todos os outros nove mandamentos. De maneira que, em honra dos doze artigos da fé, dizemos doze Pai-nossos com doze Avè-Marias, pedindo a Deus Nosso Senhor graça para firmemente e sem dúvida alguma crer neles; e dez Pai-nossos com dez Avè-Marias, em honra dos dez Mandamentos, rogando a Deus Nosso Senhor que nos dê graça para os guardar. Estas são as petições que por nossas orações lhes ensino a pedir, dizendo-lhes que, se estas graças de Deus Nosso Senhor alcançarem, Ele lhes dará tudo o demais, mais plenamente do que eles o saberiam pedir. A Confissão geral faço-a
138 Aos Companheiros residentes em Roma dizer a todos, especialmente aos que se vão baptizar. E, depois, o Credo, interrogando-os sobre cada artigo, se o crêem firmemente. E, respondendo-me eles que sim e dizendo-lhes [eu] a Lei de Jesus Cristo que terão de guardar para se salvar, os baptizo. A Salvè-Rainha dizemo-la quando queremos acabar as nossas orações.

5. Os jovens, espero em Deus Nosso Senhor que hão-de ser melhores homens que seus pais, porque mostram muito amor e vontade à nossa Lei, e de saber as orações e ensiná-las. Aborrecem-lhes muito as idolatrias dos gentios, a tal ponto que muitas vezes lutam com os gentios e repreendem os seus pais e mães quando os vêem idolatrar, e acusam-nos, de maneira que mo vêm dizer. Quando me avisam de algumas idolatrias, que se fazem fora dos lugares, junto todos os jovens do lugar e vou com eles aonde fizeram os ídolos; e são mais as desonras que o diabo recebe dos jovens que levo, que as honras que seus pais e parentes lhes dão na altura em que os fazem e adoram. Porque tomam os meninos os ídolos e os desfazem em pedaços tão miúdos como cinza9; depois, cospem neles e pisam-nos com os pés; e, finalmente, outras coisas que, embora não pareça bem nomeá-las por seus nomes, é honra dos jovens fazê-las a quem tem tanto atrevimento de fazer-se adorar de seus pais. Estive numa grande povoação de cristãos10, traduzindo as orações da nossa língua para a sua e ensinando-lhas quatro meses.

6. Neste tempo, eram tantos os que me vinham procurar, para que fosse a suas casas rezar algumas orações sobre os enfermos, e outros que com as suas doenças vinham ter comigo que, só em rezar evangelhos sem ter outra ocupação, e em ensinar os jovens, baptizar, traduzir orações, satisfazer a perguntas, não me deixavam;

9 Estes ídolos descreve-os pormenorizadamente Manuel de Moraes, S.I. em 1547: «Seus santos a quem adoram e têm na sua igreja são cavalos de barro, e homens de pedra, e figuras de cobras de pedra, pavões, gralhas; e também adoram a montes de pedra e barro e areia que jazem pelos caminhos» (Doc. Indica I 245-246).
10 Tuticorim.
Doc. 20 – 15 de Janeiro de 1544 139

e, além disso, em enterrar os que morriam. Era de tal maneira que, em corresponder à devoção dos que me levavam [a suas casas] ou vinham procurar-me, tinha ocupações demasiadas. Mas, para que não perdessem a fé, que à nossa religião e lei cristã tinham, não estava em meu poder negar tão santa procura. E, como a coisa ia em tão grande crescimento que a todos não podia atender, nem evitar paixões sobre a qual casa primeiro havia de ir, vista a devoção da gente, ordenei maneira que a todos pudesse satisfazer: mandava aos jovens, que sabiam as orações, que fossem [eles] às casas dos doentes, e que juntassem todos os de casa e vizinhos, e que dissessem [com] todos o Credo muitas vezes, dizendo ao doente que acreditasse e que sararia; e, depois, as outras orações. Desta maneira satisfazia a todos e fazia ensinar pelas casas e praças o Credo, Mandamentos e as outras orações. E, assim, aos doentes, pela fé dos de casa, vizinhos e sua própria, Deus Nosso Senhor lhes fazia muitas mercês, dando-lhes saúde espiritual e corporal. Usava Deus de muita misericórdia com os que adoeciam, pois pelas doenças os chamava e quase à força os atraía à fé.

7. Deixando neste lugar quem leve por diante o começado, vou visitando os outros lugares11, fazendo o mesmo. De maneira que, nestas partes, nunca faltam pias e santas ocupações. O fruto que se faz em baptizar as crianças que nascem, e em ensinar os que têm idade para isso, nunca vo-lo poderia acabar de escrever. Pelos lugares por onde passo, deixo as orações por escrito e, aos que sabem escrever, mando que as escrevam, e aprendam de cor, e as digam cada dia, dando ordem para que, aos domingos, se juntem todos a dizê-las. Para isso, deixo nos lugares quem fique com o encargo de o fazer.

11 As aldeias cristãs a norte de Tuticorim eram estas: Vaippâr, Chetupar, Vêmbâr. A sul, até Manapar (cf. Xavier-doc. 19,8). De Manapar para sul: Puducare, Periya Tâlai, Ovari, Kûttankuli, Idindakarai, Perumanal, Kûmari, Muttam, Kanniyâkumâri (Cabo de Comorim), Kovakulam, Râjakkamangalam, todas aldeias de paravas.
140 Aos Companheiros residentes em Roma 8. 

Muitos cristãos se deixam de fazer nestas partes, por não haver pessoas que em tão pias e santas coisas se ocupem. Muitas vezes me movem pensamentos de ir aos centros de estudos dessas partes – dando gritos, como alguém que tenha perdido o juízo – e principalmente à universidade de Paris, dizendo na Sorbona12 aos que têm mais letras que vontade, para dispor-se a frutificar com elas. Quantas almas deixam de ir para a glória e vão para o inferno, pela negligência deles! Se, assim como vão estudando em letras, estudassem na conta que Deus Nosso Senhor lhes pedirá delas e do talento que lhes deu, muitos deles se moveriam, tomando meios e Exercícios Espirituais para conhecer e sentir dentro, em suas almas, a vontade divina, conformando-se mais com ela que com as suas próprias afeições, dizendo: «Senhor, aqui estou. Que queres que eu faça? Envia-me aonde quiseres; e se convém, mesmo aos índios13». Quanto mais consolados viveriam, e com mais esperança da misericórdia divina à hora da morte, quando entrassem no Juízo particular a que ninguém pode escapar, alegando a seu favor: «Senhor, entregaste-me cinco talentos, eis aqui outros cinco que eu ganhei com eles!»14 Receio de que muitos dos que estudam nas universidades, estudem mais para, com as letras, alcançarem dignidades, benefícios, bispados, que com desejo de conformar-se com a necessidade que as dignidades e estados eclesiásticos requerem. É costume dizerem os que estudam: Desejo saber letras para alcançar algum benefício ou dignidade eclesiástica com elas e, depois, com a tal dignidade, servir a Deus. De maneira que, segundo as suas desordenadas afeições, fazem as suas eleições, temendo que Deus não queira o que eles querem, não consentindo as suas desordenadas afeições deixar na vontade de Deus Nosso Se-

12
O colégio da Sorbona, fundado em 1257, já então era o centro da universidade de Paris.
13 A propósito escrevia em 1558 o P. H. Henriques: «Sempre se pode fazer muito serviço a Deus, posto que sejam estas partes pelas quais a Cristo disse São Tomé: ‘envia-me aonde quiseres, mas não aos índios’» (Goa 8, 149r).
14 Mt 25,20.
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nhor esta eleição15. Estive quase movido a escrever à universidade de Paris, ao menos ao nosso Mestre de Cornibus16 e ao Doutor Picardo17, quantos mil milhares de gentios se fariam cristãos se houvesse operários, para que [lá] fossem solícitos em buscar e favorecer as pessoas que não buscam os seus próprios interesses mas os de Jesus Cristo18. É tão grande a multidão dos que se convertem à fé de Cristo, nesta terra onde ando, que, muitas vezes, me acontece sentir cansados os braços de baptizar; e não poder falar, de tantas vezes dizer o Credo e os Mandamentos, na sua língua, deles, e as outras orações, com uma exortação que sei na sua língua, na qual lhes declaro o que quer dizer cristão, e que coisa é paraíso, e que coisa inferno, dizendo-lhes quais são os que vão a um e quais a outro. Mais que todas as outras orações, digo-lhes muitas vezes o Credo e os Mandamentos. Há dia em que baptizo toda uma povoação e, nesta Costa onde ando, há trinta povoações de cristãos19.

15 Cf. Preâmbulo para fazer eleição nos Exercícios Espirituais de S. Inácio (MI, Exercitia 372-373).
16 Pedro de Cornibus, OFM, nascido em Beaune (Borgonha) por 1480, doutor pela universidade de Paris em 1524, mestre de Xavier, Fabro e Bobadilla, verdadeiro amigo da Companhia de Jesus, pregador eminente, faleceu em Paris em 1555 (VILLOSLADA, La Universidad de Paris 220 227 430; Fabri Mon. 99; Epp.Mixtae I 64).
17 Doutor Picardo Fraçois Le Picard), nascido em Paris em 1504, professor de Teologia em 1534, célebre pregador e doutor pela Sorbona, principal adversário dos reformadores, mestre de Xavier, Fabro e Bobadilla, sincero amigo da Companhia de Jesus, morreu com fama de santidade em Paris em 1556 (POLANCO, Chron I 94, 419; II 297; III 291; IV 323; V 332, 335; VI 486; E. DOUMERGUE, Jean Calvin , Lausanne 1899, I 240-241; VILLOSLADA, l.c. 431; MI, Epp. I 133; Bobad.Mon. 561; Epp. Mixtae I 64, 69, 582-583).
18 Fil 2,21.
19 As localidades cristãs da Costa da Pescaria já referidas por nós (cf. nota 11 e Xavier-doc. 19,8) somam 20. Podemos acrescentar outras localidades menores, como Pudukudi perto de Manapar, além de Pudukudi perto de Alentalai, duas aldeias de careas e a aldeia de Tomás da Mota perto de Kombuturê (Xavier-doc. 30,3; 39,5), talvez também Mukur perto de Vêmbâr e ainda, para o norte, as localidades de careas Periapattanam e Vêdâlaí (SCHURHAMMER, Die Bekehrung 266).
142 Aos Companheiros residentes em Roma 

O Governador desta Índia é muito amigo dos que se fazem cristãos. Fez mercê de 4.000 peças de ouro20 cada ano e, estas, para que apenas se gastem e dêem àquelas pessoas que, com muita diligência, ensinam a doutrina cristã nos lugares dos recém-convertidos à fé. É muito amigo de todos os da nossa Companhia. Deseja muito que venham a estas partes alguns da nossa Companhia, e assim me parece que o escreve ao Rei.

9. No ano passado, escrevi21 acerca de um colégio, que se está a fazer na cidade de Goa, no qual há já muitos estudantes. São de diversas línguas, e todos de geração de infiéis. Entre eles, internos no colégio, onde há muitos edifícios feitos, há muitos que aprendem latim e, outros, a ler e escrever. Micer Paulo está com estes estudantes do colégio: diz-lhes Missa todos os dias, e confessa-os, e nunca deixa de dar-lhes doutrina espiritual. Tem [também] o encargo das coisas corporais de que têm necessidade os estudantes. Este colégio é muito grande: nele podem viver mais de quinhentos estudantes. Tem rendas suficientes para os manter: são muitas as esmolas que a este colégio se fazem, e o Governador favorece-o largamente. É caso para todos os cristãos darem graças a Deus Nosso Senhor pela fundação desta casa, que se chama o Colégio da Santa Fé. Antes de muitos anos, espero da misericórdia de Deus Nosso Senhor que o número de cristãos se há-de multiplicar grandemente e as fronteiras da Igreja se hão-de ampliar por meio dos que neste santo colégio estudam.

10. Há nestas partes, entre os gentios, uma classe a que chamam brâmanes: estes mantêm toda a gentilidade. Têm o encargo das casas20. Estas peças de ouro eram fanões, moedas muito miúdas, em uso na Pescaria e norte de Ceilão. Dez fanões equivaliam a 1 xerafim de ouro = 1 pardau de prata = 300 reis. Portanto, no tempo de Xavier, 4.000 fanões valiam 400 xerafins de ouro = 400 pardaus de prata = 210 cruzados. Era o tributo dos paravas para ao «chapins da rainha». Com o andar dos anos, os pardaus e os cruzados foram perdendo valor, enquanto o dos fanões se manteve invariável naquela região. Por isso não admira que Lucena, no seu tempo (ano 1600), calcule 4.000 fanões = 400 cruzados.
21 Xavier-doc. 16.
Doc. 20 – 15 de Janeiro de 1544 143

onde estão os ídolos: é a gente mais perversa do mundo. Destes se percebe o que diz o Salmo: «Da gente não santa, do homem iníquo e fraudulento, livra-me, Senhor»22. É gente que nunca diz a verdade. Está sempre a pensar como há-de subtilmente mentir e enganar os pobres simples e ignorantes, dizendo que os ídolos pedem que lhes levem, para oferecer, certas coisas; mas estas não são outras senão as que os brâmanes fingem e querem para manter as suas mulheres, filhos e casas. Fazem crer à gente simples que os ídolos comem; e há muitas pessoas que, mesmo que não almocem nem jantem, oferecem certa moeda23 para o ídolo. Duas vezes ao dia, com grande festa de atabales, comem, dando a entender aos pobres que são ídolos que estão a comer. Quando começa a faltar o necessário aos brâmanes, dizem ao povo que os ídolos estão muito zangados com ele, porque não lhes leva as coisas que, por eles, lhes mandam pedir; e que, se não lhas fornecem, tenham cuidado com eles, pois os hão-de matar, ou dar-lhes doenças, ou lhes hão-de mandar os demónios a suas casas. E os tristes simples, crendo que será assim, de medo que os ídolos lhes façam mal, fazem o que os brâmanes querem.

11. São, estes brâmanes, homens de poucas letras24; e, o que lhes falta em virtude, têm de iniquidade e maldade em grande aumento. Aos brâmanes desta Costa onde ando, pesa-lhes muito que eu nunca outra coisa faça senão descobrir as suas maldades. Eles confessam-me a verdade, quando estamos a sós, de como enganam o povo: confessam-me, em segredo, que não têm outro património senão aqueles ídolos de pedra, dos quais vivem, fingindo mentiras.
Têm estes brâmanes para si, que eu sei mais que todos eles juntos. Mandam-me visitar, e pesa-lhes muito que eu não queira aceitar os presentes que me mandam. Tudo isto fazem, para que eu não

22 Ps 42,1.
23 Fanão.
24 Os brâmanes instruídos da região mais interior, por ex. os do Maduré, entre os quais trabalhou o Padre De Nobili mais tarde, não os conheceu Xavier.

144 Aos Companheiros residentes em Roma descubra os seus segredos, dizendo-me que eles bem sabem que não há senão um Deus, e que eles rezarão por mim. Em paga de tudo isto digo-lhes, da minha parte, o que me parece. Depois, aos tristes simples que, por puro medo, são seus devotos, manifesto-lhes os seus enganos e burlas, até cansar. Muitos, pelo que lhes digo, perdem a devoção ao demónio e fazem-se cristãos. Se não houvesse brâmanes, todos os gentios se converteriam à nossa fé. As casas onde estão os ídolos e brâmanes, chamam-se pagodes.
Todos os gentios destas partes sabem muito poucas letras; para mal, sabem muito. Só um brâmane, desde que estou nestas partes, fiz cristão: é jovem e muito bom homem. Tomou por ofício ensinar aos jovens a doutrina cristã.
Ao visitar os lugares de cristãos, passo por muitos pagodes. Uma vez passei por um, onde havia mais de duzentos brâmanes25, e vieram-me ver. Entre outras muitas coisas de que falamos, pus-lhes uma questão, e era: que me dissessem que é que os seus deuses e ídolos, a quem adoravam, lhes mandavam fazer para ir para a glória. Foi grande a contenda entre eles sobre quem me responderia. Disseram a um dos mais antigos que respondesse. O velho, que tinha mais de oitenta anos, disse-me que lhe dissesse eu primeiro o que mandava o Deus dos cristãos fazer. Eu, percebendo a sua ruindade, não quis dizer coisa alguma antes de ser ele a dizer. Então foi-lhe forçado manifestar as suas ignorâncias. Respondeu-me que duas coisas lhes mandavam fazer os seus deuses para ir para onde eles estão: a primeira era não matar vacas, as quais eles adoram; e a segunda era dar esmolas, e estas aos brâmanes que servem os pagodes. Ouvida esta resposta, com pena de os demónios escravizarem os nossos próximos de tamanha maneira, a ponto de em lugar de Deus se fazerem adorar deles, levantei-me, dizendo aos brâmanes que ficassem sentados e, a grandes vozes, disse o Credo e os Mandamentos da lei na língua deles,


25 Parece referir-se ao pagode de Trichendur, a que acorriam peregrinos de toda a parte.
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fazendo alguma detenção em cada Mandamento. Acabados os mandamentos, fiz-lhes uma exortação na língua deles, explicando-lhes que coisa é paraíso e que coisa é inferno, e dizendo-lhes quem vai para um e quem para outro. Depois de acabada esta prática, levantaram-se todos os brâmanes e deram-me grandes abraços, dizendo-me que verdadeiramente o Deus dos cristãos é o verdadeiro Deus, pois os seus Mandamentos são tão conformes a toda a razão natural.

Perguntaram-me se a nossa alma juntamente com o corpo morria, como a alma dos brutos animais. Deu-me Deus Nosso Senhor tais razões, conformes às suas capacidades, que lhes fiz entender claramente a imortalidade das almas, coisa de que eles mostraram muito prazer e contentamento. As razões, que a esta gente idiota se hão-de dar, não hão-de ser tão subtis como as que se encontram escritas em doutores muito escolásticos. Perguntaram-me por onde saía a alma, quando um homem morria; e quando um homem dormia e sonhava estar numa terra com os seus amigos e conhecidos [como a mim muitas vezes me acontece estar convosco, caríssimos], se a sua alma ia até lá, deixando de informar o corpo. E mais me pediram: que lhes dissesse se Deus é branco ou negro26, dada a diversidade de cores que vêem nos homens. Como os desta terra são negros, parecendo-lhes bem a sua cor, dizem que é negro. Por isso a maioria dos ídolos são negros: untam-nos muitas vezes com azeite; cheiram tão mal que é coisa de espanto; são tão feios que, ao vê-los, espantam. A todas as perguntas que me fizeram os satisfiz, a parecer deles. Mas, quando com eles chegava a conclusão de que se fizessem cristãos, pois já conheciam a verdade, respondiam o que muitos entre nós costumam responder: Que dirá o mundo de nós, se esta mudança de estado fazemos no nosso modo de viver? E outras tentações em pensar que lhes venha a faltar o necessário.

26 Os indianos distinguem deuses negros e brancos; assim, Vishnu pintam-no de negro e a Shiva de branco.
146 Aos Companheiros residentes em Roma 12. 

Um só brâmane encontrei num lugar desta Costa, que sabia alguma coisa, porque, me diziam, tinha estudado num centro de estudos de nomeada. Procurei encontrar-me com ele e consegui maneira de nos vermos. Disse-me ele, em grande segredo, que a primeira coisa que fazem os que ensinam naquele centro de estudos, é ter juramento dos que vão aprender, de nunca dizer certos segredos que ensinam. Mas a mim, este brâmane, disse-me esses segredos em grande segredo, por alguma amizade que comigo tinha. Um dos segredos era este: que nunca dissessem que há um só Deus, criador do céu e da terra e que está nos céus; e que ele adorasse esse Deus e não os ídolos, que são demónios. Têm algumas escrituras, nas quais têm os mandamentos. A língua que naquele centro de estudos ensinam, é entre eles como o latim entre nós27. Disse-me muito bem os mandamentos, cada um deles com uma boa explicação. Guardam os domingos, estes que são sábios, coisa para não se poder crer. Não dizem outra oração, aos domingos, senão esta, e muitas vezes: «Om cirii naraina noma»28, que quer dizer: «Adoro-te, Deus, com a tua graça e ajuda para sempre»29. Esta oração dizem-na muito de passo e baixo, para guardar o juramento que fazem. Disse-me que lhes proibia, a lei natural, ter muitas mulheres; e que está nas suas escrituras que há-de vir tempo em que todos hão-de viver debaixo da mesma lei. Disse-me mais, este brâmane: que ensinam, naquele centro de estudos, muitos encantamentos30.

27 Língua sânscrito.
28 Om Srî Narâyana namah, invocação comum dos brâmanes da seita Vishnu.
29 Mais exactamente: Om (nome místico secreto da suma deidade), Srî (santo), Narâyana (nome de Vishnu repousando sobre o mar), namah (adoração), isto é, «Om! Salvè, santo Narâyana!». Não confundir esta oração com a chamada Gâyatrî (cf. DALGADO I 413).
30 Ao que parece, este brâmane pertencia à seita Mâdhva que, em tempo de Xavier, florescia na corte vijayanagarensi e sobretudo na corte de Sevvappa Nayaka (na região de Tanjaore) a que estava sujeito Negapatam (HERAS 514-515; 521--522). Tinha muitos seguidores na região tamulica (ib. 531). A sua doutrina era a seguinte: há um deus, Vishnu, (mas também as almas e a matéria são eternas).

Doc. 20 – 15 de Janeiro de 1544 147


Pediu-me que lhe dissesse as coisas mais importantes que os cristãos têm na sua lei, que ele me prometia não as descobrir a ninguém. Eu respondi-lhe que não lhas diria se, primeiro, não me prometesse não guardar em segredo as coisas mais importantes que, da lei dos cristãos, eu lhe dissesse. E logo ele me prometeu publicar tudo. Então disse-lhe e expliquei-lhe, muito a meu prazer, estas palavras importantes da nossa lei: «O que crer e for baptizado será salvo»31. Escreveu-as na sua língua, com a explicação delas em que lhe disse todo o Credo. Na explicação, acrescentei os Mandamentos, pela conformidade que há entre eles e o Credo. Disse-me que numa noite sonhou, com muito prazer e alegria, que havia de ser cristão, e que havia de ser meu companheiro e andar comigo. Pediu-me que o fizesse cristão oculto e com mais certas condições que, por não serem honestas e lícitas, deixei de o fazer. Espero em Deus que o há-de ser, sem nenhuma delas. Tenho-lhe dito que ensinem a gente simples a adorar um só Deus, criador do céu e da terra e que está nos céus; ele, pelo juramento que fez, receoso de que o demónio o mate, não o quer fazer.

13. Destas partes, não sei que mais escrever-vos, a não ser que são tantas as consolações que Deus Nosso Senhor comunica aos que andam entre estes gentios a convertê-los à fé de Cristo, que, se contentamento há nesta vida, se pode dizer que é este. Muitas vezes me acontece ouvir dizer a uma pessoa que anda entre estes cristãos: «Ó Senhor, não me deis muitas consolações nesta vida32; ou, já que as dais por vossa infinita bondade e misericórdia, levai-me para a Vishnu é o formador do mundo. Os outros ídolos, ou são diabos ou revelações de Vishnu, e todos servos de Vishnu. Os mandamentos, segundo eles, são dez, e a sua oração é a já mencionada. (cf. H. VON GLASENAPP, Madhva’s Philosophie des Vishnu-Glaubens, Bonn 1923, 38; 44; 46-51; 66-75; 85-86. Encyclopedia of Religion and Ethics VIII 232-235).
31 Mc 16,16.
32 Cf. a exclamação tantas vezes atribuída a Xavier: «Basta, Senhor, basta!» (MX II 950).

148 Aos Companheiros residentes em Roma vossa santa glória, pois dá tanta pena viver sem ver-vos, depois de tanto vos comunicardes interiormente às criaturas». Oh, se os que estudam letras, tantos trabalhos pusessem em ajudar-se para sentir o gosto delas, como noites e dias trabalhosos suportam para as aprender! Oh, se aqueles contentamentos que um estudante busca em entender o que estuda, os buscasse em dar a sentir aos próximos o que lhes é necessário para conhecer e servir a Deus, quanto mais consolados e aparelhados se achariam para dar conta, quando Cristo lhes perguntasse: «Dá-me conta da tua administração»33!

14. As recreações que nestas partes tenho, são as de recordar--me muitas vezes de vós, caríssimos Irmãos meus, e dos tempos em que pela muita misericórdia de Deus Nosso Senhor vos conheci e convosco tratei, conhecendo em mim e sentindo dentro, em minha alma, quanto por minha culpa perdi do tempo em que convosco tratei, por não ter-me aproveitado dos muitos conhecimentos que Deus Nosso Senhor de si vos tem comunicado. Faz-me Deus tanta mercê, por vossas orações e lembrança contínua que de mim tendes em encomendar-me a Ele, que em vossa ausência corporal reconheço que Deus Nosso Senhor, graças ao vosso favor e ajuda, me dá a sentir a minha infinita multidão de pecados, e me dá forças para andar entre infiéis; disto dou graças a Deus Nosso Senhor, muitas, e a vós, caríssimos Irmãos meus. Entre muitas mercês, que Deus Nosso Senhor nesta vida me tem feito e faz todos os dias, esta é uma: que em meus dias vi o que tanto desejei, que foi a confirmação da nossa regra e modo de viver34. Graças sejam dadas a Deus Nosso Senhor para sempre, pois teve por bem manifestar publicamente o que no íntimo, ao seu servo Inácio e Pai nosso, deu a sentir.
No ano passado escrevi-vos35 o número de Missas que, nestas partes das Índias, pelo Rvmº cardeal Guidacion, dissemos, Micer Paulo

33 Lc 16,2.
34 Cf. Xavier-doc. 12,6.
35 Cf. Xavier-doc. 12,1.
Doc. 20 – 15 de Janeiro de 1544 149

e eu: as que, desde então para cá dissemos, não sei o número delas, mas crede que todas as nossas missas são por ele. Para consolação nossa, fazei-nos saber quanto se assinala no serviço a Deus S.S.Rmª, e também para acrescentar-nos a devoção, a Micer Paulo e a mim, de sermos perpétuos capelães seus. Não deixeis de escrever-nos do fruto que na Igreja faz.
Termino, rogando a Deus Nosso Senhor que, já que por sua misericórdia nos juntou e por seu serviço nos separou para tão longe uns dos outros, nos torne a juntar na sua santa glória.

15. E para alcançar esta mercê e graça, tomemos por intercessores e advogados todas aquelas santas almas destas terras onde ando, que, depois que por minha mão baptizei, antes de perderem o estado de inocência Deus Nosso Senhor levou para a sua santa glória, cujo número creio que passa de mil. A todas estas santas almas rogo que nos alcancem de Deus esta graça: que em todo o tempo que estivermos neste desterro, sintamos no íntimo das nossas almas sua santíssima vontade e essa perfeitamente cumpramos.

De Cochim, a 15 de Janeiro, ano de 1544
Vosso caríssimo em Cristo irmão
FRANCISCO



AVE AVE AVE MARIA!

*** Discorso della Montagna: il dono della Grazia e le beatitudini. Solennità di Tutti I Santi: San Matteo, 5, 1-12.

Bartolome Esteban Murillo XVI-XVII.jpg 

170. Secondo discorso della Montagna: il dono della Grazia e le beatitudini.


Gesù parla agli apostoli mettendoli ognuno al loro posto per dirigere e sorvegliare la folla, che sale fin dalle
prime ore del mattino con malati portati a braccio o in barella o trascinantisi sulle grucce. Fra la gente è
Stefano ed Erma. L'aria è tersa e un poco freschetta, ma il sole tempera presto questo frizzare di aria
montanina che, rendendo mite il sole, se ne avvantaggia però, facendosi di una purezza fresca ma non rigida.
La gente si siede sui sassi e pietroni che sono sparsi nella valletta fra le due cime, altri attendono che il sole
asciughi l'erba rugiadosa per sedersi sul suolo. E’ molta la gente e di tutte le plaghe palestinesi e di tutte le
condizioni. Gli apostoli si sperdono nella moltitudine ma, come api che vanno e vengono dai prati all'alveare,
ogni tanto tornano presso il Maestro per riferire, per chiedere, per il piacere di essere guardati da vicino dal
Maestro. Gesù sale un poco più in alto del prato che è il fondo della valletta, addossandosi alla parete, e
inizia a parlare.
«Molti mi hanno chiesto, durante un'annata di predicazione: "Ma Tu, che ti dici il Figlio di Dio, dicci cosa è
il Cielo, cosa il Regno, cosa è Dio. Perché noi abbiamo idee confuse. Sappiamo che vi è il Cielo con Dio e
con gli angeli. Ma nessuno è mai venuto a dirci come è, essendo chiuso ai giusti". Mi hanno chiesto anche
cosa è il Regno e cosa è Dio. Ed Io mi sono sforzato di spiegarvi cosa è il Regno e cosa è Dio. Sforzato non
perché mi fosse difficile a spiegarmi, ma perché è difficile, per un complesso di cose, farvi accettare la verità
che urta, per quanto è il Regno, contro tutto un edificio di idee venute nei secoli e, per quanto è Dio, contro
la sublimità della sua Natura. Altri ancora mi hanno chiesto: "Va bene. Questo è il Regno e questo è Dio. Ma
come si conquistano questo e quello?". Anche qui Io ho cercato di spiegarvi, senza stanchezze, l'anima vera
della Legge del Sinai. Chi fa sua quell'anima fa suo il Cielo. Ma per spiegarvi la Legge del Sinai bisogna
anche far sentire il tuono forte del Legislatore e del suo Profeta, i quali, se promettono benedizioni agli
osservanti, minacciano tremende pene e maledizioni ai disubbidienti. La epifania del Sinai fu tremenda e la
sua terribilità si riflette in tutta la Legge, si riflette su tutti i secoli, si riflette su tutte le anime. Ma Dio non è
solo Legislatore. Dio è Padre. E Padre di immensa bontà. Forse, e senza forse, le vostre anime, indebolite dal
peccato d'origine, dalle passioni, dai peccati, da molti egoismi vostri e altrui - facendovi gli altrui un'anima
irritata, i vostri un'anima chiusa - non possono elevarsi a contemplare le infinite perfezioni di Dio, meno di
ogni altra la bontà, perché è la virtù che con l'amore è meno dote dei mortali. La bontà! Oh! dolce essere
buoni, senza odio, senza invidie, senza superbie! Avere occhi che solo guardano per amare, e mani che si
tendono a gesto d'amore, e labbra che non profferiscono che parole d'amore, e cuore, cuore soprattutto che
colmo unicamente d'amore sforza occhi, mani e labbra ad atti d'amore! I più dotti fra voi sanno di quali doni
Dio aveva fatto ricco Adamo, per sé e per i suoi discendenti. Anche i più ignoranti fra i figli d'Israele sanno
che in noi vi è lo spirito. Solo i poveri pagani lo ignorano questo ospite regale, questo soffio vitale, questa
luce celeste che santifica e vivifica il nostro corpo. Ma i più dotti sanno quali doni erano stati dati all'uomo,
allo spirito dell'uomo. Non fu meno munifico allo spirito che alla carne e al sangue della creatura da Lui fatta
con poco fango e col suo alito. E come dette i doni naturali di bellezza e integrità, di intelligenza e di
volontà, di capacità di amarsi e di amare, così dette i doni morali con la soggezione del senso alla ragione, di
modo che nella libertà e padronanza di sé e della propria volontà, di cui Dio aveva beneficato Adamo, non si
insinuava la malvagia prigionia dei sensi e delle passioni, ma libero era l'amarsi, libero il volere, libero il godere in giustizia, senza quello che fa schiavi voi facendovi sentire il mordente di questo veleno che Satana sparse e che rigurgita, portandovi fuor dell'alveo limpido su campi fangosi, in putrefacenti stagni, dove fermentano le febbri dei sensi carnali e dei sensi morali. Perché sappiate che è senso anche la concupiscenza
del pensiero. Ed ebbero doni soprannaturali, ossia la Grazia santificante, il destino superiore, la visione di Dio. La Grazia santificante: la vita dell'anima. Quella spiritualissima cosa deposta nella spirituale animanostra. La Grazia che ci fa figli di Dio perché ci preserva dalla morte del peccato, e chi morto non è "vive"
nella casa del Padre: il Paradiso; nel regno mio: il Cielo. Cosa è questa Grazia che santifica e che dà Vita e
Regno? Oh! non usate molte parole! La Grazia è amore. La Grazia è, perciò, Dio. E Dio che ammirando Se
stesso nella creatura creata perfetta si ama, si contempla, si desidera, si dà ciò che è suo per moltiplicare
questo suo avere, per bearsi di questo moltiplicarsi, per amarsi per quanti sono altri Se stesso. Oh! figli! Non
defraudate Dio di questo suo diritto! Non derubate Dio di questo suo avere! Non deludete Dio in questo suo
desiderio! Pensate che Egli opera per amore. Se anche voi non foste, Egli sarebbe sempre l'Infinito, né
sarebbe sminuita la sua potenza. Ma Egli, pur essendo completo nella sua misura infinita, immisurabile,
vuole non per Sé e in Sé - non lo potrebbe perché è già l'Infinito - ma per il Creato, sua creatura, Egli vuole
aumentare l'amore per quanto esso Creato di creature contiene, onde vi dà la Grazia: l'Amore, perché voi in
voi lo portiate alla perfezione dei santi, e riversiate questo tesoro, tratto dal tesoro che Dio vi ha dato con la
sua Grazia e aumentato di tutte le vostre opere sante, di tutta la vostra vita eroica di santi, nell'Oceano
infinito dove Dio è: nel Cielo. Divine, divine, divine cisterne dell'Amore! Voi siete, né vi è data al vostro
essere morte, perché siete eterne come Dio, dio essendo. Voi sarete, né vi sarà data al vostro essere termine,
perché immortali come gli spiriti santi che vi hanno supernutrite, tornando in voi arricchiti dei propri meriti.
Voi vivete e nutrite, voi vivete e arricchite, voi vivete e formate quella santissima cosa che è la Comunione
degli spiriti, da Dio, Spirito perfettissimo, al piccolo pargolo testé nato, che poppa per la prima volta il
materno seno. Non criticatemi in cuor vostro, o dotti! Non dite: "Costui è folle, Costui è menzognero! Perché
come folle parla dicendo la Grazia in noi, privi di essa per la Colpa. Perché mente dicendoci già uni con
Dio". Sì, la Colpa è; sì, la separazione è. Ma davanti al potere del Redentore, la Colpa, separazione crudele
sorta fra il Padre e i figli, crollerà come muraglia scossa dal nuovo Sansone; già Io l'ho afferrata e la scrollo
ed essa vacilla, e Satana trema d'ira e di impotenza non potendo nulla contro il mio potere e sentendosi
strappare tanta preda e farsi più difficile il trascinare l'uomo al peccato. Perché quando Io vi avrò, attraverso
di Me, portato al Padre mio, e nel filtrare dal mio Sangue e dal mio dolore voi sarete divenuti mondi e forti,
tornerà viva, desta, potente la Grazia in voi, e voi sarete i trionfatori, se lo vorrete. Non vi violenta Iddio nel
pensiero e neppure nella santificazione. Voi siete liberi. Ma vi rende la forza. Vi rende la libertà sull'impero
di Satana. A voi riporvi il giogo infernale o mettere all'anima le ali angeliche. Tutto a voi, con Me a fratello
per guidarvi e nutrirvi del cibo immortale. "Come si conquista Iddio e il suo Regno attraverso altra più dolce
via che non la severa del Sinai?" voi dite. Non vi è altra via. Quella è. Ma però guardiamola non attraverso il
colore della minaccia, ma attraverso il colore dell'amore. Non diciamo: "Guai se non farò questo!"
rimanendo tremanti in attesa di peccare, di non essere capaci di non peccare. Ma diciamo: "Beato me se farò
questo!" e con slancio di soprannaturale gioia, giubilando, lanciamoci verso queste beatitudini, nate
dall'osservanza della Legge come corolle di rose da un cespuglio di spine.

1-Beato me se sarò povero di spirito perché mio allora è il Regno dei Cieli!
2-Beato me se sarò mansueto perché erediterò la Terra!
3-Beato me se sarò capace di piangere senza ribellione perché sarò consolato!
4-Beato me se più del pane e del vino per saziare la carne avrò fame e sete di giustizia. La Giustizia mi
sazierà! Beato me se sarò misericordioso perché mi sarà usata divina misericordia!
5-Beato me se sarò puro di cuore perché Dio si piegherà sul mio cuore puro ed io lo vedrò!
6-Beato me se avrò spirito di pace perché sarò da Dio chiamato suo figlio, perché nella pace è l'amore, e Dio
è Amore che ama chi è simile a Lui!
7-Beato me se per fedeltà alla giustizia sarò perseguitato, perché a compensarmi delle terrene persecuzioni
Dio, mio Padre, mi darà il Regno dei Cieli!
8-Beato me se sarò oltraggiato e accusato bugiardamente per saper essere tuo figlio, o Dio! Non desolazione
ma gioia mi deve venire da questo, perché questo mi uguaglia ai tuoi servi migliori, ai Profeti, per la stessa
ragione perseguitati, e coi quali io credo fermamente di condividere la stessa ricompensa grande, eterna, nel
Cielo che è mio! Guardiamo così la via della salute. Attraverso la gioia dei santi.

(1) Beato me se sarò povero di spirito Oh! delle ricchezze, arsura satanica, a quanti deliri tu porti! Nei ricchi,
nei poveri. Il ricco che vive per il suo oro: l'idolo infame del suo spirito rovinato. Il povero che vive dell'odio
al ricco perché egli ha l'oro, e se anche non fa materiale omicidio lancia i suoi anatema sul capo dei ricchi,
desiderando loro male d'ogni sorta. Il male non basta non farlo, bisogna anche non desiderare di farlo. Colui
che maledice augurando sciagure e morti non è molto dissimile da colui che materialmente uccide, poiché ha
in lui il desiderio di veder perire colui che odia. In verità vi dico che il desiderio non è che un atto trattenuto,
come un concepito da ventre già formato ma non ancora espulso. Il desiderio malvagio avvelena e guasta,
poiché permane più a lungo dell'atto violento, più in profondità dell'atto stesso. Il povero di spirito se è ricco
non pecca per l'oro, ma del suo oro fa la sua santificazione poiché ne fa amore. Amato e benedetto, egli è
simile a quelle sorgive che salvano nei deserti e che si danno, senza avarizia, liete di potersi dare per
sollevare le disperazioni. Se è povero, è lieto nella sua povertà, e mangia il suo pane dolce della ilarità del
libero dall'arsione dell'oro, e dorme il suo sonno scevro da incubi, e sorge riposato al suo sereno lavoro che
pare sempre leggero se viene fatto senza avidità e invidia. Le cose che fanno ricco l'uomo sono l'oro come
materia, gli affetti come morale. Nell'oro sono comprese non solo le monete ma anche le case, i campi, i
gioielli, i mobili, le mandre, tutto quanto insomma fa materialmente doviziosa la vita. Nelle affezioni: i
legami di sangue o di coniugio, le amicizie, le dovizie intellettuali, le cariche pubbliche. Come vedete, se per
la prima categoria il povero può dire: " Oh! per me! Basta che io non invidi chi ha e poi sono a posto perché
io sono povero e perciò a posto per forza ", per la seconda anche il povero ha da sorvegliarsi, potendo, anche
il più miserabile fra gli uomini, divenire peccaminosamente ricco di spirito. Colui che si affeziona
smoderatamente ad una cosa, ecco che pecca. Voi direte: "Ma allora dobbiamo odiare il bene che Dio ci ha
concesso? Ma allora perché comanda di amare il padre e la madre, la sposa, i figli, e dice: 'Amerai il tuo
prossimo come te stesso? Distinguete. Amare dobbiamo il padre e la madre e la sposa e il prossimo, ma nella
misura che Dio ha dato: " come noi stessi ". Mentre Dio va amato sopra ogni cosa e con tutti noi stessi. Non
amare Dio come amiamo fra il prossimo i più cari, questa perché ci ha allattato, l'altra perché dorme sul
nostro petto e ci procrea i figli, ma amarlo con tutti noi stessi, ossia con tutta la capacità di amare che è
nell'uomo: amore di figlio, amore di sposo, amore di amico e, oh! non vi scandalizzate! e amore di padre. Sì,
per l'interesse di Dio dobbiamo avere la stessa cura che un padre ha per la sua prole, per la quale con amore
tutela le sostanze e le accresce, e si occupa e preoccupa della sua crescita fisica e culturale e della sua riuscita
nel mondo. L'amore non è un male e non lo deve divenire. Le grazie che Dio ci concede non sono un male e
non lo devono divenire. Amore sono. Per amore sono date. Occorre con amore usarne di queste ricchezze
che Dio ci concede in affetti e in bene. E solo chi non se ne fa degli idoli ma dei mezzi per servire in santità
Dio, mostra di non avere un attaccamento peccaminoso ad esse. Pratica allora la santa povertà dello spirito,
che di tutto si spoglia per essere più libero di conquistare Iddio santo, suprema Ricchezza. Conquistare Dio,
ossia avere il Regno dei Cieli.

(2) Beato me se sarò mansueto. Ciò può parere in contrasto con gli esempi della vita giornaliera. I non
mansueti sembrano trionfare nelle famiglie, nelle città, nelle nazioni. Ma è vero trionfo? No. E’ paura che
tiene apparentemente proni i soverchiati dal despota, ma che in realtà non è che velo messo sul ribollire di
ribellione contro il tiranno. Non possiedono i cuori dei famigliari, né dei concittadini, né dei sudditi, coloro
che sono iracondi e prepotenti. Non piegano intelletti e spiriti alle loro dottrine quei maestri del "ho detto e
ho detto". Ma solo creano degli autodidatti, dei ricercatori di una chiave atta ad aprire le porte chiuse di una
sapienza o di una scienza che essi sentono essere e che è opposta a quella che viene loro imposta. Non
portano a Dio quei sacerdoti che non vanno alla conquista degli spiriti con la dolcezza paziente, umile,
amorosa, ma sembrano guerrieri armati che si lancino ad un assalto feroce tanto marciano con irruenza e
intransigenza contro le anime... Oh! povere anime! Se fossero sante non avrebbero bisogno di voi, sacerdoti,
per raggiungere la Luce. L'avrebbero già in sé. Se fossero giusti non avrebbero bisogno di voi giudici per
essere tenuti nel freno della giustizia, l'avrebbero già in se. Se fossero sani non avrebbero bisogno di chi cura.
Siate dunque mansueti. Non mettete in fuga le anime. Attiratele con l'amore. Perché la mansuetudine è
amore, così come lo è la povertà di spirito. Se tali sarete erediterete la Terra e porterete a Dio questo luogo,
già prima di Satana, perché la vostra mansuetudine, che oltre che amore è umiltà, avrà vinto l'odio e la
superbia uccidendo negli animi il re abbietto della superbia e dell'odio, e il mondo sarà vostro, ossia di Dio,
perché voi sarete giusti che riconoscerete Dio come Padrone assoluto del creato, al Quale va dato lode e
benedizione e reso tutto quanto è suo.

(3) Beato me se saprò piangere senza ribellione. Il dolore è sulla terra. E il dolore strappa lacrime all'uomo. Il dolore non era. Ma l'uomo lo mise sulla terra e per una depravazione del suo intelletto si studia di sempre più
aumentarlo, con tutti i modi. Oltre le malattie e le sventure conseguenti da fulmini, tempeste, valanghe, terremoti, ecco che l'uomo per soffrire, e per far soffrire soprattutto - perché vorremmo solo che gli altri soffrissero, e non noi, dei mezzi studiati per far soffrire - ecco che l'uomo escogita le armi micidiali sempre più tremende e le durezze morali sempre più astute. Quante lacrime l'uomo trae all'uomo per istigazione del
suo segreto re che è Satana! Eppure in verità vi dico che queste lacrime non sono una menomazione ma una perfezione dell'uomo. L'uomo è uno svagato bambino, è uno spensierato superficiale, è un nato di tardivo
intelletto finché il pianto non lo fa adulto, riflessivo, intelligente. Solo coloro che piangono, o che hanno pianto, sanno amare e capire. Amare i fratelli ugualmente piangenti, capirli nei loro dolori, aiutarli colla loro bontà, esperta di come fa male essere soli nel pianto. E sanno amare Dio perché hanno compreso che tutto è
dolore fuorché Dio, perché hanno compreso che il dolore si placa se pianto sul cuore di Dio, perché hanno
compreso che il pianto rassegnato che non spezza la fede, che non inaridisce la preghiera, che è vergine di
ribellione, muta natura, e da dolore diviene consolazione. Sì. Coloro che piangono amando il Signore
saranno consolati.

(4) Beato me se avrò fame e sete di giustizia. Dal momento che nasce al momento che muore l'uomo tende avido al cibo. Apre la bocca alla nascita per afferrare il capezzolo, apre le labbra per inghiottire ristoro nelle
strette dell'agonia. Lavora per nutrirsi. Fa della terra un enorme capezzolo dal quale insaziabilmente succhia,
succhia per ciò che muore. Ma che è l'uomo? Un animale? No, è un figlio di Dio. In esilio per pochi o molti anni. Ma non cessa la sua vita col mutare della sua dimora. Vi è una vita nella vita così come in una noce vi è il gheriglio. Non è il guscio la noce, ma è l'interno gheriglio che è la noce. Se seminate un guscio di noce non
nasce nulla, ma se seminate il guscio con la polpa nasce grande albero. Così è l'uomo. Non è la carne che diviene immortale, è l'anima. E va nutrita per portarla all'immortalità, alla quale, per amore, essa poi porterà la carne nella risurrezione beata. Nutrimento dell'anima è la Sapienza, è la Giustizia. Come liquido e cibo esse vengono aspirate e corroborano, e più se ne gusta e più cresce la santa avidità del possedere la Sapienza
e di conoscere la Giustizia. Ma verrà pure un giorno in cui l'anima insaziabile di questa santa fame sarà saziata. Verrà. Dio si darà al suo nato, se lo attaccherà direttamente al seno e il nato al Paradiso si sazierà della Madre ammirabile che è Dio stesso, e non conoscerà mai più fame, ma si riposerà beato sul seno divino. Nessuna scienza umana equivale a questa divina. La curiosità della mente può essere appagata, ma la necessità dello spirito no. Anzi nella diversità del sapore lo spirito prova disgusto e torce la bocca dall'amaro
capezzolo, preferendo soffrire la fame all'empirsi di un cibo che non sia venuto da Dio. Non abbiate timore, o sitibondi, o affamati di Dio! Siate fedeli e sarete saziati da Colui che vi ama.

(5) Beato me se sarò misericordioso. Chi fra gli uomini può dire: "Io non ho bisogno di misericordia "? Nessuno. Ora se anche nell'antica Legge è detto: "Occhio per occhio e dente per dente ", perché non deve
dirsi nella nuova: " Chi sarà stato misericordioso troverà misericordia"? Tutti hanno bisogno di perdono.
Ebbene, non è la formula e la forma di un rito, figure esterne concesse per la opaca mentalità umana, quelle
che ottengono perdono. Ma è il rito interno dell'amore, ossia ancora della misericordia. Che se fu imposto il
sacrificio di un capro o di un agnello e l'offerta di qualche moneta, ciò fu fatto perché a base di ogni male
ancora si trovano sempre due radici: l'avidità e la superbia. L'avidità è punita con la spesa dell'acquisto dell'offerta, la superbia con la palese confessione di quel rito: "Io celebro questo sacrificio perché ho peccato". E fatto anche per precorrere i tempi e i segni dei tempi, e nel sangue che si sparge è la figura del Sangue che sarà sparso per cancellare i peccati degli uomini. Beato dunque colui che sa essere misericordioso agli affamati, ai nudi, ai senza tetto, ai miseri delle ancor più grandi miserie che sono quelle del possedere cattivi caratteri che fanno soffrire chi li ha e chi con loro convive. Abbiate misericordia.
Perdonate, compatite, soccorrete, istruite, sorreggete. Non chiudetevi in una torre di cristallo dicendo: "Io sono puro e non scendo fra i peccatori" Non dite: "Io sono ricco e felice, e non voglio udire le miserie altrui".
Badate che più rapido di fumo dissipato da gran vento può dileguarsi la vostra ricchezza, la vostra salute, il vostro benessere famigliare. E ricordate che il cristallo fa da lente, e ciò che mescolandovi fra la folla sarebbe passato inosservato, mettendovi in una torre di cristallo, unici, separati, illuminati da ogni parte, non potete più tenerlo nascosto. Misericordia per compiere un segreto, continuo, santo sacrificio di espiazione e ottenere misericordia.

(6) Beato me se sarò puro di cuore. Dio è Purezza. Il Paradiso è regno di Purezza. Niente di impuro può entrare in Cielo dove è Dio. Perciò se sarete impuri non potrete entrare nel Regno di Dio. Ma, oh! gioia! Anticipata gioia che il Padre concede ai figli! Colui che è puro ha dalla terra un principio di Cielo, perché Dio si curva sul puro e l'uomo dalla terra vede il suo Dio. Non conosce sapore di amori umani, ma gusta, fino all'estasi, il sapore dell'amore divino, e può dire: "Io sono con Te e Tu in me, onde io ti possiedo e conosco come sposo amabilissimo dell'anima mia". E, credetelo, che chi ha Dio ha inspiegabili, anche a se stesso, mutamenti sostanziali per cui diviene santo, sapiente, forte, e sul suo labbro fioriscono parole, e i suoi atti assumono potenze che non sono, no, della creatura, ma di Dio che vive in essa. Cosa è la vita di colui che vede Dio? Beatitudine. E vorreste privarvi di simile dono per fetide impurità?

(7) Beato me se avrò spirito di pace. La pace è una delle caratteristiche di Dio. Dio non è che nella pace.
Perché la pace è amore, mentre la guerra è odio. Satana è Odio. Dio è Pace. Non può uno dirsi figlio di Dio, né può Dio dire figlio suo un uomo se costui ha spirito irascibile sempre pronto a scatenare tempeste. Non solo. Ma neppure può dirsi figlio di Dio colui che, pur non essendo di proprio scatenatore delle stesse, non contribuisce con la sua grande pace a calmare le tempeste suscitate da altri. Colui che è pacifico effonde la pace anche senza parole. Padrone di sé e, oso dire, padrone di Dio, egli lo porta come una lampada porta il
suo lume, come un incensiere sprigiona il suo profumo, come un otre porta il suo liquido, e si fa luce fra le nebbie fumiganti dei rancori, e si purifica l'aria dai miasmi dei livori e si calmano le onde infuriate delle liti,
per quest'olio soave che è lo spirito di pace emanato dai figli di Dio. Fate che Dio e gli uomini vi possano chiamare così.

(8) Beato me se sarò perseguitato per amore della giustizia. L'uomo è tanto insatanassato che odia il bene ovunque si trovi, che odia il buono, quasi che chi è buono, anche se tace, lo accusi e rampogni. Infatti la
bontà di uno fa apparire ancor più nera la malvagità del malvagio. Infatti la fede del credente vero fa apparire
ancora più viva la ipocrisia del falso credente. Infatti non può non essere odiato dagli ingiusti colui che col
suo modo di vivere è un continuo testimoniare la giustizia. E allora, ecco, che si infierisce sugli amanti della
giustizia. Anche qui è come per le guerre. L'uomo progredisce nell'arte satanica del perseguitare più che non
progredisca nell'arte santa dell'amare. Ma non può che perseguitare ciò che ha breve vita. L'eterno che è
nell'uomo sfugge all'insidia, e anzi acquista una vitalità ancor più vigorosa dalla persecuzione. La vita fugge
dalle ferite che aprono le vene o per gli stenti che consumano il perseguitato. Ma il sangue fa la porpora del
re futuro e gli stenti sono tanti scalini per montare sui troni che il Padre ha preparato per i suoi martiri, ai
quali sono serbati i seggi regali del Regno dei Cieli.

(9) Beato se sarò oltraggiato e calunniato. Fate solo che di voi possa essere scritto il nome nei libri celesti, là dove non sono segnati i nomi secondo le menzogne umane nel lodare i meno meritevoli di lode. Ma dove però, con giustizia e amore, sono scritte le opere dei buoni per dare ad essi il premio promesso ai benedetti da Dio. Prima di ora furono calunniati ed oltraggiati i Profeti. Ma quando si apriranno le porte dei Cieli, come imponenti re, essi entreranno nella Città di Dio, e li inchineranno gli angeli, cantando di gioia. Pure voi, pure voi, oltraggiati e calunniati per essere stati di Dio, avrete il trionfo celeste, e quando il tempo sarà finito e completo sarà il Paradiso, ecco che allora ogni lacrima vi sarà cara, perché per essa avrete conquistato questa gloria eterna che in nome del Padre Io vi prometto.

Andate. Domani vi parlerò ancora. Restino ora solo i malati acciò li soccorra nelle loro pene. La pace sia con voi e la meditazione della salvezza, attraverso all'amore, vi instradi sulla via la cui fine è il Cielo».