sabato 8 marzo 2014

Nicolás Gómez Dávila: "il peso di questo mondo si può sopportare solo in ginocchio"






Articoli e note firmate

GIOVANNI CANTONI, Cristianità n. 298 (2000)

Un contro-rivoluzionario cattolico iberoamericano nell’età della Rivoluzione culturale: il "vero reazionario" postmoderno Nicolás Gómez Dávila

1. Il "quinto viaggio di Colombo", dalla "selva" divenuta rifugio d’uomini alla "città" trasformata in selva
Il 6 giugno 1995 un maestro del pensiero cattolico contro-rivoluzionario nel secolo XX, Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) (1), licenziava uno dei suoi ultimi scritti, la prefazione alla prima edizione polacca della sua opera principale, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (2), con queste parole conclusive: "Indubbiamente, il caos che sta avvolgendo gli avvenimenti umani — che preannunciano, a mio modo di vedere, il passaggio da un’epoca storica a un’altra — esige nella loro analisi uno spirito di adeguamento. Nella prospettiva della corretta interpretazione di questi avvenimenti offro al pubblico polacco la presente opera come strumento utile di orientamento di chi, in questi giorni pieni d’incertezza, vuole solamente servire la causa cattolica. La Madonna di Czestochowa, patrona della Polonia, voglia benedire questo sforzo" (3). Il 3 ottobre dello stesso anno il pensatore e leader brasiliano chiudeva la sua avventura terrena.

Da allora i fatti, e le situazioni da essi determinate, hanno solamente confermato l’ipotesi del "passaggio da un’epoca storica a un’altra", nello stesso tempo facendo crescere la consapevolezza della corrispondente indispensabilità di "uno spirito di adeguamento nella loro analisi". La formale denuncia dell’ingresso nella fase finale di quanto sopravviveva nell’Occidente della Cristianità romano-germanica, nella formulazione catechistica — meglio, forse, aforismatico-catechistica — propria dello stesso Corrêa de Oliveira, risaliva alla seconda metà degli anni 1970. Precisamente nel 1977 veniva pubblicata — in italiano in prima edizione mondiale — la terza parte dell’opera citata, parte appunto dedicata a far "sospettare" — attraverso l’artificio pedagogico e propagandistico costituito da una domanda retorica a risposta obbligatoriamente affermativa — l’ingresso in tale fase storica, indicata come IV Rivoluzione o Rivoluzione culturale ed emblematicamente collegata al Maggio francese del 1968 (4), in questo modo aprendo sempre più alla prospettiva, per altro già evocata in precedenza, di una "Cristianità nuova" (5). Si tratta di una fase storica ambigua che costituisce apogeo della cosiddetta modernità — esito della Rivoluzione o della secolarizzazione, entrambi motori di un processo globalmente culturale e cinque volte secolare (6) —, ma si presenta anche come postmodernità, come istituzionalizzazione della modernità, come tempo in cui la modernità si è fatta tanto dominante da essere ovvia, perdendo in aggressività "forte" ma acquistando in corrosività "debole". Inoltre, è tempo nel quale è pure possibile, latente quasi, una contestazione della modernità stessa, una reazione a essa, che può giungere — fra l’altro — a una "testimonianza novissima di cristiana civiltà" (7).

Nello stessa area geografica e culturale, cioè sempre in Iberoamerica, non molto più di un anno prima, il 17 maggio 1994, aveva chiuso la propria esistenza terrena un esponente a più titoli "monastico" della stessa cultura cattolica, il colombiano Nicolás Gómez Dávila, lasciando un legato caratterizzato per certo da un tale "spirito di adeguamento", un’opera coerente con un giudizio, che può costituire iscrizione su uno dei suoi possibili portali, quindi su uno degli "ingressi" a essa:"Penetriamo nuovamente — aveva affermato l’autore in un’opera edita nel 1977 — in epoche che non aspettano dal filosofo né una spiegazione né una trasformazione del mondo, ma la costruzione di rifugi contro l’inclemenza del tempo" (8). E tali "rifugi contro l’inclemenza del tempo"paiono essere verosimilmente quei "covili d’uomini" ricavati dalle selve (9) e contrapposti da Giambattista Vico (1668-1744) alle "selve delle città" (10), alle città divenute selvagge, sì che appunto gli uomini che tali "covili" abitano vengono qualificati come selvaggi (11), come "omini salvatici", "uomini dei boschi" (12) — insieme abitanti della selva e "coloro che si salvano" (13) —, dagli abitanti delle città inselvatichite, quindi richiamano quelle "catacombe attuali" di cui parlava nel 1974 un altro pensatore cattolico iberoamericano, l’argentino Alberto Caturelli, come di "cavità sotterranee" e "invisibili dalla superficie del "mondo"" (14).

Nel 1992, lo stesso Caturelli ricordava, in un mirabile scritto di circostanza — ma quale circostanza e, anche, quale scritto! —, Il Nuovo Mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale (15), il cinquecentesimo anniversario della scoperta del continente americano. E introduceva una categoria storico-culturale particolarmente suggestiva e felice, quella del "quinto viaggio di Cristoforo Colombo [1451 ca.-1506]""Sembra — scriveva — che sia rimasto sospeso il quinto viaggio dell’Ammiraglio. Cinque secoli dopo la scoperta [...] ho l’impressione che si renda necessario un nuovo viaggio, ma in senso contrario ai primi quattro. Benché il corpo dell’Ammiraglio riposi in terra di Spagna, lo spirito colombiano, prendendo la rotta del secondo Mediterraneo o del mare Oceano, deve dare inizio ad un nuovo viaggio, che ha come punto di partenza il Nuovo Mondo. Sarebbe non un viaggio di scoperta, bensì diritorno; l’Ammiraglio non pianterà la croce a Guanahaní, bensì sulle spiagge dell’Iberia e del Vecchio Mondo. Nel 1492 partì verso l’ignoto[...] e scoprì il Nuovo Mondo [...]; ritornando, l’Ammiraglio Cristoforo avrà compiuto la sua missione, poiché, come diceva [...], Dio "concede a tutti coloro che percorrono i suoi sentieri di ottenere ciò che appare impossibile". E l’impossibile non sarà la scoperta, ma la riconversione del Vecchio Mondo a Cristo.

"Perciò "la cristianità del Nuovo Mondo" [...] nel mondo d’oggi deve compiere due missioni essenziali, analoghe a quelle che portarono a termine i missionari del secolo XVI. Negli idoli del mondo contemporaneo, benché siano per natura opposti al Dio vivo, si riconosce presente il Deus absconditus, che combatte per essere riconosciuto. Perciò è necessaria una progressiva demitizzazione della società contemporanea. Più propriamente dovremo dire: una deideologizzazione della civiltà attuale [...].
"Il processo di de-ideologizzazione è in tal caso incommensurabilmente più arduo, perché non si tratta dell’idolatria dei pagani, ma della neo-idolatria degli apostati [...]: il mondo dell’attuale neo-illuminismo è un mondo recidivo, apostata, che offre sacrifici a nuovi idoli [...]. Quindi lo spirito cristoforo e missionario esige la distruzione degli idoli [...] e la conseguente penitenza" (16).

Dunque, il quinto viaggio colombiano suggerito da Caturelli dev’essere compiuto non più per descrivere a chi è rimasto in Europa i pur straordinari spazi naturali, contrastanti con quelli angusti del Vecchio Continente (17), o per narrare loro pur eroiche gesta — da quelle umane della scoperta e della conquista a quelle spirituali dell’evangelizzazione —, ma per ricordare un "mondo" e le sue strutture portanti a chi da esse si è tanto allontanato da perderne non solo la consapevolezza ma perfino il ricordo, un "modo d’essere" di una comunità umana nel tempo, una civiltà insomma, quasi accompagnandone l’eco alla sua fonte storica: e l’eco culturale, per sua natura, sembra non trasmettere né complete linee melodiche né particolari sonori, ma Leitmotiv, "temi dominanti". Così, con diversa intensità, il modo del ricordo s’accompagna, quasi "distillandosi" in aggressività, all’"iracundia legionum" — la "collera delle legioni" (18) —, al risentimento di chi è stato abbandonato ai confini, in periferia, mentre al centro venivano prima tradite e poi dimenticate, quando non combattute, la vocazione originaria e le ragioni della missione (19). E l’attaccamento sempre rinnovato a "tutto quanto è stato portato dalla madrepatria" non produce solo aggressività verso chi per primo ha tradito, ma s’esprime anche in "comprensione" storica e in umana e protettiva "compassione" verso chi — per così dire — è stato indotto a "tradire per non dimenticare", dando così corpo a un atteggiamento non soltanto iberoamericano, ma globalmente americano (20), riscontrabile pure in un’altra marca di confine, in un’altra frontiera (21), la Polonia (22), non definita dal "mare Oceano" ma sulle rive di un non meno vasto "oceano terrestre" (23), l’Asia. Inoltre, tale aggressività contribuisce alla qualità della sintesi e alla penetrazione critica dell’approfondimento.

Ebbene, così come fra i protagonisti — cioè fra gli attori principali — del "quinto viaggio di Colombo" si collocano per certo, con altri, Corrêa de Oliveira e Caturelli, fra loro, a pieno titolo, può essere classificato anche Gómez Dávila.

2. Un ricco eremita in casa propria: il "certosino dell’altopiano"

Nicolás Gómez Dávila nasce il 18 maggio 1913 in Colombia, a Cajicá, nel dipartimento di Cundinamarca, di cui è capoluogo la capitale dello Stato iberoamericano, Santa Fe de Bogotá, da una famiglia dell’alta società. Non si laurea e della sua formazione si possono considerare regolari solo gli studi medi superiori compiuti privatamente, sotto la guida di precettori, durante una lunga permanenza in Francia, dai sedici ai ventidue anni.
La sua naturale avidità intellettuale si esprime fin da subito nelle pratiche della lettura e della riflessione, confermate e trasformate — per così dire — da stile di vita in destino a causa di un grave incidente occorsogli giocando a polo, incidente che lo relega, dai primi anni 1960, in casa propria, "ubicata in un’affollata via di Bogotá, in mezzo al traffico e al rumore della strada, come un monumento preistorico che la routine sembra condannare alla dimenticanza, nonostante la sua isolata bellezza": in questi termini Óscar Torres Duque, uno dei suoi pochi critici, ne descrive suggestivamente l’abitazione, in stile Tudor (24). Così Gómez Dávila vive quasi trent’anni come in clausura, da"certosino dell’altopiano" — la felice definizione è dello stesso critico (25) e l’altopiano è quello dov’è situata Santa Fe de Bogotá, a 2630 metri d’altitudine —, nella "cella" costituita dalla sua monumentale biblioteca, di oltre quarantamila volumi, soprattutto in lingua originale — rifiutava le traduzioni —, greco, latino, tedesco, inglese, portoghese, francese, italiano e, naturalmente, spagnolo. Vi riceve una mezza dozzina d’interlocutori — fra essi il critico e scrittore Hernando Téllez (1908-1966) (26), il dotto frate minore Félix Wilches (1905-1972) (27) e l’uomo politico conservatore e diplomatico Douglas Botero Boshell (1916-1997) (28) — e l’abbandona quasi solo per la "cappella", la chiesa del convento francescano de La Porciúncula, nella stessa via.
Muore il 17 maggio 1994, mentre s’appresta a studiare il danese per accostare Søren Kierkegaard (1813-1855), lasciando la moglie, María Emilia Nieto de Gómez, tre figli e diversi nipoti.

3. Gli scritti: "glosse a un testo implicito"

Di fatto Gómez Dávila è autore di una sola grande opera continua,Escolios a un texto implícito, la cui pubblicazione inizia nel 1977 in due volumi con questo titolo complessivo (29); prosegue nel 1986 con altri due volumi, Nuevos escolios a un texto implícito (30); e si conclude nel 1992 con un volume, Sucesivos escolios a un texto implícito (31). Tutti questi volumi hanno la stessa struttura e sono frutto della stessa concezione: una sequenza di escolios, di "glosse", di genere ampiamente anticipate, con il modesto titolo di Notas, nel 1954 in un’edizione privata in Messico (32), quindi, nel 1956, sulla rivista d’avanguardia colombianaMito (1955-1962), fondata e diretta dal poeta e saggista "libertario", di origine spagnola, Jorge Gaitán Durán (1925-1962). In apparenza diverso è il volume Textos I, del 1959 (33), un testo unico con qualche suddivisione — poi, sembra, "svanito" nella stessa consapevolezza dell’autore (34) —, che raccoglie pensieri non brevi, analogo ad altri scritti con carattere d’eccezione dal punto di vista formale, i saggi Il vero reazionario (35) e De Jure (36). Ma in Notas e in Textos I sono già presenti i caratteri delle glosse, meno il "testo implicito": un pensiero libero e concentrato e un’espressione ricercata.

4. La fortuna dello "scrittore reazionario" o la "celebrità discreta"

Gli scritti del pensatore colombiano vengono proposti al pubblico nonostante la sua ritrosia e solo grazie all’interessamento dei pochi ma fedelissimi amici. Del resto — la notazione è dello stesso Gómez Dávila —, "lo scrittore reazionario deve rassegnarsi a una celebrità discreta, dal momento che non si può ingraziare gl’imbecilli" (37).
La letteratura critica è limitata a qualche saggio quando non a rievocazioni giornalistiche, talora — peraltro — particolarmente efficaci (38). I suoi scritti e il suo pensiero hanno però trovato eco nel mondo di lingua tedesca, negli anni 1980, grazie a un’editrice conservatrice viennese (39), così acquisendo fra i suoi estimatori lo scrittore Ernst Jünger (1895-1998), il saggista Erik Maria von Kuehnelt-Leddihn (1909-1999) e il filosofo Robert Spaemann. Sono pure riferibili i giudizi di ben altrimenti noti scrittori suoi compatrioti. Il romanziere e poeta Álvaro Mutis Jaramillo — uno dei suoi frequentatori — parla di Escolios a un texto implícito come di "un capolavoro del pensiero occidentale" (40), una "[...] vasta summa di sapere, disseminata [...] di allusioni e di elusioni, la cui piena utilizzazione supporrebbe lunghe veglie con i testi essenziali della nostra eredità ebraica, ellenica, romana, cristiana e occidentale" (41); e la definisce "opera superba che presenta nello stesso tempo una feconda teoria della storia e un’inconfutabile dottrina politica, un’essenziale meditazione sulla poesia e un non meno definitivo esame del pensiero metafisico e teologico" (42), tale da essere — prevede — motivo di scandalo per gli "[...] eredi della tradizione liberale e democratica nata con la riforma protestante, incubata nel secolo dei lumi e battezzata con il sangue nelle giornate del 1789" (43), ma atta a essere utilizzata anche dall’uomo qualunque, come afferma con espressione italiana (44), dal momento che, per quanto "inconsueta e vasta" (45), "[...] concerne anche i nostri affari di tutti i giorni" (46). E del romanziere Gabriel García Márquez viene citata l’impegnativa affermazione: "Se non fossi comunista, penserei in tutto e per tutto come lui" (47).

4. Il genere letterario: la tecnica "pointilliste" e il "testo breve"

L’opera del pensatore colombiano va esaminata secondo le prospettive formale e contenutistica non per "pregiudizio" critico, ma perché indicate, più che soltanto suggerite, dai titoli generici, prima che spogli, dei suoi volumi, privi di qualsiasi richiamo, costituiti dalla reiterazione di "glosse" e di "testo implicito". Si tratta infatti di consistenti raccolte di pensieri brevi — oltre diecimila —, ai quali l’autore nega la natura di aforismi: "Il lettore non troverà aforismi in queste pagine" (48) — scrive —, "le mie brevi frasi sono i tocchi cromatici di una composizione "pointilliste"" (49). E il riferimento alla tecnica pittorica pointilliste, in una delle prime glosse della prima raccolta, costituisce indicazione ermeneutica fondamentale, che vieta un giudizio non d’insieme sulla "composizione" e sull’"artista" — sua la dichiarazione: "Pretendo soltanto di non aver scritto un libro lineare, ma un libro concentrico" (50) — e che suggerisce un apprezzamento corrispondente dei singoli "punti", dei singoli "tocchi cromatici""Il discorso continuo — sentenzia — tende a occultare le rotture dell’essere.
"Il frammento è espressione del pensiero onesto" (51). Quanto alle"brevi frasi""un testo breve non è affermazione presuntuosa, ma un gesto che scompare appena abbozzato" (52); e l’aforisma "negato" è però difeso, svelando la consapevolezza della difficoltà di definirlo:"Accusare l’aforisma di esprimere soltanto parte della verità equivale a supporre che il discorso prolisso possa esprimerla tutta" (53); dell’aforisma viene colta l’ambiguità, quindi la funzionalità e la fragilità:"Il vantaggio dell’aforisma sul sistema è la facilità con cui se ne dimostra l’insufficienza.
"Fra poche parole è difficile nascondersi come fra pochi alberi" (54); è denunciata la prolissità — "la prolissità non è eccesso di parole, ma scarsità d’idee" (55) — ed è tessuto l’elogio del testo breve in quanto "poetico", cioè creativo, quindi costruttivo per il lettore: "L’opera frammentaria conquista la propria poesia obbligandoci a completare le sue curve mutilate" (56). Lo "spettro" dell’aforisma va infatti dalla definizione alla massima, alla "degnità" — richiamo Vico (57) —, alla"monografia compressa" — la formula è dello studioso canadese della comunicazione Marshall McLuhan (1911-1981) a proposito dello stile del suo maestro pure canadese, Harold Adams Innis (1894-1952) (58) —, alla glossa, alla breve osservazione, al rimando, all’appunto, alla nota a margine. Comunque — sentenzia il poeta, scrittore e saggista messicano Gabriel Zaid —, "non vi è saggio più breve di un aforisma" (59), che costituisce retaggio dell’"oralità primaria" (60) ed elemento di una plurisecolare farmacopea spirituale (61), di particolare puntualità in regime di "oralità di ritorno" od "oralità secondaria" (62), perché la"nostalgia di oralità" (63) non danneggi in radice la riflessione, anche nella forma dell’astrazione, e il suo legato variamente sapienziale. InfattiIl teatro della politica. Sentenziosi afforismi della prudenza è titolo di una raccolta di pensieri dell’artista partenopeo Salvator Rosa (1615-1673) (64), che, agli inizi degli anni 1670, pare echeggiare sia gliAforismi politici fondati sopra le favolette di Esopo frigio, del 1646, opera del sacerdote torinese Emanuele Tesauro (1592-1675) (65), siaLa filosofia morale derivata dall’alto fonte del grande Aristotele stagirita, del 1670, pure scritta da quest’ultimo autore (66), ov’è questione di "sentenziosi aforismi della prudenza" (67) e nella quale — osserva il narratore e critico Giuseppe Pontiggia — si "[...] intreccia il complesso nodo di laconismo, medicina e prudenza. Il laconismo, ovvero la brevitas tacitiana, "significa più che non dice; al contrario dell’iperbole, la quale dice più che non significa". Quanto alla medicina, "è curatrice degli animi".
"Brevità, medicina e prudenza si fondono nell’unità dell’aforisma. Forse un passo ulteriore sarebbe scoprire nella figura di Ippocrate [460 ca.-370 ca. a. C.] non solo il centro di una irradiazione, ma l’orizzonte ultimo cui essa tende" (68), conclusione di un itinerario essenziale aperto dalla notazione dello stesso Pontiggia secondo cui "la radice della parola aforisma è la stessa di orizzonte. Il verbo greco horízo significa delimitare" (69).
Dunque, Gómez Dávila scrive glosse a margine, che inducono a "sospettare" un’architettura del loro insieme: infatti, se ne deve quasi immaginare una, nonostante tutto, almeno quanto alla prima raccolta,Escolios a un texto implícito, dal momento che il primo volume di essa si apre con l’indicazione formale citata relativa al "testo breve" e il secondo volume si chiude con un’affermazione insieme personale e contenutistica di grande rilievo: "Non appartengo a un mondo che perisce.
"Prolungo e trasmetto una verità che non muore" (70). Però, se l’architettura è dubbia — o almeno esigua —, non lo è assolutamente il modulo della costruzione: "Perché non mi manchi il tempo e non mi avanzi, la mia opera si solidifica come cristallo d’identica struttura in qualunque dimensione cristallizzi" (71).
Ma, a margine di che cosa "cristallizzano" le glosse? S’impone, oltre la forma e il contenuto di tali glosse, l’identificazione del texto implícito, di cui i critici propongono — in alternativa o in combinazione — quella letterale, stretta, che rimanda a un ampio passo dei Textos I di dura polemica sia con la democrazia come religione — vi si legge che "la democrazia è una religione antropoteista" (72) — che con l’uomo democratico (73), identificazione affermata, per esempio, da Francisco Pizano de Brigard, alla fine degli anni 1960 rettore dell’Universidad de los Andes, di Santa Fe de Bogotá (74); e quella lata, la più diffusa, che identifica tale testo con l’intero corpus culturale dell’Occidente, da Omero ai contemporanei (75).

6. Il "pensiero reazionario"

Se il genere dell’opera favorisce l’apprezzamento anzitutto del paradosso, un’attenzione maggiore permette l’identificazione in essa di una dialettica di tipo vichiano fra "stoltezza" e "sapienza", nascoste dalla varietà delle formulazioni dell’una e dell’altra: "Gli uomini cambiano meno idee che le idee maschere.
"Nel decorso dei secoli dialogano le stesse voci" (76).
Ma "imbecillità", "stupidità" e "follia", oppure, con riferimento temporale, "modernità", possono suggerire nell’autore pura emotività — analoga a quella colta dallo scrittore rumeno, naturalizzato francese, Emil-Michel Cioran (1911-1995) nel "pensiero reazionario" del conte Joseph de Maistre (1753-1821) (77), abusivamente astratto dal suo testo e dal suo contesto — e far dimenticare sia la gamma espressiva che l’espressione singola quando strutturata a paradosso, cioè a figura logica in apparenza assurda in quanto contrastante non solo, eventualmente, con il buon senso, ma, nel caso, con l’opinione corrente, e peraltro atta a decantare in proverbio. E, se nella glossa si realizza la frantumazione di una cultura altamente "alfabetizzata", quale quella propria della modernità, la glossa medesima costituisce anche seme di riflessione, probatum verbum, "detto confermato dall’esperienza", con immediata ricaduta esistenziale e, lato sensu, culturale, sia nel mondo intra-personale che nel rapporto inter-personale, caratteristici della postmodernità.
Dal punto di vista culturale, del pensiero reazionario Gómez Dávila non coglie e non svolge solamente l’ascendenza spagnola — ricordo, anche per la consonanza formale, i Pensamientos varios del marchese di Valdegamás, Juan Donoso Cortés (1809-1853) (78) —, francese o anglosassone, ma pure quella tedesca; quindi procede a un ricupero del romanticismo, non solo del pre-romanticismo della sensibilité e dellasensibility, sia contenutisticamente sia espressivamente, attraverso l’apprezzamento della continuità fra pensiero contro-rivoluzionario e poesia soprattutto ottocentesca. Infatti, "la poesia del secolo XIX è l’eredità che la contro-rivoluzione soffocata ha lasciato alla letteratura"(79), così in qualche modo sinteticamente teorizzando quanto Gonzague de Reynold aveva verificato e documentato negli anni 1920 a proposito di Charles Baudelaire (1821-1867) (80). Sì che — osserva acutamente —, "identificando romanticismo e democrazia, così condannando il romanticismo, Maurras [Charles, 1868-1952] è caduto in un terribile errore.
"Condannando il romanticismo, Maurras condannava il pensiero reazionario e adottava un’ideologia rivoluzionaria in nome della contro-rivoluzione" (81).
Dal punto di vista sostanziale, i temi toccati sono — a grandi linee e senza nessuna pretesa di classificarli in modo esauriente — quelli richiamati da Mutis: teologia e metafisica, storia e politica, nonché arte e letteratura, non dimenticando assolutamente le sapide notazioni di costume. Per certo, dall’opera di Gómez Dávila è impossibile ricavare un sistema, rifuggito tematicamente e consapevolmente dall’autore, come pure ricostruirne — se non molto approssimativamente — il disegno, dal momento che la tecnica pointilliste confessatamente utilizzata accompagna spesso al "tocco cromatico" una lettura braille del reale, di cui sono tastati i rilievi, i nodi, quindi l’autore è primordialmente più attento alla rugosità della tela e alla tela stessa che ai colori con cui la viene qualificando. Comunque, tali rugosità, tali nodi egli segnala sempre crudamente e non si affida mai, per coprirli e tanto meno per scioglierli, ad artifici verbali o espressivi. Quindi, Gómez Dávila si rivela meno guida che compagno di strada ideale: infatti, il tono malesonante, quando non palesemente, esplicitamente e formalmente eterodosso di alcune proposizioni dal punto di vista del dogma cattolico pare perfino teorizzato — "Perfezioniamo l’insolenza delle nostre idee" (82) —, sì che riesce di volta in volta difficile imputarlo con sicurezza all’intentiopolemica, all’espressione paradossale oppure al pensiero; e però — a suo modo — egli è incarnazione della vigilanza filosofica e richiamo costante a tale vigilanza attraverso l’attenzione, che oso definire metodica, al "rovescio della medaglia", di ogni medaglia. Fra questi rovesci di medaglia sottolineo quello in relazione con un "pensiero" cattolico iberoamericano semplicisticamente fatto coincidere con un tomismo di scuola contrastante con la "teologia della liberazione": ebbene, Gómez Dávila sembra suggerire la presenza di un’altra ipotesi, costituita da una linea teologico-filosofica di scuola francescana — peraltro non difficilmente riconducibile alla missione dei dodici frati di san Francesco d’Assisi (1182-1226) inviati da Papa Adriano VI (1522-1523) e dall’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558) a convertire gl’indiani della Nuova Spagna (83) —, non dimentica di ascendenze benedettine, monastiche.
Una sintesi del suo messaggio — di cui l’autore è responsabile solo quanto alla formulazione, ma non per l’uso che ne faccio — potrebbe suonare così: "La saggezza si riduce a non insegnare a Dio come si devono fare le cose" (84) e a vivere l’individualità, l’irripetibilità e la frammentarietà nel mistero: "Contro lo svuotamento moderno del mistero affermiamo la sua presenza inglobante" (85). Ma "la radice del pensiero reazionario non è la sfiducia nella ragione, ma la sfiducia nella volontà" (86); ed "esser reazionario significa voler estirpare dall’anima perfino le ramificazioni più remote della promessa del serpente" (87); quindi l’autore abbozza il pensiero reazionario su tre "cavalletti", suggeriti da un’autoqualificazione: "cattolico, reazionario e retrogrado"(88). Perciò non ha solo dimensioni politiche e culturali, ma radici religiose ed esistenziali: se "la Reazione comincia a Delfi" (89) e se "la Reazione è cominciata con il primo pentimento" (90), "la reazione esplicita comincia alla fine del secolo XVIII; ma la reazione implicita comincia con l’espulsione del diavolo" (91); ed "essere reazionario significa capire che l’uomo è un problema senza soluzione umana" (92). Così i testi brevi sono percorsi da una vena polemica, talora esplicita e dura, in aggressivo contrasto con ogni filosofia e con ogni teologia razionalistiche — perché "razionalismo è lo pseudonimo ufficiale dello Gnosticismo" (93), "la democrazia è la politica della teologia gnostica"(94), "la Gnosi è la teologia satanica dell’esperienza mistica.
"Nell’interpretazione gnostica dell’esperienza mistica si genera la divinizzazione dell’uomo" (95), e "l’ugualitarismo è inferenza gnostica: infatti ogni particella della divinità è ugualmente divina" (96) —, in una prospettiva filosofica e teologica negativa, che richiama quella platonico-tomistica di Josef Pieper (1904-1997) (97); e con un atteggiamento esistenziale così descritto: "Più che cristiano, forse sono un pagano che crede in Cristo" (98), non senza precisare che "il paganesimo è l’altro Antico Testamento della Chiesa" (99) e che, "tanto dopo come prima di Cristo, vi è un paganesimo di precursori e un paganesimo di avversari" (100), ed è fra i primi che l’autore apertamente si schiera.
E a tale vena se ne affianca un’altra, antimoralistica ma non certo antimorale — sulla quale ricade pure la notazione fatta relativamente all’ortodossia cattolica —, percorsa dall’evangelica "prudenza del serpente" da affiancare alla "semplicità della colomba" (101), la cui divisa potrebbe essere "Credere in Dio, confidare in Cristo, guardare con malizia" (102), e la cui espressione è talora non solo dura quanto al contenuto ma pure cruda quanto al modo. Insomma — la dichiarazione è formale —, Gómez Dávila elabora ed espone "un platonismo esistenziale e uno storicismo agostiniano" (103).
Ma l’orizzonte limitato e cupo non alimenta né pessimismo né disperazione, in questo modo rendendo insostenibile sia il richiamo a Cioran, abbastanza ricorrente nei critici — forse richiamo insieme "europeo" e "cosmopolita" ritenuto atto a "giustificare" il diritto di cittadinanza culturale del pensatore colombiano — sia vietando quello, insieme qualificante e squalificante a seconda della fonte, a Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) come topos di cattiva retorica culturale, ma non, per esempio, a quello rivisitato da Gustave Thibon (104) — un autore non privo di analogie sia stilistiche che sostanziali con Gómez Dávila — con l’intento dichiarato di operare una "lenta e prudente integrazione nella sintesi cristiana delle verità psicologiche più intollerabili alla nostra debolezza e al nostro orgoglio" (105), in qualche modo confermando la tesi del pensatore colombiano secondo la quale,"nonostante la sua rabbia contro il cristianesimo, il lignaggio di Nietzsche è incerto.
"Nietzsche è un Saulo che la follia rapisce sulla via di Damasco" (106).

7. Un analogo italiano: l’"omo salvatico" Domenico Giuliotti

Con riferimento a Thibon, ho accennato ad analogie stilistiche e sostanziali dello scrittore e pensatore francese con Gómez Dávila. A questo punto, alcune tematiche e alcuni elementi stilistici presenti nell’opera del pensatore e scrittore colombiano m’indurrebbero a evocare pure il "cabbalista secolarizzato" Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno (1903-1969) e i suoi Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, del 1951 (107). Ma il richiamo a Thibon e altre tematiche e altri elementi stilistici mi suggeriscono, infine e piuttosto, un ultimo rimando, forseall’unico italiano che abbia, fra gli scrittori del secolo XX, non esigui tratti analoghi a quelli di Gómez Dávila, ricordando che "analogia" dice similitudine, non assolutamente "identità", dalla quale si diversifica sottolineando la somiglianza, mentre "equivocità" evidenzia la diversità.
Parlo di Domenico Giuliotti (108), riconoscibile senza difficoltà nell’identikit tracciato almeno da due suggestive glosse quali "Non sono un intellettuale moderno anticonformista, ma un contadino medioevale indignato" (109) e "Canonico oscurantista del vecchio capitolo metropolitano di Santa Fe, acida bigotta di Bogotá, rude agricoltore dell’altopiano, siamo dello stesso genere.
"Con i miei compatrioti attuali ho in comune solo il passaporto" (110). D’altra parte, non si potrebbe definire Gómez Dávila, com’è stato fatto di Giuliotti, "uno scrittore letteratissimno e, nel contempo, antiletterario"(111)?
Alla fama — e alla fortuna — dello scrittore toscano hanno per certo nuociuto e continuano a nuocere non poco sia la dottrina reazionaria — dal 6 novembre 1913 al 21 maggio 1914 ha diretto, con Federico Tozzi (1883-1920), il quindicinale La Torre. Organo della reazione spirituale italiana (112), nel cui primo numero i redattori affermano: "[...] ci professiamo, a scandalo degli stolti, reazionarî e cattolici" (113) — sia la sua classificazione storiografica e critica sul versante della letteratura d’ispirazione religiosa nel movimento letterario, ma non solo letterario, denominato Strapaese. Infatti questa classificazione suggerisce — in prima battuta talora anche all’osservatore vicino, comunque esterno — non tanto la contrapposizione al movimento indicato come Novecento, quanto marginalità sostanziale piuttosto che emarginazione, congiura del silenzio da parte della cultura egemone; quindi provincialismo, cultura limitata, se non addirittura microcefalia. Ma la lettura — per esempio — de L’ora di Barabba, del 1920 (114), delle voci giuliottiane del Dizionario dell’Omo Salvatico, pubblicato nel 1923 in collaborazione con Giovanni Papini (115), di Tizzi e fiamme, del 1925 (116), dei Pensieri di un malpensante, del 1937 (117), dei Nuovi pensieri d’un malpensante, del 1947 (118), e degli Ultimi pensieri di un malpensante, del 1951 (119), nonché le raccolte postume di editi e d’inediti (120) convincono facilmente del contrario. Il giudizio si conferma quando agli scritti si affianchi l’opera culturale: di nuovo per esempio, il saggio Jacopone da Todi (1230/1236-1306), del 1939 (121); la traduzione italiana deL’ornamento delle nozze spirituali del mistico fiammingo Jan van Ruysbroeck (1293-1381) (122), nel 1916; de La Gerarchia celeste di san Dionigi l’Areopagita (123) — l’attribuzione polemica non può sfuggire a chi conosca almeno i termini grandi della questione areopagitica, relativa appunto all’attribuzione "tradizionale" di un corpus di testi, fra cui quello citato, a un personaggio del quale è questione al versetto 34 del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, quindi del secolo I, oppure a uno scrittore cristiano di lingua greca vissuto fra i secoli V e VI (124) —, nel 1921, e finalmente, nel 1948, un’antologia del conte de Maistre, con un’introduzione corposa, almeno secondo i parametri giuliottiani (125), sostanzialmente aforismatici (126).

8. L’"ultima speranza" e l’"ultima parola"

Torno a Gómez Dávila e alle sue qualificanti "ultima speranza" e "ultima parola". Secondo il pensatore colombiano, anche se "la nostra ultima speranza sta nell’ingiustizia di Dio" (127) e "l’unica precauzione sta nel pregare in tempo" (128), poiché "per rinnovare non è necessario contraddire, basta approfondire" (129), e siccome "il peso di questo mondo si può sopportare solo in ginocchio" (130), "l’unica ragione di sperare è stata espressa perfettamente da Huizinga [Johan, 1872-1945] in una delle sue ultime parole: "Per fortuna l’uomo non ha l’ultima parola"" (131).
Giovanni Cantoni

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* Studio ampiamente anticipato, senza note, in Gómez Dávila, certosino dell’altopiano, con un’Antologia daviliana e una Bibliografia sommaria, inPercorsi di politica, cultura, economia, anno IV, n. 26, Roma febbraio 2000, pp. 45-48.
(1) Cfr. indicazioni bio-bibliografiche, in Plinio Corrêa de Oliveira, inCristianità, anno XXIII, Piacenza novembre-dicembre 1995, pp. 5-8; insieme a elementi per una bibliografia in lingua italiana, in Plinio Corrêa de Oliveira, Note sul concetto di Cristianità. Carattere spirituale e sacrale della società temporale e sua "ministerialità", a mia cura, Thule, Palermo 1998, pp. 45-55.
(2) Cfr. P. Corrêa de Oliveira, Rewolucja i Kontrrewolucja, trad. polacca, Arcana, Cracovia 1998, pp. 19-22; sull’opera in generale, cfr. il mio"Rivoluzione e Contro-Rivoluzione" quarant’anni dopo, intervista a cura di Juan Miguel Montes Cousiño, in Cristianità, anno XXVII, n. 289, maggio 1999, pp. 17-20, trad. it., di Quatro prestigiosas edições de "Revolução e Contra-Revolução" na Itália, in Catolicismo. Porta-voz da TFP, anno XLIX, n. 580, San Paolo (Brasile) aprile 1999, pp. 12-15.
(3) P. Corrêa de Oliveira, Rewolucja i Kontrrewolucja, cit., pp. 21-22; faccio riferimento all’ed. polacca in quanto unica sede in cui il testo compare a stampa, ma traduco il brano dall’originale in portoghese; infine, traduco l’espressione "espirito atilado" con "spirito di adeguamento", di "aderenza al reale", piuttosto che con "perspicace", per non mutare la metafora soggiacente, dal momento che atilado ha l’area di significato dell’italiano attillatoadti[tu]latus, "adeguato alla dignità nel vestito", quindi aderente alla realtà, analogo a calzantequando si tratta appunto di calzatura, perciò richiama sia la compiutezza e l’irreprensibilità formale che la formula filosoficaadaequatio rei et intellectus per esprimere la concezione realistica della verità come accordo o "corrispondenza" fra la realtà e la sua immagine linguistica e concettuale; né muta l’eventuale derivazione di atilado dallo spagnolo atildar, "mettere i puntini sulle i", ma è lontano dal "penetrare", dal "guardar dentro" sotteso a "perspicace", o almeno descrive un atteggiamento più contemplativo, rilevativo, che dominatore.
(4) Cfr. Idem, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta di"Rivoluzione e Contro-Rivoluzione" vent’anni dopo in prima edizione mondiale, con lettere di encomio di mons. Romolo Carboni (1911-1999) e con un mio saggio introduttivo su L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, Cristianità, Piacenza 1977, parte III, capitolo III, pp. 189-195; per il collegamento al Maggio francese, cfr. Idem, Rivoluzione e Contro-RivoluzioneAppendice. Commento 3. Guerra psicologica rivoluzionaria: "rivoluzione culturale" e rivoluzione nelle tendenze, trad. it., ed. fuori commercio, Luci sull’Est, Roma 1998, p. 167.
(5) Ibid., parte II, capitolo XII, 6, [ed. Cristianità] p. 163.
(6) Cfr. una sintetica esposizione di entrambe le prospettive, quella che fa riferimento alla "Rivoluzione" e quella che si serve della nozione di "secolarizzazione", nel mio I "network" della religione in un mondo in frantumi, in CESNUR. Centro Studi sulle Nuove Religioni, La sfida pentecostale, a cura di Massimo Introvigne, Elle Di Ci, Leumann (Torino) 1996, pp. 121-147.
(7) Paolo VI (1963-1978), Omelia in occasione della sacra ordinazione di settanta sacerdoti destinati ai popoli dell’America Latina, del 3-7-1966, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. IV, pp. 349-354 (p. 352).
(8) Nicolás Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, 2 voll., Instituto Colombiano de Cultura, Santa Fe de Bogotá 1977, vol. I, p. 35.
(9) Cfr. Giambattista Vico, Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, 1744, Conchiusione dell’opera. Sopra un’eterna repubblica naturale, in ciascheduna sua spezie ottima, dalla divina provvedenza ordinata, in Idem, Opere, a cura di Andrea Battistini, tomo I, Mondadori, Milano 1990, pp. 959-971 (p. 967).
(10) Ibidem.
(11) Cfr. Aldous Huxley (1894-1961), Il mondo nuovo, 1932, in Idem, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, trad. it., Mondadori, Milano 1991, pp. 1-231, passim; un inquadramento, in Massimo Baldini, La storia delle utopie, Armando, Roma 1994, pp. 135-137.
(12) Giovanni Papini (1881-1956) e Domenico Giuliotti (1877-1956),Umilissime scuse, in Il Carroccio, II, fasc. 4, aprile 1923, pp. 201-220 (p. 201), cit. in M. Baldini, Giuliotti Cristiano controcorrente, Edizioni Messaggero Padova, Padova 1996, p. 53.
(13) Cfr. Leonardo da Vinci (1452-1519), Pensieri dal Codice della Biblioteca Trivulziana di Milano"Salvatico è quel che si salva", inScrittori italiani di aforismi, vol. I, I classici, a cura di Gino Ruozzi, Mondadori, Milano 1994, pp. 183-223 (p. 203).
(14) Cfr. Alberto Caturelli, La Iglesia Católica y las catacumbas de hoy, Editorial Almena, Buenos Aires 1974, pp. 141-149 (p. 144).
(15) Cfr. Idem, Il Nuovo Mondo riscoperto. La scoperta, la conquista, l’evangelizzazione dell’America e la cultura occidentale, con prefazione di Pier Paolo Ottonello, trad. it., Edizioni Ares, Milano 1992.
(16) A. Caturelli, opcit., pp. 368-370; sostituisco "ideologizzazione"con "deideologizzazione" sulla base dell’originale: cfr. Idem, El Nuevo Mundo. El Discubrimiento, la Conquista y la Evangelización de América y la Cultura Occidental, Edamex, Città del Messico e Universidad Autónoma del Estado de Puebla, Puebla 1991, p. 438; sui rapporti fra Europa e America e sull’Atlantico come "secondo Mediterraneo", cfr. Gonzague de Reynold (1880-1970), Impressions d’Amérique, Marguerat, Losanna 1950, soprattutto pp. 34 e 70; per l’espressione "cristianità del Nuovo Mondo", cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio alla Chiesa e ai Popoli latinoamericani in occasione dell’inaugurazione delle celebrazioni in preparazione del V centenario dell’inizio dell’evangelizzazione dell’America, II, 2, Santo Domingo, 12-10-1984, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. VII, 2, pp. 885-897 (p. 889); su Colombo, cfr. Marco Tangheroni e Maurizio Parenti, Cristoforo Colombo, ammiraglio genovese e "defensor fidei", in Cristianità, anno XX, n. 203, marzo 1992, pp. 11-17.
(17) Cfr. G. de Reynold, Impressions d’Amérique, cit., pp. 79-80.
(18) Publio Cornelio Tacito (54/55-120 ca.), Storie, libro IV, 25, 4, trad. it., in Idem, Tutte le opere, a cura di Enzio Cetrangolo, Sansoni, Firenze 1993, pp. 116-381 (pp. 316-317).
(19) Cfr. Lionel Cecil Jane (1879-1932), Libertad y despotismo en la América hispánica, trad. spagnola, con prefazione di Salvador de Madariaga y Rojo (1886-1978), Edit. España, Madrid 1931, pp. 111-112 e 135; cit. dell’opera dello storico statunitense, in José Pedro Galvão de Sousa (1912-1992), Introdução à história do direito político brasileiro, 2a ed., Saraiva, San Paolo 1962, pp. 119-120.
(20) Cfr., esemplare, A. Caturelli, opcit., pp. 340-354; cfr. pure Russell Amos Kirk (1918-1994), Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto, trad. it., a cura di Marco Respinti, Centro Grafico Stampa, Bergamo 1995; e Idem, Le radici dell’ordine americano. La tradizione europea nei valori del Nuovo Mondo, trad. it., a cura di M. Respinti, con un epilogo di Frank J. Shakespeare Jr., Mondadori, Milano 1996.
(21) Cfr. corrispondenze fra espansione cristiana nell’Europa nord-orientale come "compenso" provvidenziale dopo l’invasione musulmana ed evangelizzazione dell’America dopo la rivolta protestante, in Oscar Halecki (1891-1973), Limiti e divisioni della storia europea, con prefazione di Christopher Dawson (1889-1970), trad. it., Edizioni Paoline, Roma 1962, pp. 29-30; Idem, Borderlands of Western Civilization. A History of East Central Europe, The Ronald Press Company, New York 1952, pp. 25-114; e Idem, The Millenium of Europe, con prefazione di Hendrik Brugmans (1906-1997), University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1963, pp. 240-250.
(22) Cfr. canonico Walerian Meysztowicz (1893-1982), La Pologne dans la chrétienté. Coup d’oeil sur mille ans d’histoire (966-1966), Nouvelles Éditions Latines, Parigi 1966, per esempio pp. 98-101; cfr. pure la trad. spagnola, Polonia en la Cristiandad. Una mirada sobre mil años de historia (966-1966), con una seconda conclusione, di don Miguel Poradowski, e un saggio su Las ideas sociales de Solidaridad, di Witold Roman Kopytynski, Ediciones del Aguila Coronada, Buenos Aires 1987, pp. 79-82; sull’ecclesiastico polacco, canonico di San Pietro, professore dell’università di Wilno e fondatore dell’Istituto Storico Polacco di Roma, cfr. Karolina Lanckoronska, Walerian Meysztowicz (1893-1982)in memoriam con bibliografia, in Institutum Historicum Polonicum Romae,XXVI Antemurale, Roma 1982-1983, pp. 218-223.
(23) Riccardo Picchio, La letteratura russa antica, Rizzoli, Milano 1999, p. 10.
(24) Oscar Torres Duque, Nicolás Gómez Dávila: la pasión del anacronismo, con servizio fotografico di Ernesto Monsalve, in Boletín Cultural y Bibliográfico, della Biblioteca Luis Ángel Arango di Bogotá, vol. 32, Bogotá 1995, n. 40, pp. 30-49 (p. 33).
(25) Ibid., p. 31.
(26) Cfr. Jorge H. Cadavid, Hernando Téllez: un consumado estratega, con servizio fotografico di Mauricio A. Osorio e Germán Téllez, ibid., pp. 74-95.
(27) Cfr. Luis Carlos Mantilla R. O.F.M., Necrologio de la Provincia Franciscana de Colombia (1900-1980), Editorial Kelly, Bogotá 1980, pp. 184-185.
(28) Cfr. El descanso del patriarca, in Semana, n. 785, Santa Fe de Bogotá19/26-5-1997, pp. 72-73.
(29) Cfr. N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit.; trad. it. di qualche glossa, in Mille le verità, uno solo l’errore, in surplus, anno I, 1999, n. 4, pp. 58-61; ripresa e ulteriormente antologizzata in Io, il Nietzsche di Bogotà, in la Repubblica, 18-12-1999.
(30) Cfr. Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, 2 voll., Procultura, Santa Fe de Bogotá 1986.
(31) Cfr. Idem, Sucesivos escolios a un texto implícito, Instituto Caro y Cuervo, Santa Fe de Bogotá 1992.
(32) Cfr. Idem, Notas, tomo I [unico edito], ed. fuori commercio fatta per conto dell’autore, Messico 1954.
(33) Cfr. Idem, Textos, I [unico edito], Editorial Voluntad, Bogotá 1959.
(34) Cfr. O. Torres Duque, Nicolás Gómez Dávila: la pasión del anacronismo, cit., p. 35.
(35) Cfr. N. Gómez Dávila, El reaccionario autentico, in Revista Universidad de Antioquía, n. 240, Medellín aprile-giugno 1995, pp. 16-33; trad. it., Il vero reazionario, in Cristianità, anno XXVII, marzo-aprile 1999, n. 287-288, pp. 18-20.
(36) Cfr. Idem, De Jure, in Revista del Collegio Mayor de Nuestra Señora del Rosario, vol. 81, n. 542, Bogotá aprile-giugno 1988, pp. 67-85.
(37) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 209.
(38) Cfr. — oltre a O. Torres Duque, Nicolás Gómez Dávila: la pasión del anacronismo, cit. — Ernesto Volkening (1908-1984), Anotado al margen de "El reaccionario" de Nicolás Gómez Dávila, in Eco. Revista de la cultura de Occidente, n. 205, Bogotá giugno 1978, pp. 95-99; H. Téllez,La obra de Nicolás Gómez Dávila. Una dura punta de diamante, inRevista del Collegio Mayor de Nuestra Señora del Rosario, vol. 81, n. 542, cit., pp. 21-22; Álvaro Mutis, Donde se vaticina el destino de un libro inmensoibid., pp. 23-25; Adolfo Castañón, Retrato de un pastor de libelulas: Nicolás Gómez Dávilaibid., pp. 34-37; Juan Gustavo Cobo Borda, Escolio a los Escoliosibid., pp. 26-30; Gerd-Klaus Kaltenbrunner,Un pagano che cree en Cristo. El antimodernista colombiano Nicolás Gómez Dávila en aleman, trad. spagnola, ibid., pp. 31-33; Francisco Pizano de Brigard, Semblanza de un colombiano universal: las claves de Nicolás Gómez Dávilaibid., pp. 9-20; Reinhart Maurer, Reaktionäre Postmoderne. Zu Nicolás Gómez Dávila [Postmodernità reazionaria. Su Nicolás Gómez Dávila], in Jörg Albertz (a cura di), Aufklärung und Postmoderne. 200 Jahre nach der französischen Revolution das Ende aller Aufklärung? [Illuminismo e postmodernità. 200 anni dopo la Rivoluzione francese la fine di ogni illuminismo?], Freie Akademie, Berlino 1991, pp. 139-150; José Miguel Oviedo, Breve historia del ensayo hispanoamericano, Alianza Editorial, Madrid 1991, pp. 150-151; Amalia Quevedo, ¿Metafísica aquí? Reflexiones preliminares sobre Nicolás Gómez Dávila, conferenza tenuta in occasione della settima edizione delle Jornadas de Actualización Filosófica, organizzate dall’Universidad de la Sabana, 1/3-9-1999, in Ideas y Valores. Revista Colombiana de Filosofía, n. 111, Bogotá dicembre 1999, pp. 79-88; Franco Volpi, voceNicolás Gómez Dávila in Idem (a cura di), Großes Werklexikon der Philosophie, Kröner, Stoccarda 1999, vol. I, pp. 580-81; Idem, Nicolás Gómez Dávila. Il perfetto reazionario, in surplus, cit., pp. 55-58; Anonimo, El pensador incansable: Nicolás Gómez Dávila, in Semana, n. 629, Santa Fe de Bogotá 25/31-5-1994, pp. 76-78; J. G. Cobo Borda,Solitario entre libros, in El Tiempo, Santa Fe de Bogotá 15-3-1992; Mauricio Acero Montejo, Escepticismo Renacentistaibid., 2-1-1995; Arturo Guerrero, Nicolás Gómez Dávila. Discubrimiento de un pensador,ibid., 25-9-1995; e il mio Gómez Dávila il conservatore, in Secolo d’Italia, 7-5-1999.
(39) Cfr. N. Gómez Dávila, Einsamkeiten. Glossen und Text [Solitudini. Glosse e testo], antologia e trad. tedesca a cura di Günther Rudolf Sigl, con postfazione di Franz Niedermayer, Karolinger Verlag, Vienna 1987; Idem, Auf verlorenen Posten. Neue Scholien zu einem inbegriffenen Text[In una postazione perduta. Nuove glosse a un testo implicito], trad. tedesca di Michaela Meßner, con un saggio di Francisco Pizano de Brigard, Karolinger Verlag, Vienna 1992; e Idem, Aufzeichnungen des Besiegten. Fortgesetzte Scholien zu einem inbegriffenen Text[Annotazioni dello sconfitto. Successive glosse a un testo implicito], trad. tedesca di Günter Maschke, con postfazione di Martin Mosebach, Karolinger Verlag, Vienna e Lipsia 1994.
(40) Á. Mutis, art. cit., p. 23.
(41) Ibidem.
(42) Ibid., p. 24.
(43) Ibidem.
(44) Cfr. ibidem.
(45) Ibidem.
(46) Ibidem.
(47) Cit. in F. Volpi, Nicolás Gómez Dávila. Il perfetto reazionario, cit., p. 58.
(48) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 11.
(49) Ibidem.
(50) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 211.
(51) Ibid., p. 203.
(52) Idem, Escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 11.
(53) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 122.
(54) Idem, Escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 362.
(55) Ibid., p. 57.
(56) Ibid., p. 59.
(57) Cfr. i 114 "assiomi o degnità così filosofiche come filologiche", in G. Vico, Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, 1744, cit., pp. 494-540; comparse per la prima volta nell’edizione del 1730, la cosiddetta Scienza nuova seconda, nellaScienza nuova prima, del 1725, trovano corrispondenze parziali: cfr. Idem, Princìpi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritruovano i princìpi di altro sistema del diritto delle genti, 1725, libro primo: Necessità del fine e difficultà de’ mezzi di ritruovare una nuova scienza, [capo] XVIII: Questa scienza si conduce sopra una morale del genere umano, per la quale si truovano i termini dentro i quali corrono i costumi delle nazioni, e Indice. [I] Tradizioni volgari e [II] Discoverte generaliibid., tomo II, pp. 975-1222 (rispettivamente pp. 1046-1047, 1209-1219 e 1220-1222).
(58) Marshall McLuhan, Introduzione a Harold Innis, Le tendenze della comunicazione, trad. it., SugarCo, Milano 1982, pp. 13-22 (p. 15).
(59) Cit. in O. Torres Duque (a cura di), El Mausoleo Iluminado. Antología del ensayo en Colombia, Biblioteca Familiar Presidencia de la RepúblicaIntroducción, in <http://www.banrep.gov.co/blaavirtual/letra-e/ensayo/introd.htm>, visitato il 10-4-2000.
(60) Cfr. Walter J. Ong S.J., Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, con introduzione di Rosamaria Loretelli, trad. it., il Mulino, Bologna 1986; Idem, La presenza della parola, con introduzione di Renato Barilli, trad. it., il Mulino, Bologna 1970; e Idem, Interfacce della parola, con introduzione di R. Barilli, trad. it., il Mulino, Bologna 1989; cfr. pure Eric Havelock (1903-1988), La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1995, soprattutto pp. 81-99; e Idem,L’equazione oralità-alfabetizzazione. Una formula per la mente moderna, in David R. Olson e Nancy Torrance (a cura di),Alfabetizzazione e oralità, trad. it., Raffaello Cortina, Milano 1995, pp. 13-29.
(61) Cfr. Giuseppe Pontiggia, L’aforisma come medicina dell’uomo, prefazione a Scrittori italiani di aforismi, vol. I, I classici, cit., pp. XIII-XXII.
(62) R. Loretelli, La galassia della parola, introduzione a W. J. Ong S.J.,Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, cit., pp. 5-15 (pp. 10 e 15).
(63) Cfr. Biagio Loré, Introduzione a G. Vico, Il metodo degli studi del nostro tempo, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze) 1993, pp. VII-XLVI (p. XXI).
(64) Cfr. Scrittori italiani di aforismi, vol. I, I classici, cit., pp. 689-719.
(65) Cfr. ibid., pp. 673-688.
(66) Ibid., p. 674.
(67) Ibidem.
(68) G. Pontiggia, L’aforisma come medicina dell’uomo, cit., p. XXII.
(69) Ibid., p. XV.
(70) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 500.
(71) Ibid., p. 474.
(72) Idem, Textos, I, cit., p. 71.
(73) Cfr. ibid., pp. 61-100.
(74) Cfr. F. Pizano de Brigard, Semblanza de un colombiano universal: las claves de Nicolás Gómez Dávila, cit., pp. 12-13.
(75) Cfr. O. Torres Duque, Nicolás Gómez Dávila: la pasión del anacronismo, cit., p. 11; ma l’ipotesi è presente nello stesso F. Pizano de Brigard, Semblanza de un colombiano universal: las claves de Nicolás Gómez Dávila, cit., p. 11.
(76) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 11.
(77) Cfr. Emil-Michel Cioran, Joseph de Maistre. Saggio sul pensiero reazionario, in Idem, Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti, trad. it., Adelphi, Milano 1988, pp. 11-78.
(78) Cfr. Juan Donoso Cortés, Pensamientos varios, in Idem, Obras completas, edizione, introduzione e note di Carlos Valverde S.J., vol. II, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1970, pp. 980-984.
(79) N. Gómez Dávila, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 9.
(80) Cfr. G. de Reynold, Charles Baudelaire, Slatkine Reprints, Ginevra 1993.
(81) N. Gómez Dávila, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 151.
(82) Ibid., vol. II, p. 65.
(83) Cfr. Bernardino de Sahagún O.F.M. (1500-1590), I colloqui dei Dodici, trad. it., con una nota di Vittoria Martinetto, Sellerio, Palermo 1991.
(84) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 56.
(85) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 68.
(86) Idem, Sucesivos escolios a un texto implícito, cit., p. 40.
(87) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 54.
(88) Cit. in O. Torres Duque, Nicolás Gómez Dávila: la pasión del anacronismo, cit., p. 34.
(89) N. Gómez Dávila, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 12.
(90) Ibid., p. 123.
(91) Idem, Sucesivos escolios a un texto implícito, cit., p. 39.
(92) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 124.
(93) Ibid., vol. I, p. 154.
(94) Ibid., p. 146.
(95) Ibid., p. 147.
(96) Ibid., p. 156.
(97) Cfr. in genere Josef Pieper, Autopresentazione, trad. it., in Filosofia oggi, anno XIV, n. 55, Genova gennaio-marzo 1991, pp. 37-52; e Idem,La mia filosofia. Colloquio di Josef Pieper con Bernard Schumacher, trad. it., in La filosofia cristiana del Novecento (I). Josef Pieper, a cura di B. Schumacher, Edizioni Romane di Cultura, Roma 1997, pp. 17-30; in specie Idem, Unaustrinkbares Licht. Über das negative Element in der Weltansicht des Thomas von Aquin [Luce inesauribile. Sull’elemento negativo nella visione del mondo di Tommaso d’Aquino], Kösel Verlag, Monaco di Baviera 1963, 2a ed. di Philosophia negativa. Zwei Versuche über Thomas von Aquin [Philosophia negativa. Due ricerche su Tommaso d’Aquino], Kösel Verlag, Monaco di Baviera 1953.
(98) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 316.
(99) Ibid., p. 206.
(100) Ibid., p. 278.
(101) Cfr. Mt. 10, 16.
(102) N. Gómez Dávila, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 47.
(103) Ibid., p. 184.
(104) Cfr. Gustave Thibon, Nietzsche o il declino dello spirito, trad. it., Edizioni Paoline, Alba (Cuneo) 1964.
(105) Ibid., p. 11.
(106) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 197.
(107) Cfr. Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it., con introduzione di Leonardo Ceppa, Einaudi, Torino 1994.
(108) Cfr. presentazione e nota bibliografica, in Scrittori italiani di aforismi, vol. II, Il Novecento, a cura di G. Ruozzi, Mondadori, Milano 1996, pp. 359-361 e 381-385; più ampiamente, M. Baldini, Giuliotti Cristiano controcorrente, cit.
(109) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 78.
(110) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 135.
(111) M. Baldini, Giuliotti Cristiano controcorrente, cit., p. 71.
(112) Cfr. La Torre. 1913-1914, a cura di Lorenza Giorgi, SPES, Firenze 1977.
(113) Ibid., p. 1.
(114) Cfr. D. Giuliotti, L’ora di Barabba, con prefazione di Antonio Corsaro, a cura di Luigi Castiglione, Logos, Roma 1982.
(115) Cfr. G. Papini e D. Giuliotti, Dizionario dell’Omo Salvatico. Volume primo (A-B), Vallecchi, Firenze 1923.
(116) Cfr. D. Giuliotti, Tizzi e fiamme, a cura di M. Baldini, Cantagalli, Siena 1999.
(117) Cfr. Idem, Pensieri d’un malpensante, a cura di M. Baldini, Logos, Roma 1984.
(118) Cfr. Idem, Nuovi pensieri d’un malpensante, a cura di M. Baldini, Logos, Roma 1985.
(119) Cfr. Idem, Ultimi pensieri di un malpensante, Istituto di Propaganda Libraria, Milano 1951.
(120) Cfr. Idem, Amare e credere, a cura di M. Baldini, La Locusta, Vicenza 1977; Idem, Lettere agli amici, con introduzione di Geno Pampaloni, a cura di M. Baldini, Piergiovanni Permoli e Ettore Tirinnanzi, La Locusta, Vicenza 1980; e Idem, Schegge, con introduzione di padre Nazareno Fabbretti O.F.M, a cura di M. Baldini, La Locusta, Vicenza 1983.
(121) Cfr. Idem, Jacopone da Todi, Vallecchi, Firenze 1939.
(122) Cfr. Jan van Ruysbroeck, L’ornamento delle nozze spirituali, trad. it., Carabba, Lanciano (Chieti) 1916.
(123) Cfr. san Dionigi l’Areopagita, La Gerarchia celeste, trad. it., Giannini, Firenze 1921.
(124) Sulla questione areopagitica, cfr. don Enzo Bellini (1934-1981),Introduzione alla lettura del "corpus" dionisiano, in Dionigi Aeropagita,Tutte le opere. Gerarchia celeste – Gerarchia ecclesiastica – Nomi divini – Teologia mistica – Lettere, trad. it. di Piero Scazzoso, a cura di don E. Bellini, Rusconi, Milano 1999, pp. 5-52, 1, Il mistero dell’autore, pp. 7-17.
(125) Cfr. De Maistre, a cura di D. Giuliotti, L’Arco, Firenze 1948; introduzione, pp. 7-26.
(126) Cfr. M. Baldini, Giuliotti Cristiano controcorrente, cit., pp. 71-83.
(127) N. Gómez Dávila, Escolios a un texto implícito, cit., vol. I, p. 16.
(128) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 9.
(129) Idem, Sucesivos escolios a un texto implícito, cit., p. 21.
(130) Ibid., p. 25.
(131) Idem, Nuevos escolios a un texto implícito, cit., vol. II, p. 34.

venerdì 7 marzo 2014

Giuda Iscariota racconta come ha venduto i gioielli di Aglae


Gesù arriva da una strada e si guarda intorno. Non vede ancora nessuno. 
Pazientemente si addossa ad un tronco e aspetta, trovando modo di parlare 
ai monelli sulla carità che si inizia da Dio e scende dal Creatore a tutte le creature. 

«Non siate crudeli. Perché volete turbare gli uccelli dell'aria? Hanno nidi lassù. 
Hanno i loro piccoli figli. Non fanno del male a nessuno. Ci danno canti e pulizia, 
mangiando i rifiuti dell'uomo e gli insetti che nuocciono alle messi e alle frutta. 
Perché ferirli e ucciderli, privando i piccoli dei padri e delle madri, o 
questi dei piccoli? Sareste contenti che un malvagio entrasse nella vostra 
casa e ve la distruggesse, o che vi uccidesse i genitori o vi portasse lontano 
da loro? No, che non lo sareste. E allora perché fare a questi 
innocenti quello che non vorreste vi fosse fatto? Come potrete un giorno 
non fare del male all'uomo, se da bambini vi indurite il cuore su creaturine 
inermi e gentili quali gli uccellini? E non sapete che la Legge dice: 
"Ama il tuo prossimo come te stesso"? Chi non ama il prossimo non può 
neppure amare Dio. E chi non ama Dio, come può andare nella sua Casa e 
pregarlo? Dio potrebbe dirgli, e lo dice nei Cieli: "Va' via. Non ti 
conosco. Figlio tu? No. Non ami i fratelli, non rispetti in loro il Padre che 
li fece, perciò non sei fratello e figlio, ma un bastardo: figliastro a Dio, 
fratellastro ai fratelli". 
Vedete come ama Lui, il Signore eterno? Nei mesi più freddi fa trovare 
colmi i fienili perché in essi si annidino i suoi uccellini. In quelli caldi dà ombre 
di foglie per proteggerli dal sole. Nell'inverno nei campi è 
il grano appena coperto di terra e facile è scovare il seme e nutrirsene. 
Nell'estate la sete si allevia colle frutta succose, e i nidi possono farsi ben 
solidi e caldi coi fili dei fieni e la lana che le pecore lasciano ai rovi. Ed è 
il Signore. Voi, piccoli uomini, creati come gli uccelli da Lui, fratelli 
perciò in creazione ad essi, perché volete esser diversi da Lui, credendovi 
lecito incrudelire su questi piccoli animali? 
Siate a tutti misericordiosi, non privando del giusto nessuno, né fra gli uomini 
fratelli, né fra gli animali, vostri servi e amici, e Dio...». 

«Maestro?», chiama Simone. 
«Giuda sta venendo». 
«…e Dio sarà con voi misericorde, dandovi tutto quanto vi occorre come 
lo dà a questi innocenti. Andate e portate con voi la pace di Dio». 
Gesù fende il cerchio dei ragazzi, al quale si erano uniti degli adulti, e va 
verso Giuda e Giovanni che vengono svelti da un'altra via. 
Giuda è gongolante. Giovanni sorride a Gesù...ma non pare proprio felice. 

«Vieni, vieni, Maestro. Credo di aver fatto bene. Però vieni con me. 
Sulla via non si può parlare». 
«Dove, Giuda?». 
«All'albergo. Ho già fissato quattro stanze... oh! roba modesta, non 
temere. Tanto per potere riposare in un letto dopo tanto disagio in questo 
calore, e mangiare da uomini e non da uccelli sulla frasca, e parlare anche 
in pace. Ho venduto molto bene. Vero, Giovanni?». 
Giovanni annuisce senza molto entusiasmo. Ma Giuda è talmente contento 
della sua opera che non nota né la 
poca contentezza di Gesù, per la prospettiva di un alloggio comodo, 
né l'ancor meno entusiastico atteggiamento di Giovanni. 
E prosegue: «Avendo venduto a più di quanto avevo stimato, ho detto: 
"É giusto ne levi una piccola somma, cento denari, per i nostri letti e 
per i nostri pasti. Se siamo sfiniti noi che abbiamo sempre mangiato, Gesù 
deve essere sfinito del tutto". 

Ho il dovere di guardare che non si ammali, il mio Maestro! 
Dovere d'amore, perché Tu mi ami ed io ti amo... C'è posto anche per 
voi e per le pecore», dice ai pastori. «Ho pensato a tutto». 
Gesù non dice una parola. Lo segue insieme agli altri. Giungono 
ad una piazzetta secondaria. 

Giuda dice: «Vedi quella casa senza finestre sulla via e con quella 
porticina così stretta da parere una fessura? É la casa del battiloro Diomede. 
Sembra una povera casa, vero? Ma là dentro è tant'oro da comprare 
Gerico e... ah! ah!…», Giuda ride maligno..., «e in quell'oro si possono 
trovare anche molti monili e vasellami e... e anche altre cose di tutte le 
persone più influenti in Israele. 
Diomede... oh! tutti fingono di non conoscerlo ma tutti lo conoscono: 
dagli erodei a... a tutti, ecco. Su quel muro liscio, povero, si potrebbe 
scrivere: "Mistero e Segreto". Se parlassero quelle mura! Altro che 
scandalizzarsi del modo come ho trattato l'affare, Giovanni!... Tu... 
tu moriresti affogato dallo stupore e dallo scrupolo. Anzi, senti Maestro. 
Non mi mandare più con Giovanni a certi negozi. Per poco mi fa fallire 
tutto. Non sa capire a volo, non sa negare, e con un furbo come Diomede 
bisogna esser svelti e franchi». 
Giovanni mormora: «Dicevi certe cose! Così impensate e... e così... 
Sì, Maestro. Non mi mandare più. Non sono capace che di amare io ». 
«Difficilmente avremo ancora bisogno di simili vendite», risponde Gesù, 
che è serio. 
«Ecco là l'albergo. Vieni, Maestro. Parlo io perché... ho fatto tutto io». 
Entrano e Giuda parla col padrone, che fa condurre le pecore in una stalla, 
e poi conduce personalmente gli ospiti in una stanzetta dove sono due 
stuoie a letto, dei sedili e un tavolo pronto. 
Poi si ritira. «Parliamo subito, Maestro, mentre i pastori sono intenti a 
sistemare le pecore». 
«Ti ascolto». 
«Giovanni può dire se sono sincero». 
«Non ne dubito. Fra uomini onesti non deve esser necessario 
giuramento e testimonianza. Parla». 

«Siamo arrivati a Gerico a sesta. Eravamo sudati come bestie da soma. 
Non ho voluto dare impressione a Diomede di avere urgente bisogno. 
E prima sono venuto qui, e mi sono tutto rinfrescato e ho messo veste 
monda, e così ho voluto facesse lui. Oh! non voleva saperne di farsi 
ungere e accomodare i capelli... Ma io avevo fatto il mio piano, 
mentre venivo per via!... Quando era prossimo il vespero ho detto: "Andiamo". 
Ormai eravamo riposati e freschi come due ricconi in viaggio di piacere. 
Quando siamo stati per arrivare da Diomede, ho detto a Giovanni: 
"Tu assecondami. Non negare e sii svelto a capire". Ma era meglio se lo 
lasciavo fuori! Non mi ha aiutato per nulla. Anzi... Per buona sorte 
io sono svelto per due e ho riparato a tutto. Dalla casa usciva il gabelliere. 
"Bene!", ho detto. "Se esce quello lì, troveremo denari e quel che voglio 
per fare paragone". Perché il gabelliere, usuraio e ladro come tutti i 
suoi pari, ha sempre monili strappati con minacce e strozzinaggio a 
quei disgraziati che egli tassa più del lecito, per avere poi molto da godere in 
crapule e donne. Ed è molto amico di Diomede, che compra e 
vende oro e carne... 
Siamo entrati dopo che mi sono fatto conoscere. Dico: entrati. Perché 
altro è andare nell'androne dove lui finge di lavorare onestamente l'oro, 
e altro è scendere nel sotterraneo dove egli fa i veri affari. Bisogna esser 
molto conosciuti da lui per potere ciò. 
Quando mi ha visto, mi ha detto: "Ancora vuoi vendere oro? 
Sono momenti brutti e ho poco denaro". 
La sua solita canzone. Gli ho risposto: "Non vengo a vendere. 
Ma a comperare. Hai gioielli per donna? Ma belli, ricchi, preziosi e pesanti, 
d'oro puro?". Diomede è rimasto stupito. E ha chiesto: "Vuoi una donna?". 
"Non te ne occupare", gli ho risposto. "Non è per me. É per questo mio 
amico che è sposo e vuole comperare l'oro per la sua amata". E qui 
Giovanni ha cominciato a fare il bambino. Diomede, che lo guardava, lo ha 
visto diventare una porpora e ha detto, da quel vecchio lurido che è: 
"Eh! il ragazzo, solo a sentire nominare 
la sposa, va in febbre d'amore. E molto bella la tua donna?", ha chiesto. 
Ho dato un calcio a Giovanni per svegliarlo e fargli capire di non fare 
lo stolto. Ma ha risposto un "sì" così strangolato che Diomede si è 
insospettito. Allora ho parlato io: "Se bella o meno non ti deve interessare, 
vecchio. Non sarà mai del numero delle femmine per cui l'inferno ti avrà. 
É vergine onesta, e presto onesta sposa. Fuori il tuo oro. Io sono il 
paraninfo ed ho l'incarico di aiutare il giovane... lo giudeo e cittadino". 
"Lui è galileo, vero?". Sempre per quei capelli vi tradite! "É ricco?". 
"Molto". Allora siamo andati abbasso e 
Diomede ha aperto cofani e forzieri. Ma di' il vero, Giovanni! 
Non pareva d'esser in Cielo davanti a tutte 
quelle gemme e ori? Collane, serti, bracciali, orecchini, reticelle di 
oro e pietre preziose per i capelli, forcine, fibbie, anelli... ah! che splendori! 
Con molto sussiego ho scelto una collana su per giù come quella di Aglae, 
e anelli, fibbie, bracciali... tutto come quello che avevo nella borsa e in 
numero uguale. 
Diomede stupiva e chiedeva: "Ancora? Ma chi è costui? E la sposa chi è? 
Una principessa?". 
Quando ho avuto tutto quel che volevo, ho detto: "Il prezzo?". 
Oh! che litania di lamenti preparatori sui tempi, sulle tasse, sui rischi, sui 
ladri! Oh! che altra litania di assicurazioni di onestà! 
Poi ecco la risposta: "Proprio perché sei te, ti dirò il vero. Senza esagerazioni. 
Ma meno di questo neppure una dramma. Chiedo dodici talenti d'argento". 


"Ladro!", ho detto. Ho detto: "Andiamo, Giovanni. A Gerusalemme 
troveremo qualcuno meno ladro di costui". E ho fatto finta d'uscire. Mi è corso 
dietro. "Mio alto amico, mio diletto amico, vieni, senti il povero tuo servo. 
Meno non posso. Non posso proprio. Guarda. Faccio proprio uno 
sforzo e mi rovino. Lo faccio perché tu mi hai sempre dato la tua amicizia 
e mi hai fatto fare affari. Undici talenti, ecco. É quello che darei se dovessi 
comperare questo oro da un che ha fame. Non uno spicciolo meno. Sarebbe 
come levare il sangue dalle mie vecchie vene". Vero che diceva così? 
Faceva ridere e faceva nausea. Quando l'ho visto ben fermo sul prezzo 
ho fatto il colpo. "Vecchio sporco, sappi che non comperare, ma vendere 
voglio. Questo voglio vendere. Guarda: è bello come il tuo. Oro di Roma 
e di foggia nuova. Ti andrà a ruba. É tuo per undici talenti. Quanto hai chiesto 
per questo. Tu ne hai fatto la stima e tu paga". Uh! allora!... 
"E’ un tradimento! Hai tradito la mia stima in te! Tu sei la mia rovina! 
Non posso dare tanto!". 
"L'hai stimato tu. Paga". 
"Non posso". 
"Guarda che lo porto ad altri". 
"No, amico e allungava le mani adunche sul mucchio di Aglae. "E allora paga: 
dodici talenti dovrei volere. Ma mi accontento della tua ultima richiesta". 
"Non posso". "Usuraio! Guarda che qui ho un testimone e ti posso 
denunciare come ladro...", e gli ho detto anche altre virtù che non ripeto 
per questo ragazzo... 
Infine, poiché mi premeva vendere e fare presto, gli ho detto una cosetta, 
fra me e lui, che non manterrò... Ma che valore ha promessa fatta a un ladro? 
E ho concluso con dieci talenti e mezzo. 
Siamo venuti via fra pianti e profferte di amicizia e... di donne. 
E Giovanni per poco ci piange. Ma che ti importa che ti credano un vizioso? 
Basta che tu non lo sia. Non sai che il mondo è così e tu sei un aborto 
del mondo? Un giovane che non sa il sapore della donna? Chi vuoi che ti creda? 
O se ti credono... oh! io non vorrei pensassero di me ciò che può 
pensare di te chi ti crede non desideroso di donna. Ecco, Maestro. 
Conta Tu stesso. Avevo un mucchio di denari. Ma sono passato dal 
gabelliere e gli ho detto: 
"Riprenditi questa zavorra e rendimi i talenti che ti ha dato Isacco". 
Perché avevo saputo anche questo per ultima notizia, ad affare fatto. 
Però, per ultima cosa, ho detto a Isacco-Diomede: 
"Ricordati che il Giuda del Tempio non esiste più. Ora sono discepolo di 
un santo. Fingi perciò di non avermi mai conosciuto, se ti preme il collo". 
E per poco glielo torco subito, perché mi ha risposto male». 
«Che ti ha detto?», chiede con indifferenza Simone. 
«Mi ha detto: "Tu discepolo di un santo? Non lo crederò mai, o presto 
vedrò anche qui il santo a chiedermi una donna. Mi ha detto: 
"Diomede è una vecchia sciagura del mondo. Ma tu ne sei quella nuova. 
Ed io potrei ancora cambiare, perché sono diventato quel che sono 
da vecchio. Ma tu non cambi. Sei nato così". 
Vecchio lurido! Nega il tuo potere, capisci?». 
«E, da buon greco, dice molte verità». 
«Che vuoi dire, Simone? Per me parli?». 
«No. Per tutti. E uno che conosce l'oro e i cuori nella stessa maniera. 
É un ladro, un lurido di tutti i più luridi commerci. Ma si sente in lui la 
filosofia dei grandi greci. Conosce l'uomo, animale dalle sette branche di 
peccato, polipo che strozza il bene, l'onestà, l'amore e tante altre 
cose, in sé e negli altri». 
«Ma non conosce Dio». 
«E tu glielo vorresti insegnare?». 
«Io. Sì. Perché? Sono i peccatori che hanno bisogno di conoscere Dio». 
«Vero. Però... il maestro deve conoscerlo per insegnarlo». 
«E non lo conosco?». 
«Pace, amici. Vengono i pastori. Non turbiamo il loro animo con 
querele fra noi. Hai contato il denaro tu? Basta. Porta a termine bene ogni 
tua azione come hai portato questa e, te lo ripeto, se puoi, in futuro, non 
mentire neppure per raggiungere una azione buona...». 

Entrano i pastori. «Amici. Qui sono dieci talenti e mezzo. Mancano solo 
cento denari che Giuda ha tenuto per le spese di alloggio. Prendete». 
«Tutti li dai?», chiede Giuda. 
«Tutti. Non voglio uno spicciolo di quel denaro. Noi abbiamo l'obolo 
di Dio e di coloro che onestamente cercano Dio... e non ci mancherà mai 
l'indispensabile. Credilo. Prendete e siate felici, come Io lo sono, per il 
Battista. Domani andrete verso la sua prigione. Due, ossia Giovanni e Mattia. 
Simeone con Giuseppe andrà da Elia a riferire e ad istruirsi per il futuro. 
Elia sa. Poi Giuseppe tornerà con Levi. Il luogo di ritrovo, fra 
dieci giorni, presso la porta dei Pesci a Gerusalemme, all'ora di prima. 
E ora mangiamo e prendiamo riposo. 
Domani, a mattutino, Io parto coi miei. Altro non ho da dirvi per ora. 
Più tardi saprete di Me». 

E tutto si offusca sulla frazione del pane fatta da Gesù.