DIE DOMINICA.
Æterna fac Virgo serena: cum servis tuis in gloria præmiari.
"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
DIE DOMINICA.
San Silvestro Guzzolini Abate e fondatore | ||||
Osimo, Ancona, 1177 - Fabriano, Ancona, 26 novembre 1267 Nato nel 1177 da nobile famiglia di Osimo, nelle Marche, Silvestro Guzzolini divenne prete dopo aver studiato Diritto a Bologna e Teologia a Padova. Canonico della cattedrale osimana, a 50 anni si ritirò in una grotta presso Frasassi. Arrivarono parecchi compagni e adottò la regola di san Benedetto. Nacquero così i Benedettini Silvestrini. Nel 1231 Silvestro fondò il monastero di Montefano (Fabriano). Prima di morire, nel 1267, ne fondò altri 11 con 119 monaci. Fu adorno di singolarissimo privilegio, unico nell’agiografia cristiana, la Comunione ricevuta per le mani Venerande della Vergine Santissima: "O figlio Silvestro, vuoi ricevere il Corpo di mio Figlio, il Signore Gesù Cristo, che vergine ho concepito, vergine ho dato alla luce e sempre vergine rimasi anche dopo il mirabile parto?". Papa Leone XIII il 29 agosto 1890 ne decreta la canonizzazione equipollente. Etimologia: Silvestro = abitatore delle selve, uomo dei boschi, selvaggio, dal latino Martirologio Romano: Presso Fabriano nelle Marche, san Silvestro Gozzolini, abate, che, presa coscienza della grande vanità del mondo davanti al sepolcro aperto di un amico da poco defunto, si ritirò in un eremo e, dopo aver cambiato varie sedi per meglio isolarsi dagli uomini, fondò infine in un luogo appartato presso Montefano la Congregazione dei Silvestrini sotto la regola di san Benedetto. | ||||
Giovane nobile Il Santo Uomo, ormai ripieno della sapienza di Dio, veniva chiamato spessissimo nella chiesa del Beato Venanzio martire, a Fabriano, a esporre al popolo la Parola di Dio. E, un giorno, passando vicino al cimitero, notò che un tale stava scavando la fossa per un certo Diotisalvi, ammalato molto gravemente e, secondo il giudizio dei medici, senza più alcuna speranza di guarigione. Il Santo disse a quelli che erano con lui: «Ecco in verità un morto che prepara la tomba ad un vivo!». Il malato guarì e l'altro morì e venne sepolto nella tomba che si era scavato. Un altro giorno gli portarono all'Eremo un cieco nato ed Egli, implorata la divina clemenza, fece un segno di croce verso la sua faccia. La divina Misericordia fece al cieco il dono di una vista chiara, e guari all'istante. E la stessa cosa avvenne anche ad una donna di Fabriano. Nella città di Cagli liberò una donna posseduta dal demonio. Un'altra volta, mentre si era a mensa, fece, come sempre, il segno della croce sul recipiente d'acqua, che divenne ottimo vino. Lo stesso cosa fece anche per gli operai che stavano scavando una cisterna nell'Eremo di Santa Maria di «Grottafucile». Ad Osimo guarì, con un segno di croce, un fratello di nome Filippo da Varano. Egli era così mal ridotto da acerbi dolori che aveva le ginocchia tutte rattrappite. Guarì anche il figlio di una donna di Gualdo, che aveva alla faccia una malattia incurabile. A Fabriano domò un brutto incendio. Lo stesso fece a Serra San Quirico con un semplice segno di croce. E nella stessa città, mentre stava predicando la Parola di Dio, uno zoppo dalla nascita, trascinandosi per terra con le ginocchia e con le mani, arrivò fino alla presenza del Santo. Egli chinò lo sguardo sullo zoppo, e subito il suo cuore fu pervaso da un senso di viva pietà. Si volse tutto alla preghiera dinanzi al Volto della gloria e al cospetto del Signore della maestà. Poi, udito da tutti, disse allo zoppo: «Alzati, figlio; alzati, figlio!». E lo zoppo si alzò in piedi a lode e gloria del Creatore e, tutto contento, se ne tornò a casa sua. San Silvestro operò innumerevoli guarigioni in vita e anche dopo la sua morte gloriosa. Gli angeli lo portarono in cielo Intorno ai novant'anni San Silvestro si mise a letto con febbre ardente. Esortò i suoi discepoli a perseverare nella vita santa e nelle osservanze monastiche. Ricevuti gli ultimi sacramenti, raccomandò il suo spirito al Signore, e concluse in pace la sua vita, piena di giorni e di opere sante. Era il 26 novembre del 1267. Fra Giovanni, che viveva nella solitudine sul monte, vide la sua anima bella mentre veniva trasportata festosamente in cielo dagli Angeli, in mezzo ad un meraviglioso chiarore. E fra Giacomo, mentre andava a riposare, dopo una giornata di fatica in un possedimento proprio di fronte al Monastero, sentì chiamarsi per tre volte per nome. Uscì, era ormai notte: vide tutto il sacro Eremo e il monte risplendenti di luci, come di fiaccole accese. In fretta salì verso di esso e trovò che il Santo era volato nella Gloria dei cieli. Fra Bonaparte, che si trovava nel monastero di Iesi, alla stessa ora, nel sonno, vide una scala, che da Monte Fano arrivava fino a toccare il cielo: su di essa c'erano schiere di angeli che portavano l'anima di San Silvestro in Paradiso. Venne il chirurgo, maestro Andrea, e aprì il suo corpo per prelevarne le viscere, per il fatto dell'imbalsamazione. La casa si riempì di tanto intenso profumo. Sulla sacra tomba poi avvennero ancora guarigioni e liberazioni straordinarie per intercessione del grande Santo Anacoreta. Oggi le sacre sue ossa sono custodite in un'urna preziosa nella chiesa a Lui dedicata nel Monastero sul Monte Fano, e c'è chi, ancora oggi, pregando il Santo con fede sincera, beneficia ancora del salutare profumo della sua grande santità. E noi, suoi monaci, ogni giorno, Lo preghiamo con un'antica melodia in canto gregoriano: «O Amatissimo Padre, Silvestro Anacoreta, vieni in soccorso dei tuoi figli, moltiplica il loro numero, difendili dai nemici infernali, e fa che il loro grido, per i tuoi santi meriti, venga ascoltato dall'Altissimo». E oggi, all'inizio del terzo millennio, questo canto antico risuona nelle chiese monastiche silvestrine quì a Roma, a Fabriano, a Bassano Romano, a Giulianova, a Matelica, e poi nello Sri Lanka, in India, negli Stati Uniti d'America, in Australia e ultimamente anche nelle Filippine dove si stà costruendo un nuovo Monastero Silvestrino.
AMDG et DVM |
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CONCISTORO ORDINARIO PUBBLICO
PER LA CREAZIONE DI NUOVI CARDINALI
SANTA MESSA CON I NUOVI CARDINALI
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo
Domenica, 25 novembre 2012
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
La solennità odierna di Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico, si arricchisce dell’accoglienza nel Collegio Cardinalizio di sei nuovi Membri che, secondo la tradizione, ho invitato questa mattina a concelebrare con me l’Eucaristia. A ciascuno di essi rivolgo il mio più cordiale saluto, ringraziando il Cardinale James Michael Harvey per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti. Saluto gli altri Porporati e tutti i Presuli presenti, come pure le distinte Autorità, i Signori Ambasciatori, i sacerdoti, i religiosi e tutti i fedeli, specialmente quelli provenienti dalle Diocesi affidate alla guida pastorale dei nuovi Cardinali.
In quest’ultima domenica dell’anno liturgico la Chiesa ci invita a celebrare il Signore Gesù quale Re dell’universo. Ci chiama a rivolgere lo sguardo al futuro, o meglio in profondità, verso la meta ultima della storia, che sarà il regno definitivo ed eterno di Cristo. Egli era all’inizio con il Padre quando è stato creato il mondo, e manifesterà pienamente la sua signoria alla fine dei tempi, quando giudicherà tutti gli uomini. Le tre Letture di oggi ci parlano di questo regno. Nel brano evangelico che abbiamo ascoltato, tratto dal Vangelo di San Giovanni, Gesù si trova in una situazione umiliante - quella di accusato -, davanti al potere romano. E’ stato arrestato, insultato, schernito, e ora i suoi nemici sperano di ottenerne la condanna al supplizio della croce. L’hanno presentato a Pilato come uno che aspira al potere politico, come il sedicente re dei Giudei. Il procuratore romano compie la sua indagine e interroga Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» (Gv 18,33). Rispondendo a questa domanda, Gesù chiarisce la natura del suo regno e della sua stessa messianicità, che non è potere mondano, ma amore che serve; Egli afferma che il suo regno non va assolutamente confuso con un qualsiasi regno politico: «Il mio regno non è di questo mondo … non è di quaggiù» (v. 36).
E’ chiaro che Gesù non ha nessuna ambizione politica. Dopo la moltiplicazione dei pani, la gente, entusiasmata dal miracolo, lo voleva prendere per farlo re, per rovesciare il potere romano e stabilire così un nuovo regno politico, che sarebbe stato considerato come il regno di Dio tanto atteso. Ma Gesù sa che il regno di Dio è di tutt’altro genere, non si basa sulle armi e sulla violenza. Ed è proprio la moltiplicazione dei pani che diventa, da un lato, segno della sua messianicità, ma, dall’altro, uno spartiacque nella sua attività: da quel momento il cammino verso la Croce si fa sempre più chiaro; lì, nel supremo atto di amore, risplenderà il regno promesso, il regno di Dio. Ma la folla non comprende, è delusa, e Gesù si ritira sul monte da solo a pregare, a parlare con il Padre (cfr Gv 6,1-15). Nel racconto della Passione vediamo come anche i discepoli, pur avendo condiviso la vita con Gesù e ascoltato le sue parole, pensavano ad un regno politico, instaurato anche con l’aiuto della forza. Nel Getsemani, Pietro aveva sfoderato la sua spada e iniziato a combattere, ma Gesù lo aveva fermato (cfr Gv 18,10-11). Egli non vuole essere difeso con le armi, ma vuole compiere la volontà del Padre fino in fondo e stabilire il suo regno non con le armi e la violenza, ma con l’apparente debolezza dell’amore che dona la vita. Il regno di Dio è un regno completamente diverso da quelli terreni.
Ed è per questo che davanti ad un uomo indifeso, fragile, umiliato, come è Gesù, un uomo di potere come Pilato rimane sorpreso; sorpreso perché sente parlare di un regno, di servitori. E pone una domanda che gli sarà sembrata paradossale: «Dunque tu sei re?». Che tipo di re può essere un uomo in quelle condizioni? Ma Gesù risponde in modo affermativo: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (18,37). Gesù parla di re, di regno, ma il riferimento non è al dominio, bensì alla verità. Pilato non comprende: ci può essere un potere che non si ottiene con mezzi umani? Un potere che non risponda alla logica del dominio e della forza? Gesù è venuto per rivelare e portare una nuova regalità, quella di Dio; è venuto per rendere testimonianza alla verità di un Dio che è amore (cfr 1 Gv 4,8.16) e che vuole stabilire un regno di giustizia, di amore e di pace (cfr Prefazio). Chi è aperto all’amore, ascolta questa testimonianza e l’accoglie con fede, per entrare nel regno di Dio.
Questa prospettiva la ritroviamo nella prima Lettura che abbiamo ascoltato. Il profeta Daniele predice il potere di un misterioso personaggio collocato tra cielo e terra: «Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno: tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (7,13-14). Sono parole che prospettano un re che domina da mare a mare fino ai confini della terra, con un potere assoluto che non sarà mai distrutto. Questa visione del Profeta, una visione messianica, viene illuminata e trova la sua realizzazione in Cristo: il potere del vero Messia, potere che non tramonta mai e che non sarà mai distrutto, non è quello dei regni della terra che sorgono e cadono, ma è quello della verità e dell’amore. Con ciò comprendiamo come la regalità annunciata da Gesù nelle parabole e rivelata in modo aperto ed esplicito davanti al Procuratore romano, è la regalità della verità, l’unica che dà a tutte le cose la loro luce e la loro grandezza.
Nella seconda Lettura l’autore dell’Apocalisse afferma che anche noi partecipiamo alla regalità di Cristo. Nell’acclamazione rivolta a «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» dichiara che Cristo «ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (1,5-6). Anche qui è chiaro che si tratta di un regno fondato sulla relazione con Dio, con la verità, e non di un regno politico. Con il suo sacrificio, Gesù ci ha aperto la strada per un rapporto profondo con Dio: in Lui siamo diventati veri figli adottivi, siamo resi così partecipi della sua regalità sul mondo. Essere discepoli di Gesù significa, allora, non lasciarsi affascinare dalla logica mondana del potere, ma portare nel mondo la luce della verità e dell’amore di Dio. L’autore dell’Apocalisse allarga poi lo sguardo alla seconda venuta di Gesù per giudicare gli uomini e stabilire per sempre il regno divino, e ci ricorda che la conversione, come risposta alla grazia divina, è la condizione per l’instaurazione di questo regno (cfr 1,7). E’ un forte invito rivolto a tutti e a ciascuno: convertirsi sempre di nuovo al regno di Dio, alla signoria di Dio, della Verità, nella nostra vita. Lo invochiamo quotidianamente nella preghiera del “Padre nostro” con le parole “Venga il tuo regno”, che è dire a Gesù: Signore facci essere tuoi, vivi in noi, raccogli l’umanità dispersa e sofferente, perché in Te tutto sia sottomesso al Padre della misericordia e dell’amore.
A voi, cari e venerati Fratelli Cardinali – penso in particolare a quelli creati ieri – viene affidata questa impegnativa responsabilità: dare testimonianza al regno di Dio, alla verità. Ciò significa far emergere sempre la priorità di Dio e della sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Fatevi imitatori di Gesù, il quale, davanti a Pilato, nella situazione umiliante descritta dal Vangelo, ha manifestato la sua gloria: quella di amare sino all’estremo, donando la propria vita per le persone amate. Questa è la rivelazione del regno di Gesù. E per questo, con un cuore solo ed un’anima sola, preghiamo: «Adveniat regnum tuum». Amen.
© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana
Dalle «Opere» di sant’Antonio Maria Claret, vescovo