giovedì 5 gennaio 2023

Può essere utile, anche per capire la fede


Il fondamento della nostra libertà


Il carnevale non è certo una festa religiosa. Tuttavia non è concepibile senza il calendario delle festività liturgiche. Perciò una riflessione sulla sua origine e sul suo significato può essere utile anche per capire la fede.

Le radici del carnevale sono molteplici: ebree, pagane, cristiane, e ci rimandano ad aspetti comuni dell’uomo di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Nel calendario delle festività ebraiche al carnevale corrisponde grosso modo la festa dei Purim, che ricorda la salvezza di Israele dall’incombente persecuzione degli ebrei nel regno di Persia, salvezza conseguita, secondo il racconto biblico, dalla regina Ester.
La gioia scatenata con cui la festa viene celebrata vuol essere espressione del senso di liberazione che, in questo giorno, non è solo memoria , ma promessa: chi è nelle mani del Dio di Israele, è libero in partenza dalle insidie dei suoi nemici.
Al tempo stesso, dietro questa festa scatenata e profana, che aveva e ha tuttavia il suo posto nel calendario religioso, c’è quella conoscenza del ritmo del tempo, validamente espressa nel libro di Qoèlet.
Tutto ha la sua ora e c’è un tempo per ogni cosa sotto il sole: un tempo per la nascita e un tempo per la morte, un tempo per piantare e un tempo per cogliere ciò che si è piantato…un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per lamentarsi e un tempo per ballare” (Qo 3,1ss.).
Ogni momento non è il momento giusto per ogni cosa: l’uomo ha bisogno di un ritmo, e l’anno gli dà questo ritmo, nel creato e nella storia che la fede presenta nel corso dell’anno.

Siamo così giunti all’anno liturgico, che fa percorrere all’uomo l’intera storia della salvezza nel ritmo del creato, ordinando e purificando così il caos e la molteplicità del nostro essere. In questo ciclo di creazione e storia non è tralasciato nessun aspetto umano, e solo così viene salvato tutto ciò che è umano, i lati oscuri come quelli luminosi, la sensorialità come la spiritualità. Tutto riceve il proprio posto nell’insieme che gli dà un senso e lo libera dall’isolamento.

Perciò è sciocco voler prolungare il carnevale come vorrebbero affari e scadenzari: questo tempo arbitrario diventa noia, perché in esso l’uomo diviene soltanto creatore di se stesso, è lasciato solo e si trova davvero abbandonato. Il tempo non è più il molteplice dono del creato e della storia, ma il mostro che divora se stesso, l’ingranaggio vuoto dell’eternamente uguale, che ci fa girare in un cerchio insensato e che distrugge infine anche noi.

Ma torniamo alle radici del carnevale. Accanto ai precedenti ebraici ci sono quelli pagani, il cui volto truce e minaccioso ci fissa ancora dalle maschere dei paesi alpini e svevo-germanici. Qui si celebravano i riti della cacciata dell’inverno, dell’esorcismo delle potenze demoniache: nel mutare del tempo si avvertiva la minaccia del mondo, la nuova creazione della terra e della sua fertilità doveva essere protetta contro il nulla a cui si avvicinava il mondo nel sonno dell’inverno.
A questo punto possiamo notare qualcosa di molto significativo : la maschera demoniaca si trasforma, nel mondo cristiano, in una divertente mascherata; la lotta pericolosissima con i demoni si cambia in gaudio prima della gravità della Quaresima. In questa mascherata avviene ciò che riscontriamo spesso nei salmi e nei profeti: essa diviene scherno di quegli dei che chi conosce il vero Dio non deve più temere.
Le maschere degli dei sono divenute uno spettacolo divertente, esprimono la gioia sfrenata di coloro che possono trovare motivi di comicità in ciò che prima faceva paura. In questo senso è presente nel carnevale la liberazione cristiana, la libertà dell’unico Dio, che rende perfetta quella libertà ricordata dalla festa ebraica dei Purim.
Si pone però un interrogativo: possediamo ancora questa libertà? Non è che ci siamo voluti liberare anche di Dio stesso, del creato e della fede, per essere completamente liberi? E la conseguenza non è forse che siamo di nuovo in balìa degli dei, delle potenze del denaro, dell’avidità, dell’opinione pubblica? Dio non è il nemico della nostra libertà, ma il suo fondamento; è questo che dovremmo imparare di nuovo oggi. Solo l’amore che è onnipotente può essere il fondamento di una gioia senza paura.

© Copyright 1986-2008 - Libreria Editrice Vaticana

AMDG et DVM

Orazioni dopo la Santa Comunione

 Anima Christi sanctifica me.

Corpus Christi salva me.
Aqua làteris Christi lava me.
Sanguis Christi inebria me.
Cor Christi sana me.
Sudor Vultus Christi vivifica me.
Passio Christi conforta me.
O bone Jesu! Exaudi me.
Intra tua vulnera absconde me.
Ne permittas me separari a Te.
Ab hoste maligno defende me.
In hora mortis meae voca me.
Et jube me venire ad Te.
Et pone me juxta Te.
Ut cum Sanctis et Angelis tuis laudem Te.
In saecula saeculorum. Amen.
In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.
Redemisti me, Domine, Deus veritatis.

Altera deprecatio ad 
SS. Virginem Matrem.
Anima Virginis illumina me. Corpus Virginis custodi me.
Cor Virginis inflamma me. Mater Vultus Christi adjuva me.
Lac Virginis pasce me.
Fletus Virginis purifica me.
Manus Virginis succurre me.
Transitus Virginis laetifica me.
O Maria Sanctissima! intercede pro me.
Tibi in famulum suscipe me.
Ne permittas me separari a Te
Fac me semper confidere in Te.
A malis omnibus protege me.
Et ab insidiis diaboli libera me.
In hora mortis adjuva me.
Et iter mihi para tutum ad Te.
In saecula saeculorum. Amen.
In manus tuas Domina commendo spiritum meum.
Totam vitam meam et diem ultimum meum.
*
AMDG et DVM

martedì 3 gennaio 2023

Lezioni del ...Santo Natale: Il bue e l'asino del presepio

 


"Nel Bambino Gesù si manifesta al massimo l’inermità dell’amore di Dio: Dio viene senza armi, perché non intende conquistare dall’esterno..."


Il bue e l'asino del presepe

A Natale ci auguriamo di cuore che in mezzo a tutta la frenesia del presente questo tempo di festa ci porti in dono un po’ di riflessione e di gioia, di contatto con la bontà del nostro Dio e quindi nuovo coraggio per andare avanti.

All’inizio di una piccola riflessione su quello che la festa ci può dire oggi, un breve sguardo all’origine della celebrazione natalizia può esserci di grande aiuto.

L’anno liturgico della Chiesa innanzitutto non si è sviluppato guardando alla nascita di Cristo, ma dalla fede nella sua risurrezione. Per questo la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma la Pasqua. In effetti solo la risurrezione del Signore ha fondato la fede cristiana e ha così dato origine alla Chiesa.

Per questo già Ignazio di Antiochia (morto al più tardi verso il 117 d.C.) definisce i cristiani come “coloro che non osservano più il sabato, ma vivono secondo il giorno del Signore”: essere cristiani significa vivere in maniera pasquale, in virtù della risurrezione, che viene celebrata settimanalmente nella festa pasquale della domenica.

Il primo ad affermare con certezza che Gesù nacque il 25 dicembre è stato Ippolito di Roma nel suo commento a Daniele, scritto verso il 204; Bo Reicke, già professore di esegesi a Basilea, ha inoltre richiamato l’attenzione sul calendario festivo, secondo il quale nel vangelo di Luca i racconti della nascita del Battista e della nascita di Gesù sono legati fra loro. Se ne potrebbe dedurre che Luca presuppone già nel suo vangelo la data del 25 dicembre come giorno della nascita di Gesù. Allora in quel giorno si celebrava la festa della dedicazione del tempio istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. La data della nascita di Gesù verrebbe allora a simbolizzare che con lui, apparso come luce di Dio nella notte invernale, si realizzava veramente la consacrazione del tempio - l’avvento di Dio su questa terra.


Comunque stiano le cose, la festa del Natale ha assunto una fisionomia chiara nella cristianità solo nel secolo IV, allorché essa prese il posto della festa romana del “Sol invictus” e insegnò a concepire la nascita di Cristo come la vittoria della vera luce; il materiale raccolto da Bo Reicke ha dimostrato che questa trasformazione di una festa pagana in solennità cristiana ha fatto tesoro di un’antica tradizione giudeo-cristiana.


Tuttavia il calore umano particolare, che tanto ci commuove nella festa di Natale fino al punto d’aver sopravanzato nel cuore della cristianità la Pasqua, si è sviluppato soltanto nel Medioevo, allorché Francesco d’Assisi, profondamente innamorato dell’uomo Gesù, del Dio-con-noi, introdusse questo nuovo elemento. Il suo primo biografo, Tommaso da Celano, racconta così nella Vita Seconda: “Più di qualsiasi altra festa Francesco celebrava con una gioia indescrivibile il Natale. Diceva che questa era la festa delle feste, perché in questo giorno Dio è diventato un bambinello e ha succhiato il latte come tutti gli altri bambini.

Abbracciava con tenerezza e trasporto le immagini che rappresentavano Gesù Bambino e pronunciava pieno di compassione parole dolci come i pargoli. Sulle sue labbra il nome di Gesù era dolce come il miele”.

Da questa sensibilità scaturì poi la famosa celebrazione del Natale a Greccio, forse ispirata a Francesco dal suo pellegrinaggio in Terra Santa e al presepio di Santa Maria Maggiore in Roma.

Egli fu spinto dalla sua sete di vicinanza, di realtà, dal suo desiderio di rivivere in maniera quanto mai attuale Betlemme,di sperimentare direttamente la gioia della nascita del Bambino Gesù e di trasmetterla a tutti i suoi amici.

Nella sua prima biografia Celano parla della notte del presepio in un modo che rimane sempre toccante per la gente e che ha dato un contributo decisivo alla diffusione della più bella delle usanze natalizie, quella del presepio.

A buon diritto possiamo dunque dire che la notte di Greccio ha ridonato alla cristianità la festa del Natale, così che il suo messaggio più autentico, il suo particolare calore e la sua umanità, l’umanità del nostro Dio, ha potuto comunicarsi alle anime e donare alla fede una nuova dimensione.

La festa della risurrezione aveva concentrato lo sguardo sulla potenza di Dio che vince la morte e ci insegna a sperare nel mondo che verrà.

Ma ora veniva messo in evidenza l’amore inerme di Dio, la sua umiltà e la sua bontà che si manifesta in questo mondo in mezzo a noi e si propone di insegnarci un nuovo modo di vivere e di amare.

Forse può essere utile fermarci ancora un attimo su questo punto e chiedere: dove si trova questa Greccio, che si è caricata di un significato tanto grande per la storia della fede? Si tratta di una piccola località nella valle retina, in Umbria, situata a non troppa distanza da Roma, a nord est della città. Laghi e montagne hanno conferito a questo paese il suo particolare fascino e la sua silenziosa bellezza, che riesce a commuoverci ancor oggi, tanto più che non è quasi stato toccato dalla confusione del turismo di massa.

Il convento di Greccio, situato a 638 metri di altezza, ha conservato qualcosa della semplicità delle origini; è rimasto modesto, come il paesello ai suoi piedi. La foresta lo circonda come ai tempi del Poverello e ci invita a sostare e a riflettere. Celano ricorda che Francesco aveva una particolare predilezione per gli abitanti di questa località, proprio per la loro povertà e semplicità; egli sarebbe quindi venuto spesso da quelle parti per riposarsi , attratto anche da una cella estremamente povera e isolata , in cui poteva dedicarsi indisturbato alla contemplazione delle cose celesti.


Povertà, semplicità, silenzio dell’uomo e parlare della creazione: erano certo queste le impressioni che per il Santo di Assisi si legavano a questo luogo.


Esso divenne così la sua Betlemme e potè inscrivere nuovamente il mistero di Betlemme nella geografia delle anime.

Ma torniamo al Natale del 1223. Il terreno di Greccio era stato messo a disposizione del Poverello di Assisi da un nobile signore di nome Giovanni che, stando alle parole di Celano, per quanto di alto lignaggio e malgrado la sua posizione elevata, “non annetteva alcuna importanza alla nobiltà del sangue e cercava piuttosto di raggiungere la nobiltà dell’anima”, tanto da meritarsi l’affetto di Francesco.

Orbene, a proposito di questo Giovanni, Celano racconta che in quella notte egli ebbe la grazia di una visione meravigliosa. Vide immobile nella mangiatoia un bambinello, che fu risvegliato dal suo sonno dalla vicinanza di san Francesco. E aggiunge:

“Questa visione corrispondeva realmente a quanto stava avvenendo, perchè fino a quel momento Gesù Bambino era effettivamente caduto nel sonno della dimenticanza in molti cuori. Mediante il suo servo Francesco il suo ricordo venne ravvivato e impresso indelebilmente nella memoria”.

Questo quadro descrive con molta precisione la nuova dimensione, che mediante la sua fede viva e commossa, Francesco conferì alla festa cristiana del Natale: la scoperta della rivelazione di Dio racchiusa precisamente nel Bambino Gesù.

Proprio così Dio è davvero diventato “Emmanuele”, Dio-con-noi, da cui non ci separa alcuna barriera di eccellenza e di lontananza:come bambino si è fatto così vicino che possiamo dargli tranquillamente del tu e accedere direttamente al suo cuore infantile.

Nel Bambino Gesù si manifesta al massimo l’inermità dell’amore di Dio: Dio viene senza armi, perché non intende conquistare dall’esterno, bensì guadagnare e trasformare dall’interno.

Se qualcosa è capace di vincere l’uomo, il suo despotismo, la sua violenza, la sua avidità, questa è l’inermità del bambino. Dio l’ha assunta per vincerci in questo modo e condurci a noi stessi.


Al riguardo non dimentichiamo che il massimo titolo di Gesù Cristo è quello di “Figlio”, di Figlio di Dio; la dignità divina viene indicata con un termine, che presenta Gesù come il bambino perenne. La sua condizione di bambino corrisponde in una maniera unica alla sua divinità, che è la divinità del “Figlio”.


Perciò essa è un’indicazione del modo in cui possiamo pervenire a Dio, alla divinizzazione. In questa luce vanno comprese le sue parole: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3).

Chi non ha compreso il mistero di Natale, non ha compreso la cosa decisiva del cristianesimo. Chi non l’ha accettato, non può entrare nel regno dei cieli.

E’ questo che Francesco volle ricordare alla cristianità del suo tempo e di tutte le epoche successive.

Seguendo le direttive di san Francesco, durante la Santa Notte furono sistemati nella grotta di Greccio un bue e un asino. Egli aveva infatti detto al nobile

Giovanni: “ Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”.

Da allora il bue e l’asino fanno parte di tutti i presepi. Ma donde deriva questa usanza? Com’è noto, i racconti natalizi del Nuovo Testamento non ne fanno parola. Se approfondiamo questa domanda, scopriamo un particolare importante sia per le usanze natalizie, sia per la spiritualità liturgica e popolare natalizia e pasquale della Chiesa.

Il bue e l’asino non sono semplici prodotti della pietà e della fantasia, ma sono diventati ingredienti dell’evento natalizio a motivo della fede della Chiesa nell’unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. In Isaia 1,3 leggiamo infatti: “il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”.


I padri della Chiesa videro in queste parole una profezia che fa riferimento al nuovo popolo di Dio, alla Chiesa composta di giudei e pagani. Davanti a Dio tutti gli uomini, giudei e pagani, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore.

Nelle rappresentazioni medioevali del Natale vediamo come i due animali abbiano quasi volti umani, come si inchinino consapevoli e rispettosi davanti al mistero del Bambino. Ciò era perfettamente logico, perché essi avevano il valore di segno profetico dietro cui si nasconde il mistero della Chiesa, il nostro mistero, secondo il quale noi che di fronte all’eterno siamo buoi e asini, buoi e asini cui nella Notte Santa sono stati aperti gli occhi, si chè ora riconoscono nella mangiatoia il loro Signore.

Ma lo riconosciamo realmente? Quando collochiamo nel presepio il bue e l’asino, dobbiamo rammentarci tutte le parole di Isaia, che non sono solo vangelo – cioè promessa della futura conoscenza -, bensì anche giudizio sull’accecamento attuale. Il bue e l’asino riconoscono, ma “Israele non conosce e il mio popolo non comprende”.

Chi sono oggi il bue e l’asino, chi “il mio popolo” che non comprende? Da che cosa si riconoscono il bue e l’asino, da che cosa si riconosce “il mio popolo”?

Perché mai gli esseri privi di ragione riconoscono e la ragione è ceca?

Per trovare una risposta dobbiamo tornare ancora una volta con i Padri della Chiesa al primo Natale. Chi non riconobbe? Chi riconobbe? E perché ciò si verificò?


Orbene, a non riconoscere fu Erode. Egli non comprese nulla quando gli parlarono del Bambino, anzi, fu ancora più accecato dalla sua sete di potere e dalla conseguente mania di persecuzione(Mt 2,3). A non riconoscere fu “tutta Gerusalemme con lui” (ivi). A non riconoscere furono i dotti, i conoscitori delle Scritture, gli specialisti dell’interpretazione che conoscevano con esattezza il passo biblico giusto e tuttavia non compresero nulla (Mt 2,6).


A riconoscere furono invece “il bue e l’asino” – se paragonati con queste persone rinomate -: i pastori, i magi, Maria e Giuseppe. Poteva mai essere diversamente? Nella stalla, dove è lui, non abitano le persone raffinate, lì sono di casa appunto il bue e l’asino.

E la nostra posizione qual è? Siamo tanto lontani dalla stalla appunto perché siamo troppo raffinati e intelligenti per questo? Non ci perdiamo anche noi in una dotta esegesi biblica, nei tentativi di dimostrare l’inautenticità o l’autenticità storica di un certo passo, al punto da divenire ciechi nei confronti del Bambino e non percepire più nulla di lui? Non viviamo anche noi troppo in “Gerusalemme”, nel palazzo, racchiusi in noi, nella nostra autonomia, nella nostra paura di persecuzione, sì da non riuscire più a percepire di notte la voce degli angeli, unirci ad essa e adorare?

In questa notte i volti del bue e dell’asino ci rivolgono perciò questa domanda: il mio popolo non comprende, comprendi tu la voce del tuo Signore?

Quando collochiamo le statuine nel presepio, dovremmo pregare Dio di concedere al nostro cuore quella semplicità che riconosce nel Bambino il Signore, come fece una volta Francesco a Greccio. Allora potrebbe succedere anche a noi quanto Tommaso da Celano, quasi con le stesse parole di san Luca relative ai pastori del primo Natale (Lc 2,20), dice dei partecipanti alla messa di mezzanotte di Greccio: tutti se ne tornarono a casa pieni di gioia.


Da Joseph Ratzinger, "Immagini di speranza: Le feste cristiane in compagnia del Papa", Edizioni San Paolo 2005 /  publicato da Raffaella /

AMDG et DVM

lunedì 2 gennaio 2023

AKATHISTOS



https://www.youtube.com/watch?v=VaByq4FG52o

Lettere di ALBINO LUCIANI. IN CHE RAZZA DI MONDO... Togliete Dio, cosa resta, cosa diventano gli uomini?

 IN CHE RAZZA DI MONDO...

A Gilbert K. Chesterton

Caro Chesterton,

sul video della televisione italiana è apparso nei passati mesi

padre Brown, imprevedibile prete-poliziotto, creatura tipicamente

tua. Peccato che non siano anche apparsi il professor Lucifero

e il monaco Michele. Li avrei visti volentieri, come tu li

hai descritti ne La sfera e la croce, viaggianti in aeroplano, seduti

l’uno di fronte all’altro, quaresima davanti a carnevale.

Quando l’aereo è sopra la cattedrale di Londra, il professore

scaglia una bestemmia all’indirizzo della croce.

«Sto pensando se questa bestemmia ti giovi – gli dice il monaco

–. Senti questa storia: io ho conosciuto un uomo come te;

anche lui odiava il crocifisso; lo bandì da casa sua, dal collo della

sua donna, perfino dai quadri; diceva che era brutto, simbolo

di barbarie, contrario alla gioia e alla vita. Diventò più furioso

ancora: un giorno s’arrampicò sul campanile di una chiesa, ne

strappò la croce e la scagliò dall’alto.


Andò a finire che questo odio si trasformò in delirio prima e

poi in furiosa pazzia. Una sera d’estate s’era fermato, fumando la

pipa, davanti ad una lunghissima palizzata; non brillava una luce,

non si muoveva una foglia, ma egli credette di vedere la lunga

palizzata tramutata in un esercito di croci, legate l’una all’altra

su per la collina, giù per la valle. Allora, roteando il bastone,

mosse contro la palizzata, come contro una schiera di nemici;

per quanto era lunga la strada, strappò, spezzò, sradicò tutti i

pali che incontrava. Odiava la croce e ogni palo era per lui una

croce. Arrivato a casa, continuò a veder croci dappertutto, pestò

i mobili, appiccò il fuoco e l’indomani lo trovarono cadavere nel

fiume».

A questo punto, il professore Lucifero guarda il vecchio monaco

mordendosi le labbra e dice: «Questa storia te la sei inventata!

». «Sì, risponde Michele, l’ho inventata adesso; ma essa

esprime bene quello che state facendo tu e i tuoi amici increduli.

Voi cominciate con lo spezzare la croce e finite col distruggere il

mondo abitabile».


La conclusione del monaco, che è poi la tua, caro Chesterton,

è giusta. Togliete Dio, cosa resta, cosa diventano gli uomini?

in che razza di mondo ci riduciamo a vivere? «Ma è il mondo

del progresso, senti dire, il mondo del benessere!». Sì, ma questo

famoso progresso non è tutto quel che si sperava: esso porta con

sé anche i missili, le armi batteriologiche e atomiche, l’attuale

processo di inquinamento, tutte cose che, se non si provvede in

tempo, minacciano di portare l’umanità intera a una catastrofe.

In altre parole il progresso con uomini che si amino, ritenendosi

fratelli e figli dell’unico Padre Dio, può essere una cosa

magnifica. Il progresso con uomini che non riconoscono in Dio

un unico Padre, diventa un pericolo continuo: senza un parallelo

processo morale, interiore e personale, esso – quel progresso –

sviluppa, infatti, i più selvaggi fondacci dell’uomo, fa di lui una

macchina posseduta da macchine, un numero maneggiatore di

numeri, «un barbaro in delirio – direbbe Papini – che invece

della clava può servirsi delle immense forze della natura e della

meccanica per soddisfare i suoi istinti predaci, distruttori ed orgiastici».


Lo so: molti pensano a rovescio di te e di me. Pensano che

la religione sia un sogno consolatore: l’avrebbero inventata gli

oppressi, immaginando un altro mondo inesistente, dove trovare

più tardi ciò che oggi rubano loro gli oppressori; l’avrebbero

organizzata, tutta a loro favore, gli oppressori, per tenere ancora

sotto i piedi gli oppressi e addormentare in essi quell’istinto di

classe, che, senza la religione, li spingerebbe alla lotta.

Inutile ricordare che proprio la religione cristiana ha favorito

il risveglio della coscienza proletaria, esaltando i poveri e annunciando

una giustizia futura. «Sì – rispondono – il cristianesimo

risveglia la coscienza dei poveri ma poi li paralizza, predicando

la pazienza e sostituendo alla lotta classista la fiducia in Dio e le

riforme graduali della società!».

Molti pensano anche che Dio e la religione, incanalando

speranze e sforzi verso un paradiso futuro e lontano, alienino

l’uomo, lo distolgano dall’impegnarsi per un paradiso vicino, da

realizzare qui in terra.

Inutile ricordar loro che, secondo il recente Concilio, un

cristiano, proprio perché cristiano, deve sentirsi più che mai impegnato

nel favorire un progresso, che è bene per tutti e una promozione

sociale, che sia di tutti. Resta, dicono, che voi pensate al

progresso per un mondo transitorio, in attesa di un paradiso definitivo,

che non verrà. Noi, il paradiso lo vogliamo qui, sbocco

di tutte le nostre lotte. Di esso già intravediamo il sorgere, mentre

il vostro Dio dai teologi della secolarizzazione viene chiamato

«morto». Noi siamo con Heine, che scrisse: «Senti la campanella?

In ginocchio! Portano gli ultimi sacramenti a Dio che muore!».

Caro Chesterton, tu e io ci mettiamo bensì in ginocchio,

ma davanti a un Dio più attuale che mai. Lui solo, infatti, può

dare una risposta soddisfacente a questi tre problemi, che sono

per tutti i più importanti: «Chi sono io? Donde vengo? Dove

vado?».

Quanto al paradiso, che si godrà sulla terra e sulla terra soltanto,

e in un futuro prossimo a conclusione delle famose «lotte»,

vorrei fosse sentito uno che è più bravo di me e – senza offuscare

i tuoi meriti – anche di te: Dostoevskij.

Tu ricordi il dostoevskijano Ivan Karamazov. È un ateo, pur

amico del diavolo. Ebbene, egli protesta, con tutta la sua veemenza

di ateo, contro un paradiso ottenuto mercé gli sforzi, le

fatiche, i patimenti, il martirio di innumerevoli generazioni. I

nostri posteri felici grazie all’infelicità dei loro antecessori! Questi

antecessori che «lottano» senza ricevere il loro acconto di gioia,

senza, spesso, neppure il conforto d’intravedere il paradiso

uscito dall’inferno che attraversano! Sterminate moltitudini di

piagati, di sacrificati che sono, semplicemente, il terriccio che

serve a far crescere i futuri alberi della vita! È impossibile!, dice

Ivan, sarebbe un’ingiustizia spietata e mostruosa.

E ha ragione.


Il senso di giustizia che è in ogni uomo, di qualunque fede,

esige che il bene fatto, il male sofferto siano premiati, che la

fame di vita in tutti insita sia soddisfatta. Dove e come, se non

in un’altra vita? E da chi se non da Dio? E da quale Dio, se non

da quello, di cui Francesco di Sales scriveva: «Non temete punto

Dio, che non vuole farvi male, ma amatelo molto, perché vi vuol

fare molto bene»?

Quello che molti combattono non è il vero Dio, ma la falsa

idea che di Dio si sono fatta: un Dio che protegga i ricchi, che

solo chieda e pretenda, che sia invidioso del nostro avanzamento

nel benessere, che dall’alto spii continuamente i nostri peccati

per procurarsi il piacere di castigarli!


Caro Chesterton, tu lo sai, Dio non è così: ma giusto e buono 

insieme; padre anche dei figli prodighi, che vuole non meschini

e miseri, ma grandi, liberi, creatori del proprio destino. Il

nostro Dio è talmente poco rivale dell’uomo che l’ha voluto suo

amico, chiamandolo a partecipare alla propria natura divina e

alla propria eterna felicità. E non è vero che Egli pretenda da noi

esageratamente: si contenta invece di poco, perché sa bene che

non abbiamo molto.

Caro Chesterton, io sono convinto con te: questo Dio si farà

conoscere e amare sempre più, da tutti, compresi coloro che oggi

lo respingono non perché siano cattivi (sono forse più buoni di

noi due!), ma perché lo guardano da un punto di vista sbagliato!

Essi continuano a non credere in Lui? E lui risponde: «Sono ben

io che credo in voi!».

Albino Luciani

Giugno 1971


AMDG et DVM