mercoledì 7 dicembre 2022

Pratica e contemplazione, dalla Filocalia

 


Capitoli pratici e contemplativi

d. Filocalia

Qui è un prato pieno di frutti di pratica spirituale e contemplazione.

33. Un tempo, agli antichi era stato ordinato di offrire nel tempio le

primizie dell’aia e del frantoio. 70)Gli otto pensieri di passione o pensieri viziosi, che si

incominciano a classificare con Evagrio, sono i pensieri di golosità, fornicazione, amore del denaro, ira, tristezza,

accidia, vanagloria e superbia. Cfr. Cassiano il Romano, Al vescovo Castore. Gli otto pensieri viziosi, Filocalia I, p.129. ↵

Noi ora dobbiamo offrire a Dio le primizie

della pratica: continenza e verità; e della virtù contemplativa: carità e

preghiera. Con le prime tagliamo gli impeti della concupiscenza irrazionale

e dell’ira; con le seconde, i pensieri vani e le insidie del prossimo.

34. Principio della pratica sono continenza e verità; stato intermedio,

temperanza e umiltà; stato finale di essa, pace dei pensieri e santificazione

del corpo.

35. È pratica, non semplicemente poter fare il bene, ma anche il farlo

come si deve, quando colui che agisce adatta a ciò che fa il tempo e la

misura.

36. È contemplazione, non solo il contemplare le condizioni dei corpi,

ma anche a che cosa tendono le loro ragioni.

37. Non c’è né pratica sicura senza contemplazione né contemplazione

vera senza pratica. Bisogna infatti che la pratica sia razionale e la

contemplazione pratica; affinché, da una parte il vizio si trovi senza forza, e

dall’altra sia forte la virtù nel compiacersi del bene.

38. Termine della vita pratica è la mortificazione delle passioni; fine

della conoscitiva è la contemplazione delle virtù.

39. Come è la materia per la forma, così la pratica per la

contemplazione; e come l’occhio, per il volto, così la contemplazione per la

pratica.

40. Nello stadio della virtù pratica, molti corrono ma uno solo prende il

premio: colui che brama di giungere al suo traguardo con la

contemplazione.

41. Chi è dedito alla pratica beve nella preghiera una bevanda di

compunzione; ma il contemplativo si inebria di un calice eccellente; l’uno,

filosofando sulle realtà naturali, l’altro ignorando anche se stesso nel

pregare.

42. Chi è dedito alla pratica non è disposto a durare a lungo nella

contemplazione spirituale; infatti è come chi ha ricevuto ospitalità da

qualcuno e se ne va in fretta dalla casa di quello.

43. I dediti alla pratica, in forza della preghiera, entrano nelle porte dei

comandamenti di Dio; e i dediti alla contemplazione entrano con inni negli

atri delle virtù. Gli uni rendendo grazie perché sono stati sciolti dalle

catene; gli altri perché hanno anche preso prigionieri quelli che li

combattevano.

44. Bisogna che la forza della contemplazione sia commisurata a quella

della pratica, perché non accada, come a una nave che porta vele

sproporzionate, o di correre pericolo a causa della forza dei venti, quando le

vele sono troppo grandi, o di mancare dell’aiuto dei venti, quando sono

troppo piccole rispetto allo scafo.

45. Intendi i pensieri pii come rematori della nave spirituale; e remi, le

potenze vitali dell’anima: l’irascibile, il concupiscibile, la volontà e la libera

scelta. Chi è dedito alla pratica ne ha sempre bisogno, non sempre, invece,

anche il contemplativo. Costui infatti, nel tempo della preghiera, dato

l’addio a tutti, sedutosi lui stesso al timone del discernimento, durante tutta

la notte veglia in contemplazioni, presentando le sue lodi a Colui che

sostiene l’universo. E, come intonando una canzone d’amore, incanta la

propria anima mentre scruta le onde del mare salato e i suoi moti fragorosi,

stupefatto per i giudizi e le sentenze divine.

46. Chi sta nel mezzo tra pratica e contemplazione, alla maniera dei

marinai non naviga soltanto a remi né con le vele spirituali completamente

spiegate, ma compie quel che occorre per una buona navigazione con

ambedue i mezzi: portando volentieri sia le fatiche della pratica, perché

moderata dalla contemplazione, sia le ragioni della contemplazione

imperfetta, poiché è aiutato dalla pratica.

47. Chi è dedito alla contemplazione e ha la natura in accordo con la

volontà, naviga senza fatica come su una corrente; chi è dedito alla pratica e

trova che il suo modo di vivere contrasta con la scelta che ha fatto, sottostà

a molta tempesta di pensieri, e poco manca che corra il pericolo di cadere,

per il peso, nella riprovazione.

48. Né la terra che non sia stata ben lavorata dà seme copioso e puro al

seminatore; né chi persegue la pratica, se non lo fa con cura e senza

ostentazione, vedrà venire dalla preghiera un frutto abbondante e puro.

49. La mente che porta le orme di una preghiera incessante è come una

terra frequentemente battuta. Quella terra diverrà piana e potrà essere

toccata da piedi delicati, e quell’anima diverrà retta e luogo di preghiera

pura.

50. Nelle cose materiali, l’intelletto avrà come cooperatore il pensiero;

ma in quelle immateriali, se non lo allontana con la preghiera, avrà come un

aculeo a schiaffeggiarlo.

51. Colui che è dedito alla pratica, durante la preghiera ha un velo sul

cuore: la scienza delle cose sensibili, che per le sue relazioni non può essere

tolto. Solo il contemplativo, perché è privo di tali relazioni, può vedere, a

volto scoperto, in modo parziale, la gloria di Dio.

52. La preghiera unita alla contemplazione spirituale è la terra promessa

in cui scorre latte e miele, cioè la conoscenza delle ragioni divine sulla

provvidenza e il giudizio. La preghiera unita a qualcosa di naturale è

l’Egitto, in cui agli oranti viene il ricordo delle crasse concupiscenze, e la

preghiera semplice è la manna del deserto, che per la sua uniformità

preclude a quelli che non la tollerano i beni che nascono dal desiderio delle

promesse. Ma a coloro che perseverano a nutrirsi di questo cibo parco, esso

offre il gusto migliore e che rimane.

53. La pratica unita alla contemplazione sarà considerata come corpo

che ha lo spirito come principio direttivo; senza la contemplazione, come

carne, con spirito che si determina per libera scelta.

54. Atrio dell’anima razionale è la percezione sensibile; tempio, la

mente; sacerdote, l’intelletto. Nell’atrio sta l’intelletto impedito da pensieri

inopportuni; nel tempio, l’intelletto impedito da pensieri opportuni; da

nessuno di questi pensieri è saccheggiato l’intelletto fatto degno di entrare

nel sacrario divino.

55. Lamentazioni, canto lugubre e guai, per la fatica, si trovano nella

casa dell’anima pratica; voci di esultanza e di confessione, per la

conoscenza, si odono nella casa dell’anima contemplativa.

56. L’uomo della pratica, a causa delle fatiche, brama di levar l’ancora

ed essere con Cristo; il contemplativo si compiace piuttosto di rimanere

nella carne, sia per la gioia che riceve dalla preghiera sia per l’utilità del

prossimo che le si aggiunge.

57. La contemplazione precede la pratica in coloro che sono più dotati

di ragione e la pratica precede la contemplazione in coloro che sono più

rozzi; ma ambedue sfociano a un unico termine buono. Tuttavia esso si

mostrerà più presto a coloro nei quali la contemplazione precede la pratica.

58. La contemplazione delle realtà spirituali è un paradiso; in esso entra

il contemplativo, durante la preghiera, come dentro la propria casa. Il

pratico, invece, apparirà come un passante che brama affacciarvisi, ma non

gli è permesso dalla siepe che supera la sua statura spirituale.

59. Le passioni del corpo sono simili a fiere, quelle dell’anima a uccelli.

L’uomo della pratica caccia le une dalla vigna razionale, ma non ancora gli

uccelli, se prima non giunga alla contemplazione spirituale, quantunque

abbia certo grande zelo nella custodia delle cose interiori.

60. Il pratico non potrà andare al di là della bellezza morale se anche

lui, come il patriarca Abramo, non esce dalla legge naturale come dalla

propria terra; e dalla vita di relazione che essa comporta, come dal proprio

parentado. Così, infatti, anche costui riceverà come sigillo la spogliazione

dal piacere carnale che, come velo, ci avvolge dalla nascita e non permette

che ci venga accordata la completa libertà.

61. Né il puledro, in primavera, sopporta di rimanere a mangiare dalla

mangiatoia nella stalla; né l’intelletto iniziato da poco può durare a lungo

nello spazio ristretto della preghiera, giudicando più piacevole - come

quello - uscire verso l’ampiezza della contemplazione naturale, che si trova

nella salmodia e nella lettura.

62. La pratica ha come i fianchi cinti dal digiuno e dalla veglia che ne

sono le potenze vivificanti; la virtù contemplativa sta ritta avendo, come

lampade ardenti, il silenzio e la preghiera, sue potenze conoscitive. La

pratica ha il pensiero come pedagogo al digiuno e alla veglia; la

contemplazione ha la ragione intima come paraninfo per il silenzio e la

preghiera.

63. A un intelletto imperfetto non è consentito di entrare nella vigna

ricca di frutti, della preghiera; ma solo ai semplici echi dei salmi, come un

povero ai racimoli.

64. Come non tutti quelli che vanno a un colloquio col re possono

pranzare con lui; così neppure tutti quelli che hanno la felice sorte di

giungere alla preghiera, appariranno essere nella preghiera contemplativa.

65. Il silenzio al momento opportuno è freno all’ira; il cibo moderato,

alla concupiscenza irrazionale; la preghiera monologica,71 al pensiero

irrefrenabile.

66. Sia colui che entra nel profondo del mare per cogliervi una perla

sensibile, sia chi entra in quello della conoscenza per cogliervi la perla

spirituale, se non si spogliano - quello delle vesti e questo della percezione

sensibile - non raggiungeranno, né l’uno né l’altro, quello che cercano.

67. L’intelletto che nel pregare giunge nell’intimo della mente si troverà

come lo sposo che conversa con la sposa nel talamo; ma quello a cui non è

consentito entrare, stando fuori grida nel suo lamento: Chi mi condurrà alla

città fortificata? o chi mi guiderà fino a non guardare alle vanità e alle

ingannevoli follie, nella preghiera?

68. Come il cibo senza sale per la gola, così la preghiera che viene

all’intelletto senza compunzione.

69. L’anima che insegue ancora la preghiera assomiglia a una

partoriente in travaglio; quella che l’ha afferrata, a una donna che ha

concepito ed è piena di gioia per il figlio.

70. Un tempo, l’amorreo che abitava sulla montagna veniva incontro a

ferire quelli che erano costretti a passare per il suo territorio; ora, il cattivo

oblio insegue coloro che prima della santificazione intraprendono l’ascesa

alla più alta preghiera della semplicità.

71. I demoni hanno naturalmente grande inimicizia per la preghiera

pura, ma ciò che li atterrisce non è la quantità dei salmi, come un esercito

coi nemici esteriori, bensì l’accordo delle tre cose: dell’intelletto con la

ragione e della ragione con la percezione sensibile.

72. La semplice preghiera apparirà agli oranti come pane che corrobora,

e quella unita a una certa contemplazione, come olio che impingua; quella

poi con assenza di forme, come vino profumato: chi si riempie

insaziabilmente di esso, esce di sé.

73. È detto che l’asino selvatico se ne ride delle moltitudini della città e

che l’unicorno non può essere legato da nessuno; così l’intelletto che

domina i pensieri naturali e contro natura se ne ride dei pensieri di vanità,

mentre prega, e non può essere dominato da nessuna delle cose che sono

soggette alla percezione sensibile.

74. Chi agita un bastone davanti ai cani li eccita contro di sé; così fa coi

demoni, chi si sforza di pregare con purezza.

75. Bisogna che chi lotta, restringa a un nutrimento uniforme la sua

percezione sensibile, e l’intelletto alla preghiera monologica. Infatti,

divenuto, così, indomabile dai piaceri, durante la preghiera giungerà anche

a essere rapito presso il Signore.

76. Per i voluttuosi, che quando pregano sono come luoghi melmosi, i

pensieri che li distraggono sono come rane; per i moderati, invece, le

contemplazioni sono come usignoli che li dilettano col vagare da un ramo

all’altro, cioè passando per svariate contemplazioni. Ma per gli impassibili

c’è il silenzio e molta tranquillità di pensieri e di concetti, nella preghiera.

77. Anticamente, Maria sorella di Mosè, quando ebbe visto i nemici

sconfitti, preso il timpano, guidava le donne che cantavano l’inno di

vittoria; ora, invece, a elogio dell’anima che ha vinto le passioni, alzatasi la

più eccellente delle virtù, la carità, maneggiando, come la cetra

accompagnata dal canto, la contemplazione già conseguita con fatica, per

aumentare ancor più la bellezza dell’anima, non cessa con le sue compagne

di lodare Dio nell’esultanza.

78. Quando per la continuità della preghiera, vengono trattenute, nel

cuore di chi prega, le parole dei salmi, allora anche la terra stessa del cuore,

poiché è buona, incomincia a produrre spontaneamente: come rose, la

contemplazione degli incorporei; come gigli, le luminosità dei corpi; come

viole, la varietà inconoscibile dei giudizi divini.

79. La fiamma imprigionata nella materia è portatrice di luce; ma

l’anima sciolta dalla materia è portatrice di Dio. Quella è naturale che si

innalzi finché trova materia da bruciare; questa fino alla perfezione

dell’amore divino.

80. L’anima che ha rinnegato compiutamente se stessa ed è interamente

tesa in alto alla preghiera, trovandosi al di sopra della creazione, non

ridiscende quando vuole; ma quando sembrerà giusto a Colui che governa

le nostre cose con peso e misura.

81. Quando sia stata respinta l’accidia dall’anima e la cattiveria sia stata

scossa via dalla mente, allora l’intelletto, fatto nudo per la semplicità e per

la vita senza artifici e senza il velo della vergogna, canta un canto anch’esso

nuovo a Dio. E intona un canto nella gioia, rendendo grazie nel celebrare la

festa della dedicazione della vita futura.

82. Quando l’anima che prega incomincia a essere mossa verso

operazioni più divine, allora anch’essa, come la sposa del Cantico, grida in

risposta alle sue compagne tali parole: Il mio diletto ha messo la sua mano

allo spiraglio e il mio ventre si è turbato per lui.

83. Il soldato congedato dalla guerra si spoglia del peso delle armi, e il

pratico, giungendo alla contemplazione, si spoglia dei pensieri. Infatti, né

quello ha bisogno delle armi se non in guerra, né questo dei pensieri, se non

dà spazio a ciò che è sensibile.

84. Quelli della pratica contemplano i corpi nella loro costituzione, i

contemplativi nella loro natura; solo gli gnostici vedono le ragioni di

ambedue le cose.

85. Nelle ragioni dei corpi, si conoscono gli incorporei, e nelle ragioni

degli incorporei, il Verbo sovrasostanziale, per giungere al quale ogni anima

virtuosa brama di levare l’ancora.

86. Le ragioni degli incorporei sono come ossa ricoperte agli occhi

sensibili, e non le vede nessuno di quelli che non sono usciti

dall’attaccamento alle realtà sensibili.

87. Lasciata la guerra, il soldato depone le armi; e il contemplativo i

pensieri, levando l’ancora verso il Signore.

88. Cade nello scoraggiamento il generale che manca il bottino in

guerra; così il pratico, nella preghiera, se non raccoglie la contemplazione

spirituale.

89. La cerva morsa da una fiera corre alle fonti corporee delle acque;

ma l’anima ferita dalla dolcissima freccia della preghiera, corre ai raggi

incorporei.

90. Né l’occhio corporeo può vedere il chicco di grano se questo non sia

denudato della guaina; né l’intelletto pratico può vedere la sua propria

natura, se esso non sia denudato delle relazioni che lo avvolgono.

91. Le stelle si nascondono al sorgere del sole, e i pensieri vengono

meno quando l’intelletto si rivolge di nuovo al proprio regno.

92. Al termine della pratica, le contemplazioni spirituali, circonfuso

l’intelletto, come raggi del sole che spuntano all’orizzonte, sembrano

irrompere dal di fuori di esso, mentre gli appartengono e lo abbracciano per

la sua purezza.

93. Anche l’intelletto contemplativo quando, piegatosi per necessità

della natura scende dall’alto del cielo, può proferire parole simili a quelle di

colui che ha gridato: Che cosa c’è di più mirabile della bellezza divina? E

quale pensiero è più amabile di quello della magnificenza di Dio? E quale

desiderio così acuto e incontenibile, come quello che da Dio si avvicina

all’anima purificata da ogni vizio e che con tutta se stessa dice: Ferita

d‘amore sono io?

94. Dire: Il mio cuore si è riscaldato dentro di me, e nella mia

meditazione si accenderà un fuoco è proprio di colui che non si stanca a

inseguire Dio con la preghiera e che, non desidera vedere neppure un giorno

dell’uomo.

95. Anche l’anima pratica, dopo che avrà deposto i vizi, ai maligni

demoni e pensieri che ancora la vogliono costringere a volgersi verso le

vanità e le ingannevoli follie, dice come la sposa del Cantico: Mi sono tolta

la veste, e come la rimetterò? Mi sono lavata i piedi, come li sporcherò di

nuovo?

96. È dell’anima amante di Dio osare dire a Dio: Dimmi, o buon

pastore, dove pascoli le tue pecore e dove fai riposare i tuoi agnelli a

mezzogiorno? Affinché seguendoli io non sia come circondata dai greggi

dei tuoi compagni.

97. L’anima pratica che cerca di afferrare la ragione della preghiera e

non riesce grida anch’essa come la sposa dei Cantici: Sul mio letto, la notte,

ho cercato colui che ho amato; l’ho cercato e non l’ho trovato, l’ho

chiamato e non mi ha ascoltato; mi alzerò mediante una preghiera più

laboriosa e, in giro per la città, nelle vie e nelle piazze cercherò colui che ho

amato, forse si farà trovare da me colui che è in questo universo e fuori

dell’universo; e sarò saziata all’apparirmi della sua gloria

98. Quando l’anima incomincia a essere tutta in lacrime per la gioia

della preghiera, allora anch’essa piena di audacia, come la sposa al suo

sposo, grida: scenda il mio diletto nel suo giardino e mangi la faticata

consolazione delle mie lacrime, come frutti.

99. Quando l’anima pratica incomincia ad ammirare il Creatore per la

grandezza e la bellezza delle creature e a deliziarsi del piacere che viene da

queste, anch’essa, attonita, grida queste cose: come sei bello, sposo,

paradiso del Padre tuo; o fiore della pianura e suo cedro che è come i cedri

del Libano! Ho desiderato sedermi alla sua ombra e il suo frutto è parso

dolce al mio palato.

100. Se colui che riceve dei re nel suo palazzo viene trovato persona

illustre e ammirata e piena di ogni gioia, quanto più l’anima che riceve il re

dei re nel suo purificarsi, secondo la promessa di lui, che non mente. Ma

una tale anima deve mettersi al sicuro con grandissima pietà, gettando fuori

tutto ciò che le appaia non contribuire al suo riposo, e introducendo tutto

ciò che gli è gradito.

101. Colui che si aspetta di essere chiamato dal re il giorno dopo, di che

cosa altro potrà curarsi, se non di meditare le parole che gli saranno gradite?

L’anima che si comporterà così non apparirà impreparata al tribunale di là.

102. Beata l’anima che, attendendo oggi l’arrivo del suo Signore,

considera nulla tutta la fatica del giorno e quella della notte, perché egli

subito, la mattina presto, comparirà.

103. Dio vede tutti, ma vedono Dio quelli che non considerano nulla

mentre pregano; e quanti vedono Dio sono anche esauditi da lui, ma quanti

non sono esauditi, neppure lo vedono. Beato chi crede di essere veduto da

Dio: poiché non sarà scosso il suo piede privo del suo gradimento.

104. I beni del regno che è dentro di noi, quelli che l’occhio bramoso di

cose belle non vide, e l’orecchio bramoso di onore non udì, e in un cuore

vuoto di Spirito santo non salirono, sono caparre dei beni che saranno dati

ai giusti, nel regno futuro, da Dio. E chi non si delizia di questi beni, che

sono i frutti dello Spirito, non può giungere al godimento dei beni futuri.

105. I pensieri dei pratici sono simili alle cerve. Come, infatti, quelle

sono ora in alto, sui monti, per paura dei cacciatori, ora in basso, nelle valli,

per il desiderio di ciò che vi si trova, così anche costoro: non possono

sempre essere nella contemplazione spirituale, per la loro pochezza; né

sempre in quella naturale, per il fatto che non perseguono sempre il riposo. I

pensieri dei contemplativi, invece, se ne restano incuranti delle

considerazioni terrestri.

106. Gocce di rugiada inebriano i solchi della terra, e gemiti che stillano

dal cuore le disposizioni dell’anima in preghiera.

107. Nessuno è capace di vedere la divinità che si considera nella

Trinità, se non apparirà più alto della dualità materiale e dell’unità che le

appartiene; ma non potrà diventarne più alto se non avrà unificato il proprio

intelletto nelle realtà che considera.

108. Non si troverà tanto difficile trattenere il corso del fiume, perché

non travolga tutto sotto di sé, quanto arrestare la foga dell’intelletto perché

non si disperda nelle realtà visibili e invece si concentri sulle cose dell’alto,

familiari a chi prega, quando lo si voglia. E ciò, nonostante che questa

operazione sia secondo natura e quella contro natura.

109. Coloro che sono puri, quando portano il proprio intelletto fra le

realtà che vedono, si riempiono di tanto stupore e sono riempiti di tanta

gioia, che non possono contenere nient’altro di terrestre, neppure se tutte le

cose desiderabili affluissero verso di loro.

110. Sono sufficienti anche solo i pascoli cosiddetti naturali, per fare

provare grande meraviglia; ma i prati dell’intelletto si trovano fioriti e

stillano da fiori puri la dolcezza del magnifico convito spirituale, come da

nettare del cielo.

111. Sui fiori rugiadosi dei prati, le api stanno intorno alla regina dello

sciame; ma all’anima incessantemente compunta stanno intorno

familiarmente le potenze spirituali, faticando con essa per farle conseguire

ciò che desidera.

112. Nel cosmo visibile l’uomo appare a sua volta come un cosmo. Nel

mondo intelligibile, tale appare il pensiero. L’uomo è araldo del cielo, della

terra e delle realtà fra cielo e terra. Il pensiero è interprete dell’intelletto,

della percezione sensibile e delle cose con essa percepite. Senza l’uomo e

senza l’intelletto ambedue i mondi sarebbero senza voce.

113. Il prigioniero, rilasciato dopo molto tempo, non se ne va con tanta

gioia come l’intelletto liberato dagli affetti cammina con piede esultante

verso le realtà celesti, ormai sue.

114. Da chi non prega con attenzione, ma dissipato, il salmo viene

giudicato barbaro; ed egli barbaro, dal salmo; ma ambedue, pazzi furiosi dai

demoni.

115. Non sono la stessa cosa coloro per cui il mondo è crocifisso e

coloro che sono crocifissi al mondo; per gli uni, infatti, sono chiodi il

digiuno e la veglia; per gli altri, la povertà e il disprezzo. Senza queste due

cose, le fatiche dei primi sono vane.

116. Nessuno che sia posseduto dalla passione della brama di cose belle

e della brama di onore può pregare con purezza. Infatti, poiché a queste

cose sono di solito uniti affetti e pensieri di vanità, essi divengono funi che

lo avvolgono e, nel tempo della preghiera, trascinano l’intelletto come un

uccello legato che tenta di volare.

117. È impossibile che sia in pace, nel tempo della preghiera, l’intelletto

che non si è fatta amica continenza e carità. L’una, infatti, lotta per

abbattere l’inimicizia del corpo verso l’anima, e l’altra, quella verso il

prossimo, per Dio. Perciò la pace che supera ogni intelletto è promesso che

verrà e che prenderà dimora in colui che è così pacificato.

118. È necessario che chi lotta per entrare nel regno di Dio faccia

abbondare nel bene l’opera della sua giustizia: nelle elemosine, offrendo

dalla sua indigenza; nelle fatiche per la pace, rispondendo con la pazienza

nel Signore.

119. Né chi possiede poca virtù, per la negligenza, né chi ne ha troppa,

per la presunzione, sarà trovato nel porto della impassibilità. Infatti, né

l’uno né l’altro è giunto al godimento dei beni che vengono dalla giustizia,

che si trova in mezzo fra il difetto e l’eccesso.

120. Come la terra non può fare ricco l’agricoltore se gli rende il puro

seme, o anche con una piccola aggiunta, ma non glielo dona moltiplicato,

così il pratico: ciò che compie non può renderlo giusto se il suo zelo verso

Dio non sia trovato superiore a ciò che si era proposto.

121. Né tutti quelli che non amano il prossimo lo odiano; né tutti quelli

che non lo odiano lo amano. E una cosa è invidiarne il progresso, altra il

non essergli di impedimento per il progresso. Ma l’estremo grado della

malizia sta in ciò: che non solo ci si roda per i suoi successi, ma anche che

si calunnino le sue opere buone, come se non fossero tali.

122. Altre sono le passioni del corpo, altre quelle dell’anima. Altre

quelle secondo natura, altre quelle contro natura. Colui che respinge le une

e non è previdente riguardo alle altre è simile a un uomo che costruisce una

siepe alta e fitta contro le fiere, ma si compiace che gli uccelli mangino i

grappoli della vite razionale, di fatto lasciandoli in mostra.

123. L’anima perviene innanzitutto a fantasticare il male, poi a

desiderarlo, quindi a goderne o a rattristarsene, cioè a percepirlo in modo

sensibile: in seguito, ad esserne ferita in modo manifesto o nascosto. Tutte

queste fasi sono accompagnate dai pensieri, eccetto il primo moto: se

questo non viene accolto, non potrà darsi in seguito alcun male.

124. Coloro che sono vicini all’impassibilità sono toccati dalle sole

fantasie; quelli che sono moderati nelle passioni, giungono fino al desiderio,

mentre a percepire sensibilmente il male giungono coloro che abusano delle

cose necessarie, ma poi se ne rattristano; ad esserne feriti, coloro che

convivono con esse senza rattristarsene.

125. Il piacere ha sede in tutte le membra del corpo, ma non a tutte si

mostra molesto allo stesso modo. In alcuni lo è più contro la parte

concupiscibile dell’anima, in altri contro quella irascibile, e in altri contro la

parte razionale di essa, mediante la golosità, l’irascibilità e la malizia, causa

di tutte le nefande passioni.

126. È necessario aprire i sensi come le porte della città: è necessario

cioè non permettere, nell’aprirli per le cose necessarie, che entrino insieme

anche le genti che vogliono le guerre e procurano occasioni di lotta.

127. La voluttà è madre della concupiscenza, l’irascibilità dell’ira, e la

malizia dell’invidia. Non vive in pace riguardo a tali passioni, colui che non

lotta contro quelle che le generano; né può entrare nel porto della

moderazione nelle passioni chi segue i comandamenti per costrizione.

128. Coloro che respingono gli assalti non permettono che i pensieri

entrino come fiere dentro la vigna razionale e si diano a devastarla. Quelli

invece che si intrattengono con essi, ma non si compiacciono, permettono

che entrino semplicemente senza però toccarne alcun frutto. Ma quelli che

conversano volentieri con le passioni mediante i pensieri, senza pervenire

tuttavia al consenso, è come se avessero lasciato entrare il cinghiale dentro

il campo per la siepe e non volessero poi permettergli di saziarsi dei

grappoli della vite: poi si accorgono che è più forte di loro, quando

giungono spesso a consentire alle passioni.

129. Non è pervenuto ancora alla semplicità chi ancora ha bisogno di

provvedersi della siepe della continenza. Infatti si dice che non il perfetto

esercita la continenza, ma chi ancora lotta. Il quale è simile a chi ha una

vigna o un campo in mezzo a molte altre vigne o campi, ma a parte, e

perciò ha bisogno di molta custodia e sobrietà.

Infatti, è assolutamente intoccabile la vigna di chi è pervenuto alla

semplicità, come la vigna di un re o di un altro potente terribile, che, anche

solo all’udirne incute terrore a ladri e passanti che tentassero di entrarvi.

130. Molti salgono sulla croce della sofferenza, ma pochi accettano

anche di esservi inchiodati: molti infatti si assoggettano a fatiche e afflizioni

volontarie; ma a quelle che vengono senza la propria scelta, sono soggetti

solamente coloro che sono morti perfettamente a questo mondo e al suo

riposo.

131. Molti hanno svestito le vesti di pelli, ma l’ultima, quella della

vanagloria, solo coloro che hanno avuto in abominio la compiacenza per se

stessi, che ne è madre.

132. Chi riceve gloria degli uomini e riposo del corpo ma non li accetta,

denudatosi dell’ultima veste, quella della vanagloria, è perciò fatto degno di

rivestire lo splendore dell’abitazione celeste, ricercata tra molti gemiti.

133. Altra cosa è l’operazione e altra l’operato. Questo è l’indice del

peccato consumato; quella, solamente del piacere unito alla passione che

opera interiormente e non all’esterno. Accogliendo tale piacere si è come

quelli che pur non essendo stati cacciati dalla loro terra, tuttavia pagano ai

dominatori in tributo ciò che quelli vogliono.

134. Quando ha forza il gusto nei piaceri, è impossibile che anche tutti

gli altri sensi non lo seguano insieme, anche se le parti sotto il ventre

sembrino restare in pace, nei più freddi, come quelle dei vecchi che per

l’indebolimento non si infiammano; ma non sarà giudicata casta un’adultera

sterile, per il fatto che non genera. Diremo invece casto chiunque non è

interiormente mosso dalla passione e non è sedotto da ciò che vede.

135. La parte concupiscibile dell’anima dà prova della sua qualità nei

cibi, nelle forme, nei suoni, siano seducenti siano d’altro genere. Nella

conoscenza, nella vista, nell’udito; sia che usi di queste cose, sia che ne

abusi, sia che si trovi in una posizione intermedia rispetto ai due

comportamenti.

136. Dove non precede il timore, i pensieri si troveranno nella

confusione, come pecore senza pastore. Se invece esso segue o precede,

saranno in bell’ordine, e dentro il recinto del buon pascolo.

137. Il timore è figlio della fede ed è pastore dei precetti. Chi non ha

acquistato la madre del timore, non sarà fatto degno di apparire come

pecora del pascolo del Signore.

138. Alcuni possiedono solo gli inizi delle virtù, altri anche il loro grado

medio e altri, le loro perfezioni. Senza queste, ciascuno sarà come un

soldato semplice o come un ufficiale senza rifornimenti; perciò, l’uno

sorveglierà solamente la propria casa da coloro che volessero assalirla;

l’altro non godrà dell’onore conveniente, fra i suoi compagni di grado.

139. Coloro che ci esortano a consentire ai piaceri della gola, quando

siamo ancora imperfetti, fanno come quelli che spingono a tagliare di nuovo

le ferite giunte ormai a guarigione, o a grattare la scabbia per provarne

piacere, o a mangiare cibi che eccitano la febbre, o a recintare di siepi la

propria vigna e permettere che vi entri come cinghiale selvaggio il

sentimento della carne e divori come grappoli d’uva i buoni pensieri. A

costoro non bisogna dar retta né piegarsi alle lusinghe inopportune degli

uomini e delle passioni; ma piuttosto fortificare la siepe con la continenza,

finché le fiere, cioè le passioni carnali, non cessino di ruggire, e perché non

scendano, come uccelli, i pensieri vani a devastare la vigna dell’anima,

feconda delle contemplazioni nel Cristo Gesù Signore nostro. Al quale, la

gloria nei secoli. Amen.

AMDG et DVM

Esorcismo della Medaglia di San Benedetto

 ESORCISMO DELLA MEDAGLIA DI SAN BENEDETTO


I miracoli ottenuti invocando presso Dio l’intercessione di San Benedetto sono innumerevoli. Si attribuisce alla medaglia che porta il suo nome, ovviamente se debitamente benedetta da un prete, sia che la si tenga addosso, sia che si applichi sulle parti malate, sia che si beva l’acqua nella quale sia stata immersa, effetti prodigiosi contro le insidie del demonio, di aiuto nei pericoli e contro le malattie degli animali domestici.

Ogni lettera dell’iscrizione presente sulla medaglia è parte integrante di un potente esorcismo.

Spiegazione delle iniziali presenti sulla Medaglia di San Benedetto:

C. S. P. B. Crux Sancti Patris Benedecti Croce del Santo Padre Benedetto

C. S. S. M. L. Crux Sacra Sit Mihi Lux Croce sacra sii la mia Luce

N. D. S. M. D. Non draco sit mihi dux Che il dragone non sia il mio duce

V. R. S. Vade Retro satana Allontanati satana!

N. S. M. V. Non Suade Mihi Vana Non mi persuaderai di cose vane

S. M. Q. L. Sunt Mala Quae Libas Ciò che mi offri è cattivo

I. V. B. Ipsa Venena Bibas Bevi tu stesso i tuoi veleni

 ESORCISMO :                     (Al segno + ci si fa il segno della croce)

+ In nomine Patris, et Filii et Spiritui Sancto :  Croce del Santo Padre Benedetto. Croce Santa sii la mia Luce e non sia mai il dragone mio duce. Va indietro satana! Non mi persuaderai di cose vane. Sono mali le cose che mi offri, bevi tu stesso il tuo veleno. Nel Nome del Padre  del Figlio e dello Spirito Santo +. Amen!

Ricorda : L’esorcismo può essere compiuto solo se si è in grazia di Dio; ovvero se ci si è confessati e non si è già caduti in peccato mortale. L’esorcismo può essere praticato anche da un semplice laico, purché sia fatto solamente come Preghiera Privata e non solenne.

AVE MARIA PURISSIMA!

Oranti di strada: Esorcismo di S. Benedetto patrono degli esorcisti

Oranti di strada: Esorcismo di S. Benedetto patrono degli esorcisti: Origine della Medaglia o Croce di S. Benedetto Le origini della Medaglia di S. Benedetto sono antichissime. Papa Benedetto XIV ne ideò...

martedì 6 dicembre 2022

Coloro che pascono le pecore di Cristo ....


 Dai «Trattati su Giovanni» di sant’Agostino, vescovo

(Tratt. 123, 5; CCL 36, 678-680)
La forza dell’amore vinca l’orrore della morte
   Prima il Signore domanda, e non una volta, ma due e tre volte, quello che già sapeva, se Pietro lo amava; e per tre volte si sente ripetere da Pietro che lo ama; e per tre volte fa a Pietro la stessa raccomandazione, di pascere le sue pecore.
   Così alla triplice negazione che Pietro pronunziò un tempo, fa riscontro ora la triplice dichiarazione del suo amore, in modo che la lingua non serva all’amore meno di quanto servì alla paura e non sembri avergli fatto dire più parole la temuta morte che la vita presente. Sia dunque impegno dell’amore pascere il gregge del Signore, se il rinnegare il Pastore era stato indizio di paura.
   Coloro che pascono le pecore di Cristo con l’intenzione di condizionarle a se stessi e di non considerarle di Cristo, dimostrano di amare non Cristo, ma se stessi, spinti come sono dalla cupidigia di gloria o di potere o di guadagno, non dall’amore di obbedire, di aiutare, di piacere a Dio. Costoro, cui l’Apostolo rimprovera di cercare il proprio interesse e non quello di Cristo, devono essere messi in guardia dalle parole che Cristo ripete con insistenza: Mi ami? Pasci le mie pecore (cfr. Gv 21, 17), che significano: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, e pascile come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua, il mio dominio, non il tuo, il mio guadagno, non il tuo, se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai «tempi difficili», di quelli cioè che amano se stessi con tutto quello che deriva da questo amore di sé, sorgente di ogni male.
   Coloro, dunque, che pascono le pecore di Cristo, non amino se stessi, per non pascerle come loro proprie ma come di Cristo. Il male che più di ogni altro devono evitare quelli che pascono le pecore di Cristo è quello di ricercare i propri interessi invece di quelli di Gesù Cristo, asservendo alle loro brame coloro per cui fu versato il sangue di lui.
   Colui che pasce le pecore di Cristo deve crescere nell’amore di lui al punto che l’ardore dello spirito vinca anche quel timore naturale della morte, per cui non vogliamo morire anche quando vogliamo vivere con Cristo. Ma per quanto grande sia l’orrore della morte lo deve far vincere la forza dell’amore per colui che, essendo la nostra vita, ha voluto per noi sopportare anche la morte.
   Del resto se la morte comportasse poca o nessuna sofferenza, non sarebbe grande com’è la gloria dei martiri. Se il buon Pastore che diede la sua vita per le sue pecore suscitò tra esse tanti martiri, quanto più debbono lottare per la verità contro il peccato fino alla morte, fino al sangue, coloro ai quali egli affidò le sue stesse pecore da pascere, cioè da formare e guidare. Davanti all’esempio della passione di Cristo non è chi non veda che i pastori devono stringersi maggiormente vicino al Pastore imitandolo, proprio perché già tante pecore seguirono l’esempio di lui: dietro a lui, unico Pastore, anche i pastori sono pecore in un unico gregge. Tutti ha reso pecore sue egli che per tutti accettò di patire, e, al fine di patire per tutti, si è fatto lui stesso agnello.
AVE MARIA!

Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.

 

Papa Ratzinger certifica il Concilio. Quello vero

Nel discorso prenatalizio alla curia romana, Benedetto XVI fa a pezzi il mito del Vaticano II come rottura e nuovo inizio. Alla giusta interpretazione del Concilio dà un altro nome: “riforma”. E spiega perché

di Sandro Magister




ROMA, 23 dicembre 2005 – La grande attesa su quello che avrebbe detto a proposito del Concilio Vaticano II – nel quarantesimo anniversario della sua conclusione – Benedetto XVI l’ha esaudita in due tempi.

Il primo tempo è stato giovedì 8 dicembre, festa dell’Immacolata.

Il secondo tempo è stato giovedì 22 dicembre, nel tradizionale incontro del papa con la curia vaticana per lo scambio degli auguri di Natale.

L’omelia dell’Immacolata è stato il prologo.

Il discorso alla curia lo svolgimento.

Nell’omelia dell’8 dicembre papa Joseph Ratzinger ha concentrato l’attenzione su “la struttura interiore” del Concilio Vaticano II. E ha indicato proprio in Maria Immacolata “l’orientamento del suo intero cammino” e “la chiave per la sua comprensione”:

“[Maria] illumina la struttura interiore dell'insegnamento sulla Chiesa sviluppato nel Concilio. Il Vaticano II doveva esprimersi sulle componenti istituzionali della Chiesa: sui Vescovi e sul Pontefice, sui sacerdoti, i laici e i religiosi nella loro comunione e nelle loro relazioni; doveva descrivere la Chiesa in cammino, ‘che comprende nel suo seno peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione’ (Lumen gentium, 8). Ma questo aspetto ‘petrino’ della Chiesa è incluso in quello ‘mariano’. In Maria, l'Immacolata, incontriamo l'essenza della Chiesa in modo non deformato”.

Nel discorso alla curia del 22 dicembre, invece, Benedetto XVI è entrato nel pieno della questione più controversa. Si è chiesto:

“Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?”.

E ha risposto:

“I problemi sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti”.

La prima interpretazione l’ha chiamata “ermeneutica della discontinuità e della rottura”. La seconda “ermeneutica della riforma”.

Contro la prima ha svolto una critica a fondo. Mentre della seconda ha illustrato le ragioni di validità.

In particolare, ha messo a fuoco il senso autentico di quel “passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come ‘apertura verso il mondo’ [e] appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione”.

Un rapporto che oggi “è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi”.

Ecco qui di seguito la parte del discorso alla curia del 22 dicembre che Benedetto XVI ha dedicato al Concilio Vaticano II.

È un testo capitale per l’interpretazione non solo del Concilio, ma dell’attuale pontificato:



”Due ermeneutiche contrarie hanno litigato tra loro...”

di Benedetto XVI



[...] L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale memoria suscita la domanda: qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?

Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea. Egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524). Non vogliamo applicare proprio questa descrizione drammatica alla situazione del dopoconcilio, ma qualcosa tuttavia di quanto avvenuto vi si riflette. Emerge la domanda: perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?

Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.

I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti.

Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”. Essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna.

Dall'altra parte c'è l'”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato. È un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito.

In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965.

Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).

È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.

Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna.

Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la pura ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’”ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna.

Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che senza riserva facevano professione di un proprio metodo in cui Dio non aveva accesso, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.

Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande, che ora, nell'ora del Vaticano II, attendevano una risposta.

Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato.

In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione.

Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

Sono tutti temi di grande portata – erano i grandi temi della seconda parte del Concilio – su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione.

È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma.

In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole.

Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare.

Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza.

Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento.

Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa.

Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza.

Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve necessariamente impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8).

Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’”apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente.

Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un “segno di contraddizione” (Lc 2,34) – non senza motivo papa Giovanni Paolo II, ancora da cardinale, aveva dato questo titolo agli esercizi spirituali predicati nel 1976 a papa Paolo VI e alla curia romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza.

Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme.

La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio.

Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.

La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento.

Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa. [...]


__________


Il testo integrale del discorso di Benedetto XVI alla curia romana del 22 dicembre 2005, nel sito del Vaticano:

> “Signori cardinali, venerati fratelli nell’episcopato...”

E la sua omelia dell’8 dicembre:

https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20051208_anniv-vat-council.html

AMDG et DVM