giovedì 14 luglio 2022

Piccola biografia di don Guido Bortoluzzi

 


BIOGRAFIA DI DON GUIDO

Un’infanzia difficile

Don Guido Bortoluzzi nei pressi di Farra d’Alpago, Belluno Il 7 ottobre del 1907 veniva alla luce a Puos d’Alpago, poco lontano dal lago di S. Croce in provincia di Belluno, nel nord del Veneto, il piccolo Guido, terzogenito di Osvaldo Bortoluzzi che, dopo essere rimasto vedovo con la nascita del primo figlio, aveva sposato in seconde nozze Ancilla Mocellin. Entrambi i genitori erano maestri elementari. Dal primo matrimonio il padre aveva avuto Giuseppe, otto anni più grande di Guido, che morì ancora adolescente. Dalla seconda moglie ebbe altri tre figli: prima Gino, nato nel 1906, poi Guido, nato nel 1907 e infine Giulio, nato nel 1910. La vita di Guido è stata segnata fin dai primi momenti da difficoltà: la madre non aveva latte e a quei tempi il latte artificiale non c’era ancora. La nonna paterna Caterina si diede da fare e trovò a 7 km di distanza una buona contadina che aveva appena perduto il suo bambino ed era disposta a prendere a balia il piccolo. Aveva latte buono e tanto amore materno. Così nonna Caterina mise il neonato in una gerla di vimini e s’incamminò a piedi su per la montagna. Tra le braccia della balia Guido succhierà, insieme al latte, amore e cure. Sarà questo uno dei rari periodi di serenità della sua infanzia. Ad un anno, un mese e un giorno la balia lo riporterà a casa ancora con la gerla dalla quale il piccino, lungo la strada, faceva eco alle preghiere che la donna recitava a voce alta rispondendo ad ogni litania: “Oa po nobis”. Dopo poco la famiglia si trasferì a Farra d’Alpago dove con un mutuo i genitori avevano comprato una piccola e vecchia casa. L’ambiente era freddo in tutti i sensi. Fra i genitori non c’era armonia. La madre ‘siora Ancilla’, o semplicemente ‘la maestra’, come tutti la chiamavano, era brava, energica e temuta insegnante, ma dura e parziale con marito e figli. Il marito, appassionato cacciatore, si rifugiava sempre più spesso nelle battute di caccia pur di stare lontano da casa. Sovente si fermava a dormire nei cascinali, incurante del maltempo. Fu così che s’ammalò di tubercolosi, malattia che lo portò alla morte nel 1911 poco dopo la nascita del quarto figlio. Uomo impulsivo, collerico, scontento, era la sofferenza della vecchia nonna Caterina che non riuscì con le sue premure a farlo riaccostare ai Sacramenti neanche quand’egli si trovò in fin di vita. Lo ottenne il piccolo Guido. Si legge in una pagina autobiografica: Quella santa donna carismatica che fu mia nonna paterna mi predisse fin da quando avevo quasi quattro anni che da grande sarei stato prete e sarei stato contento di sapere che il papà prima di morire aveva fatto pace con Dio. Era gravemente malato e aveva espresso il desiderio di vedere i suoi tre figlioletti prima di morire. Abitavamo a 8 km di distanza e ci andammo in carrozza. Non potevamo baciarlo in faccia perché c’era pericolo di TBC. La mamma si fermò da lui in camera; noi, piccoli, fummo invitati dalla nonna a rimanere fuori, nel corridoio. Qui la nonna chiamò vicino a sè il più grande, di 5 anni. Voleva incaricarlo di una missione, ma egli scappò via. Chiamò me e disse: – Hai visto il papà com’è patito! Morirà presto e non lo vedrai più. – E piangeva. – Poveri piccoli! Ha patito tanto, sai, e patirà ancora di più dopo morto perché ha detto tante e tante bestemmie. Ma tu vuoi bene al tuo papà, vero? Tu puoi salvarlo dai patimenti dell’inferno dopo la morte. – E mi spiegò in breve cos’è l’inferno. – Va dentro e digli che chiami il prete e che faccia pace con Dio. – Entrai e dissi: – Papà, ti voglio bene; non voglio che tu vada a patire anche all’inferno. – – Reazione violenta: – È stata quella stupida di tua nonna a dirti queste cose? – E giù ingiurie e bestemmie. Scappai fuori e dissi alla nonna: – È cattivo, non torno da lui. – Lei invece mi convinse a ritornare. Mi promise che avrebbe pregato lo Spirito Santo e la Madonna perché gli facessero capire l’importanza e l’urgenza del messaggio. Mentre mi scostavo da lei disse: – Povero innocente, perché sei così piccolo non ti crederà. Ma ti seguo con la preghiera. – Arrivato al capezzale del malato, dissi subito: – Papà, tu non mi credi perché sono piccolo, ma io so, sai, quello che dico. Quando sarò grande sarò prete e sarò contento di sapere che, prima di morire, hai fatto pace con Dio. – – Io sono sempre in pace con Dio. – – Eh no, papà. Ti ho sentito dire bestemmie e parolacce alla nonna. – Da quanto è che gli insegni la lezione? – chiese alla mamma. – Non gli ho mai parlato di queste cose. – Erano circa due anni che egli viveva dai nonni e ignorava i miei progressi nel parlare. Egli mi guardò fisso per alcuni istanti, poi disse: – Vieni qua, che ti dò un bacio. – Nonna e mamma intervennero: – No! È troppo pericoloso! – – Lasciatemi quest’ultima soddisfazione prima di morire. – Devo dire che mentre parlavo col papà la nonna usciva in molte esclamazioni: – Caro da Dio! È lo Spirito Santo che gli fa dire queste cose. Ascoltalo figlio mio, è tuo sangue. – Un anno dopo la nonna venne a trovarci a Farra. Si mostrò buona con me. – Tu hai salvato tuo padre – disse – e salverai ancora molte anime. – La nonna in quell’occasione gli portò un giochino. Quando partì, la mamma prese il gioco per darlo a Giulio, il più piccolo, che lo ruppe subito. Dopo la morte della nonna Guido non ebbe più nemmeno il soldino che ella donava ai nipotini nelle feste. Orfano di padre e con la morte della nonna, la sua vita divenne ancor più triste. La madre aveva per lui un astio incontrollabile e una predilezione speciale per il piccolo Giulio che era il più bello ed il più gracilino dei quattro maschi. Guido invece era un bambino forte, che cresceva bene. Forse per questo a tavola, nella povera cucina, doveva sedersi sempre nel posto più esposto agli spifferi che entravano dalle fessure della finestra. Negli inverni freddi l’aria gelida che gli arrivava dritta alle spalle diventava un tormento. Fino alla quinta elementare non ebbe neppure un letto normale e fu costretto a dormire raggomitolato in un lettino con le sponde che gli impedivano di allungare le gambe. Come i suoi fratelli, doveva andare a turno a prendere l’acqua alla fontana, portare al primo piano la legna e fare ogni genere di servizi, come quello di salire a prendere il latte alla malga Pèterle che distava più d’un’ora di cammino, dove in estate alpeggiavano le mucche della valle. Scrive don Guido: “Ebbi un’infanzia e una fanciullezza senza i giochi e gli spassi di quell’età per dover accudire alle faccende di casa, ma con la gioia di andare in chiesa alle funzioni e a cantare”.

La sua precoce vocazione diventa una promessa

Fu appunto durante una di queste escursioni per andare a prendere il latte quando, all’età di dieci anni, gli accadde un fatto che rafforzò la sua decisione di offrire tutto se stesso alla Madonna e al Signore e diventare prete: la Madonna lo aveva miracolosamente salvato dal pericolo di cadere in un precipizio. Riprendo un’altra pagina autobiografica. Ero arrivato alle Casere Pèterle, in cima alla valle Runàl, a prendere il solito latte da Giovanna Mira quando mancava poco più di un’ora al tramonto. In breve il sole fu oscurato dalle nubi e cominciò a piovere. Nella speranza che cessasse, mi fermai. Ma, visto che continuava, mi decisi di ripartire. Mi diedero una vecchia giacca per coprirmi le spalle. Calzavo un paio di scarpette di pezza. Dovevo risparmiare le ‘dàlmade1’ dai danni dei ciottoli che coprivano la strada ripida, ma i danni li sentivano le mie caviglie. Mi sconsigliarono di prendere la scorciatoia per i prati del Col Salèr ai Lastrìn, ma, giunto al bivio coi piedi dolenti, preferii eventuali scivolate sul prato ai sassi che mi rotolavano sotto i piedi. Si fece buio presto e non sapevo a che punto dovevo girare a sinistra per ritornare sulla strada. La pioggia sempre più fitta ad ogni nuovo lampo e tuono faceva scorrere l’acqua sotto i miei piedi. Lunghi scivoloni mi avevano portato troppo a destra dove sotto c’era il burrone profondo e il torrente che rumoreggiava minaccioso. Ad ogni scivolone mi adagiavo sul fianco per aderire di più al suolo ripido e per poter piantare le dita della mano libera sul terreno e così trattenermi. Con l’altra tenevo il manico del vaso del latte che era da cinque litri, ma ne conteneva uno soltanto, non avendone trovato uno più piccolo. Un terrore inesprimibile mi invase quando mi sentii scivolare per una decina di metri fin dove sentivo direttamente il fragore del torrente sottostante. Mi adagiai supino annaspando intorno senza trovare alcun appiglio. L’acqua piovana scorreva sotto la mia schiena. La vecchia giacca che mi era stata data era inzuppata e pesante e mi era sfuggita dalle spalle. Terrorizzato invocai la Madonna. In cima alla valle c’è Irighe col suo Santuario, mèta di pellegrinaggi. A Lei rinnovai il mio proposito di consacrarmi al Signore. Non osavo muovermi perché ogni piccolo movimento mi faceva scivolare. Mi vedevo con la fantasia ormai morto sfracellato laggiù e immaginavo come il dì seguente mi avrebbero cercato e raccolto in pezzi. Invocavo un po’ di luce, urlando fortemente. Proprio sopra di me guizzarono successivamente tre lampi e vidi la mia posizione. Riuscii a raccogliere la giacca, ma non il berretto nuovo al quale ero affezionato per la piccola aquila dorata che era stata cucita sul davanti. Fatti alcuni passi prudenti verso la strada, mi ritrovai di fronte ad un profondo crepaccio. Non potevo saltarlo e non trovavo, nel buio, il modo di aggirarlo. Disperato urlai ancora: – Madonna Santissima, aiutatemi ancora. Fate che trovi la via d’uscita. – Fui molto contento di vedere ancora un lampo e poi un secondo. Così riuscii a portarmi in salvo. Il berretto fu trovato, su mie indicazioni, da mio fratello maggiore il giorno seguente, in cui toccava a lui, di turno, recarsi alle Casere Pèterle, a prendere il solito litro di latte.

La visione dell’apparizione della Madonna ai tre pastorelli a Fatima, il 13 ottobre 1917, avuta da don Guido a 10 anni

Biografia don Guido, Fatima
Una foto del santuario di Fatima in Portogallo
Di lì a poco ci fu un altro episodio che vagamente si ricollega a quello precedente per via di quel famoso berretto e che ricorderà da adulto con molta commozione in un altro brano autobiografico. C’è un rapporto misterioso tra una visione che ho avuto il 13 ottobre 1917 all’età di dieci anni e il fatto straordinario accaduto lo stesso giorno a Fatima in Portogallo. Quel giorno mi trovavo a giocare a nascondino con un amico in una stalla vuota di animali, presso casa mia. Egli mi tolse il berretto, lo gettò sul selciato e vi buttò sopra una bracciata di foglie secche tolte da un grande mucchio addossato alla parete, sfidandomi di trovarlo entro lo spazio di un’Ave Maria. – Adesso trova il tuo berretto – disse. – Lo troverò – risposi – a costo di passare le foglie ad una manciata alla volta. – Trovato il berretto, toccò a me nasconderlo. A turno egli si voltò dalla parte opposta, mentre nascondevo il berretto sotto un mucchio più grande di foglie. Il gioco continuò con sfida alterna. Ad un nuovo turno mio, il berretto si trovò sotto un mucchio di foglie alto quanto la mia statura. La campana suonò l’Ave Maria di mezzodì e l’amico scappò via. Introducendo il braccio tra il fogliame, non riuscivo più a pescare nel fondo il berretto come le altre volte. Non si trovava più al centro della base del cumulo. Dovetti adattarmi a prendere una bracciata alla volta di quelle foglie e riportarle nel mucchio grande. Quel berretto, comprato qualche mese prima per me, mi aveva recato una grande gioia quando mi venne regalato da mamma. Portava sul davanti, sopra il frontino, un’aquila di metallo dorato con le ali aperte, ma era stato ridotto ad un cencio durante il furioso temporale di qualche giorno prima, quando lo perdetti in montagna e rischiai di perdere insieme anche la vita. Faticai quel mezzodì del 13 ottobre a trovare il berretto nascosto per gioco e intanto meditavo sul terrore di quella sera, delle mie grida di aiuto alla Madonna, sul miracolo dei lampi che mi salvarono, e sulla mia promessa… Quando ritrovai il berretto, ebbi d’improvviso la visione che la Madonna stava apparendo a dei bambini grandi più o meno come me e vidi che stava compiendo un miracolo. Temendo d’esser creduto un visionario, tenni il segreto per me. In casa chiesi a mamma se era successo qualcosa di importante nel mondo. Andò a prendere il giornale. Nulla. Il dì seguente mi disse che tutti i giornali parlavano di Fatima e dei tre fanciulli. Molte volte, guardando quel berretto che ancora conservo, penso a quella visione… Nel frattempo era venuta la guerra e con essa la fame. Dopo che l’affezionatissima nonna era morta, i due figli più piccoli, Guido e Giulio, vennero mandati a Tambre d’Alpago, paese di origine dei genitori, da uno zio che faceva il contadino, perché lo aiutassero in campagna e nella stalla in cambio di un piatto sicuro. Giulio fu riportato a casa dopo poco tempo perché era sempre in lacrime per la nostalgia. Guido invece rimase lì, salvo brevi intervalli, per quasi tre anni, ben voluto e ben nutrito. Tornò a casa più forte e più sano. Nemmeno questa lunga assenza fu sufficiente a fargli recuperare l’affetto della madre che in quel periodo aveva visto solo tre volte nonostante la sua casa distasse appena 8 km da quella dello zio: forse assomigliava troppo a sua nonna Caterina che lei non sopportava. Il Cappellano di Farra lo notò per la sua bontà e correttezza e, benché appena dodicenne, gli affidò l’incarico di catechista ad una trentina di compagni in vista della Prima Comunione. Gli impartì anche i primi elementi di latino. Di lì “…l’invito del parroco ad entrare in Seminario, poi la Cresima, l’abbraccio del Vescovo Cattarossi, gli studi…”. Nel 1920 partì per Feltre, dove il Seminario aveva solo le classi inferiori. Furono anni duri, in cui patì il freddo e la fame. Vi furono reclami da parte di seminaristi e genitori e, dopo successivi controlli della Curia Vescovile di Belluno, le cose andarono meglio. Nel Seminario di Feltre ebbe le prime due predizioni riguardanti le future “rivelazioni che avrebbe ricevuto da anziano dal Signore sulla Genesi Biblica”. La terza la ebbe nel Seminario di Belluno e l’ultima quando già era Cappellano a Dont, piccolo paesino della Val Zoldana. Prima però accadde un fatto strano che lasciò perplesso don Guido: “Padre Anselmo e Padre Emidio, francescani venuti da lontano, dopo aver predicato una grande missione al mio paese nel 1921, vennero a cercarmi al Santuario di San Vittore, vicino a Feltre, dove mi trovavo a passeggio con i miei compagni di Seminario, e insistettero perché andassi con loro per farmi frate”. Proposero al giovane Guido una borsa di studio che comprendeva l’intera retta per tutti gli anni del Seminario: vitto, alloggio, libri, tasse scolastiche e la promessa della consacrazione anticipata di un anno rispetto alla data prevista dai corsi regolari e quindi la possibilità di celebrare la Messa dodici mesi prima. Insistettero a lungo e con tanta benevolenza. Guido, allora quattordicenne, ne fu entusiasta perché provava una grande fiducia per questi Padri. Tornato in Seminario, corse nello studio del Rettore per comunicargli la notizia. Ma questi gli disse in modo perentorio che, se anche fosse uscito solo per prova, non avrebbe più rimesso piede nel Seminario di Feltre. Gli ricordò i grandi sforzi economici fatti dalla sua famiglia e la riconoscenza che egli doveva ai suoi parenti e ai Superiori e si fece promettere che avrebbe declinato l’invito. Guido passò un giorno e una notte in grande angoscia, combattuto dal desiderio di seguire i padri francescani e la promessa fatta al Rettore e finì per rinunciare. “Dissi ai Frati che la loro divisa non mi piaceva e che la decisione era troppo impegnativa”. Ripensando a quest’episodio non riusciva a capire come mai fossero venuti da così lontano per fare solo a lui questa proposta, dal momento che nel Seminario e nella sua stessa classe c’erano alunni molto più intelligenti e preparati di lui. Infatti, nei suoi studi non brillava per profitto. Per questo non si spiegava come qualcuno potesse aver interesse a lui. Più tardi pensò che il motivo di tanta insistenza dei due Frati fosse dovuto alla loro conoscenza di cose future che prudentemente non avevano voluto rivelare. Con l’età gli rimase il rimpianto e il dubbio che quell’opportunità gliel’avesse mandata il Signore. L’anno seguente accadde un fatto ancor più singolare: da alcune parole profetiche di un santo Sacerdote venne a sapere che Dio lo aveva scelto come strumento per spiegare all’umanità alcuni passi oscuri della Bibbia. Sentiamo quanto egli stesso scrive.

1922: prima predizione, di San Giovanni Calabria, del progetto di Dio su don Guido

Biografia: San Giovanni CalabriaNel 1922, mentre ero in Seminario a Feltre, ebbi una predizione di don Giovanni Calabria. Accadde questo fatto: con i miei compagni di classe ritornavamo dal cortile alla sala di studio attigua alla stanza del Rettore. Il Rettore era davanti alla sua porta e parlava con un Sacerdote forestiero. Appena entrati, ci raggiunse lasciando l’uscio aperto e disse che quel Sacerdote era don Giovanni Calabria, fondatore della Casa dei Buoni Fanciulli di Verona, un carismatico come don Bosco, e che, guardandoci entrare, gli aveva detto che uno di noi, diventato anziano, avrebbe scritto un libro molto importante e che avrebbe dovuto scriverlo presto. Solo io, fra i dodici compagni, chiesi: – Lo saprà quell’uno di noi, l’interessato, che il suo libro è molto importante? – Dal corridoio mi giunse la voce di don Calabria: – Sì, lo saprà. È proprio lui. – – Su quale argomento? – replicai. – Vado a domandarglielo – rispose il Rettore. Il Rettore uscì e parlò con don Calabria. Rientrato disse che l’interessato lo avrebbe saputo e che riguardava la Bibbia, la Genesi biblica. Poi chiese: – Chi ha fatto quella domanda? – Tacqui nel timore di aver commesso un’impertinenza. Ripeté l’interrogazione. Un compagno disse il mio nome. C’era un mio omonimo. Uno m’indicò col dito. Egli mi guardò, poi guardò tra i banchi il mio omonimo che era il più bravo della classe. E poiché dell’altro don Giovanni Calabria aveva predetto che avrebbe cambiato strada, disse: – Ho capito. So io quale dei due. – Quello divenne il beniamino; io, secondo il Rettore, ero quello che avrebbe cambiato strada. Accadde il contrario. Il Rettore pagò d’allora in poi per ‘l’omonimo’ la retta di tasca sua. E poiché don Calabria aveva predetto che ‘l’altro’ sarebbe uscito dal Seminario, il chierico Guido fu trattato in seguito con molta freddezza e sufficienza.

1928: seconda predizione, di Padre Matteo Crawley

Biografia: padre Matteo CrawleyFinito il ginnasio a Feltre, il giovane Guido si trasferì, con altri Seminaristi della provincia, al Seminario di Belluno dove vi erano solo le classi superiori. Passarono gli anni e Guido crebbe meditando sempre le parole di don Calabria nel suo cuore. Leggiamo ancora quello che accadde poi: Nel 1928, all’inizio del secondo anno di teologia, Padre Matteo Crawley tenne un ritiro per tutti i chierici e predisse a ciascuno, senza nominarlo ma fissandolo negli occhi, il suo avvenire. Fra gli altri ricordo che disse di uno, intelligente e buono, che sarebbe salito ai più alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Dai brevi connotati, molti capirono, compreso egli stesso, che si riferiva ad Albino Luciani che allora faceva la prima o la seconda liceo. Poi, dopo una breve pausa, soggiunse: “Ooooh..! Ahimè..! Ma durerà poco!”. Guardò anche me e disse, fissandomi negli occhi, che uno di noi avrebbe ricevuto una rivelazione sui punti oscuri della Genesi Biblica. Descrisse in breve la mia vita dicendomi che avrei avuto molto da soffrire, anche per l’incomprensione dei miei confratelli e dei miei Superiori. Non avevo più dubbi: il Signore, malgrado le mie molte insufficienze, mi guidava al Suo scopo. Padre Matteo Crawley gli preannunciò anche che avrebbe subìto un furto. A quale furto si riferisse non lo seppe mai. Solo in vecchiaia pensò che si fosse trattato del dizionario dei toponimi che egli aveva composto con grande fatica e che gli fu sottratto dalla sua casa di Farra. Però questo vago annuncio gli diede fin da allora non poca inquietudine. Per questo divenne un tantino sospettoso e diffidente con il prossimo. Il suo voler sapere sempre il come e il perché delle cose, aveva dato al giovane Guido fama di contestatore e per gli insegnanti era un alunno scomodo. In un esame, presieduto dal Vescovo Cattarossi, si presentò la solita situazione di prevenzione dell’esaminatore che, posta la domanda al giovane Guido, cominciò a parlare senza dargli la possibilità di aprir bocca, nonostante egli cercasse con la mano di interromperlo per esporre egli stesso. Il professore fece per accomiatarlo e propose un voto sufficiente, ma basso. Il Vescovo intervenne: – Ora voglio sentire lui, gli faccia un’altra domanda. – E Guido, libero questa volta di parlare, espose bene e diffusamente l’argomento. Il Vescovo propose un nove. Fecero media, e gli venne dato otto. Guido ne fu molto incoraggiato perché comprese d’essere stimato dal suo Vescovo.

1932: terza predizione, di mons. Gaetano Masi

Vi fu tuttavia fra i suoi Superiori chi lo considerava e lo vedeva con gli occhi del Signore. Nel gennaio del 1932, mentre erano in corso gli Esercizi spirituali agli ordinandi Sacerdoti, mons. Gaetano Masi, Padre spirituale dei seminaristi, concluse con questa espressione: – E quando il Signore si degnerà manifestare a uno di voi – guardando diritto al chierico Guido – il mistero del peccato originale, ringraziateLo, perché solo per mezzo della conoscenza della vera essenza del peccato originale potranno essere compresi il mistero e l’economia della Redenzione. – La consapevolezza della sua missione maturava così, lentamente, nel suo animo, nella riservatezza, modestia e umiltà, col cuore pieno d’attesa e di riconoscente abbandono nella serena disposizione di accettare la Volontà di Dio tutta intera. Ma i dolori non gli furono risparmiati neanche il giorno della sua Consacrazione, il 31 gennaio 1932, giorno che egli attendeva con molta emozione insieme ad altri sei consacrandi. Era felice e compreso della grandezza di quanto stava compiendosi. Arrivò il suo turno e il Rettore disse al Vescovo Cattarossi: – Ecco il contestatore! – Il Vescovo, che lo stimava, ne fu palesemente addolorato. Il giovane Guido gli disse sottovoce: – Non si rattristi! – Il Vescovo capì e gli sorrise. Quella festa che doveva esser un tripudio di gioia fu invece sciupata dalla tristezza. Tuttavia in cuor suo era certo, certissimo, della sua vocazione, consapevole già allora che stava portando la croce con Gesù. Il 2 febbraio del 1932 celebrò la sua prima Messa. Questa data fu ricordata da lui negli anni come la più importante della sua vita e ad ogni anniversario era preso da grande commozione.

Don Guido Sacerdote

Don Guido fu subito mandato cappellano a Fusine, frazione di Zoldo Alto in provincia di Belluno, dove rimase fino al 1934 quando fu nominato Parroco a Dont, frazione di Forno di Zoldo, a pochi chilometri di distanza dalla sede precedente. Vi rimase dieci anni, dando tutto se stesso ai suoi parrocchiani e al restauro della chiesa che aveva urgente bisogno di un tetto nuovo e di altri interventi di manutenzione.

Quarta predizione, di Teresa Neumann

Biografia: Teresa NeumannDon Guido ebbe anche un altro incontro significativo che può aggiungersi alle predizioni avute in Seminario: fu la visita di Teresa Neumann che venne appositamente dalla Germania fino a Dont per conoscerlo. Egli ne aveva già sentito parlare, ed aveva anche acquistato un paio di libri che parlavano di lei. Ma quando ella si presentò alla porta della sua canonica, a piedi, vestita con modestia e con un fazzoletto in testa, lì per lì non la riconobbe. Infatti, al suo saluto in tedesco, don Guido le chiese, sempre in tedesco, chi fosse e come mai fosse arrivata fin lassù. Ella si presentò e soggiunse che “desiderava conoscere l’uomo sul quale Dio aveva grandi progetti di Misericordia”. Certamente Teresa Neumann alludeva all’intera umanità. Don Guido invece pensò che la Misericordia fosse rivolta a lui e, sentendosi gran peccatore, rispose: – Preferirei non provocare la Sua Giustizia. – Ella sorrise e gli disse: – Quando il Signore le parlerà scriva tutto, proprio tutto! Il Signore le vuole molto bene. – E, dopo una breve pausa, aggiunse: – Lei avrà molto da soffrire. – Egli le offrì da mangiare. Teresa declinò l’invito: non volle nemmeno un uovo a bere. A quel tempo ella viveva unicamente d’Eucarestia, ma non lo disse. Gli chiese solo un posto per la notte. Don Guido, però, volendo obbedire al Vescovo che aveva emanato una circolare nella quale si ordinava di non ospitare nessuno nelle canoniche per la notte, specialmente donne, le disse che non poteva e la invitò a proseguire per altri 3 o 4 km dove il Parroco di Fusine poteva ospitarla in una piccola foresteria distaccata dalla canonica. Ella vi andò e vi pernottò. Il mattino seguente accadde un fatto strano. Don Guido stava celebrando la S. Messa. Poco prima della Comunione, mentre diceva “Agnus Dei qui tollis peccata mundi…”, la Particola che teneva tra le dita improvvisamente scomparve. Lui e le donne della prima fila la cercarono ovunque, inutilmente. Tutti furono testimoni di quella sparizione e nessuno capì. L’indomani don Guido incontrò il parroco di Fusine presso cui era stata ospite Teresa Neumann e gli chiese se era venuta da lui una donna. Egli rispose di sì ed aggiunse che non gli era piaciuta perché gli aveva fatto dei rimproveri. Disse anche che, durante la Messa, le aveva chiesto se volesse fare la Comunione ed ella gli aveva risposto che l’aveva già fatta. Il Parroco di Fusine aggiunse d’averla guardata commiserandola poiché non si era mossa di lì. Don Guido però capì. Si dice che Teresa Neumann non sia mai uscita dal Reich. Che fosse venuta a Dont in bilocazione? Don Guido non seppe dare una risposta a questo interrogativo.

Don Guido, Curato a Casso

(in provincia di Pordenone, ma nella diocesi di Belluno) Nel 1945 fu mandato Curato a Casso, un paesino che si trova sopra la diga del Vajont, ai confini della provincia di Belluno con quella di Pordenone, cioè tra il Veneto e il Friuli Venezia Giulia. Al tempo della Repubblica Veneta, Casso era stato per secoli un luogo di confino, un bagno penale della Serenissima, dove venivano mandati i detenuti politici e comuni, le prostitute, gli indesiderabili di ogni provenienza e gli ex-galeotti dàlmati che non potevano più esser impiegati come rematori sulle galere. I confinati non potevano uscire dal limite territoriale ben picchettato e sorvegliato dai soldati della Repubblica. Dentro questi limiti potevano fare ciò che volevano, anche giustizia personale. Gente difficile, dunque, di un paese povero, poverissimo, dove si allevavano i cinghiali al posto dei maiali, dove le case non erano intonacate, dove talvolta famiglie di due o tre generazioni vivevano in un’unica stanza e dove poteva accadere che ragazzine di dodici anni partorissero figli illegittimi, talvolta frutto di incesti. In questo contesto don Guido ebbe molto da lavorare e ovviamente gli fu opposta molta resistenza. La sua sincerità dal pulpito gli procurò non pochi nemici. Molti furono gli attentati alla sua vita, ma nessuno riuscì. Ne ricordo uno. In una notte piuttosto buia gli fu teso un tranello. Fu invitato ad uscire dalla canonica col falso pretesto di un’Estrema Unzione. Ignaro del pericolo che lo attendeva, si avviò passando per un vicolo stretto tra un alto muro e una casa. All’improvviso vide un’ombra scura e minacciosa sul muro. Fece un passo indietro e una figura alta, forte, pesante, balzò giù con un impeto tale che sbatté la testa con un botto sordo contro la casa. L’attentatore cadde svenuto e rimase in coma per alcuni giorni. Il destinatario dell’impatto doveva essere don Guido. L’indomani la gente scrutava il Curato incredula e sorpresa chiedendosi quale stella mai lo avesse protetto. Segno che era stata una piccola congiura. Durante la sua esistenza don Guido subì ventitré attentati, in ognuno dei quali rischiò di perdere la vita. Da questo si può capire quanto grande fosse il progetto che Dio aveva su di lui e quanto lo amasse per dargli tanta protezione. La parrocchia, per quanto turbolenta, era piccola, per cui a don Guido restava molto tempo per studiare. Risparmiando in ogni spesa, cominciò ad acquistare libri e pubblicazioni che parlavano della comparsa dell’uomo sulla Terra e delle scoperte scientifiche riguardo all’evoluzione. Dedicava tutto il tempo libero alle sue ricerche.

1945: la visione della catastrofe del Vajont, che avverrà nel 1963

Biografia: La valle del VajontIl fatto che il Signore abbia fatto vedere a don Guido la catastrofe in stretta sequenza logica con quella infelice e blasfema processione ci spinge a credere che fra i due eventi ci fosse un nesso per far capire a noi uomini come un nostro comportamento irrispettoso possa alienarci la protezione di Dio. Dio non castiga: Dio, quando viene respinto, solamente si astiene dalla Sua protezione nel rispetto della libertà che ha dato all’uomo. Don Guido tuttavia ripeteva: “È improprio chiamarlo castigo di Dio perché Dio non è vendicativo. Non è Dio che manda i castighi, anche se questo è il termine che usa la Bibbia per far intendere che tra due fatti c’è un nesso di causa-effetto. Il castigo ce lo diamo noi stessi perché è la naturale conseguenza dell’allontanamento dalla protezione di Dio. Purtroppo in questi casi vengono coinvolti degli innocenti. Ma la colpa non è di Dio. Anzi, stiamone certi, Dio è vicino alle vittime innocenti e spiritualmente le sostiene. Dio ha a cuore la salvezza di tutti, quella eterna. Inoltre, la parte più pesante della sofferenza, specialmente quella degli innocenti, la porta Lui stesso. Certo è che se il Signore mal sopporta che Lo si bestemmi, non permette che s’insulti la Vergine Immacolata!”. Ovviamente il cedimento del Monte Toc era già in corso da mesi. È chiaro che non si può attribuire a Dio l’improvviso franamento perché è un fatto naturale. La protezione di Dio non evita le calamità naturali, ma può evitare che si assommino gli errori umani e, in particolare, che le persone arrivino alla conclusione della loro vita impreparate. Al tempo della sciagura del Vajont, avvenuta nella tarda serata del 9 ottobre del 1963, don Guido da dieci anni era partito da Casso ed erano passati diciott’anni dalla visione. Molti avevano dimenticato la sua profezia ed erano andati incontro alla morte.



La celebrazione della S. Messa con San Pio da Pietrelcina

Biografia: Padre Pio
Una foto di San Pio da Pietrelcina che dice la S. Messa
Partito da Casso nel lontano 1953, si ritirò a Farra per due anni accanto alla mamma anziana e malata che nel frattempo era rimasta sola perché l’altro figlio, Giulio, si era sposato. Fu durante questo periodo che si recò a San Giovanni Rotondo per incontrare Padre Pio. Al suo arrivo provò dapprima una delusione: il Frate, che ormai da anni attirava in quel luogo numerosi pellegrini, lo fece attendere per quattro giorni prima di riceverlo. Quando ormai era deciso a rinunciare all’incontro e a ritornarsene a casa, fu avvicinato spontaneamente da Padre Pio che lo invitò per l’indomani a celebrare insieme a lui la S. Messa. Non fu una concelebrazione come la conosciamo ai giorni nostri per cui i Sacerdoti concelebrano sullo stesso altare. Padre Pio invitò don Guido a celebrare su di un altare laterale, seguendo però all’unisono gli stessi atti e le stesse preghiere. Durante la Messa, che durò più di due ore, Padre Pio si rivolse più volte a don Guido con tono robusto dicendogli: – Vada più piano, vada più piano! – Non era infatti nello stile di don Guido avere lunghe pause, nonostante celebrasse sempre la S. Messa con calma e grande devozione. Tornò a casa più sereno.

I luoghi nei quali sono avvenute le rivelazioni

Biografia: d'Alpago
Veduta del Lago d’Alpago, Belluno
Dopo questi due anni di aspettativa, nel 1955 venne mandato Parroco a Chies d’Alpago, un altro paesino della provincia di Belluno, in alto e all’estremo limite del bellissimo anfiteatro della Valle d’Alpago ai cui piedi, in riva al lago di S. Croce, c’era Farra e a Farra la sua casa paterna dove abitava ancora la sua vecchia madre, sempre più anziana e malata, che morirà nel gennaio del 1970. Spesso, nella bella stagione, vi scendeva in bicicletta o in corriera. Mai ebbe un mezzo di trasporto proprio né una perpetua. Ogni suo risparmio era per la chiesa o per i suoi libri di studio. Rimase Parroco di Chies d’Alpago per più di vent’anni, fino al 1976. Fu durante la sua permanenza a Chies d’Alpago che don Guido ebbe quasi tutte le rivelazioni, sia sotto forma di ‘locuzioni interiori’, che di ‘sogni profetici’ e di ‘visioni in stato di veglia’. Solo la rivelazione del ‘peccato originale’ l’ebbe nella casa paterna a Farra d’Alpago. Intanto andava nascendo in lui la convinzione di essere indegno agli occhi del Signore dal momento che quanto gli era stato predetto in gioventù non si era ancora avverato. Ma i tempi del Signore non sono i nostri… Ed ecco che all’improvviso, quando le innumerevoli mortificazioni avevano temprato il suo animo e la sua fede, il Signore arrivò al Suo appuntamento. Tutte le otto rivelazioni avvennero fra il 1968 e il 1974. Per tutta la vita, prima delle rivelazioni, egli si era tormentato nel tentativo di risolvere razionalmente i quesiti esistenziali dell’uomo, come la presenza del dolore che la Bibbia considerava una colpa ereditata dal peccato originale. “Ma, com’è possibile ereditare una colpa? – si chiedeva don Guido. – Si possono ereditare solo le conseguenze di una colpa. Ma quale poteva essere questa colpa per lasciare delle conseguenze anche fisiche sull’uomo?” Egli sentiva che c’era, al di là di questi interrogativi, un vuoto di conoscenza perché se Dio è Giustizia, oltre che Misericordia infinita, il principio dell’eredità della colpa è inaccettabile. Si diceva convinto che quando l’uomo non capisce l’operato del Signore è perché non conosce completamente i fatti che la Provvidenza, per carità, ha celato nel mistero. Don Guido, nella sua totale fiducia in Dio, mai aveva dubitato della Sua Misericordia, e neppure della Sua Parola depositata nella Bibbia e soleva ripetere le parole di Isaia (55, 10-11): “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrorato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della Parola uscita dalla bocca di Dio: non tornerà a Lui senza effetto, senza aver operato ciò che Egli desidera e senza avere compiuto ciò per cui l’ha mandata”. Con don Guido si apre un periodo nuovo nel rapporto dell’umanità con Dio, nel quale Dio vuole essere anzitutto conosciuto per essere amato in modo consapevole non solo col cuore ma anche con un’adesione completa della mente. Il Signore rassicura don Guido, preoccupato di non saper essere un testimone fedele: – TI AIUTERÒ A RICORDARE E A CAPIRE. – Ciò significa che l’azione dello Spirito Santo non si esaurisce col primo tentativo di don Guido di mettere per iscritto quanto ha appreso. Non è una semplice trascrizione che Dio vuole, ma uno sforzo a ragionare e a ricollegare con la logica quanto sta imparando sotto la Sua paterna guida. Infatti, certe comprensioni sono avvenute per gradi e alcune solo quando il Signore gli fa rivivere questo o quell’episodio, la prima volta incompreso, commentandolo. Don Guido fa una prima ed una seconda relazione al suo Vescovo, ma senza alcun esito. Fra il 1976 e il 1977, don Guido viene mandato per diversi mesi a Pieve di Cadore. È un periodo grigio perché nessuno dei suoi confratelli, neanche l’Arciprete di Pieve, è disposto ad ascoltarlo. Nel 1977 viene inviato Parroco a Vìnigo, un paesino della valle del Boite che scende da Cortina, situato su una balza lungo le pendici d’un’ampia conca verde. È la sua fortuna: una premura della Provvidenza! Questo villaggio di poche ‘anime’ non richiede un grande lavoro, per cui gli rimane molto tempo per la preghiera e per gli studi. La canonica è una grande e solida casa, ben esposta al sole, che domina dall’alto un panorama splendido. Questo è il momento più importante delle sue riflessioni. Può finalmente dedicarsi al riordino dei suoi scritti e alla stesura definitiva del suo manoscritto. I profondi concetti vengono maturati sotto la guida costante della Sapienza. È un decennio relativamente sereno e grandemente fruttuoso.

L’incontro con il Patriarca Albino Luciani, il futuro Papa Giovanni Paolo I

Biografia: Giovanni Paolo IDon Guido aveva capito che il riconoscimento delle rivelazioni, seguendo la via gerarchica, gli era precluso. Nel frattempo mons. Albino Luciani, suo ex-compagno di Seminario e già Vescovo di Vittorio Veneto, era stato nominato Patriarca di Venezia, per cui era diventato suo Superiore e Superiore anche del suo Vescovo. Veramente affranto per tanta chiusura e dopo tante esitazioni per rispetto al suo Vescovo, don Guido decise di scrivere al Patriarca che, come sappiamo, aveva condiviso con lui le predizioni, fatte ad entrambi da Padre Matteo Crawley nel lontano 1928, in cui al giovane Albino era stato predetto che “sarebbe salito ai più alti gradi della gerarchia ecclesiastica” e al chierico Guido che “da anziano il Signore gli avrebbe rivelato i passi oscuri della Genesi Biblica”. Così don Guido gli raccontò, con una breve relazione, le rivelazioni avute dal Signore. Gli spiegò tra l’altro che “Dio fu Padre e Madre per il primo Uomo” non solo spiritualmente ma anche fisicamente, perché creò nel seno di una femmina preumana sia il gamete maschile, e così Dio gli fu Padre, sia il gamete femminile, e così Dio gli fu Madre, formando la cellula germinativa del primo Uomo; mentre, per la creazione della prima Donna, Dio le fu solo Madre, poiché le fu padre l’Uomo stesso generando, ‘in similitudine naturae’, nel sonno, come dice la Bibbia. Il particolare legame che univa don Guido al Patriarca, poiché per entrambi quelle predizioni si erano realizzate, gli dava la certezza di essere creduto. Il Patriarca infatti gli rispose affettuosamente. Tuttavia lo invitò al riserbo poiché, fin tanto che tali rivelazioni non fossero state approvate dalle competenti autorità ecclesiastiche, ossia dal suo Vescovo, esse mantenevano il carattere di rivelazioni private. Intanto il Patriarca Luciani cominciò a dire pubblicamente che “Dio per l’uomo è Padre e Madre”. Questo intervento poteva essere interpretato come un benevolo e intelligente incoraggiamento al Vescovo di Belluno. Il Patriarca Luciani era infatti molto rispettoso dei ruoli altrui. Ciò nonostante, il Vescovo rimase sulle sue posizioni. Passò ancora qualche tempo finché don Guido s’incontrò con il Patriarca Luciani a Vittorio Veneto dove questi era venuto a guidare un ritiro spirituale di un solo giorno invitato dalla sua affezionata vecchia Diocesi. Alla fine del ritiro, il Patriarca lo avvicinò e lo pregò di trattenersi per parlargli. Ma l’ora era tarda e don Guido, preoccupato di non perdere il treno utile per la coincidenza con l’ultima corriera, gli rispose che sarebbe tornato presto per poter parlare con più calma e corse via. Intanto il Patriarca fu eletto Papa e non ebbe più l’occasione di rincontrare don Guido. Tuttavia nel suo discorso introduttivo al Soglio Pontificio non esitò a ripetere che “Dio è, per l’uomo, Padre e Madre”, affermazione che diede a molti motivo di riflessione. Probabilmente il compito di Papa Giovanni Paolo I nei confronti di don Guido e delle rivelazioni da lui ricevute era solo quello di avergli creduto e di testimoniare che le predizioni fatte da Padre Matteo Crawley nel Seminario di Belluno in quel lontano 1928 si erano avverate per entrambi e di accreditarlo come profeta.

Gli anni della vecchiaia

Il dolore per la scomparsa di Papa Luciani, che aveva dimostrato amicizia e apertura verso di lui, fu per don Guido un’ulteriore prova dolorosa. La solitudine spirituale gli diventava sempre più pesante. Nell’inverno del 1985, durante le festività dei Santi, a Vìnigo scivolò sul ghiaccio e, per non cadere, si afferrò ad una palizzata. Lo strattone fu forte e si lussò la spalla destra. Fu una grossa pena morale e fisica il non poter più usare la mano per scrivere con disinvoltura. Dopo un paio di mesi trascorsi all’ospedale di Cortina, si trasferì a Belluno in una piccola e modesta mansarda prestatagli dai padri del P.I.M.E. (Pontificio Istituto Missioni Estere) a poca distanza dalla Casa del Clero. La sua vecchia casa di Farra, priva di impianto di riscaldamento, non era idonea ad ospitare un anziano solo. Fu nella cappella della Casa del Clero che ebbi l’occasione di conoscerlo. Nel gennaio del 1987, don Guido trovò alloggio nella Casa di Riposo di Meano, una frazione di S. Giustina a pochi chilometri da Belluno. Don Guido, sebbene già ultraottantenne, manteneva tutta la sua vivacità fisica e intellettuale. Il Signore gli aveva promesso una mente limpida, buona vista e buon udito per tutta la vita e così fu. Quegli occhi, che si erano tanto affaticati sui libri, con un paio di occhiali gli consentirono di leggere fino alla fine. Anche il suo udito rimase perfetto. Il suo pensiero era sempre rivolto a come poter ottenere il PLACET della Santa Sede. Don Calabria aveva predetto tanti anni prima che il messaggio era “urgente” e don Guido si sentiva responsabile di tanto ritardo. Poiché la via gerarchica fino a quel momento si era dimostrata impercorribile, andava progettando d’informare direttamente il Cardinale Ratzinger. Sfiduciato, finì poi per desistere pensando che la S. Sede, senza un parere favorevole del Vescovo competente, non l’avrebbe nemmeno preso in considerazione. Accanto all’intima gioia di esser stato fatto partecipe della conoscenza di quelli che erano stati i misteri della Genesi e del più ampio e profondo valore della Redenzione, don Guido sperimentava la Passione intima di Gesù. Nella sua vita si ripetevano inimmaginabili umiliazioni. La sufficienza che molti suoi confratelli non si curavano di nascondere gli diventava sempre più pesante. Il marchio di una fama di ‘visionario’ era il suo pane quotidiano. Tuttavia don Guido non perse mai la fiducia nella Provvidenza. Continuava a coltivare una profonda serenità d’animo per la certezza che il Signore avrebbe portato a compimento il Suo progetto. Appena poteva raccogliersi in preghiera o sui suoi libri esprimeva gioia dagli occhi. Aveva l’entusiasmo di un giovane, certo che in un modo o in un altro tutti avrebbero conosciuto la verità e avrebbero così compreso la grande Misericordia di Dio.

Le rivelazioni non andarono perdute con la sua morte

Un giorno, sentendo che le forze gli andavano calando e che non gli restava ormai molto tempo da vivere, don Guido mi disse: – Desidero lasciare a lei l’eredità materiale dei miei scritti e di quel che rimane della mia biblioteca di Farra. Metta il manoscritto e tutti i miei quaderni al sicuro perché, se dovessi mancare, tutte le mie cose verrebbero gettate da chi non ne capisce il valore. – – Si, …ma ci sono molti Sacerdoti più vicini a lei di me. – – È vero, ma qui sono tutti prevenuti e, fra quelli che hanno accolto queste rivelazioni, nessuno ha mostrato un interesse autentico. Io desidero che ottengano l’approvazione del Vescovo di questa Diocesi, perciò non desidero che escano da questa Chiesa diocesana che il Signore ha scelto per questa rivelazione. – Poi, dopo una breve pausa, soggiunse: – Desidero anche che lei porti avanti il mio lavoro, riordinandolo e togliendovi tutte le ripetizioni. – – Ma don Guido, lei sa bene che non sono all’altezza! – – Dio non cerca le persone più colte o più intelligenti: Dio cerca le persone che sono sinceramente motivate a fare la Sua volontà. La conosco ormai da tanto tempo, abbiamo parlato tanto insieme e lei è la persona di cui ho più fiducia. – – La ringrazio della sua stima, ma una cosa è parlare di queste cose, un’altra cosa è riordinare i suoi scritti. Questo presume una certa discrezionalità e per togliere le ripetizioni, come lei vuole, bisogna fare delle scelte. Lei capisce che questo lavoro richiede troppa responsabilità. – – Lei lavori con serenità e proceda come meglio crede: io le sarò sempre vicino e l’aiuterò. – Poi, per mettermi in guardia da inevitabili tentazioni di autocompiacimento, dopo un’altra breve pausa aggiunse: – Non creda però che questo compito sia privo di croci. Da un lato c’è la gioia perché Dio ci ha fatto partecipi dei suoi progetti; dall’altro deve avere fin da ora la consapevolezza che lei erediterà le mie sofferenze, le incomprensioni degli amici più cari, le delusioni e perfino le derisioni, le ostilità, o la noncuranza dei Superiori. Sono umiliazioni pungentissime, ma diventano superabili solo se lei non si aspetta gratificazioni, salvo quella d’aver fatto il possibile per amore della Verità e per amore di Dio. Se la sente?– – Se è così, allora va bene – risposi. Con estrema commozione di entrambi, mi fece inginocchiare ai suoi piedi e, posandomi le mani sulla testa, formulò una lunghissima preghiera in latino invocando su di me lo Spirito Santo, preghiera di cui io capii il senso solo a grandi linee. Mi stava dando, assieme alla sua benedizione, un vero e proprio mandato, come un’investitura, a riordinare quanto aveva scritto nei suoi appunti e nei suoi Quaderni. Sentii quella preghiera come un segno di fiducia, ma provai anche in quell’istante tutto il peso dell’enorme responsabilità che comportava. Vedendomi emozionata, don Guido non esitò ad incoraggiarmi con amore paterno e continuò: – Quando avrà finito questo lavoro vada dal Vicario generale. È mio amico. Mi ha aiutato lui a stendere il mio testamento. Ho lasciato alla Curia tutti i miei risparmi e le disposizioni per la pubblicazione di questo manoscritto. Li ho messi da parte in tanti anni di economie per questo scopo. E adesso cominci a portar via queste cose e a prenderne conoscenza. Ci sono in mezzo tante carte da buttar via. Faccia uno spoglio a casa sua. Qui non c’è lo spazio. E si ricordi che proverà tanta solitudine, perché nessuno che si accinga a lavorare per il Signore ne è risparmiato. –

La malattia e la morte

Verso la fine degli anni ’80 don Guido cominciava a manifestare un progressivo decadimento fisico. Erano i primi sintomi di un tumore che si sarebbe manifestato apertamente due anni più tardi. Il male apparve improvvisamente e in tutta la sua gravità ai primi di luglio del 1991 quando il chirurgo diagnosticò un tumore intestinale. Fu operato dopo una settimana e di lì a pochi giorni dovette esser rioperato. I dolori erano molto forti. Quando si fu sufficientemente ripreso, fu riportato alla Casa di Riposo di Meano. Poi il suo declino fu rapido, ma la sua mente rimase vigile fino alla fine. Un giorno, mentre giocherellava con una specie di piaga secca sul dorso della mano che sembrava un grosso neo grigiastro a forma di pisello, mi disse: – Vede, questo è un ricordo di quella notte in cui ebbi la visione della creazione dell’universo. È stata una scintilla uscita dal quadro visivo a lasciarmi quest’ustione. Non fa male, ed è lì solo per rinnovarmi il ricordo. Il Signore volle lasciarmi un segno perché, al mattino, non dubitassi pensando che quanto avevo visto fosse frutto della mia immaginazione. – Poco prima di morire, dopo quasi vent’anni, questa crosta grigia se ne andò del tutto lasciando solo un tenue rossore. L’8 ottobre, il giorno dopo il suo 84° compleanno, Maria, la Mamma che lo aveva condotto nel ‘viaggio più lungo a ritroso nello spazio e nel tempo’, come lui lo chiamava, lo volle con Sé. Erano le sette di sera. Eravamo presenti il Vicario generale mons. Pietro Bez, la Madre Superiora della Casa di Riposo ed io. L’indomani la salma, dal volto sereno e disteso, era composta nella bara. Vestito di bianco, nei suoi paramenti sacerdotali, aveva l’austerità di un patriarca, un aspetto regale pur nella semplicità. Gli anziani della Casa di riposo vennero alla spicciolata a dargli l’ultimo saluto. Tutti erano stati confortati dalle sue buone parole. La Santa Messa funebre fu accompagnata da bellissimi canti di voci bianche. La sua bara, per un disguido dei necrofori che stranamente all’occorrenza erano spariti, fu portata fuori dalla Chiesa a spalla dai Sacerdoti più giovani, in camice bianco, quasi che il Signore avesse voluto riservargli quell’onore che molti confratelli non gli avevano riconosciuto. Sul marmo veronese della sua semplice tomba si leggono queste belle e assai appropriate parole:
“CANTERÒ IN ETERNO LE TUE LODI, O DIO, SIGNORE DELL’ UNIVERSO”.
 

Alcune date Biografiche

1907 (7 ottobre) La nascita (festa della Madonna del Rosario) 1907-1920 L’infanzia e l’adolescenza

1917 (13 ottobre) Ha la visione dell’apparizione della Madonna ai pastorelli di Fatima e del miracolo del sole

1920-1932 I suoi studi in Seminario

1922 Prima predizione, di don Calabria, che preannunzia questa rivelazione

1928 Seconda predizione, di Padre Crawley

1932 Terza predizione, di mons. Masi

1932-1934 Cappellano a Fusine (BL)

1934-1945 Parroco a Dont (BL)

1944 Probabile data della quarta predizione, di Teresa Neumann

1945-1953 Curato a Casso (BL)

1945 Ha la visione della catastrofe del Vajont che si verificherà nel 1963

1953-1955 Periodo di aspettativa a Farra d’Alpago nella casa paterna

1955 Incontro con Padre Pio

1955-1976 Parroco a Chies d’Alpago (BL)

1968 I rivelazione: ‘Il segno di Caino’ (ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago)

1970 II rivelazione: ‘Il peccato originale’ (ricevuta nella sua casa di Farra d’Alpago)

1970 III rivelazione: ‘La morte di Abele’ (ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago)

1970 IV rivelazione: ‘Sono uomini’ (ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago)

1972 V rivelazione: ‘La creazione dall’Alfa all’Omega’ (ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago)

I parte: ‘Il Capostipite’

II parte: ‘La creazione del cosmo’

III parte: ‘La nascita della Prima Donna: l’Omega’

1974 VI rivelazione: ‘L’ultimo pasto di Abele’ (ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago)

1974 VII rivelazione: ‘La sera del dì della morte di Abele’ (ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago)

1974 VIII rivelazione: ‘L’ultimo colloquio’ con il Signore (ricevuta nella canonica di Chies d’Alpago)

1976-1977 Cappellano a Pieve di Cadore: la sua solitudine

1977-1986 Parroco a Vìnigo: dove approfondisce lo studio della genetica e della geofisica. Incontro con il Patriarca di Venezia Albino Luciani, futuro Papa Giovanni Paolo I

1986-1987 In pensione a Belluno

1987-1991 In Casa di Riposo a Meano, nel comune di S. Giustina (BL)

1991 (8 ottobre) La morte

martedì 12 luglio 2022

Chiesa e post concilio: Pio XII - Parole per ogni tempo

Chiesa e post concilio: Pio XII - Parole per ogni tempo: Colpiscono le parole del Vicario di Cristo – specie quelle di Pio XII di cui facciamo tesoro per il nostro oggi – che sono senza tempo, perc...

QUADERNETTI, Maria Valtorta

 


QUADERNETTI CAPITOLO 728


9 giugno 1948

   Ieri ebbi sempre sensibile al mio spirito la vicinanza del soprannaturale. 
   Sentivo in me quel precipitare delle onde dell'amore che ormai così bene conosco sin dal primo lambire di esse. 
   Sentivo che tutto l'amore, tutto il Cielo perciò, perché per noi viventi il Cielo che possiamo gustare mentre siamo ancora nel purgatorio della separazione è l'amore, è la venuta, l'unione, la fusione, l'annullarsi di noi nell'amore che ci possiede, l'elevarci ad altezze non misurabili, l'arderci in ardori che se non venissero da Dio, e perciò venienti in un con un dono di forza che ci permette di sopportarli, che l'Amore fa a noi. [sic] 
   È una sensazione così difficile a dirsi, e dirsi bene. 
   Siamo come attirati da un grido che ci chiama, da una forza che ci aspira, ed è già gioia indicibile questo preliminare, questo prologo dell'incontro della creatura col soprannaturale. 
   Ci sentiamo già sulle soglie di quel misterioso, dolcissimo mondo ultraterreno che ci smemora di questo quando ci accoglie. 
   Lucido, cosciente prologo dell'abbraccio della creatura terrena con la Creatura celeste o con la Divinità Ss. che ci vuole dare un'ora di Cielo. 
   Si fanno le ordinarie occupazioni, e agli astanti nulla dimostra che noi si sia già così lontani dalla sfera umana, già circondati e raccolti da atmosfera non terrena, e raccolti sotto la tenda dell'amore che ci fa intorno un cerchio di fiamme che isola da rumori e distrazioni il nostro spirito adorante. 
   Io sentivo tutto questo. 
   Presentivo quella gioia del vedere e gustare il soprannaturale che conosce così bene, ormai, l'anima mia e ne trasale di gioia preliminare, raccogliendosi in un'attesa non forzata da Dio e non forzante Dio, soprattutto, perché l'anima è già quieta, paga, sarebbe paga già di questa gioia preliminare e non chiederebbe di più. È come la Madonna quando attendeva la nascita di Gesù: era quieta, paga, senza fretta egoista di stringerselo fra le braccia... sapeva che sarebbe venuto quel momento e non c'era che da attendere, e amare, durante l'attesa, attendere, abbandonandosi a Dio nell'attesa, sicura che all'ora segnata da Dio, nel luogo e nelle circostanze che Dio aveva volute, Gesù sarebbe venuto alla luce e tutto sarebbe stato gaudio senza limite. 
   È proprio così! Non sappiamo quando sarà l'incontro. Ma sappiamo che sarà. 
   E con una grande letizia in cuore si fanno tutte le cosette materiali della giornata, si scrive, si lavora, si legge, si parla coi visitatori, si mangia... ma sembra che sia un corpo preso a prestito quello che fa tutte queste cose, tanto il nostro io morale e spirituale sono estranei al fare del corpo, già in ginocchio sotto le onde d'amore sempre più forti che ci sommergono. 
   Come tutto il sensibile è lontano! Il soprasensibile invece è su noi, ci circonda, naufraghiamo in esso. Dolce naufragio che non è morte, ma vitalità potenziata a forze sovraumane, virilità - mi si perdoni il vocabolo se detto da me, donna - virilità dello spirito che raggiunge in quei momenti una maturità sapiente, un accrescimento di spiritualità e di capacità d'amare, e di gioia, oh! quanta gioia!... 
   Tutto questo ieri per ore e ore. 
   Poi all'improvviso non fu più "chiamata", ma "incontro" col soprannaturale.    
   E il soprannaturale era ancora una volta Maria Ss. La mia Madonna di Fatima. 
   Ma così bella, così bella, così vicina, così... come dire? così concedentesi al mio amore, e così concedente il suo amore che non ho saputo,potuto padroneggiare me stessa, e felici lacrime tratte dal gaudio sovrabbondante di ieri sera sono sgorgate a temperare l'ardore e a dare sollievo alla dolce sofferenza dell'amore. 
   E non sono state capite da Marta che, uscita poco prima per un'incombenza, rientrando mi trovò col volto lavato di pianto, per lei inspiegabile. 
   Dopo... ha capito. Ha capito perché ha visto che io diventavo più bianca del marmo, sin nelle labbra, disse poi Marta, gelata e lontana da tutto e da tutti, disse sempre Marta. 
   Ma io non ero lontana da tutti, pur essendo separata da tutti, presa come ero nel vortice dell'amore contemplativo. E avrei voluto, per tre volte, chiamare Marta, stringere le sue mani come per un ultimo addio, perché proprio sentivo, e non spiritualmente soltanto, il mio cuore sulle soglie della sua fine di cuore. Avevo, ad ogni più vivo concedersi di Maria, di comunicarsi di Maria Ss. a me, la sensazione materiale del mio cuore che mi si sollevasse nel petto per uscirne fuori dilatato, non da sofferenza o per alterazione di battito, ma perché troppo forte era il comunicarsi a me dell'amor di Maria e della mia rispondenza d'amore. 
   Avrei voluto chiedere alla Madonna se questo era la comunione d'amore con Lei che una grande anima mia testimone desidera che io le spieghi. Ma non si può chiedere in quei momenti. Non si sa che amare... 
   Ho avuto proprio la sensazione che la mia anima lasciasse il mio corpo e si gettasse fra le braccia di Maria. Per tre volte. Quante Ella si donò a me invitandomi ad andare a Lei senza misura di venerabondo ritegno. 
   La Madonna era in fondo al mio letto, a destra, alta da terra non più di mezzo metro, separata dal suolo dalla sua nuvola luminosa che fa sempre da appoggio ai suoi piedi piccoli, bellissimi, di giovinetta eterna. 
   La sua veste semplice e regale splendeva come petalo di giglio appena sbocciato e asperso di rugiada che il sole percuota, e il manto, di stoffa più rigida e pesante, e anche più tendente al color latteo, mentre la veste era come perlacea nel suo candore purissimo, era solenne più di un manto ponteficale. 
   Il volto era serenamente pensoso, fuorché quando splendeva nell'invito d'amore, o si faceva dolcemente mesto mentre un profondo sospiro le gonfiava il petto. 
   Come era bella! 
   Quando furono calmate le più ardenti effusioni d'amore, pensai di ringraziarla e onorarla con un nuovo rosario. Il secondo della giornata. Ed essendo ormai prossima la mezzanotte di martedì pensai di dire i misteri gloriosi. Era così gloriosa nella sua amorosa e dolce bellezza! 
   Ma Maria Ss., alzando verso il cielo lo sguardo e aprendo le mani prima congiunte e poi riunendole come avesse abbracciato, raccolto qualcosa e indi alzandole verso il cielo come per offrire, poi abbassando lo sguardo di nuovo, guardandomi con un lucore di pianto negli occhi e un gran sospiro d'affanno nel petto, mi disse: «No. Non i gloriosi. I dolorosi ancora. Perché hanno colpito oggi il sepolcro di mio Figlio. Lo uccidono ancora una volta colpendo i suoi fratelli». E il suo volto divenne tristissimo. 
   Dissi i misteri dolorosi. E rividi mistero per mistero, meno che per il primo, le scene atroci della flagellazione, coronazione, via dolorosa, crocefissione e morte... 
   Era troppo per la creatura già spossata dall'amore, e dalla quale cominciava a ritirarsi la forza soprannaturale concessa da Dio per l'ora d'estasi. 
   Mi abbandonai sui guanciali esausta finendo così le litanie lauretane. 
   E l'incontro finì così... preceduto e seguito da onde di profumi meravigliosi. 
   Quando tornai nei miei... panni di creatura umana e mi vidi e sentii, mi accorsi di essere di neve, di gelo, col volto scavato come se l'amore mi avesse mangiato la carne. Ma ero così felice! 
   Lo era molto meno Marta che aveva preso una bella paura: quella che io morissi. Perché così, e per tanto tempo, non mi aveva ancora mai vista. 
   Solo oggi le ho potuto dire cosa mi era accaduto... ma in conciso. Perché certe cose si dicono male. E anche perché sono ancora spossata. No, dico male. Come cuore e dolori ho una buona giornata, come ne ho ben raramente. Ma ho un gran desiderio di tacere per ricordare. 
   Ho saputo oggi che ieri è stata colpita la cupola del S. Sepolcro, proprio sopra la pietra dell'unzione... 
   Cosa avrà voluto dire la Madonna dicendo: «Lo uccidono ancora una volta, colpendo i suoi fratelli»? Fratelli chi? Gli ebrei o gli uomini in generale? Non lo so. La Madonna non ha detto altro. 
   Ho tanto desiderato di avere con me un sacerdote. Era troppo l'amore ieri sera... 
   Veramente da quando i miei incontri col soprannaturale si fanno così forti, ossia dal dicembre 1947, ho un gran desiderio che un sacerdote mi sia vicino in quei momenti. Perché in tal modo, qualunque cosa avvenga, avrei una difesa, un aiuto e un testimonio. 
   Anche difesa, sì. Perché Satana mi odia sempre più. 

lunedì 11 luglio 2022

L’insorgenza dei Cristeros

 Coscienza e Dovere | L’insorgenza dei Cristeros

Spesso capita che molti fatti si perdano nei meandri della storiografia “ufficiale”. La dura lotta dei Cristeros messicani ne è l’ennesimo esempio. Combattenti per difendere la fede in Dio e nella Santa Vergine Maria, i Cristeros scelsero la via della lotta a quella dell’abiura. Come i combattenti vandeani, questi uomini, donne e bambini ,di ogni strato sociale, ci ricordano quanto bisogni saper tener duro quando si combatte per difendere a qualsiasi costo la Verità e la Giustizia. A loro Pino Tosca ha dedicato questo articolo che scegliamo di riportare alla luce oggi, con la speranza di ravvivare ,nel nostro piccolo, una testimonianza su questi eroici combattenti che anche un giovane Léon Degrelle andò ad incontrare in terra messicana durante gli anni della loro repressione. 
Segnaliamo inoltre che in Italia sono disponibili i seguenti titoli per chi volesse approfondire la storia dei Cristeros:

-Il Padre Pro. Il santo dei Cristeros (edizioni Amicizia Cristiana) 

-Cristiada. Messico martire (edizioni Amicizia Cristiana) 

-Encicliche sulle persecuzioni in Messico dal 1926 al 1937. (edizioni Amicizia Cristiana) 


Un famoso adagio del Centro America così recita: “Povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti”. In realtà, a Dio il Messico è sempre stato più vicino di tante nazioni occidentali. Ma è purtroppo vero che i suoi 2.600 chilometri di frontiera in comune con l’Impero del Dollaro hanno sempre segnato la spogliazione dell’antica identità ispanica del Messico. Gli yankees si appropriarono del Texas, dell’Arizona, della California e del Nevada, rapinandoli ai loro vicini, riuscendo persino a passare per “liberatori”. In realtà essi esercitavano nei territori a loro  soggetti ancora la schiavitù, che il cattolico Messico odiava ed aveva abolita da tempo. Le motivazioni di questo espansionismo colonialista erano certamente economiche (il Texas dotato di grandi risorse doveva servire al capitalismo del Nord e non al Messico sudista), ma non mancavano certo quelle religiose. Vi era un odio radicato, venato da sfumature razziste, nel protestantesimo nord-americano contro il cattolicesimo messicano. Quest’odio andava placato.

I novanta anni che separano Fort Alamo dalla rivolta dei Cristeros sono contrassegnati dalla opprimente interferenza statunitense nella vita politica messicana, al punto che si può dire che non vi fu caduta o ascesa di un sol uomo politico che non fosse stata prima pianificata a Washington. Elemento decisivo nel cambio della guardia a Città del Messico era sempre un esercito di vocazione golpista, totalmente nelle mani delle logge. Un esercito costituito al 40% da ufficiali, dei quali il 90% era stato iniziato in Massoneria. Mario Appelius, il noto giornalista radiofonico italiano, scriveva nel 1920: “In Messico non c’è il Bolscevismo… Il Messico è in questo momento un potenziale della 3° Internazionale social-massonica governato da un Herriot nelle vesti di generale messicano”. Non è del resto da sottacere il fatto che le logge messicane avevano ed hanno come loro occulti referenti  i Gran Maestri di quelle statunitensi, alle quali è del resto affiliata la maggioranza dei banchieri, dei diplomatici e dei Presidenti (come è il caso dello stesso George Bush). Nel 1926, a capo di USA e Messico c’è una quaterna di massoni: il Presidente yankee ed il trio Calles-Obregon-Marones. Tutti costoro (ai quali vanno aggiunti i grandi pescecani come Morgan ed i diplomatici come Morrow) decidono di rivoluzionare il modus vivendi tradizionale del popolo messicano. Produttore di materie prime e ricco di petrolio, minerali e produttori agricoli, il Messico viene stretto in una morsa economico-militare dagli USA che riescono a succhiare  enormi  quantità di petrolio a prezzi stracciati e addirittura ad esportare i loro cereali in uno Stato già esuberante di produzione agricola. In cambio di questo incredibile sfruttamento, gli yankees offrono ai generali massoni ogni tipo di assistenza logistica e bellica per tener salde le loro poltrone. Il programma di Calles era infatti molto esplicito: “Il mio programma è costruttivo e logico – egli affermò – in caso non sarà mai ostile alla proprietà ed al capitale”. Si può ben capire, quindi, perché gli affaristi stranieri salutarono la sua ascesa come “la roccia di bronzo su cui riposano l’ordine e la pace” e perché l’ambasciatore americano  Sheffield lo giudicasse il miglior Presidente dopo Porfirio Dìaz. Il giudizio, poi, divenne addirittura apologetico quando Calles stracciò le precedenti disposizioni di Huerta in materia di protezionismo petrolifero, con la concessione agli USA di uno sfruttamento semigratuito delle risorse messicane.

FIG.1 – Combattenti Cristeros in una messa clandestina

Nel 1925 Calles sborsò ai banchieri americani tutte le obbligazioni, impegnandosi in un’opera di vigile tutela degli interessi yankee in Messico, che, del resto, era attuata d’intesa col grande capitale messicano rappresentato da Pani, Manuel Tellez, Montes de Oca. Del pari, il rappresentante ufficiale degli USA,  Morrow, altro non era che un agente dichiarato di Morgan. Egli instaurò col confratello Calles un’amicizia personale inossidabile, al punto che Vasconcelos battezzava Morrow col titolo di “proconsole”. E fu Morrow a giocare un ruolo essenziale nel conflitto politico-religioso che si andava espandendo con la rivolta dei Cristeros. Al riguardo, in un interessante libro di H. Keraly sui Cristeros, un certo Pablo dice all’autore del volume: “Senza gli Stati Uniti d’America, i Messicani oggi avrebbero potuto usufruire di un governo cattolico, sorto dall’insurrezione cristera. Avremmo un Messico prospero e autosufficiente. Gli Americani non hanno voluto. Essi hanno messo i loro piedi (compresi quelli militari) nella bilancia di una Rivoluzione di agitatori  sanguinari e corrotti. Le loro motivazioni non erano soltanto ideologiche. Il Messico esangue è un eccellente terreno di caccia per gli affaristi, i banchieri, i re del petrolio. I Messicani vivono ogni giorno in silenzio questa umiliazione”. Nel settembre 1927, Luis Bustos così scriveva ai dirigenti della Lega Nazionale per la difesa della libertà religiosa di Città del Messico: “Gli Stati Uniti non ammettono e non ammetteranno mai che il movimento contro l’attuale regime sia di carattere cattolico: al  punto che né i prelati americani, né i cattolici, nè i potenti banchieri o petrolieri gli porteranno il minimo aiuto. Qualunque sia il sentimento degli uomini che occupano la Casa Bianca, costoro dovranno sottomettersi ai riflessi anticattolici dell’enorme maggioranza dei cittadini americani”. L’anticattolicesimo yankee si evidenzierà chiaramente nei tre anni eroici della Cristiada quando né un fucile né una cartuccia passeranno la frontiera in direzione della guerriglia. Al contrario, al governo di Calles perverrà tutto l’appoggio militare possibile da parte di Washington: camions, battelli, treni interi carichi di armi e munizioni partivano dagli Stati Uniti per rifornire le truppe di Calles, coadiuvate da piloti e carristi yankee. Mons. Josè de Jesus Manriquez il 13/2/’29 scriveva del suo esilio: “Nessuno deve stupirsi che i Liberatori cattolici non abbiano ancora trionfato, dal momento che essi non combattono soltanto contro le orde della tirannia, ma anche contro la potente Nazione del nord e tutta l’armata anticristiana che pretende di finirla col cattolicesimo messicano”. Tre anni prima, monsignor Curley, arcivescovo di Baltimora aveva scritto: “Carranza e Obregon hanno regnato nel Messico grazie all’appoggio di Washington. Le mitragliatrici che hanno aperto il fuoco, qualche settimana fa, contro il clero ed i fedeli di San Luis Potosi erano mitragliatrici nordamericane. I fucili che erano stati utilizzati contro le donne a Città del Messico, per profanare la Chiesa della Sacra Famiglia, provenivano dal nostro paese. Siamo noi, grazie al nostro governo, ad armare gli assassini professionisti di Calles, a sostenerli in questo abominevole piano teso a distruggere l’idea stessa di Dio nel cuore di milioni di ragazzi messicani”. L’arcivescovo di San Antonio, Mons. Drossaerts, era ancora più esplicito: “Non abbiamo forse appoggiato l’odioso Carranza? Non abbiamo sostenuto quel vecchio bandito di Pancho Villa? Non abbiamo elevato alla Presidenza della Repubblica Alvaro Obregon? Non ci stiamo comprando l’amicizia di Calles procurandogli gli aerei con i quali bombarda oggi gli eroi che muoiono per la loro fede nello Stato di Jalisco?… E’ lo schiacciante potere degli Stati Uniti che porta un sostegno illimitato ai bolscevichi messicani inviando il suo ambasciatore ad onorare Calles, sorvegliando scrupolosamente le proprie frontiere per proibire alla più piccola cassa di munizioni di cadere nelle mani degli eroi che lottano per il loro onore e la loro libertà”.

 “Yankee, io muoio per colpa tua” gridavano i soldati di Cristo Re. Ma dietro gli yankees vi erano le ombre dei fratelli delle logge e, purtroppo, della gran maggioranza dei vescovi. Il Messico è oggi il solo paese del mondo occidentale in cui ai sacerdoti cattolici sia vietato indossare l’abito talare. D’altro canto al potere in Messico è, ancor oggi, il partito fondato da Calles alla fine degli Anni Venti. Il che significa che la tradizione laico-massonica non è mai venuta meno in settant’anni di gestione dello Stato. Ma in realtà è dal 1911 che l’anticlericalismo comincia ad essere codificato. Nel 1917 la Costituzione Rivoluzionaria, ancor oggi in vigore,accentua nello stato ogni forma aggregativa: vengono quindi eliminati ogni corpo intermedio e gli stessi sindacati cattolici.Ma è a partire dal ’24 che l’anticattolicesimo assume un aspetto apocalittico. Da quel momento, il chiodo fisso di Calles e dei suoi fautori interni ed esterni è quello di fare a pezzi la Chiesa e la Dottrina Sociale.A fucilate impone quella riforma agraria di tipo “cittadino” che rovinerà sino ad oggi tutto il mondo rurale (sociologicamente cattolico). Poi impone una educazione ultra-laicista, per non dire autenticamente atea, alle scuole che devono essere “statali, gratuite e obbligatorie”. Passa poi all’ azione diretta contro la Chiesa e il culto al punto che è vietato salutarsi con il classico Adios in quanto allusione filo-religiosa. Il generale Ortiz, noto macellaio callista, fa fucilare un soldato perchè portava al collo, sotto, la camicia, una medaglia con la Vergine di Guadalupe. Una legge del 28/2/25 a Tabasco proibisce l’esercizio del ministero ai sacerdoti non i possesso dei seguenti requisiti:

  1. Essere Tabascheno o Messicano di nascita
  2. Aver più di 40 anni
  3. Aver fatto gli studi di ogni grado presso le scuole (atee) dello Stato
  4. Essere di buona moralità (laica)
  5. Essere sposati
  6. Non aver subito alcun procedimento giudiziario.

Nell’estate del ’26, gli sgherri di Calles affiggono sulle porte delle Chiese la seguente ordinanza:

art.1) 50 pesos d’ammenda e 1 anno di prigione per chi fa suonare la campana di una Chiesa.

art.2) Stessa per chi insegna a pregare ai propri figli.

art 3) Stessa pena per chi sarà sorpreso a conservare santini religiosi.

art 4) Idem per chi porta medagliette religiose su di sé.

E così di seguito sino all’art. 30)

La legge del 14/6/26 è il colpo finale: espulsione delle congregazioni religiose, inventario e confisca dei beni ecclesiastici, messa fuorilegge di ogni tipo di organizzazione non controllata dallo Stato ed, infine stato giuridico dei sacerdoti quali dipendenti dello Stato. È la costituzione civile del clero, di giacobina memoria. Per chi non ubbidisce c’è la tortura e la morte. La reazione cattolica si muove allora su due binari ben precisi, d’accordo con la gerarchia:

  • Il boicottaggio economico;
  • la sospensione del culto religioso.

 

FIG.2 – Fucilazione di José Ramón Miguel Agustín Pro Juárez detto “Padre Pro”, presbitero messicano, gesuita, beatificato da papa Giovanni Paolo II e fucilato nel 1927

È la guerra civile. La repressione massonica non conosce più limiti. La parola, per i cattolici, è ora alle armi in una guerra di difesa di sé stessi e della religione. E mentre il clero tentenna, si battono i valorosi Crociati della Cristiada.

Pio XI, allora, cerca un accordo a qualsiasi costo. Il suo legato apostolico, Mons. Crespi, moltiplicò le concessioni agli assassini massoni senza ottenere nulla in cambio. La gerarchia ordina ai sacerdoti di non aderire alle sommosse dei Cristeros e ai parroci di campagna di trasferirsi in città. Solo 110 preti, su 3.500, disobbediranno e raggiungeranno i Cristeros. Ma questi ultimi vanno al combattimento ed alla morte forti del solo sacramento battesimale. Gli uomini della brigata Quintanar così rispondono al vicario episcopale che aveva chiesto a loro di farsi sgozzare evangelicamente: “Senza il vostro permesso e senza il vostro ordine, ci siamo lanciati in questa lotta benedetta per la liberta’ religiosa. Ed è senza il vostro permesso ed il vostro ordine che noi la proseguiremo fino alla vittoria o alla morte. Viva Cristo Re! Viva la Vergine di Guadalupe! Viva il Messico!”. Per tre anni, i Crociati trasformano tutto il Messico in un immenso campo di battaglia. Ma il 21/6/29, il Vaticano, nonostante le vittorie militari dei cattolici, fa un passo mortale e sigla i famigerati Arreglos con Calles, tesi a por fine alla Cristiada, svendendo letteralmente i Crociati alla massoneria. Inizia così la grande mattanza contro i guerriglieri di Cristo Re. Sorgono le colonne neo-giacobine dei Defanatizzatori, che riempiono cesti di vimini con le teste tagliate dei cattolici. Al grido di “Viva Satana nostro padre” sono finalmente liberi di vendicare la morte del loro colonnello Mano Nera, ucciso in combattimento dai Cristeros mentre urla “Viva il Demonio!”. Nel giro di qualche settimana, cinquemila Cristeros vengono massacrati. Grazie anche alla diplomazia vaticana, la questione cattolica trova così in Messico la sua soluzione finale.

Pino Tosca