Mons. Camisasca su pillola RU486: “esprimo la mia tristezza e la mia totale contrarietà”
Sulla questione del tweet del Ministro della Salute, Roberto Speranza, riguardo l’utilizzo della pillola abortiva RU486 in ambulatorio e fino alla nona settimana interviene mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla. Il testo è stato riportato da laliberta.info.
Mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla
Di fronte alle notizie apparse in questi ultimi giorni in merito all’interruzione volontaria della gravidanza, cioè all’aborto, che verrebbe permesso con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana di gravidanza, esprimo la mia tristezza e la mia totale contrarietà, sulla base di molte considerazioni.
Desidero mettere in luce almeno le più importanti.
Purtroppo la depenalizzazione dell’aborto ha portato ad una cultura di morte in cui la decisione della donna di interrompere la gravidanza è sempre più banalizzata e presentata all’opinione pubblica come un qualunque intervento farmacologico. Tra un po’ non si parlerà più di aborto, perché esso sarà “invisibile”, non senza gravi conseguenze per la mamma e per la società.
La donna viene sempre più lasciata sola di fronte alla drammatica decisione se rinunciare o meno al proprio bambino. Alla luce dei nuovi regolamenti, viene lasciata sola anche nelle ore oltremodo pesanti in cui devono agire i farmaci assunti per fermare la gestazione e provocare l’espulsione. La donna sarà sola, a casa con il proprio dolore e le possibili conseguenze negative sulla sua salute.
La tristezza nasce in me soprattutto nel leggere alcune affermazioni di parlamentari riportate dai giornali, come ad esempio questa: “Una risposta civile e moderna, che spazza via ogni concezione medievale del ruolo delle donne”. Invece di scegliere la strada dell’aiuto alla maternità, in una situazione di declino demografico che sta mettendo una seria ipoteca sul futuro del nostro Paese, si nasconde ipocritamente l’origine vera di questa decisione: gravare meno sulle strutture ospedaliere, anche a costo di pesanti conseguenze che il Consiglio Superiore della Sanità nelle sue Linee Guida del 2010 aveva riconosciuto come rischiose per la salute della donna.
Un sabato, durante la stessa messa Salve sancta Parens, la Serva di Cristo, Metilde, disse alla Beata Vergine Maria: “Se potessi salutarVi, o Regina del cielo, col più dolce saluto che il cuor dell'uomo abbia mai composto, lo farei volentieri”.
La gloriosa Vergine subito le comparve, portando sul suo petto scritta in lettere d'oro la Salutazione angelica, e disse: “Nessun Uomo ha mai trovato un saluto più sublime.
“Nessuno può farmi un saluto più dolce che usando con riverenza della parola: Ave che Dio Padre mi rivolse, confermando così con la sua onnipotenza ch'io fossi libera da ogni macchia di peccato. Dal canto suo, il Figlio di Dio mi illuminò con la sua divina sapienza, facendo di me una stella brillante per rischiarare il cielo e la terra: questo è indicato dal mio nome di Maria, il quale significa Stella del mare. Lo Spirito Santo infine, mi investì della sua divina dolcezza e mi riempì di grazia in tal modo che tutti quelli che cercano la grazia per la mia mediazione, la trovano, ed è ciò che esprimono queste parole: Gratia plena: Piena di grazie.
“Le parole Dominus tecum: Il Signore è con te, mi ricordano l'ineffabile unione e l'operazione compiuta in me dalla Trinità intera, quando prese una parte della sostanza della mia carne onde unirla alla natura divina in unità di persona, dimodochè Dio si fece uomo e l'uomo fu fatto Dio. Quale soave gaudio io abbia provato in quell'ora, non vi è creatura che possa mai averne la piena esperienza.
“Con queste parole “Benedicta tu in mulieribus: Siete benedetta fra tutte le donne”, tutto quanto vive, con ammirazione riconosce e pubblica che sono benedetta sopra ogni creatura tanto del cielo come della terra.
“Con queste altre: “Benedictus fructus ventris tui: Benedetto il frutto del vostro seno”, viene benedetto ed esaltato il frutto eccellentissimo e preziosissimo del mio seno, il quale vivifica, santifica e benedice ogni creatura in eterno”.
DEI GAUDI DELLA BEATA VERGINE MARIA.
Una volta, durante un'apparizione della Beata Vergine, Metilde la pregò di insegnarle il modo di onorarla in quel giorno.
La Beata V. Maria le diede questa risposta: “Onorami per quel gaudio che provai quando il Figlio mio, uscendo dal Cuore di suo Padre, venne come uno sposo nel mio seno, esultando come un gigante onde percorrere la sua via.
2) “Onorami per quel gaudio che provai quando, uscendo dal mio seno verginale, Egli divenne per me un figlio di dolcezza e di allegrezza. Gli altri figli apportano alla loro madre dolore e tristezza; ma il Figlio di Dio, essendo la dolcezza medesima, a me sua Madre apportò solo gaudio e soavità.
3) “Onorami per quel gaudio che provai nell'offerta dei Magi, quando, in tal modo Egli divenne per me un Figlio di onore, perché, nel corso dei secoli, nessuna madre giammai fu onorata con simili doni nella natività di un suo figlio.
4) “Onorami per il gaudio che provai nell'offrire al Tempio il Figlio mio. Là, Egli fu per me un figlio di purezza e di santità. Le altre madri venivano al tempio onde essere purificate; io invece, non avendo bisogno di purificazione, vi ricevei un aumento di santità.
5) “Onorami perché nella sua Passione, mi fu fatto Figlio di tristezza, di dolore, di redenzione.
6) “Perché nella sua Risurrezione, mi divenne Figlio di gioia e di allegrezza.
7) “E infine perché, nella sua Ascensione, Egli fu per me un Figlio di maestà divina e di regale dignità.
Basterà avviare gli audio sottostanti per pregare insieme a Benedetto XVI la Corona del Rosario, dono della Vergine Santa alla Chiesa e a chi vuol davvero santificarsi. Noi sappiamo che Benedetto XVI prega per noi, ma anche con noi…. tra le ore 16,00 e le ore 18,00 di ogni giorno, egli recita il Santo Rosario, proviamo ad unirci a lui e con lui. Ogni video contiene le Litanie Lauretane e la Benedizione finale di Benedetto XVI.
Era l’Anno 2009-2010 quando, Papa Benedetto XVI decise di indire un Anno di Grazia sì, ma soprattutto di riflessione, di Consacrazione ai Sacratissimi Cuori di Gesù e Maria per tutti i Sacerdoti del mondo, anche a causa di tanti scandali che da lì a breve sarebbero stati usati come arma dirompente contro Benedetto, ma anche per colpire la Santa Chiesa Cattolica, indebolirla.
Benedetto XVI decise allora di porvi rimedio con un Anno di riflessione non solamente a livello etico e morale, ma soprattutto proprio “sacerdotale”, ossia, con la Preghiera e la meditazione sulla propria vocazione al Cristo Gesù e sulla fedeltà alla Chiesa in quanto Sposa e Madre. Per questo egli aprì l’Anno Sacerdotale dedicando ai Sacerdoti quale Patrono san Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars e però… sappiamo bene come andò a finire! La sera prima della grande chiusura, il drappo del Santo Curato d’Ars trionfava dalla Loggia centrale della Basilica, avrebbe dovuto essere proclamato il giorno dopo “Patrono dei Sacerdoti”, fino a quel momento “Patrono dei Parroci”…. ma venne clamorosamente boicottato. Qualcuno impedì a Papa Benedetto XVI di chiudere l’Anno con questa proclamazione e la cosa finì lì. Ma forse verrebbe proprio da dire che, visti i fatti odierni e vista la grave situazione in cui oggi verte soprattutto l’alta Gerarchia della chiesa…. certi errori e certe profanazioni si pagano!
Al termine della Messa, dunque, per la Solennità del Sacro Cuore di Gesù, Benedetto XVI ha ripetuto la Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria che aveva fatto in visita a Fatima, il 12 maggio. Noi ve la proponiamo in video originale e a seguire anche il testo, con l’Omelia di quella Santa Messa che da ben nove anni… non si celebra più in san Pietro…. ossia, per celebrare si celebra, ma non più la Solennità del Sacro Cuore, quanto la solennità di sé stessi e dei propri progetti.
Cari Sacerdoti, riscoprite la vostra Vocazione, riscoprite il Sacro Cuore di Gesù, entrate nel Cuore Immacolato della Madre e farete santi voi stessi, aiutando a fare santi anche noi.
Atto di Consacrazione dei Sacerdoti al Cuore Immacolato di Maria (Chiesa della SS.ma Trinità – Fátima, 12 maggio 2010 e l’11.6.2010 a Roma per la conclusione dell’Anno Sacerdotale)
Madre Immacolata,
in questo luogo di grazia,
convocati dall’amore del Figlio tuo Gesù,
sommo ed eterno Sacerdote,
noi, figli nel Figlio, sacerdoti suoi,
ci consacriamo al tuo Cuore materno,
per compiere con fedeltà la volontà del Padre.
Siamo consapevoli che senza Gesù
non possiamo fare nulla di buono (cfr. Gv 15, 5)
e che solo per lui, con lui ed in lui,
saremo per il mondo strumenti di salvezza.
Sposa dello Spirito Santo,
ottienici l’inestimabile dono della trasformazione in Cristo.
Per la stessa potenza dello Spirito
che, adombrandoti, ti rese Madre del Salvatore,
aiutaci perché Cristo tuo Figlio nasca anche in noi.
Possa così la Chiesa essere rinnovata da santi sacerdoti,
trasfigurati dalla grazia di colui che fa nuove tutte le cose.
Madre di Misericordia,
è il tuo Figlio Gesù che ci ha chiamati a diventare come lui:
luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5, 13-14).
Aiutaci con la tua potente intercessione
a non venir mai meno a questa sublime vocazione,
a non cedere ai nostri egoismi,
alle lusinghe del mondo ed alle suggestioni del Maligno.
Proteggici con la tua purezza,
custodiscici con la tua umiltà
e avvolgici col tuo amore materno,
che si rispecchia in tante anime a te consacrate
diventate per noi autentiche madri spirituali.
Madre della Chiesa,
noi sacerdoti vogliamo essere pastori
che non pascolano se stessi,
ma si donano a Dio per i fratelli,
trovando in questo la loro felicità.
Non solo a parole, ma con la vita,
vogliamo ripetere umilmente,
giorno per giorno, il nostro « eccomi ».
Guidati da te vogliamo essere Apostoli della Divina Misericordia,
lieti di celebrare ogni giorno il Santo Sacrificio dell’Altare
e di donare a quanti ce lo chiedono
il Sacramento della Riconciliazione.
Avvocata e Mediatrice di grazia,
tu che sei tutta immersa
nell’unica mediazione universale di Cristo,
invoca da Dio per noi un cuore completamente rinnovato,
che ami Dio con tutte le proprie forze
e serva l’umanità come hai fatto tu.
Ripeti al Signore, l’efficace tua parola,
«non hanno più vino » (Gv 2, 3),
affinché il Padre e il Figlio riversino su di noi
come una nuova effusione dello Spirito Santo.
Pieno di stupore e di gratitudine
per la tua continua presenza in mezzo a noi,
a nome di tutti i sacerdoti,
anch’io voglio esclamare:
« a che cosa devo
che la Madre del mio Signore venga a me! » (Lc 1, 43).
Madre nostra da sempre,
non ti stancare di « visitarci », di consolarci, di sostenerci.
Vieni in nostro soccorso
e liberaci da ogni pericolo che incombe su di noi.
Con questo atto di affidamento e di consacrazione,
vogliamo accoglierti in modo più profondo e radicale,
per sempre e totalmente,
nella nostra esistenza umana e sacerdotale.
La tua presenza faccia rifiorire il deserto delle nostre solitudini
e brillare il sole sulle nostre oscurità,
faccia tornare il sereno dopo la tempesta,
affinché ogni uomo veda la salvezza del Signore,
che ha il nome e il volto di Gesù,
riflesso nei nostri cuori, per sempre uniti al tuo!
Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù Piazza San Pietro Venerdì, 11 giugno 2010
Cari confratelli nel ministero sacerdotale, Cari fratelli e sorelle,
l’Anno Sacerdotale che abbiamo celebrato, 150 anni dopo la morte del santo Curato d’Ars, modello del ministero sacerdotale nel nostro mondo, volge al termine. Dal Curato d’Ars ci siamo lasciati guidare, per comprendere nuovamente la grandezza e la bellezza del ministero sacerdotale. Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente «ufficio», ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio».
Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli in tal modo chiami uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi: è ciò che in quest’anno volevamo nuovamente considerare e comprendere. Volevamo risvegliare la gioia che Dio ci sia così vicino, e la gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza; che Egli ci conduca e ci sostenga giorno per giorno. Volevamo così anche mostrare nuovamente ai giovani che questa vocazione, questa comunione di servizio per Dio e con Dio, esiste – anzi, che Dio è in attesa del nostro «sì». Insieme alla Chiesa volevamo nuovamente far notare che questa vocazione la dobbiamo chiedere a Dio. Chiediamo operai per la messe di Dio, e questa richiesta a Dio è, al tempo stesso, un bussare di Dio al cuore di giovani che si ritengono capaci di ciò di cui Dio li ritiene capaci. Era da aspettarsi che al «nemico» questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita.
Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende. Ma si trattava per noi proprio del contrario: il diventare grati per il dono di Dio, dono che si nasconde “in vasi di creta” e che sempre di nuovo, attraverso tutta la debolezza umana, rende concreto in questo mondo il suo amore. Così consideriamo quanto è avvenuto quale compito di purificazione, un compito che ci accompagna verso il futuro e che, tanto più, ci fa riconoscere ed amare il grande dono di Dio. In questo modo, il dono diventa l’impegno di rispondere al coraggio e all’umiltà di Dio con il nostro coraggio e la nostra umiltà. La parola di Cristo, che abbiamo cantato come canto d’ingresso nella liturgia, può dirci in questa ora che cosa significhi diventare ed essere sacerdoti: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29).
Celebriamo la festa del Sacro Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore è aperto per noi e davanti a noi – e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di Gesù, che è radicato nell’intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento, come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall’altra, sono al contempo già la risposta dell’uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella nostra vita. Il più importante di quei testi nell’odierna liturgia è il Salmo 23 (22) – “Il Signore è il mio pastore” –, nel quale l’Israele orante ha accolto l’autorivelazione di Dio come pastore, e ne ha fatto l’orientamento per la propria vita. “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”: in questo primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupa di noi.
La lettura tratta dal Libro diEzechiele comincia con lo stesso tema: “Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo. Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un’origine remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me. “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14), dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa di me.
Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche che cosa significhi: Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. “Conoscere”, nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. “Conoscere” significa essere interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di “conoscere” gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell’amicizia di Dio.
Ritorniamo al nostro Salmo. Lì si dice: “Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (23 [22], 3s). Il pastore indica la strada giusta a coloro che gli sono affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo in maniera diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo giusto l’essere uomini. Egli ci insegna l’arte di essere persona. Che cosa devo fare per non precipitare, per non sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto, questa la domanda che ogni uomo deve porsi e che vale in ogni periodo della vita. E quanto buio esiste intorno a tale domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente la parola di Gesù, il quale aveva compassione per gli uomini, perché erano come pecore senza pastore. Signore, abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo sappiamo questo: Egli stesso è la via. Vivere con Cristo, seguire Lui – questo significa trovare la via giusta, affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un giorno possiamo dire: “Sì, vivere è stata una cosa buona”. Il popolo d’Israele era ed è grato a Dio, perché Egli nei Comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande Salmo 119 (118) è un’unica espressione di gioia per questo fatto: noi non brancoliamo nel buio. Dio ci ha mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo giusto. Ciò che i Comandamenti dicono è stato sintetizzato nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono la via che Egli ci indica. Possiamo essere lieti per esse e gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come realtà vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme con Cristo facciamo l’esperienza della gioia della Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla gente la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via giusta della vita.
C’è poi la parola concernente la “valle oscura” attraverso la quale il Signore guida l’uomo. La via di ciascuno di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui nessuno può accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte oscura della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. “Se scendo negli inferi, eccoti”, dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente anche nell’ultimo travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura, non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo, però, pensare anche alle valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo mostrare loro la tua luce.
“Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”: il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore.
Alla fine del Salmo si parla della mensa preparata, dell’olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante, del poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime innanzitutto la prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel tempio, di essere ospitati e serviti da Lui stesso, di poter abitare presso di Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo con Cristo e col suo Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato un’ampiezza ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così dire, un’anticipazione profetica del mistero dell’Eucaristia in cui Dio stesso ci ospita offrendo se stesso a noi come cibo – come quel pane e quel vino squisito che, soli, possono costituire l’ultima risposta all’intima fame e sete dell’uomo. Come non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti alla mensa stessa di Dio, di abitare presso di Lui? Come non essere lieti del fatto che Egli ci ha comandato: “Fate questo in memoria di me”? Lieti perché Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole del Salmo: “Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita” (23 [22], 6).
Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo sui due canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua liturgia. C’è anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il racconto della crocifissione di Gesù: “Un soldato gli trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua” (Gv 19,34). Il cuore di Gesù viene trafitto dalla lancia. Esso viene aperto, e diventa una sorgente: l’acqua e il sangue che ne escono rimandano ai due Sacramenti fondamentali dei quali la Chiesa vive: il Battesimo e l’Eucaristia. Dal costato squarciato del Signore, dal suo cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso i secoli e fa la Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo contesto, Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù stesso è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce un fiume di vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell’Eucaristia.
La liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede, però, come canto di comunione anche un’altra parola, affine a questa, tratta dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete, venga a me. Beva chi crede in me. La Scrittura dice: “Sgorgheranno da lui fiumi d’acqua viva” (cfr Gv 7,37s). Nella fede beviamo, per così dire, dall’acqua viva della Parola di Dio. Così il credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata della storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di fede, amore e vita. Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da Cristo, diventare sorgente che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua della vita ad un mondo assetato. Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo che sono assetati e in ricerca. Amen.