domenica 5 aprile 2020

La fedeltà all'uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale.

 L'amore nella verità 


9. L'amore nella verità — caritas in veritate — è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. 
Il rischio del nostro tempo è che all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. 

Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. 

La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà.

La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire [10] e non pretende « minimamente d'intromettersi nella politica degli Stati » [11]. 
Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione. 

Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori — talora nemmeno i significati — con cui giudicarla e orientarla. 

La fedeltà all'uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa la ricerca, l'annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. 

Questa missione di verità è per la Chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento singolare di questo annuncio: essa è servizio alla verità che libera. 
Aperta alla verità, da qualsiasi sapere provenga, la dottrina sociale della Chiesa l'accoglie, compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova, e la media nel vissuto sempre nuovo della società degli uomini e dei popoli [12].

AMDG et DVM

Vedere i giorni di Cristo sulla Terra è santificazione.

VOLUME VI CAPITOLO 364



CCCLXIV. 

Al Tempio. Preghiera universale e parabola del figlio vero e dei figli bastardi.

   1 gennaio 1946. Ore 6.35 antimeridiane
 1 Dice Gesù:
   « Alzati, Maria. 
Santifichiamo il giorno con una pagina di Vangelo. Perché la mia Parola è santificazione. 
Vedi, Maria. Perché vedere i giorni di Cristo sulla Terra è santificazione. 
Scrivi, Maria. Perché scrivere del Cristo è santificazione, perché ripetere ciò che dice Gesù è santificazione, Perché predicare Gesù è santificazione, Perché istruire i fratelli è santificazione. Ti sarà data grande ricompensa per questa carità ».
*

 2 Gesù ha lasciato Rama ed è già in vista di Gerusalemme. Procede come lo scorso anno, cantando i salmi prescritti (Vedi Vol 3 Cap 195). Molti, sulla strada affollata, si volta a guardare il gruppo apostolico che passa. Chi saluta reverente; chi si limita a sogguardare, sorridendo con venerazione, e queste sono per lo più donne; chi osserva soltanto; chi ha un sorrisetto ironico e sprezzante; e chi infine passa con sussiego e con palese malanimo. Gesù va tranquillo nella sua veste pulita e buona. Come tutti anche Lui si è mutato per entrare in ordine e, direi, in eleganza nella città santa.
  Anche Marziam quest'anno è all'altezza del momento nelle sue vesti nuove e cammina a fianco di Gesù, cantando a tutta gola con la sua voce in verità un poco aspretta perché non ancora virile. Ma il suo tono imperfetto si perde nel coro pieno delle voci dei compagni, e solo emerge limpido come tinnulo d'argento negli acuti che egli emette ancora con voce bianca e sicura. E' felice, Marziam...
In una pausa dei canti, mentre, già in vista della porta di Damasco - Perché entrano di lì per andare subito al Tempio - sostano in attesa che passi una pomposa carovana che tiene tutta la via e fa ingorgo, di modo che chi è prudente si ferma ai margini della strada, Marziam chiede: «Signor mio, non dirai un'altra bella parabola per il tuo figlio lontano? Vorrei unirla agli altri scritti che ho; Perché certo troveremo a Betania i suoi messi e le sue notizie. Ed io mi struggo di dare a lui una gioia, secondo che gli ho promesso e che il suo cuore ed il mio cuore vogliamo... »
   «Sì, figlio mio. Certo che te la darò».
   «Una proprio che lo consoli, che gli dica che egli è sempre il tuo amato... ».
   «Così dirò. E ne avrò gioia Perché sarà verità detta».
   «Quando la dirai, Signore? »
   «Subito. Andremo subito al Tempio come è dovere, e là parlerò prima che mi si impedisca di farlo».
   «E parlerai per lui? ».
   «Sì, figlio mio».
   «Grazie, Signore! Deve essere doloroso tanto essere separato così... », dice Marziam che ha quasi un luccichio di pianto negli occhi neri.
 3 Gesù gli pone la mano sui capelli e si volta ad accennare ai dodici di accostarsi per riprendere la marcia. I dodici, infatti, si erano fermati ad ascoltare alcuni, non so se credenti nel Maestro o desiderosi di conoscerlo, che si erano fermati anche loro per la stessa causa che aveva arrestato Gesù e i suoi.
«Veniamo, Maestro. Ascoltavamo costoro, fra i quali sono proseliti venuti da lontano, i quali chiedevano dove ti avrebbero potuto avvicinare», dice Pietro accorrendo.
   «Per quale motivo lo desiderano? ».
   E Pietro, ora al fianco di Gesù che riprende il cammino, dice: «Per volontà di udire la tua parola e per essere guariti da alcuni malanni. Vedi quel carro coperto, dopo il loro? Vi sono proseliti della Diaspora, venuti per mare o con lungo viaggio, spinti dalla fede in te, oltre che al rispetto alla Legge, a fare questo viaggio. Ve ne sono di Efeso, Perge e Iconio, e ve ne è uno, povero, di Filadelfia, che essi, ricchi mercanti per lo più, hanno accolto nel carro per pietà, pensando propiziarsi il Signore».
   «Marziam,và a dire loro di seguirmi nel Tempio. E avranno questo e quello: salute all'anima con la parola e salute ai corpi se sapranno aver fede».
   Il giovinetto se ne va svelto. Ma dai dodici sale un coro di disapprovazioni per "l'imprudenza" di Gesù che vuole mettersi in evidenza nel Tempio...
   «Andiamo apposta per mostrare loro che non ho paura. Per mostrare che nessuna minaccia mi può fare disubbidire al precetto. Ma non avete ancora capito il loro gioco? Tutte queste minacce, tutti questi, solo in apparenza, amichevoli consigli, sono volti all'intento di farmi peccare, per poter avere un elemento vero di accusa. Non siate vili. Abbiate fede. Non è la mia ora».
   «Ma Perché non vai prima a rassicurare tua Madre? Ti attende... », dice Giuda Iscariota.
   «No. Prima vado al tempio che, fino al momento segnato dall'Eterno per la nuova epoca, è la casa di Dio. Mia Madre soffrirà meno, attendendomi, di quello che non soffrirebbe sapendomi a predicare nel Tempio. E in tal modo Io onorerò il Padre e la Madre, dando al Primo la primizia delle mie ore pasquali e alla seconda tranquillità. Andiamo, non temete. Del resto, chi ha paura vada al Getsemani a covare la sua paura fra le donne».
   Gli apostoli, sferzati da questa ultima osservazione, non parlano più. Si rimettono in fila, a file di tre per tre, e solo in quello dove è Gesù, la prima, sono in quattro, finché non viene Marziam a renderla di cinque, tanto che il Taddeo e lo Zelote si mettono dietro a Gesù lasciandolo al centro fra Pietro e Marziam.
 4 Alla porta di Damasco vedono Mannaen. «Signore, ho pensato che era meglio farmi vedere per levare ogni dubbio sulla situazione. Ti assicuro che non c'è nulla, tolto il malanimo dei farisei e scribi, di pericoloso per Te. Puoi andare sicuro».
   «Lo sapevo, Mannaen. Ma ti sono grato. Vieni con Me al Tempio. Se non ti è di peso... ».
   «Di peso? Ma per Te sfiderei tutto il mondo! Farei ogni fatica! ».
   L'Iscariota borbotta qualcosa. Mannaen si volta risentito. Dice con voce sicura: «No, uomo. Non sono "parole". Prego il Maestro di provare la mia sincerità».
   «Non ce ne è bisogno Mannaen. Andiamo».
   Procedono fra l’ingorgo della folla, e giunti ad una casa amica, si liberano dalle sacche che Giacomo, Giovanni e Andrea depositano per tutti in un atrio lungo e oscuro, raggiungendo poi i compagni.
 5 Entrano nel recinto del Tempio passando presso l’Antonia.
   I soldati romani guardano, ma non si muovono. Parlottano fra di loro. Gesù li osserva per vedere se c’è alcuno di sua conoscenza. Ma non vede né Quintilliano né il milite Alessandro.
Eccoli nel Tempio. Fra il brulichio poco sacro dei primi cortili dove sono mercanti e cambiavalute. Gesù guarda e freme. Impallidisce e pare alzarsi più ancora di statura, tanto è solenne il suo incedere severo.
   L’Iscariota lo tenta: «Perché non ripeti il gesto santo? Lo vedi? Se ne sono dimenticati… e la profanazione è di nuovo nella Casa di Dio. Non te ne accori? Non sorgi a difesa? ». Il viso bruno e bello, ma ironico e falso nonostante ogni studio di Giuda per non farlo apparire tale, è persino volpino mentre, un poco curvo, come per venerabondo ossequio, dice queste parole a Gesù scrutandolo da sotto in su.
   «Non è l’ora. Ma tutto ciò sarà purificato. E per sempre!… », dice reciso Gesù.
   Giuda ride lievemente e commenta: «Il "per sempre" degli uomini!! Molto precario, Maestro! Tu lo vedi!..».
   Gesù non gli risponde, intento come è a salutare da lontano Giuseppe d’Arimatea che passa avvolto nei suoi paludamenti, seguito da altri.
   Fanno le preghiere di rito e poi tornano al cortile dei Gentili, sotto i cui portici si affolla la gente.


 6 I proseliti, incontrati per via, hanno sempre seguito Gesù. Hanno trascinato i loro malati con loro ed ora li adagiano all’ombra, sotto i portici, vicino al Maestro. Le loro donne, che li hanno attesi qui, si accostano piano piano. Tutte velate. Ma una è già seduta, forse perché malata, e le compagne la conducono presso gli altri malati. Altra gente si affolla intorno a Gesù. Vedo che c’è dello stupore e del disorientamento nei gruppi rabbinici e sacerdotali per l’aperta venuta e predicazione di Gesù.

   «La pace sia con voi, o voi che ascoltate!
   La Pasqua santa riconduce i figli fedeli nella Casa del Padre. Sembra, questa nostra Pasqua benedetta, una madre sollecita del bene dei figli, la quale li appelli a gran voce perché vengano, vengano da ogni dove, lasciando in sospeso ogni cura per una cura più grande. L’unica veramente grande ed utile. Quella di onorare il Signore e Padre. Da questo si capisce come siamo fratelli; e da questo, con testimonianza soave, sorge l’ordine e l’impegno di amare il prossimo come se stessi. Non ci siamo mai visti? Ci ignoravamo? Sì. Ma se qui siamo, perché figli di un unico Padre che ci vuole nella sua Casa al banchetto pasquale, eco che, se non coi sensi materiali, certo con la parte superiore, noi sentiamo di essere uguali, fratelli, venuti da Un solo, e ci amiamo perciò come fossimo cresciuti insieme. Anticipo, questa nostra unione di amore, dell’altra più perfetta che godremo nel Regno dei Cieli, sotto lo sguardo di Dio, tutti abbracciati dal suo Amore: Io Figlio di Dio e dell’uomo, con voi, uomini figli di Dio; Io, Primogenito, con voi, fratelli amati oltre ogni umana misura, sino a farmi Agnello per i peccati degli uomini.
   Ma noi, che godiamo al momento presente la nostra fraterna unione nella Casa del Padre, ricordiamoci anche dei lontani, che pure sono fratelli: nel Signore o nell’origine. Abbiamoli in cuore. Portiamoli nel nostro cuore, essi, gli assenti, davanti all’altare santo. Preghiamo per loro, raccogliendo con lo spirito le loro voci lontane, le loro nostalgie di essere qui, i loro aneliti. E come raccogliamo questi aneliti coscienti degli israeliti lontani, raccogliamo anche quelli delle anime che appartengono a uomini che neppur sanno di avere un’anima e di essere figli di Un solo. Tutte le anime del mondo gridano nelle prigioni dei corpi verso l’Altissimo. In buia carcere gemono verso la Luce. Noi, che nella luce della fede vera siamo, abbiamo misericordia di loro.

 7 Oriamo:
   Padre nostro che sei nei Cieli, sia santificato da tutta l’umanità il tuo Nome! Conoscerlo è avviarsi alla santità. Fa che i gentili e i pagani conoscano questa tua esistenza, o Padre santo, e come i tre saggi di un tempo, ormai lontano ma non inerte, perché nulla è inerte di ciò che ha attinenza coll’avvento della Redenzione nel mondo, vengano a Dio, a Te, Padre, guidati dalla Stella di Giacobbe, dalla Stella del mattino, dal Re e Redentore della stirpe di Davide, dal tuo Unto, già offerto e consacrato per essere Vittima per i peccati del mondo.
   Venga il tuo Regno in ogni luogo della Terra dove ti si conosce e ama, dove ancora non ti si conosce. E venga soprattutto a quelli, i tre volte peccatori, che pur conoscendoti non ti amano nelle tue opere e manifestazioni di luce, e cercano respingere e soffocare la Luce venuta nel mondo, perché sono anime di tenebre, e non sanno che voler soffocare la Luce del mondo è fare offesa a Te stesso, perché Tu sei la Luce Ss. e Padre di tutte le luci, cominciando da quella che si è fatta Carne e Parola per portare la tua luce a tutti gli animi di buona volontà.
   Sia fatta, Padre Ss., la tua volontà da ogni cuore che è nel mondo, si salvi cioè ogni cuore, e per nessuno sia senza frutto il sacrificio della Gran Vittima, perché questa è la tua volontà: che l’uomo si salvi e goda di Te, Padre santo, dopo il perdono che sta per essere dato.
   Dàcci i tuoi aiuti, o Signore; tutti i tuoi aiuti. E dàlli a tutti quelli che attendono, a quelli che non sanno di attendere, dàlli ai peccatori col pentimento che salva, dàlli ai pagani con la ferita della tua chiamata che scuote, dàlli agli infelici, dàlli ai reclusi, agli esiliati, ai malati di corpo o di spirito, dàlli a tutti, Tu che sei il Tutto, perché il tempo della Misericordia è venuto.
   Perdona, o Padre buono, i peccati dei tuoi figli. Di quelli del tuo popolo, che sono i più gravi, di quelli dei colpevoli di voler stare nell’errore, mentre il tuo amore di predilezione proprio a questo popolo ha dato la Luce. E dà il perdono a quelli che abbruttisce un paganesimo corrotto che insegna il vizio, e che affogano nella idolatria di questo paganesimo pesante e mefitico, mentre fra essi sono anime di prezzo esse pure, e che Tu ami avendole create. Noi perdoniamo, Io per primo perdono poiché Tu possa perdonare, e sulla debolezza delle creature invochiamo la tua protezione perché liberi dal Principio del Male, dal quale vengono tutti i delitti, tutte le idolatrie, tutte le colpe, tentazioni e errori, i tuoi creati. Liberali, o Signore, dal Principe orrendo, perché possano venire alla Luce eterna ».

 8 La gente ha seguito attenta questa solenne orazione. Si sono accostati rabbi famosi, fra i quali, tenendosi penosamente il mento barbuto, è anche Gamaliele… E si sono accostate un gruppo di donne, tutte avvolte in mantelli con una specie di cappuccio che ne vela i volti. E i rabbi si sono scostati sdegnosi… E sono accorsi, attirati dalla notizia che il Maestro è giunto, molti discepoli fedeli, fra i quali Erma, Stefano, il sacerdote Giovanni. E poi Nicodemo e Giuseppe, inseparabili, e altri amici loro che mi pare di avere già visto. 
   Nella pausa che succede all’orazione del Signore, che si raccoglie in Sé, solennemente austero, si sente Giuseppe d’Arimatea dire: «Ebbene, Gamaliele? Non ti pare questa, ancora non ti pare questa, parola del Signore? ».
   «Giuseppe, mi fu detto: “Queste pietre fremeranno al suono delle mie parole” », risponde Gamaliele.
Stefano, irruente, grida: «Compi il prodigio, o Signore! Ordina, ed esse si scardineranno! Crollasse l’edificio, ma sorgessero nei cuori le muraglie della tua Fede, grande dono sarebbe! Fàllo al mio maestro! ».
   «Bestemmiatore! », urla un gruppo rabbioso di rabbi e di allievi degli stessi.
   «No », grida a sua volta Gamaliele.
   «Il mio discepolo parla dicendo parola ispirata. Ma noi non possiamo accettarla perché l’angelo di Dio non ci ha ancora mondati dal passato col carbone tolto dall’Altare di Dio… (Isaia 6, 6-7) E forse, neppure se il grido della sua voce », e accenna a Gesù, «scrollasse i cardini di queste porte, noi sapremmo ancora credere… ». Si alza un lembo dell’ampio mantello candidissimo e se ne incappuccia, velandosi quasi il volto e se ne va.
   Gesù lo guarda andare…

 9 Poi riprende la parola rispondendo ad alcuni che borbottano fra loro e che appaiono scandalizzati e che, per fare più esplicito il loro scandalo, lo scaricano su Giuda di Keriot con una sequela di querimonie che l’apostolo sorbisce senza reagire, stringendosi nelle spalle con un volto per nulla soddisfatto.


Udite, voi tutti, una parabola.

   Gesù dice:
   «In verità, in verità vi dico che coloro che paiono bastardi sono figli veri, e quelli che sono figli veri divengono bastardi. Udite, voi tutti, una parabola.
   Un tempo ci fu un uomo il quale, per alcuni suoi impegni, dovette assentarsi per lungo tempo da casa lasciando dei figli ancora poco più che fanciulli. Dal luogo in cui si trovava scriveva lettere ai suoi figli maggiori per tenerli sempre nel rispetto del padre lontano e per ricordare loro i suoi insegnamenti. L’ultimo, nato quando egli era partito, era ancora a balia presso una donna lontana di lì, dei paesi della moglie, che non era della sua razza. La moglie venne a morire mentre questo figlio era ancora piccolo e lontano da casa. I fratelli dissero: “Lasciamolo là dove è, presso i parenti di nostra madre. Forse il padre se ne scorderà e noi ne avremo utile, avendo a dividere con uno di meno, quando nostro padre verrà a morte”. E così fecero. In questa maniera il fanciullo lontano visse allevato dai parenti materni, ignorando gli insegnamenti del padre, ignorando di avere un padre e dei fratelli, o peggio conoscendo l’amarezza della riflessione: “Essi tutti mi hanno ripudiato come fossi un bastardo”, e giunse persino a credere di esserlo, tanto si sentiva reietto dal padre.
   Il caso volle che, fatto uomo e messosi ad un impiego – perché, inasprito come era dai pensieri sopradetti, aveva preso in odio la famiglia si sua madre, che riputava colpevole di adulterio – questo giovane andasse nella città dove era il padre suo. E senza sapere chi fosse lo avvicinò ed ebbe modo di sentirlo parlare. L’uomo era un saggio. Non avendo soddisfazioni dai figli lontani – che ormai facevano da sé, mantenendo solo rapporti convenzionali col padre lontano, tanto per ricordargli che essi erano i “suoi” figli e che perciò se ne ricordasse nel testamento – si occupava molto di dare retti consigli ai giovani che aveva modo di avvicinare nella terra dove era. Il giovane fu attratto da quella rettezza, che era paterna verso tanti giovani, e non solo si accostò a lui ma fece tesoro di ogni sua parola, facendo buono il suo animo inasprito. L’uomo si ammalò, dovette decidersi a tornare in patria. E il giovane gli disse: “Signore, tu solo mi hai parlato con giustizia, elevando l’animo mio. Lascia che io ti segua come servo. Non voglio ricadere nel male di prima”. Vieni con me. Starai al posto di un figlio di cui non ho più potuto avere notizia”. E tornarono insieme alla casa paterna.
   Né il padre, né i fratelli, né lo stesso giovane, intuirono che il Signore aveva riunito di nuovo quelli di un sangue sotto un unico tetto. Ma il padre ebbe molto a piangere per i figli a lui noti, perché li trovò dimentichi dei suoi insegnamenti, avidi, duri di cuore, non più con la fede in Dio ma sibbene con molte idolatrie in cuore: superbia, avarizia e lussuria erano i loro dèi, e non volevano sentire di altro che utile umano non fosse. Lo straniero, invece, sempre più si accostava al Signore, si faceva giusto, buono, amoroso, ubbidiente. I fratelli lo odiavano perché il padre amava quello straniero. Egli perdonava e amava perché aveva capito che nell’amore è la pace.
   Il padre, un giorno, disgustato dalla condotta dei figli, disse: “Voi vi siete disinteressati dei parenti di vostra madre e persino del fratello vostro. Mi ricordate la condotta dei figli di Giacobbe verso il loro fratello Giuseppe. (Genesi 37, 3-28) Voglio andare a quelle terre per sapere di lui. Può darsi che lo ritrovi e che ne abbia conforto”. E si accomiatò tanto dai figli noti come dal giovane sconosciuto, dando a questo viatico di denaro perché potesse tornare al luogo da dove era venuto e mettervi un piccolo commercio.
Giunto alle terre della moglie morta, i parenti di essa gli raccontarono che il figlio abbandonato, dal nome
primitivo di Mosè era passato a quello di Manasse (il cui significato, spiegato subito dopo, è in: Genesi 41, 51), perché realmente egli col suo nascere aveva fatto dimenticare al padre di essere giusto avendolo abbandonato.
   “Non fatemi torto! Mi era stato detto che del fanciullo si erano perdute le tracce, e neppure speravo trovare più alcun di voi. Ma ditemi di lui. Come è? È cresciuto forte? Assomiglia alla mia amata sposa che si esaurì nel darmelo? È buono? Mi ama?”.
   Forte è forte, e bello come la madre sua, solo che ha gli occhi di un nero schietto. Ma persino della madre ha preso la voglia di carruba sul fianco. Di te invece ha la pronuncia lievemente blesa. Andò da adulto via di qui, inasprito della sua sorte, avendo dubbi sull’onestà della madre, e per te avendo del rancore. Buono sarebbe stato se non avesse avuto questo rancore nell’anima. Andò oltre monti e fiumi fino a Trapezius per…”.
   “A Trapezius dite? Nel Sinopio? Oh! dite! Io là ero e vidi un giovane che era lievemente bleso, solo e triste, e buono tanto sotto la sua crosta di durezza. È lui? Dite!”.
   Forse lui sarà. Ricercalo. Sul fianco destro ha la carruba rilevata e scura come l’aveva la moglie tua”.
   L’uomo partì a precipizio, sperando ritrovare ancora lo straniero alla sua casa. Era partito per tornare verso la colonia di Sinopio. E l’uomo dietro… lo trovò. Lo fece venire per scoprirgli il fianco. Lo riconobbe. Cadde in ginocchio lodando Iddio per avergli reso il figlio, e buono più degli altri che sempre più imbestiavano mentre questo, nei mesi che erano intercorsi, si era sempre più fatto santo. E al figlio buono disse: “Tu avrai la parte dei fratelli perché tu, senza amore da parte di alcuno, ti sei fatto giusto più di ogni altro”.
E non era giustizia? Sì che lo era. In verità vi dico che sono veri figli del Bene coloro che reietti dal mondo e spregiati, odiati, vilipesi, abbandonati come bastardi, reputati obbrobrio e morte, sanno superare i figli cresciuti nella casa ma ribelli alle leggi di essa. Non è essere d’Israele che dà diritto al Cielo. Né è essere farisei, scribi o dottori che assicura la sorte. È avere buona volontà e venire generosamente alla Dottrina di amore, farsi nuovi in essa, farsi per essa figli di Dio in spirito e verità. 
   Voi tutti che udite, sappiate che molti, che si credono sicuri in Israele, saranno soppiantati da coloro che per essi sono pubblicani, meretrici, gentili, pagani e galeotti. Il Regno dei Cieli è di chi sa rinnovarsi accogliendo la Verità e l’Amore ».


10 Gesù si volge e va verso il gruppo dei malati proseliti. «Sapete voi credere in quanto ho detto?», chiede forte.
   «Sì, o Signore! », rispondono in coro.
   «Volete voi accogliere Verità e Amore? ».
   «Sì, o Signore ».
   «Non vi dessi che queste, sareste contenti? ».
   «Signore, Tu sai ciò che più ci abbisogna. Dàcci soprattutto la tua pace e la vita eterna ».
   «Alzatevi e andate a lodare il Signore! Siete guariti nel Nome santo di Dio ».
   E rapido si dirige alla prima porta che trova, mescolandosi nella folla che satura Gerusalemme, prima ancora che l’orgasmo e lo stupore che è nel cortile dei Pagani possa mutarsi in ricerca osannante di Lui…
Gli apostoli, disorientati, lo perdono di vista. Solo Marziam, che non ha mai lasciato di tenergli un lembo del mantello, gli corre a lato felice dicendo: «Grazie, grazie, grazie, Maestro! Per Giovanni, grazie! Ho scritto tutto mentre parlavi. Non ho che da aggiungere il miracolo. Oh! è bello! Proprio per lui! Egli ne sarà felice tanto!… ».


AMDG et DVM

sabato 4 aprile 2020

Aldo Fabrizi - Il maestro (film)




Il maestro Aldo Fabrizi



AMDG et DVM

LA VIOLETTA

LA VIOLETTA



croce
Mi pare che sia quasi inutile scrivere ancora avendo detto tutto1. Ma lei si raccomanda di scrivere le cose che più mi colpiscono e io ubbidisco.
È la sera del Giovedì Santo.2 Parlando di Gesù non  mi distraggo perciò da Lui, ma anzi mi concentro in Lui. Le dirò dunque come ho passato queste ultime ventiquattro ore. Lei ieri sera mi ha visto sfinita. Ero realmente sfinita. Ma quando tocco il fondo della resistenza umana, e a chi mi vede do l’impressione di essere un povero essere incapace persino di pensare, è proprio allora che ho delle – dirò così – illuminazioni.

Ieri sera avevo letto il giornale; poi, stanca anche di quello, avevo chiuso gli occhi e stavo così… inerte.

D’un tratto ho visto, mentalmente, un terreno molto sassoso e brullo. Pareva la cima di un poggetto, come se ne vedono tanti sulle nostre colline. Nudo di vegetazione, solo ricco di pietre e selci ruvide e biancastre, aveva tutt’intorno un vasto orizzonte.
Proprio sulla cima era nata una pianta di mammole. Unica cosa che vivesse in tanto squallore.

Vedevo distintamente il ciuffo delle foglie ben folto e riunito come per opporre resistenza ai venti che battevano la cima. Qualche boccio di viola, più o meno aperto, sporgeva il capino dal cespo verde. Ma di completamente sbocciata non ce n’era che una. Bella, di un colore pieno, aperta e protesa verso l’alto.

Fu il suo stare così ritta, quasi fosse attirata da una forza speciale, che mi colpì l’attenzione e mi fece cercare con lo sguardo. E vidi un’asse, una grossa asse infissa nel suolo. Pareva un tronco appena piallato, quasi grezzo e scabro. A un mezzo metro dal suolo, forse meno, stavano due piedi trafitti… Non ho visto che quelli ieri sera. Due piedi torturati. E che fossero torturati acerbamente lo diceva la contrattura degli stessi con le dita quasi ripiegate verso la pianta come per spasimo tetanico.

Del sangue, scivolando lungo i calcagni,scendeva sull’asse scabra e la rigava sino al suolo. Altre gocce cadevano dalle dita contratte e piovevano sul cespo di viole. Ecco a che tendeva la violetta tutta tesa verso l’alto! A quel sangue che la nutriva come, fra tanto squallore di suolo, nutriva quell’unico cespo, saputo nascere contro quel legno.

Molte cose mi ha detto quella vista… E quando lei è venuto, io ero dietro a vedere quel segno che era la mia predica del Mercoledì Santo. Non si è dileguata la figurazione. Non dileguano facilmente. Restano nel cervello, nitide anche se le cose abituali le soverchiano, o tentano di soverchiarle.

Stamane poi, anche prima che lei venisse, ho intravisto il resto del corpo. Dico: intravisto, peché mi appariva e spariva come fra il fluttuare di veli di nebbia. Molto più nitido è stato altre volte… Ma allora mi pareva morto. Ora mi pare vivo. E penso sia una grande pietà di Gesù non mostrarmi oggi il suo viso. Gesù è talmente addolorato, la sua tristezza ha aggiunto una intensità così forte per tutta la nequizia umana che non si stanca d’esser tale – ma anzi sempre più diviene nequizia – che non potremmo sopportare, senza morirne di dolore, l’espressione del suo divino volto.

Gesù, il mio Maestro, con la sua parola senza suono, mi dice che il mio posto è più che mai ai piedi della sua croce. Dal suo Sangue solo, io devo trarre vita… e il mio compito è solo quello di essere incenso ai piedi del suo trono di Redentore. Incenso che copre, col suo profumo, il lezzo del peccato, della cattiveria, della ferocia che la terra esala. L’incenso non profuma che ardendo e consumandosi, E io devo fare la stessa cosa.

Mi dice anche che il fiore può attirare altri sguardi alla sua Croce, può far curvare altre creature sotto la pioggia del suo Sangue. Questo il compito del fiore verso il prossimo e verso Dio. Riparazione d’amore verso Gesù e attrazione a Gesù di molti cuori, accettando di vivere, per questo, in un brullo deserto, sola con la croce.

Potrei dire che sono rimasta con le labbra appoggiate a quei piedi trafitti come bevendo ad una sorgente che è freschezza e ardore insieme. Una sensazione spirituale, ma così viva da parere reale…

Stamane poi alle 10 mi è giunta da Roma una lettera di una mia Suora, lettera che le mostrerò e nella quale si parla proprio di questa missione ai piedi della croce, e alla lettera è unita una immagine con un Crocifisso e sotto un turibolo ardente e la scritta: ‘Si elevi la mia orazione come l’incenso al tuo cospetto’. Ho preso tutto questo come un muto discorso del mio Gesù alla sua piccola ostia che si consuma piano piano più d’amore che di malattia.

Penso che domani è il Venerdì Santo: il giorno dei giorni per me. Vorrei accumulare sacrifici a sacrifici per fare di esso un vero giorno di espiazione. Ma può fare così poche cose ormai Maria! Ebbene, faremo quelle poche cose. Del resto… può darsi che domani ci pensi Gesù a darmi la mia parte di dolore espiatorio. Io sto qui, ben stretta alla Croce. E’ il posto delle Marie, del resto. Così non mi sfuggirà neppure un cenno del mio Redentore…



Mattina del Venerdì Santo.3

Dice Gesù:
«La prima volta mio Padre per purificare la terra mandò un lavacro d’acque, la seconda mandò un lavacro di sangue, e di che Sangue! Né il primo né il secondo lavacro sono valsi a fare degli uomini dei figli di Dio. Ora il Padre è stanco, e a far perire la razza umana lascia che si scatenino i castighi dell’inferno, perché gli uomini hanno preferito l’inferno al Cielo e il loro dominatore: Lucifero, li tortura per spingerli a bestemmiarCi per farne dei suoi completi figli.

Io verrei una seconda volta a morire, per salvarli da una morte più atroce ancora… Ma il Padre mio non lo permette… Il mio Amore lo permetterebbe, la Giustizia no. Sa che sarebbe inutile. Perciò verrò soltanto all’ultima ora. Ma guai a quelli che in quell’ora mi vedranno  avendo eletto a loro signore Lucifero! Non vi sarà bisogno di armi nelle mani dei miei angeli per vincere la battaglia contro gli anticristi. Basterà il mio  sguardo.

Oh! Se gli uomini sapessero ancora volgersi a Me che sono la salvezza! Non desidero che questo e piango perché vedo che niente è capace di fare loro alzare il capo verso il Cielo da dove Io tendo loro le braccia.

Soffri, Maria,e dì ai buoni di soffrire per sopperire al mio secondo martirio che il Padre non vuole Io compia. Ad ogni creatura che si immola è concesso di salvare qualche anima. Qualche… e non è a stupirsi siano poche le concesse ad ogni piccolo redentore se si pensa che Io, il Redentore divino, sul Calvario, nell’ora dell’immolazione, di tutte le migliaia di persone presenti al mio morire sono riuscito a salvare il ladrone, Longino, e pochi, pochi altri…»



1 Maria Valtorta: ‘Autobiografia’, pag. 64 (Centro Ed. Valtortiano) dove la mistica parla a Padre Migliorini, suo Direttore spirituale.
2 22 aprile 1943
3 E’ il primo dettato ricevuto da Maria Valtorta. Marta Diciotti riferisce che avvenne verso mezzogiorno del 23 aprile 1943, venerdì santo…

AMDG et DVM

Alla mia veste nera

Alla mia veste nera



Alcune commoventi considerazioni sulla talare da parte di mons. Francesco Olgiati (1886-1962), uno dei fondatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

O cara veste nera, da alcune settimane tutti parlano di te. Nel volume su L'attività della Santa Sede nel 1958 era detto: "Attese le varie richieste pervenute circa l'abito talare, è stata iniziata una vasta indagine sulla questione della forma dell'abito ecclesiastico, ed è stata concessa agli ordinari diocesani (cioè ai Vescovi) qualche facoltà di dispensa, in casi particolari, ferma sempre restando la regola di usare la veste talare nell'esercizio della potestà di ordine e di giurisdizione".

Queste poche righe hanno dato origine a mille discussioni, anche sulla stampa nostra. E le fantasie hanno galoppato.

Alcuni si sono appellati alla storia, dal secolo V ai Concili Lateranense IV (213) e Viennese (1312), che agli ecclesiastici imposero un abito diverso dal comune, da Sisto V a Pio IX.

Altri hanno fatto ricorso alla moda dei paesi tedeschi ed anglosassoni, che concedono ai sacerdoti l'abito cosidetto alla "clergyman", pur imponendo la "talare", come esige il Codice di Diritto canonico, nelle funzioni sacerdotali.
Altri hanno rievocato i tempi della Rivoluzione francese, quando anche in Paesi latini - come oggi nelle terre comuniste - il clero, a causa della persecuzione, non si distingueva affatto per i suoi abiti dai laici.

Altri, infine, hanno osservato che "la veste talare, oltre ad essere fastidiosa d'estate e ingombrante sempre, diventa un ridicolo intralcio ed anche un reale pericolo quando, proprio per ragioni del suo ministero, il prete deve usare la bicicletta e la motoreta", mezzi diventati, ormai, indispensabili per chi è in cura d'anime. Nè è da omettersi, hanno aggiunto, "la tendenza del clero non ad isolarsi in una torre d'avorio, ma ad accostarsi il più possibile alla vita del popolo cristiano affidato alle sue cure, a dividerne le sofferenze e le contrarietà".

Cara mia veste nera, pur sapendo che non si tratta di una questione sostanziale, ma solo d'una materia disciplinare di esclusiva competenza dell'autorità ecclesiastica, io non ho potuto fare a meno di guardarti e di meditarti.Sono vecchio e ti voglio bene.

Tu mi perdonerai se io non mi interesso degli argomenti accennati. Non voglio discuterli. Solo voglio dire a te una parola. Ti porto da tanti decenni. Quando ero fanciullo e, prima degli undici anni, entrai in Seminario, si usava indossarti fin dalla prima ginnasiale e tenerti anche nelle vacanze. Ricordi, mia cara veste nera, il giorno della mia vestizione? Ti aveva preparata la mia santa mamma, povera ed inesperta, aiutata da una vecchia sarta volenterosa. Assisteva al rito e pianse quando il vecchio Prevosto me ne rivestì e asperse. Con la benedizione del Parroco e con le lacrime materne uscii dalla chiesa. Com'ero felice, o mia cara veste nera! Potevo io concepire un tesoro più grande e più prezioso di te? Lo fosti sempre durante i miei dodici anni di Seminario e in seguito per tutta la mia vita.
In Seminario subito mi hanno insegnato a baciarti, quando alla sera mi spogliavo per andare al riposo. Quanti baci e di che cuore!

O veste nera della mia prima Messa e di tante Messe celebrate e di tanti azioni sacerdotali compiute! O veste nera, che accanto al letto dei morenti avevi un significato ed un tuo singolare linguaggio! O veste nera, che non mi hai mai costretto ad isolarmi in una torre d'avorio, pur ricordandomi in ogni occasione il mio sacerdozio, anche nel fervore di dispute accese e nelle battaglie per la difesa della verità, in congressi, in associazioni, nelle scuole!

Tu hai conosciuto talvolta, soprattutto in alcuni tempi, l'insulto villano del teppista; ma quanto in quei momenti sono stato fiero di te e ti ho amato!
T'ho riguardata sempre come una bandiera...bandiera nera, sì. Simbolo di morte. ma non potevo vergognarmi, perchè mi simboleggiavi il Crocifisso, che, appunto perchè tale, è risurrezione e vita.

Ora che sono al tramonto, sentendo discorrere di te, ho capito sempre più e sempre meglio che ti amo tanto.

Non so se ti modificheranno, se ti sostituiranno, se ti cambieranno. Avranno le loro ragioni. Anzi, se scoppiasse una persecuzione, ti strapperebbero da me. Non importa. Persino in questo caso tu saresti nel mio cuore. E vi rimarrai per sempre.

Quando tra breve chiuderò gli occhi, voglio che tu scenda con me nella tomba. Rivestito di te, avvolto nelle tue pieghe, dormirò più tranquillo il sonno della morte. Più non potrò darti il bacio del mio affetto. Il mio cuore più non batterà. Ma se qualcuno potesse leggere nelle sue fibre più profonde, troverebbe scolpita una parola di amore e di fierezza per te, o cara e dilettissima veste nera...

Maggio 1959