sabato 21 dicembre 2019

Da: I quadernetti di M. Valtorta

La veggente Melania Calvat di La Salette - la cui tomba è nella Chiesa di sant'Antonio in Altamura (Bari) - ci parla della Madre e Mamma nostra Maria Santissima


Pubblicato il 11/02/2017 10:46:03
(La Madonna descritta dalla veggente Melania Calvat.)

"La Vergine Santissima era alta e ben proporzionata. Sembrava essere tanto leggera che sarebbe bastato un soffio per farla muovere, però era immobile e molto stabile. La sua figura era maestosa, ed imponeva una timidezza rispettosa. La sua maestà ispirava rispetto misto ad amore, che attirava a lei.

La Vergine SS. era tutta bella, e tutta fatta d’amore. Guardandola io languivo per fondermi in lei. Dalla sua persona come dai suoi ornamenti, da tutto trapelava la maestà, lo splendore, la magnificenza fulgente, celeste, fresca, nuova come una vergine. Sembrava che la parola amore sfuggisse dalle sue labbra rosee e pure. Aveva l’aspetto di una mamma affettuosa, piena di bontà, d'amabilità, d'amore per noi, di compassione e misericordia.

Il suo sguardo era dolce e penetrante, i suoi occhi sembrava che parlassero con i miei, ma la conversazione proveniva da un profondo e vivo sentimento d’amore verso questa attraente bellezza, che mi scioglieva. La dolcezza del suo sguardo, l’aria di bontà incomprensibile facevano intendere che lei attirava a sé per donarsi. Era un’espressione d’amore che a parole non si può esprimere.

La Madonna era circondata da due luci. La prima, più vicina a lei, arrivava fino a noi, e brillava con splendore vivissimo. La seconda luce si espandeva un po’ più attorno alla bella Signora, e noi ci trovavamo immersi in essa; era immobile, cioè non brillava, ed era molto più luminosa del nostro sole terrestre. Oltre tutto questo splendore vi erano altri fasci di luce, come se nascessero dal corpo della Vergine SS., dai suoi abiti, da tutto. Tutte queste luci non facevano male agli occhi, e non affaticavano la vista.

La visione della Vergine SS. era di per sé un intero paradiso. Lei aveva in sé tutto quanto può soddisfare, poiché si dimenticava questa terra.

Il suo abito era bianco e argenteo, molto splendente. Non aveva nulla di materiale, ma fatto di luce e gloria, vario e scintillante. Sulla terra non vi sono espressioni né paragoni da poter fare.
Aveva un grembiule giallo, più luminoso del sole. Non di una stoffa materiale, ma un composto di gloria, risplendente di una bellezza che rapiva.

Le scarpe, poiché così bisogna chiamarle, erano di un brillante bianco argenteo, e intorno vi erano delle rose. Queste rose erano di una bellezza abbagliante, e dal centro d'ognuna usciva come una fiamma di luce bellissima e gradevolissima. Sulle scarpe vi era un fermaglio d’oro, ma non oro di questo mondo, bensì del paradiso.

La corona di rose che portava sulla testa era così bella, così brillante, da non potersene fare un’idea. Le rose, di diversi colori, non erano di questa terra. Era un insieme di fiori che circondava il capo della Vergine SS. in forma di corona; ma le rose cambiavano e si ricambiavano. E dal centro di ogni rosa usciva una luce così bella che rapiva, e faceva sì che la loro bellezza risplendesse. Dalla corona di rose uscivano come dei rametti d’oro, e tanti piccoli fiori misti a brillanti. Il tutto formava un diadema che da solo brillava più del nostro sole terreno.

In lei tutto mi portava ad adorare e ad amare il mio Gesù, in tutti i dettagli della sua vita umana.
La Vergine SS. aveva al collo due catene, una un po’ più lunga dell’altra. Queste catene, non posso chiamarle diversamente, erano come raggi di gloria, di un gran chiarore che variava e scintillava. A quella più corta era appesa una bella e preziosissima Croce piena di luce, su cui vi era Cristo nostro Signore. Alle due estremità della Croce vi erano da una parte un martello e dall’altra una tenaglia. Cristo era color carne, ma riluceva con grande splendore, e la sua luce sembrava come dardi lucentissimi, che m'infiammavano il cuore per il desiderio di perdermi in Lui. A volte Cristo sembrava morto, con la testa inclinata e il corpo rilassato, quasi cadesse se non fosse stato trattenuto dai chiodi che lo fissavano alla Croce. Io ne avevo una viva compassione. Avrei voluto comunicare al mondo intero il suo Amore sconosciuto, e infondere nelle anime dei mortali il più sentito amore e la più viva riconoscenza verso un Dio che non aveva assolutamente bisogno di noi per essere ciò che è, che era, e che sempre sarà. E tuttavia, oh Amore incomprensibile per l’uomo, si è fatto uomo, e ha voluto morire. Sì, morire per poter meglio scrivere nelle nostre anime e nella nostra memoria il folle Amore che ha per noi. Come mi sento infelice nel constatare la mia povertà d'espressione nel riferire l’Amore del nostro buon Salvatore per noi. Ma d’altra parte come siamo felici di poter sentire meglio ciò che non possiamo esprimere. Altre volte Cristo sembrava vivo. Aveva la testa dritta, gli occhi aperti, e sembrava sulla Croce di sua volontà. A volte anche pareva che parlasse, sembrava mostrasse che era in Croce per Amor nostro, per attirarci al suo cuore, che ha sempre un Amore nuovo per noi. Che il suo Amore dell’inizio, dell’anno 33, è come quello di oggi, e lo sarà sempre.

La voce della bella Signora era dolce, incantava, calmava, faceva bene al cuore. Era come se volessi saziarmi della sua bella voce, e il mio cuore voleva andarle incontro per struggersi in lei.
Mentre mi parlava la Vergine SS. piangeva ininterrottamente. Le sue lacrime cadevano l’una dopo l’altra lentamente fin sopra le ginocchia, poi come scintille di luce sparivano. Erano splendenti e piene d’amore. Avrei voluto consolarla e non farla piangere, ma mi sembrava che lei avesse bisogno di mostrare le sue lacrime, per meglio manifestare il suo amore dimenticato dagli uomini. Avrei voluto gettarmi fra le sue braccia e dirle:

“Mia buona Madre, non piangere. Io voglio amarti per tutti gli uomini della Terra.”
E sembrava che mi rispondesse: “Ve ne sono molti che non mi conoscono.”

Ero fra la morte e la vita vedendo da un lato tanto amore, tanto desiderio d'essere amata, e dall’altro tanta freddezza e indifferenza. Oh Madre mia, tutta bella e tanto amabile, mio amore, cuore del mio cuore. Le lacrime della nostra tenera Madre, lungi dal diminuire la sua maestà di Regina, sembravano invece renderla più bella, più potente, più piena d’amore, più materna, più attraente. Avrei mangiato le sue lacrime, che facevano sobbalzare il mio cuore di compassione e d'amore. Veder piangere una madre, e una tale Madre, senza adoperare tutti i mezzi possibili per consolarla, per cambiare i suoi dolori in gioia, si può comprendere? Oh Madre, più che buona, tu sei stata formata da tutte le prerogative di cui Dio è capace. Tu hai in un certo senso esaurito la potenza di Dio. Tu sei buona della stessa bontà di Dio. Il Creatore, formandoti come suo capolavoro celeste e terrestre, si è reso ancor più grande.

Gli occhi della SS. Vergine, nostra tenerissima Madre, non possono essere descritti da lingua umana. Per parlarne servirebbe un serafino, o meglio occorrerebbe la lingua stessa di Dio, di quel Creatore che formò la Vergine Immacolata, capolavoro della sua onnipotenza. Gli occhi dell'augusta Maria sembravano mille e mille volte più belli dei brillanti, dei diamanti, delle pietre preziose più ricercate. Brillavano come due soli, erano dolci come la stessa dolcezza, limpidi come uno specchio. In quei suoi occhi si vedeva il paradiso, attiravano a lei, sembrava che lei volesse donarsi. Più la guardavo, più desideravo guardarla, e più la guardavo, più l’amavo con tutte le mie forze. Gli occhi della bella Immacolata erano come la porta di Dio, vi si vedeva tutto quanto poteva inebriare l’anima. Quando i miei occhi s'incontravano con quelli della Madre di Dio e mia, sentivo dentro di me un gioioso rivolgimento d’amore, uno struggimento d’amore. Guardandoci i nostri occhi a loro modo si parlavano, e l’amavo talmente che avrei voluto abbracciarla proprio nell’intimo stesso di quegli occhi, che intenerivano la mia anima, e sembravano attrarla per farla fondere con la sua. I suoi occhi comunicavano un dolce tremito a tutto il mio essere, e avevo timore di fare il più piccolo movimento, per paura che le potesse essere minimamente sgradevole.

La sola vista dei suoi occhi sarebbe bastata a costituire il Cielo di un beato. Sarebbe bastata a far entrare un’anima nella pienezza della volontà dell’Altissimo, per tutti gli avvenimenti che capitano nel corso della vita mortale. Sarebbe bastata a far fare a quest’anima degli atti di lode, di ringraziamento, di riparazione, d'espiazione. Questa visione da sola concentra l’anima in Dio, e la rende come una morta vivente che guarda tutte le cose della terra, anche quelle che sembrano più serie, come se fossero semplici giochi di bambini. L’anima vorrebbe soltanto sentir parlare di Dio, e di tutto ciò che riguarda la sua gloria. Il solo male che l'anima vede sulla terra è il peccato, e se Dio non la sostenesse, ne morrebbe di dolore.
Amen."


venerdì 20 dicembre 2019

La donna ha sparso ai miei piedi il profumo della sua gioia di salvata.

VOLUME III CAPITOLO 200



CC. Aglae a colloquio con il Salvatore.

  25 giugno 1945.
 1 Gesù rientra solo nella casa dello Zelote. La sera sta scendendo, placida e serena dopo tanto sole. Gesù si affaccia alla porta della cucina, saluta e poi sale a meditare nella stanza superiore, già preparata per la cena. Non pare molto lieto, il Signore. Sospira spesso e passeggia avanti e indietro per lo stanzone, gettando ogni tanto uno sguardo sulla campagna circostante, che è visibile dalle molte porte di questa ampia stanza che fa da cubo sopra il piano terreno. Esce anche a passeggiare sulla terrazza, facendo il giro della casa, e si immobilizza sul lato posteriore a guardare Giovanni di Endor, che cortesemente attinge acqua ad un pozzo per offrirla alla indaffarata Salome. Guarda, scrolla il capo, sospira.
   La potenza del suo sguardo attira Giovanni, che si volge a guardare e che chiede: «Maestro, mi vuoi?».
   «No, ti guardavo solamente».
   «E' buono Giovanni. Mi aiuta» dice Salome.
   «Anche di questo aiuto Dio gliene darà compenso».
   Gesù, dopo queste parole, rientra nella stanza e si siede.
 2 E' tanto assorto che non avverte il brusio di molte voci e lo scalpiccio di molti passi entro il corridoio di entrata, e poi due pedate leggere che salgono la scaletta esterna e si avvicinano allo stanzone. Solo quando Maria lo chiama alza il capo. «Figlio, è giunta da Gerusalemme Susanna con la famiglia e mi ha subito accompagnato Aglae. La vuoi udire mentre siamo soli?».
   «Sì, Madre. Subito. E che non salga nessuno finché tutto è finito. Spero avere tutto finito prima del ritorno degli altri. Ma ti prego di vegliare acciò non ci siano curiosità indiscrete... in nessuno... e specie per Giuda di Simone».
   «Sorveglierò con cura...»
   Maria esce per tornare dopo poco tenendo per mano Aglae, non più infagottata nel suo mantellone grigio e nel suo velo calato sul davanti, non più con i sandali alti e complicati di fibbie e di strisce che aveva prima, ma resa in tutto simile ad una ebrea per i sandali piatti e bassi, semplicissimi come quelli di Maria, per la veste di un azzurro cupo sulla quale è drappeggiato il manto, e per il velo bianco messo come lo usano le donne ebree popolane, ossia semplicemente sul capo con un lembo gettato sulle spalle di modo che il viso ne è velato ma non totalmente. L'abito comune a quello di infinite altre donne, e l'essere in un gruppo di galilei, hanno risparmiato ad Aglae di essere riconosciuta. Entra a capo chino, divenendo di porpora ad ogni passo che fa, e credo che, se Maria non la tirasse dolcemente verso Gesù, si sarebbe inginocchiata sulla soglia.
   «Ecco, Figlio, colei che ti cerca da tanto tempo. Ascoltala» dice Maria quando è presso a Gesù e poi si ritira, abbassando le tende sulle porte spalancate e chiudendo quella che è più prossima alla scaletta.
 3 Aglae si libera del sacchetto che ha sulle spalle e poi si inginocchia ai piedi di Gesù con un grande scoppio di pianto. Scivola fino a terra e piange col capo appoggiato sulle braccia incrociate al suolo.
   «Non piangere così. Non è più tempo. Piangere dovevi quando eri in odio a Dio. Non ora che lo ami e ne sei amata».
   Ma Aglae continua a piangere... «Non credi che così è?».
   La voce si fa strada fra i singhiozzi: «Io lo amo, è vero, come so, come posso... Ma, per quanto io sappia e creda che Dio è Bontà, non posso osare di sperare di avere il suo amore. Ho troppo peccato... Lo avrò, forse, un giorno... Ma devo piangere tanto ancora... Per ora sono sola nel mio amore. Sono sola... Non è la disperata solitudine degli anni passati. E' una solitudine piena del desiderio di Dio, perciò non più disperata... ma così triste, così triste...».
   «Aglae, come male ancora conosci il Signore! Questo desiderio di Lui ti è prova che Dio risponde al tuo amore, che ti è amico, che ti chiama, che ti invita, che ti vuole. Dio è incapace di rimanere inerte davanti al desiderio della creatura, perché quel desiderio lo ha acceso Lui, Creatore e Signore di ogni creatura, in quel cuore. Lo ha acceso Lui perché ha amato di privilegiato amore l'anima che ora lo desidera. Il desiderio di Dio sempre precede il desiderio della creatura, perché Egli è il Perfettissimo e perciò il suo amore è ben più solerte e acceso dell'amore della creatura».
   «Ma come, come può Dio amare il mio fango?».
   «Non cercare di comprendere con la tua intelligenza. E' un abisso di misericordia, incomprensibile a mente umana. Ma là dove l'intelligenza dell'uomo non può comprendere, comprende invece l'intelligenza dell'amore, l'amore dello spirito. Questo comprende ed entra sicuro nel mistero che è Dio e nel mistero dei rapporti dell'anima con Dio. Entra, Io te lo dico. Entra poiché Dio lo vuole».
   «Oh! Salvatore mio! Ma allora io sono proprio perdonata? Amata proprio io sono? Lo devo credere?».
   «Ti ho mai mentito?».
   «Oh! no, Signore! Tutto quanto mi hai detto ad Ebron si è avverato. Tu mi hai salvata come è detto dal tuo Nome. Tu mi hai cercata, povera anima perduta. Tu mi hai dato la vita di quest'anima che io portavo in me morta. Tu mi hai detto che se ti avessi cercato ti avrei trovato. E fu vero. Tu mi hai detto che sei dovunque l'uomo ha bisogno di medico e di medicina. Ed è vero. Tutto, tutto quanto hai detto alla povera Aglae, da quelle parole del mattino di giugno, alle altre dell'Acqua Speciosa...»
   «Devi allora credere anche a queste».
   «Sì, credo! credo! Ma Tu dimmi: "Io ti perdono!"».
   «Io ti perdono in nome di Dio e di Gesù».
   «Grazie...
 4 Ma ora... Ora che devo fare? Dimmi, Salvatore mio, che cosa devo fare per avere la Vita eterna? L'uomo si corrompe solo nel guardarmi... Io non posso vivere col tremito continuo di essere scoperta e circuita... In questo viaggio io tremavo ad ogni sguardo d'uomo... Io non voglio più peccare né far peccare. Dammi la via da seguire. Qual che sia la seguirò. Tu vedi che sono forte anche negli stenti... E anche se per troppo stento incontrassi la morte non ne ho paura. La chiamerò "amica mia" perché mi leverà dai pericoli della terra, e per sempre. Parla, mio Salvatore».
   «Va' in luogo deserto».
   «Dove, Signore?».
   «Dove vuoi. Dove ti porterà il tuo spirito».
   «Sarà capace di tanto il mio spirito appena formato?».
   «Sì, perché Dio ti conduce».
   «E chi mi parlerà più di Dio?».
   «La tua anima risorta, per ora...».
   «Ti vedrò mai più?».
   «Mai più sulla terra. Ma fra poco ti avrò redenta del tutto e allora verrò al tuo spirito per prepararti all'ascesa a Dio».
   «Come avverrà la mia completa redenzione se non ti vedrò più? Come me la darai?».
   «Morendo per tutti i peccatori».
   «Oh! no! Tu no, morire!»
   «Per darvi la Vita devo darmi la morte. Sono venuto per questo in veste umana. Non piangere... Mi raggiungerai presto dove Io sarò dopo il sacrificio mio e tuo».
   «Mio, Signore? Io pure morrò per Te?».
   «Sì. Ma in altra maniera. Morirà per ora la tua carne e per volere della tua volontà. E' quasi un anno che sta morendo. Quando essa sarà tutta morta, Io ti chiamerò».
   «Avrò la forza di distruggere la mia carne colpevole?».
   «Nella solitudine dove sarai e dove Satana ti assalirà con livida violenza quanto più tu diverrai dei Cieli, troverai un mio apostolo già peccatore e poi redento».
   «Allora non il benedetto che mi parlava di Te? Egli è troppo onesto per essere stato peccatore».
   «Non quello. Un altro. Ti raggiungerà all'ora giusta. Ti dirà quanto ancora non puoi sapere. Va' in pace. La benedizione di Dio sia su di te».
 5 Aglae, che è sempre stata in ginocchio, si curva a baciare i piedi del Signore. Non osa di più. Poi afferra il suo sacco, lo capovolge. Ne cadono semplici vesti, un piccolo sacchetto che risuona e un'anfora di un delicato alabastro rosa. Aglae ripone le vesti, raccoglie il sacchetto e dice: «Questo per i tuoi poveri. E' il resto dei miei gioielli. Non ho serbato che delle monete per viatico durante il viaggio... perché, se anche Tu non lo avessi detto, sarei andata in luogo remoto. E questo è per Te. Meno soave del profumo della tua santità. Ma è tutto quello che può dare di meglio la terra. E mi serviva per fare il peggio... Ecco. Dio mi conceda di odorare almeno come questo, al tuo cospetto, in Cielo» e stappa l'anfora dal tappo prezioso spargendone il contenuto al suolo. Un odore acuto di rose sale a ondate dai mattoni che si impregnano dell'essenza preziosa. 
Aglae ritira l'anfora vuota. «Per ricordo di quest'ora» dice, e poi si curva ancora a baciare i piedi di Gesù e si rialza, si ritira a ritroso, esce, chiude la porta...
   Si sente il suo passo allontanarsi verso la scala, la sua voce scambiare poche parole con Maria, e poi il rumore dei sandali che scendono la scala e poi più nulla. Di Aglae non resta che il sacchettino ai piedi di Gesù e l'aroma acutissimo per tutta la stanza.
   Gesù si alza... raccoglie il sacchetto e se lo pone in seno, va ad una apertura che guarda sulla via, sorride vedendo la donna sola che si allontana nel suo mantello ebraico verso Betlemme. Fa un gesto di benedizione e poi va sulla terrazza e chiama: «Mamma».
   Maria sale lesta la scala: «L'hai fatta felice, Figlio mio. E' andata, con fortezza e con pace».
   «Sì, Madre. Quando tornerà Andrea mandamelo per primo».
 6 Passa del tempo, poi si sentono le voci degli apostoli che ritornano... Accorre Andrea: «Maestro, mi vuoi?».
   «Sì, vieni qui. Nessuno lo saprà, ma per te è giustizia dirlo. Andrea, grazie in nome di Dio e di un'anima».
   «Grazie? Di che?».
   «Non senti questo profumo? E' il ricordo della Velata. E' venuta. E' salvata».
   Andrea diviene rosso come una fragola, scivola in ginocchio e non trova una parola... Infine dice: «Ora sono contento. Sia benedetto il Signore!».
   «Sì. Alzati. Non dire agli altri che è venuta».
   «Tacerò, Signore».
   «Vai pure. Ascolta, c'è ancora Giuda di Simone?».
   «Sì, ci ha voluto accompagnare... dicendo... tante menzogne. Perché fa così, Signore?».
   «Perché è un ragazzo viziato. Dimmi la verità: vi siete litigati?».
   «No. Mio fratello è troppo felice col suo bambino per avere voglia di farlo, e gli altri... lo sai... sono più prudenti. Ma certo, in cuor nostro, siamo tutti disgustati. Ma dopo cena torna via... Altri amici... dice lui. Oh! e sprezza le meretrici!...».
   «Sii buono, Andrea. Anche tu devi essere felice questa sera...».
   «Sì, Maestro. Ho anche io la mia invisibile ma dolce paternità. Vado».
 7 Ancora qualche tempo, poi salgono in gruppi gli apostoli col bambino e Giovanni di Endor. Li seguono le donne con le pietanze e i lumi. Ultimo viene Lazzaro con Simone. 
Appena entrano nella stanza esclamano: «Ah! ma veniva di qui!!!» e fiutano l'aria satura di profumo di rose, satura nonostante le porte spalancate.
   «Ma chi ha profumato così questa stanza? Marta forse?» chiedono in molti.
   «Mia sorella non si è mossa di casa, oggi, dopo le mense» risponde Lazzaro.
   «E chi allora? Qualche satrapo assiro?» scherza Pietro.
   «L'amore di una redenta» dice serio Gesù.
   «Poteva risparmiarsi questo inutile sfoggio di redenzione e dare quanto ha speso per i poveri. Sono tanti e sanno che noi diamo. Io non ho più un picciolo» dice irritato l'Iscariota.
   «E dobbiamo comprare l'agnello, affittare la stanza per il Cenacolo e...»
   «Ma vi ho offerto tutto io...» dice Lazzaro.
   «Non è giusto. Perde il bello, il rito. La Legge dice: "Prenderai l'agnello per te e la tua casa". Non dice: "Accetterai l'agnello"».
   «Bartolomeo si volta di scatto, apre la bocca, ma poi la chiude. Pietro diviene cremisi nello sforzo di tacere. Ma lo Zelote, che è in casa sua, sente di poter parlare, e dice: «Queste sono sottigliezze rabbiniche... Ti prego di lasciarle perdere e di conservare, in cambio, rispetto al mio amico Lazzaro».
   «Bravo, Simone!» Pietro scoppia se non parla.
   «Bravo! Mi pare anche che ci si dimentichi un poco troppo che solo il Maestro ha diritto di insegnare...».
   Pietro dice quel «ci si dimentichi» con uno sforzo eroico per non dire: «che Giuda dimentica».
   «E' vero... ma... sono nervoso, ecco. Scusa, Maestro».
   «Sì. E anche ti rispondo. La gratitudine è una grande virtù. Io sono grato a Lazzaro. Come quella redenta fu grata a Me. Io spargo su Lazzaro il profumo della mia benedizione, anche per quelli, fra i miei apostoli, che non lo sanno fare, Io, capo di voi tutti. La donna ha sparso ai miei piedi il profumo della sua gioia di salvata. Ha riconosciuto il Re, ed è venuta al Re, prima di molti altri sui quali il Re ha effuso molto più amore che non su lei. Lasciatela fare senza criticarla. Non potrà essere presente alla mia acclamazione, né alla mia unzione. La sua croce è già sulla sua spalla. Pietro, tu hai detto se era venuto un satrapo assiro. In verità ti dico che neppure l'incenso dei Magi, tanto puro e prezioso, era più soave di questo, più prezioso di questo. L'essenza è stemperata nel pianto, e per questo è così acuta: l'umiltà sostiene l'amore e lo rende perfetto. Sediamo a mensa, amici...»
   E con l'offerta del cibo cessa la visione.

giovedì 19 dicembre 2019

Come ulive fra le mole del frantoio


23 luglio 1943

   Dice Gesù: 
   «Quando il tempo verrà, molte stelle saranno travolte dalle spire di Lucifero che per vincere ha bisogno di diminuire le luci delle anime.
   Ciò potrà avvenire perché non solo i laici, ma anche gli ecclesiastici hanno perso e perdono sempre più quella fermezza di fede, di carità, di forza, di purezza di distacco dalle seduzioni del mondo, necessarie per rimanere nell’orbita della luce di Dio.
Comprendi chi sono le stelle di cui parlo? Sono quelli che Io ho definito sale della terra e luce del mondo: i miei ministri.
   Studio dell’acuta malizia di Satana è di spegnere, travolgendoli, questi luminari che sono luci riflettenti la mia Luce alle turbe. Se con tanta luce che ancora la Chiesa sacerdotale emana, le anime stanno sempre più sprofondando nelle tenebre, è intuitivo quale tenebra schiaccerà le turbe quando molte stelle si spegneranno nel mio cielo.
   Satana lo sa e semina i suoi semi per preparare la debolezza del sacerdozio, onde poterlo travolgere facilmente in peccati, non tanto di senso quanto di pensiero. Nel caos mentale sarà per lui facile provocare il caos spirituale. Nel caos spirituale i deboli, davanti alle fiumane delle persecuzioni, commetteranno peccato di viltà, rinnegando la fede.
   Non morrà la Chiesa perché Io sarò con essa. Ma conoscerà ore di tenebre e orrore simili a quelle della mia Passione, moltiplicate nel tempo perché così deve essere.
   Deve essere che la Chiesa soffra quanto sofferse il suo Creatore, avanti di morire per risuscitare in forma eterna. Deve essere che la Chiesa soffra molto più a lungo perché la Chiesa non è, nei suoi membri, perfetta come il suo Creatore, e se Io soffersi delle ore essa deve soffrire delle settimane e settimane di ore.
   Come sorse perseguitata e alimentata da potere soprannaturale nei primi tempi e nei migliori suoi figli, così ugualmente sarà di lei quando verranno i tempi ultimi in cui esisterà, sussisterà, resisterà alla marea satanica e alle battaglie dell’Anticristo coi suoi figli migliori. Selezione dolorosa, ma giusta.
È logico che in un mondo in cui tante luci spirituali saranno morte si instauri, palesemente, il regno breve ma tremendo dell’Anticristo, generato da Satana così come il Cristo fu generato dal Padre. Cristo figlio del Padre, generato dall’Amore con la Purezza. Anticristo figlio di Satana, generato dall’Odio con l’Impurità triplice.
   Come ulive fra le mole del frantoio, i figli del Cristo saranno perseguitati spremuti, [406] stritolati dalla Bestia vorace. Ma non inghiottiti, poiché il Sangue non permetterà che siano corrotti nello spirito. Come i primi, gli ultimi saranno falciati come manipoli di spighe nella persecuzione estrema e la terra beverà il loro sangue. Ma beati in eterno per la loro perseveranza coloro che muoiono fedeli al Signore
   Lei1 mi aveva detto che per capire Giovanni bisognava leggere le sue epistole e l’Apocalisse. Ho preso la Bibbia e ho aperto a caso dove sono gli scritti del Prediletto. Mi si è aperta al 12° cap. Il Maestro me lo spiega così.
   Mi accorgo che giorni fa Gesù ebbe una frase simile al commento circa la maternità spirituale di Maria2, che si vuole vedere adombrata nella donna vestita di sole. Ma oggi Gesù non ne parla, di Maria. Parla della condizione della Chiesa militante nei tempi ultimi. Leggerò attentamente l’Apocalisse sperando in Gesù che mi sia luce per capirlo.

   1 Padre Migliorini.
   2 Nel dettato del 6 luglio, pag. 133.

Mirabile uomo san Domenico di Guzman

Risultati immagini per SAN DOMENICO.

Tre caratteristiche emergono in maniera rilevante nella personalità psicologica di san Domenico.

I - Anzitutto un'innata dolcezza, cioè un riverbero di bontà congenita che si manifesta sotto varie forme emotive, facendolo subito apparire dotato di estrema sensibilità. «Per questo - scrive il beato Giordano - egli si attirava facilmente l'amore di tutti; senza difficoltà appena lo conoscevano, tutti cominciavano a volergli bene... Ovunque si mani­festava come uomo evangelico, nelle parole come nelle opere».

Le testimonianze sono innumerevoli: dalla com­passione verso i sofferenti e i lontani, all'effusione abi­tuale di lacrime durante la preghiera, alla istintiva par­tecipazione e immedesimazione agli stati d'animo altrui. «Accoglieva tutti gli uomini nell'ampio seno della sua carità e perché tutti amava, da tutti era amato. Faceva sue le parole di san Paolo: "Gioire con chi gioisce, pian­gere con chi piange". Traboccante com'era di pietà, si dedicava tutto per aiutare il prossimo e sollevare la mi­seria. E questo, inoltre, lo rendeva a tutti carissimo: la semplicità del suo agire. Mai nessun segno di dop­piezza o di finzione fu riscontrato nelle sue parole o nelle sue azioni».

Significative, ancora, le confidenze poco prima della morte: san Domenico rivela una delicatezza d'animo e una fragranza che si direbbero infantili. E tuttavia la sfera sensibile è serenamente controllata da una padro­nanza che ignora ogni morbosità, ogni abbandono inde­bito, ogni ombra di debolezza e di effeminatezza. Una testimone oculare, suor Cecilia, colpita dall'aspetto così gioviale e dal tratto squisitamente umano, asserisce che dal suo volto irradiava una luce diffusa conferendogli un fascino celestiale.

Anche l'esercizio dell'autorità era contemperato dalla sua affabilità: «Egli era gioviale - depose fra Rodolfo da Faenza - cordiale, paziente, misericordioso e conso­latore dei suoi fratelli. Se vedeva qualcuno commette­re qualche errore, faceva come se nulla fosse; poi, in seguito, gli si rivolgeva con volto calmo e con molta dolcezza gli diceva: "Fratello, ti sei comportato male: riconoscilo". E le sue parole piene di bontà inducevano tutti ad ammettere il loro operato e a farne penitenza». Domenico puniva con severità le loro trasgressioni, ma l'umiltà con la quale si rivolgeva loro faceva sì che si allontanassero da lui confortati.

II - A questa componente del suo carattere, faceva riscon­tro e, per così dire, contrappeso un'eccezionale carica operativa. Chi ricostruisca attraverso i documenti l'at­tività di Domenico nel decennio 1206-1216, rimane sconcertato. Per non dire degli ultimi anni, anzi degli ultimi giorni. Non si riesce davvero più a immaginarlo nel silenzioso chiostro di Osma. Una instancabilità e una resistenza fisica che trova forse in san Paolo il pro­totipo. Non a torto si è parlato di lui come di un «uomo teso» (Vicaire), appunto incalzato come Paolo dalla «fatalità» di evangelizzare.

L'operosità di Domenico non è soltanto d'indole fi­sica, ma principalmente un fatto volitivo, un'insospet­tabile capacità di ripresa, un gettito continuo di energie di fronte a situazioni nuove, una reazione istintiva e immediata in ogni congiuntura avversa, un ritmo di ap­plicazione che oltrepassa senza dubbio la media comune.

Quando poi si situi nel contesto storico la sua esistenza, con le limitazioni nel cibo, le privazioni di ogni agio, i rischi della vita itinerante, la tensione per incarichi di responsabilità, l'assenza di norme igieniche le più ele­mentari, lo stupore cresce a dismisura. E si devono aggiungere le mortificazioni volontarie, le lunghe veglie di preghiera, i gesti persino cruenti (conforme all'asce­tica contemporanea e storicamente incontestabile), la fatica per la vociferazione all'aperto, l'applicazione rigo­rosa allo studio, l'umiliazione bruciante per insuccessi, incomprensioni, diserzioni, ecc.

III - A spiegare sul piano umano questa specie di antitesi tra mitezza innata e costante tensione operativa, sta forse una terza componente del suo carattere: un'apertura men­tale che si può senz'altro definire chiaroveggenza di vi­ta. Domenico non fu un genio del pensiero speculativo, ma un uomo che, attraverso l'esperienza e la assimila­zione della verità, giunse a una visione sintetica. Ne è sintomatica spia la predilezione per il silenzio: «Non perdetevi in chiacchiere e non sciupate il vostro tempo con pettegolezzi», scrive nell'unica preziosissima lettera pervenutaci, alle suore di Madrid nel 1220; e tutto un paragrafo delle primitive Costituzioni sarà dedicato alla «sanctissima silentii lex».

I testimoni del processo sono unanimi nel rimarcare che egli, anche in viaggio, o pre­gava od osservava il silenzio per meditare la Parola di Dio; che non si perdeva in parole vane ed esigeva con fermezza l'osservanza del silenzio dai suoi fratelli.

La solida formazione teologica poggiava su una per­spicacia naturale che gli consentiva di cogliere, come d'istinto, l'obiettivo valore delle persone, delle situazio­ni e delle cose. Alieno da ogni compromesso, Dome­nico dispone di una capacità d'intuito che gli fa pre­vedere e precorrere l'immediato e gli consente poi di restare irremovibile quando ha preso una decisione.

Ri­prova di questa lucidità intellettiva è l'oculato vaglio dei collaboratori, la scelta di luoghi strategicamente nevral­gici per le prime fondazioni; gli abili approcci con la Curia romana e soprattutto la saggezza di quelle norme che, sotto il nome di Costituzioni, dovevano conferire ai Predicatori una inconfondibile fisionomia, indipenden­temente dalla Regola di sant'Agostino.

Sarà ancora il suo intuito, sorretto dall'impegno di fedeltà evangelica, a dissuaderlo dal circoscrivere la vocazione apostolica a determinate categorie o ceti (e ciò, purtroppo, fu da alcuni misconosciuto per inconsistenti preoccupazioni apo­logetiche), assicurando così al suo Ordine una perenne attualità, piuttosto rara in altre istituzioni contempora­nee o successive.

 

(da: V. Ferrua – H. Vicarie, San Domenico e i suoi frati, Gribaudi, 1984)

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