domenica 9 giugno 2019

LO STESSO GESU' RITORNA - Insegnamenti d'oro fino

XLIV. 
L'addio alla Madre e partenza da Nazareth. Il pianto e la preghiera della Corredentrice 



 PRIMO ANNO DELLA VITA PUBBLICA DI GESU’



   9 febbraio 1944, ore 9,30 (iniziata durante la S. Comunione)

 1 Vedo l'interno della casa di Nazareth. Vedo una stanza, pare un tinello dove la Famiglia prenda i pasti e sosti nelle ore di riposo. È una stanzetta molto piccina e con una semplice tavola rettangolare contro una specie di cassapanca, addossata ad una parete. Questo è il sedile di un lato. Contro le altre pareti vi è un telaio e uno sgabello, e due altri sgabelli e una scansìa con sopra dei lumi ad olio e altri oggetti. Una porta è aperta sull'orticello. Deve essere verso sera, perché non c'è altro che un ricordo di sole sulla cima di un alto albero, che appena verzica con le prime foglie.
   Alla tavola è seduto Gesù. Mangia e Maria lo serve andando e venendo da una porticina, che suppongo conduca al posto dove è il focolare, del quale si vede il bagliore dalla porta socchiusa.


   

   Gesù dice due o tre volte a Maria di sedere... e di mangiare Essa pure. Ma Lei non vuole, scuote il capo sorridendo mestamente e porta, dopo le verdure lessate, che mi pare abbiano il ruolo di minestra, dei pesci arrostiti e poi un formaggio piuttosto molle, come un pecorino fresco, di forma appallottolata come una di quelle pietre che si vedono nei torrenti, e delle ulive piccole e scure. Il pane, in piccole forme tonde (larghe quanto un piatto comune) e poco alto, è già sulla tavola. È piuttosto scuro, come non fosse privato del cruschello. Gesù ha davanti un'anfora con dell'acqua e una coppa. Mangia in silenzio, guardando la Mamma con doloroso amore.

   Maria, lo si vede visibilmente, è in pena. Va, viene, per darsi un contegno. Accende, e vi è ancora luce sufficiente, una lucerna e la mette presso a Gesù, e nell'allungare il braccio carezza la testa del Figlio furtivamente, riapre una bisaccia, che mi pare di quelle stoffe tessute a mano di lana vergine e perciò impermeabile, color nocciola, vi fruga dentro, esce nell'orticello e va in fondo ad esso, in una specie di ripostiglio, ne esce con delle mele piuttosto vizze, certo conservate dall'estate, e le mette nella bisaccia, poi prende un pane e una formaggella e unisce anche questa, per quanto Gesù non voglia, dicendo che basta ciò che ha.

   Poi Maria si accosta alla tavola di nuovo, dal lato più stretto, alla sinistra di Gesù, e lo guarda mangiare. Se lo guarda con struggimento, con adorazione, con il volto ancor più pallido del solito e che la pena rende come invecchiato, con gli occhi più grandi per un'ombra che li segna, indizio di lacrime già versate. Sembrano anche più chiari del solito, come lavati dal pianto che è già nell'occhio, pronto a cadere. Due occhi dolorosi e stanchi.

 2 Gesù, che mangia adagio e palesemente contro voglia, tanto per fare contenta la Madre, e che è pensieroso più del solito, alza il capo e la guarda. Incontra uno sguardo pieno di lacrime e curva il capo per lasciarla libera, limitandosi a prenderle la manina sottile che Ella tiene appoggiata all'orlo del tavolo. Gliela prende con la sinistra e se la porta alla guancia, vi appoggia sopra la guancia e ve la strofina un momento per sentire la carezza di quella povera manina che trema, e poi la bacia sul dorso con tanto amore e rispetto.
   Vedo Maria che si porta la mano libera, la sinistra, alla bocca, come per soffocare un singhiozzo, e poi si asciuga con le dita un lacrimone che è traboccato dal ciglio e riga la guancia. 
   Gesù riprende a mangiare e Maria esce svelta svelta nell'orticello, dove è ormai poca luce, e scompare. Gesù appoggia il gomito sinistro sul tavolo, e sulla mano appoggia la fronte e si immerge nei suoi pensieri, smettendo di mangiare. 

Poi ascolta e si alza. Esce anche Lui nell'orto e, dopo essersi guardato intorno, si dirige verso destra, rispetto al lato della casa, ed entra, per una spaccatura, in una parete rocciosa, dentro a quello che riconosco per il laboratorio del falegname, questa volta tutto ordinato, senza assi, senza trucioli, senza fuoco acceso. Vi è il bancone e gli utensili, tutti al loro posto, e basta.
  Curva sul bancone, Maria piange. Sembra una bambina. Ha il capo sul braccio sinistro ripiegato e piange senza rumore, ma con molto dolore. Gesù entra piano e le si accosta così leggermente che Ella capisce che è lì solo quando il Figlio le posa la mano sulla testa china, chiamandola: «Mamma!» con voce di amoroso rimprovero.

  Maria alza la testa e guarda Gesù fra un velo di pianto e si appoggia a Lui, con le due mani congiunte, contro al suo braccio destro. Gesù le asciuga il volto con un lembo della sua larga manica e poi l'abbraccia, tirandosela sul cuore e baciandola sulla fronte. Gesù è maestoso, semBra più virile del solito, e Maria sembra più bambina, fuorché nel volto che il dolore segna.
   «Vieni, Mamma» le dice Gesù e, tenendola stretta a Sé col braccio destro, si incammina tornando nell'orto, dove si siede su un banco contro il muro della casa. L'orto è silenzioso e ormai oscuro. Vi è solo un bel chiaro di luna e la luce che esce dal tinello. La notte è serena.

 3 Gesù parla a Maria. Non intendo in principio le parole appena mormorate, alle quali Maria assente col capo. Poi odo: «E fatti venire le parenti. Non rimanere sola. Sarò più tranquillo, Madre, e tu sai se ho bisogno d'esser tranquillo per compiere la mia missione. Il mio amore non ti mancherà. Io verrò sovente e ti farò avvertire quando sarò in Galilea e non potrò venire a casa. Tu verrai da Me, allora. Mamma, quest'ora doveva venire. Si è iniziata qui, quando l'Angelo ti apparve; ora scocca e noi dobbiamo viverla, non è vero, Mamma? Dopo verrà la pace della prova superata e la gioia. Prima bisogna valicare questo deserto come gli antichi Padri per entrare nella Terra Promessa. Ma il Signore Iddio ci aiuterà come aiutò loro. E ci darà il suo aiuto come manna spirituale per nutrire il nostro spirito nello sforzo della prova. Diciamo insieme al Padre nostro...».

   E Gesù si alza e Maria con Lui e alzano il volto al cielo. Due ostie vive che lucono nell'oscurità. Gesù dice lentamente, ma con voce chiara e scandendo le parole, la preghiera dominicale. Appoggia molto sulle frasi: «adveniat Reguum tuum, fiat voluntas tua» distanziando molto queste due frasi dalle altre. Prega con le braccia aperte, non proprio a croce, ma come stanno i sacerdoti quando si volgono a dire: «Dominus vobiscum». Maria tiene le mani congiunte.

 4 Poi tornano in casa e Gesù, che non ho mai visto bere vino, versa in una coppa, da un'anfora presa sulla scansia, un poco di vino bianco e la porta sulla tavola, prende per mano Maria e la obbliga a sedersi vicino a Lui e a bere di quel vino, in cui intinge una fettina di pane che le fa mangiare. L'insistenza è tale che Maria cede. Gesù beve il rimanente vino. E poi si stringe la Mamma al fianco e se la tiene così, contro la persona, dalla parte del cuore.

   Né Gesù né Maria stanno sdraiati, ma seduti come noi. Non parlano più. Attendono. Maria carezza la mano destra di Gesù e le sue ginocchia. Gesù carezza Maria sul braccio e sul capo.

 5 Poi Gesù si alza e Maria con Lui e si abbracciano e si baciano amorosamente più e più volte. Sembra che sempre si vogliano lasciare, ma Maria torna a stringere a sé la sua Creatura. È la Madonna, ma è una mamma infine, una mamma che si deve staccare dal suo figlio e che sa dove conduce quel distacco. Non mi si venga più a dire che Maria non ha sofferto. Prima lo credevo poco, ora più affatto.
   Gesù prende il mantello (blu scuro) e se lo drappeggia sulle spalle e sul capo a cappuccio. Poi si passa a tracolla la bisaccia, di modo che non gli ostacoli il cammino. Maria lo aiuta e mai finisce di accomodargli la veste e il manto e il cappuccio, e intanto lo carezza ancora.
   Gesù va verso l'uscio dopo avere tracciato un gesto di benedizione nella stanza. Maria lo segue e sull'uscio ormai aperto si baciano ancora.

 6 La via è silenziosa e solitaria, bianca di luna. Gesù si incammina. Si volta ancora per due volte a guardare la Mamma, che è rimasta appoggiata allo stipite, più bianca della luna e tutta lucente di pianto silenzioso. Gesù si allontana sempre più per la viuzza bianca. Maria piange sempre contro la porta. Poi Gesù scompare ad una svolta della via.
   È cominciato il suo cammino di Evangelizzatore, che terminerà al Golgota. Maria entra piangendo e chiude la porta. Anche per Lei è cominciato il cammino che la porterà al Golgota.

   E per noi...
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 7 Dice Gesù:
   «Questo è il quarto dolore di Maria Madre di Dio. Il primo, la presentazione al Tempio; il secondo, la fuga in Egitto; il terzo, la morte di Giuseppe; il quarto, il mio distacco da Lei.
Conoscendo il desiderio del Padre, ti ho detto ieri sera che affretterò la descrizione dei "nostri" dolori perché siano resi noti. Ma, come vedi, già ne erano stati illustrati di quelli di mia Madre. Ho spiegato prima la fuga che la presentazione, perché vi era bisogno di farlo in quel giorno. Io so. E tu comprendi e dirai il perché al Padre. A voce.

 8 È mio disegno alternare le tue contemplazioni, e le mie conseguenti spiegazioni, coi dettati veri e propri, per sollevare te e il tuo spirito dandoti la beatitudine del vedere, e anche perché così è palese la differenza stilistica fra il tuo comporre ed il mio. 
   Inoltre, davanti a tanti libri che parlano di Me e che, tocca e ritocca, muta e infronzola, sono divenuti irreali, Io ho desiderio di dare a chi in Me crede una visione riportata alla verità del mio tempo mortale. Non ne esco diminuito, ma anzi reso più grande nella mia umiltà, che si fa pane a voi per insegnarvi ad essere umili e simili a Me, che fui uomo come voi e che portai nella mia veste d'uomo la perfezione di un Dio. Dovevo essere Modello vostro, e i modelli devono essere sempre perfetti.
   Non terrò nelle contemplazioni una linea cronologica corrispondente a quella dei Vangeli. Prenderò i punti che troverò più utili in quel giorno per te o per altri, seguendo una mia linea di insegnamento e di bontà.

 9 L'insegnamento che viene dalla contemplazione del mio distacco va specialmente ai genitori e ai figli, che la volontà di Dio chiama alla rinuncia reciproca per un più alto amore. In secondo luogo va a tutti coloro che si trovano di fronte ad una rinuncia penosa.
   Quante ne trovate nella vita! Esse sono spine sulla terra e trafiggenti il cuore, lo so. Ma a chi le accoglie con rassegnazione - badate, non dico: "a chi le desidera e le accoglie con gioia (ciò è già perfezione); dico: '' con rassegnazione, - si mutano in eterne rose. Ma pochi le accolgono con rassegnazione. Come asinelli restii, recalcitrate al volere del Padre e vi impuntate, se pur non cercate colpire con spirituali calci e morsi, ossia con ribellione e bestemmie al buon Dio.

 10 E non dite: "Ma io non avevo che questo bene e Dio me l'ha tolto. Ma io non avevo che questo affetto e Dio me l'ha strappato". Anche Maria, donna gentile, amorosa alla perfezione, perché nella Tutta Grazia anche le forme affettive e sensitive erano perfette, non aveva che un bene e un amore sulla terra: il Figlio suo. Non le rimaneva che Quello. I genitori morti da tempo, Giuseppe morto da qualche anno. Non c'ero che Io per amarla e farle sentire che non era sola. I parenti, per cagione di Me, di cui non sapevano l'origine divina, le erano un poco ostili, come verso una mamma che non sa imporsi al figlio che esce dal comune buon senso, che rifiuta le nozze proposte, le quali potrebbero dare lustro alla famiglia, e aiuto anche. 

   I parenti, voce del senso comune, del senso umano - voi lo chiamate buon senso, ma non è che senso umano, ossia egoismo - avrebbero voluto queste pratiche svolte nella mia vita. In fondo c'era sempre la paura di dovere un giorno passare delle noie per causa mia, che già osavo mettere fuori delle idee troppo idealiste, secondo loro, le quali potevano urtare la sinagoga. La storia ebraica era piena di insegnamenti sulla sorte dei profeti. Non era una facile missione quella del profeta, e dava sovente morte allo stesso e noie al parentado. In fondo c'era sempre il pensiero di dovere, un giorno, occuparsi di mia Madre.
   Perciò il vedere che Ella non mi ostacolava in nulla e pareva in continua adorazione davanti al Figlio, li urtava. Questo urto sarebbe poi cresciuto nei tre anni di ministero, sino a culminare nei rimproveri aperti quando mi raggiungevano in mezzo alle folle e si vergognavano della mia, secondo loro, mania di urtare le caste potenti. Rimprovero a Me e a Lei, povera Mamma!

 11 Eppure Maria, che sapeva l'umore dei parenti - non tutti furono come Giacomo e Giuda e Simone, né come la loro madre Maria di Cleofa - e che prevedeva l'umore futuro, Maria, che sapeva la sua sorte durante quei tre anni e quella che l'attendeva alla fine degli stessi e la sorte mia, non recalcitrò come voi fate. Pianse. E chi non avrebbe pianto davanti ad una separazione da un figlio che l'amava come Io l'amavo, davanti alla prospettiva dei lunghi giorni, vuoti della mia presenza, nella casa solitaria, davanti al futuro del Figlio destinato a dare di cozzo contro il malanimo di chi era colpevole e che si vendicava d'esser colpevole offendendo l'Incolpevole sino ad ucciderlo?
   Pianse perché era la Corredentrice e la Madre del genere umano rinato a Dio, e doveva piangere per tutte le mamme che non sanno fare, del loro dolore di madri, una corona di gloria eterna.
   Quante madri nel mondo, a cui la morte svelle dalle braccia una creatura! Quante madri a cui un soprannaturale volere strappa dal fianco un figlio! Per tutte le sue figlie, come Madre dei cristiani, per tutte le sue sorelle, nel dolore di madre orbata, ha pianto Maria. E per tutti i figli che, nati da donna, sono destinati a divenire apostoli di Dio o martiri per amore di Dio, per fedeltà a Dio, o per ferocia umana.

 12 Il mio Sangue e il pianto di mia Madre sono la mistura che fortifica questi segnati a eroica sorte, quella che annulla in loro le imperfezioni, o anche le colpe commesse dalla loro debolezza, dando, oltre al martirio, comunque subito, la pace di Dio e, se sofferto per Dio, la gloria del Cielo.
   Le trovano i missionari come fiamma che scalda nelle regioni dove la neve impera, le trovano come rugiada là dove il sole arde. Sono spremute dalla carità di Maria e sono sgorgate da un cuore di giglio. Hanno perciò, della carità verginale sposata all'Amore, il fuoco, e della verginale purezza la profumata frescura, simile a quella dell'acqua raccolta nel calice di un giglio dopo una notte rugiadosa.
  Le trovano i consacrati in quel deserto che è la vita monastica bene intesa: deserto, perché non vive che l'unione con Dio, e ogni altro affetto cade divenendo unicamente carità soprannaturale: per i parenti, gli amici, i superiori, gli inferiori.
   Le trovano i consacrati a Dio nel mondo, nel mondo che non li capisce e non li ama, deserto anche per questi, in cui essi vivono come fossero soli, tanto sono incompresi e derisi per amor mio.
   Le trovano le mie care "vittime ", perché Maria è la prima delle vittime per amore di Gesù, ed alle sue seguaci Ella dà, con mano di Madre e di Medico, le sue lacrime che ristorano e inebriano a più alto sacrificio. Santo pianto della Madre mia!

 13 Maria prega. Non si rifiuta di pregare perché Dio le dà un dolore. Ricordatelo. Prega insieme a Gesù. Prega il Padre. Nostro e vostro.
   Il primo "Pater noster " è stato pronunciato nell'orto di Nazareth per consolare la pena di Maria, per offrire le "nostre" volontà all'Eterno nel momento che si iniziava per queste volontà il periodo di sempre crescente rinunzia, culminante a quella della vita per Me e della morte di un Figlio per Maria.

   E, per quanto noi non avessimo nulla da farci perdonare dal Padre, pure per umiltà noi, i Senza Colpa, abbiamo chiesto il perdono del Padre per andare perdonati, assolti anche di un sospiro, incontro alla nostra missione degnamente. Per insegnarvi che più si è in grazia di Dio e più la missione è benedetta e fruttuosa. Per insegnarvi il rispetto a Dio e l'umiltà. Davanti a Dio Padre anche le nostre due perfezioni di Uomo e di Donna si sono sentite nulla e hanno chiesto perdono. Come hanno chiesto il " pane quotidiano ".

   Quale era il nostro pane? Oh! non quello impastato dalle pure mani di Maria e cotto nel piccolo forno, per il quale tante volte avevo formato fastelli e fascine. Anche quello necessario finché si è sulla terra. Ma il "nostro" pane quotidiano era quello di fare giorno per giorno la nostra parte di missione. Che Dio ce la desse ogni giorno, perché fare la missione che Dio dà è la gioia del "nostro" giorno, non è vero, piccolo Giovanni? Non lo dici anche tu che ti par vuoto il giorno, ti pare non stato, se la bontà del Signore ti lascia un giorno senza la tua missione di dolore?

 14 Maria prega insieme a Gesù. È Gesù che vi giustifica, figli. Sono Io che rendo accettevoli e fruttuose le vostre preghiere presso il Padre. Io l'ho detto: "Tutto quello che chiederete al Padre in mio nome, Egli ve lo concederà", e la Chiesa avvalora le sue orazioni dicendo: "Per Gesù Cristo Signor nostro".
   Quando pregate, unitevi sempre, sempre, sempre a Me. Io pregherò a voce alta per voi, coprendo la vostra voce di uomini con la mia di Uomo-Dio. Io metterò sulle mie mani trafitte la vostra preghiera e l'eleverò al Padre. Diverrà ostia di pregio infinito. La mia voce fusa con la vostra salirà come bacio filiale al Padre, e la porpora delle mie ferite farà prezioso il vostro pregare. Siate in Me se volete avere il Padre in voi, con voi, per voi.

 15 Hai finito la narrazione dicendo: "E per noi... ", e volevi dire: "per noi che siamo così ingrati verso questi Due che hanno montato il Calvario per noi ". Hai fatto bene a mettere quelle parole. Mettile ogni volta che ti farò vedere un nostro dolore. Sia come la campana che suona e che chiama a meditare e a pentirsi.
   Basta, ora. Riposa. La pace sia con te».

13-L'Evangelo capitoli (cap. 44-46)

AMDG et DVM

IN CALABRIA

AUTOBIOGRAFIA - M. Valtorta
CAPITOLO 14
In Calabria.

   Giungemmo a Reggio Calabria il 10 ottobre 1920. Ci eravamo fermati a Roma, a Napoli, a Caserta per qualche giorno.
   A Reggio, nei vasti alberghi dei miei cugini, trovai tante cose atte a distrarmi dal dolore cocente che avevo in cuore. Abitavamo all'albergo-villa. Un vastissimo baraccamento (la città cominciava appena a risorgere dal terremoto del 1908) sparso in una tenuta vastissima. Vi era agrumeto, mandorleto, frutteto, campi di fave, carciofi, finocchi, piselli, ecc. ecc., e giardini, giardini, giardini. Poi, più bella di tutti, una passeggiata che lungo l'aranceto conduceva ad un chiosco, messo sullo sperone di una collina che scoscendeva a valle, fra un accavallarsi di fichi d'India. Era un posto stupendo. Si dominava tutto lo Stretto e i monti di Calabria. La città si stendeva ai nostri piedi.
   Era il mio posto prediletto. Andavo là col mio cane e un libro, fingendo di leggere. Ma non facevo che guardare il mare, sul quale passavano sovente navi da guerra, oltre ai piroscafi mercantili, e pensavo a Mario. Forse era su quelle navi e non sapeva che da quell'altura la sua amata lo invocava con tutto il suo cuore.

   Quando mi era stato strappato, cosa aveva fatto? Cosa aveva pensato? Si era immaginato che era tutta una macchinazione di mamma e che io ero stata messa nell'impossibilità di parlare, di agire come fossi imbavagliata e legata da dei malandrini, oppure mi giudicava una pazza, una malvagia, una senza parola? Questi «perché» mi trivellavano cuore e mente, giorno e notte, come tanti tarli trivellano un legno fino a farlo cadere in briciole.
   Lei forse si chiederà: «Ma costei non poteva neppure ora scrivere? In un albergo si possono fare tante cose con maggior libertà che in una casa».

   Sì, avrei potuto scrivere. Tante cose avrei potuto fare! Anche ribellarmi dicendo: «Sono maggiorenne e faccio quel che mi pare e che è lecito fare perché è cosa onesta». Ma — e da questo consideri se sono stata figlia ubbidiente e rispettosa o se non lo sono stata — ma non ho avuto la capacità di disubbidire e offendere mia madre. Ho fatto il mio dovere anche allora. Ho compiuto il mio sacrificio anche allora. Ero così spezzata, fra l'altro, che vegetavo senza nessuna energia. Vivevo solo, intensamente, la vita intima.

   Nell'interno c'era tutto un lavorìo di ricordi, di pensieri, di rimpianti. Molto diversi però da quelli che erano scoppiati dopo il nefasto 5 gennaio 1914, origine di tutte le spine venute dopo. Perché, se mia mamma non avesse conculcato allora il nostro legittimo desiderio, io sarei stata da tempo sposata; Roberto, che non era tenuto al servizio militare (figlio unico di madre vedova) non sarebbe andato volontario, non sarebbe morto; io sarei stata a Bari con lui; Mario non si sarebbe innamorato di me; io non avrei avuto tutti quei dolori morali, non il male di cuore, non la lesione spinale… Ora soffrivo molto, ma era un dolore puro da ogni febbre di senso, un dolore santo, privo di ogni impeto di ribellione.

   Il primo dolore mi aveva staccata da Dio e dalla Legge di Dio gettandomi nella polvere. Il secondo grande, ancor più grande dolore che riapriva tutte le ferite che il tempo aveva rimarginate — e le riapriva per opera della stessa mano materna che, sempre uguale a distanza di anni, mi distruggeva la gioia per la sua comodità — mi riportava completamente a Dio e mi univa a Lui.
   Nessun altro affetto mi restava nel mondo, capace di saziare l'ani­ma mia. Papà… era sempre più un bimbo dominato da mamma. Mamma mi era una nemica. Mario non l'avevo più. Le Suore mi avevano respinta. Altri buoni amici erano stati cacciati di casa. Più nulla, più nessuno.

   Solo Dio mi restava per farmi da padre, da madre, da sposo, da amico, da maestro. Piangevo ai suoi piedi, parlavo con Lui, mi facevo consolare da Lui, gli chiedevo umilmente di prendermi per mano e condurmi sulla via che più gli piaceva, perché ero smarrita e capivo che da me sola non sapevo mai trovare la via destinata a me dalla sua Volontà.
   In poco tempo mia mamma, con la sua maniera autoritaria, si era attirate le antipatie di tutti: personale di servizio, clienti, e parenti stessi. I suoi cugini — perché sono cugini di primo grado con mia mamma — più volte le avevano cantato, a chiare note, che quelli non erano modi di fare né col marito, né colla figlia, né coi dipendenti. Figurarsi! Mia mamma non ha mai voluto osservazioni da nessuno. Chi gliele fa diviene per lei un nemico acerrimo. Perciò vi erano già state delle baruffe e non erano neppure due mesi che eravamo là…

   Alla fine di novembre ce ne fu una più… pepata del solito, e in seguito a questa l'altro cugino mio mi volle con sé all'altro albergo.
   Bisogna sapere che molte delle dispute erano originate dal fatto che i miei cugini: Giuseppe, Amelide, Emma, Normanna, non condividevano il modo di pensare e di agire di mamma a mio riguardo. Allora gli altri cugini: Battista e Clotilde, mi avevano voluta con loro. Meno ore ero con mamma e meno occasioni questa aveva di esercitare la sua sovranità assoluta. Perciò vi era speranza che vi fossero meno dispute in merito.

   Io perciò scendevo alla mattina verso le 8 all'altro albergo verso il mare, e risalivo all'albergo-villa alla sera alle 20 e oltre. Così, fuorché nelle ore notturne, stavo lontana.
   Mi spiaceva per mio papà. Ma lui aveva trovato molti svaghi a Reggio ed era lui pure più contento. Mi spiaceva anche non avere più modo di passeggiare per la tenuta e andare al mio caro chiosco, da cui vedevo tanto cielo e tanto mare e mi trovavo isolata fra piante in fiore e canti di uccelli. Mi spiaceva infine perché non avevo più intorno gli irrequieti e cari cuginetti dai sei ai tre anni, tre frugoli che mi si erano molto affezionati. Ma tutto insieme non si può avere.
   Con Clotilde, quella che m'aveva accompagnata a Monza, io mi ci trovavo benissimo. Veramente io mi ci trovavo con tutti, perché so molto adattarmi alle altrui idee. Abituata a vivere con mamma, trovavo facile il convivere in ogni altro luogo. Furono venti mesi di serenità.

   Mi occupavo di Memmo — un caro ragazzo decenne, unico figlio rimasto — lo aiutavo a studiare… Mi pareva d'essere tornata al 1913 quando mi occupavo degli studi di Mario. Uscivo con Memmo per belle passeggiate in carrozza o a piedi. Facevo compagnia a Clotilde, lavoravo con lei che era bravissima nei ricami e merletti, leggevo. Clotilde aveva una bellissima raccolta di libri. È una donna molto colta e sa scegliere perciò anche nei libri i migliori per stile e per trama.

   Le ho detto che il buon Dio si è servito con me di tutti i mezzi per istruirmi nella sua legge e nel portarmi a Lui. Come per un dono speciale mi ha da bimba preservata da certe curiosità che i discorsi dei grandi potevano acuire in me — gliel'ho detto a suo tempo — ; come più tardi, nell'Ospedale, mi aveva dato un equilibrio così perfetto per cui nei miei feriti io non ho mai visto l'uomo ma sempre dei poveri bimbi malati; come per mezzo di creature e di avvenimenti mi aveva riportata alla bella fede della mia prima giovinezza, dopo la fiera tempesta passata dai 16 ai 20 anni; così ora, servendosi di libri e specie di un libro, finiva di attirarmi a Sé.

   Le ho detto che, purtroppo, non avevo mai potuto trovare un sacerdote che io giudicassi un direttore d'anima. Confessori sì, ma direttori no. Perciò, uscita di collegio, ero rimasta sola a guidarmi. Non più esercizi spirituali, non più prediche, più nulla. Ma Gesù, anche se pareva assente, era presente e mi presentava le occasioni per migliorare il mio animo.  /continua/

Conosca il mondo il Mio Messaggio d’Amore ed ogni uomo si tenga pronto.



Gesù 17-11-2011 


Sposa amata, nel mondo si parla del Mio Ritorno?
Si attende il Mio Ritorno?
Ci si prepara al Mio Ritorno?

Sposa amata, sposa cara, i segni sono presenti; la fede la voglio concedere con larghezza, ma ti dico: chi guarda i segni?

Chi chiede il Dono della fede?

Gli uomini chiedono tutto, ma poco la fede.

Ti dico, piccola Mia, che colui che ha gli occhi attenti ai segni vedrà, capirà, si preparerà.

Chi desidera, ardentemente, il Dono della fede certo lo avrà; ma chi non vuole nulla avrà ed il Mio Ritorno lo troverà impreparato: farà la fine di colui che aveva seppellito il talento e non l’aveva fatto fruttificare.

Amara sarà la sua fine e dura la condanna!

Conosca il mondo il Mio Messaggio d’Amore ed ogni uomo si tenga pronto.

AMDG et DVM

E' BELLO INVOCARE LA SUA FIAMMA D'AMORE




<<Ave Maria 
gratia plena Dominus tecum

Benedicta tu in mulieribus

et Benedictus fructus ventris tui, Jesus [splendor Paternae claritatis et figura substantiae Eius].

Sancta Maria Mater Dei

ora pro nobis peccatoribus

et irradia per Orbem terrarum 

Lumen Gratiae 

Amoris tuae flammae
nunc et in hora mortis nostrae. Amen.>>

https://www.youtube.com/watch?v=ja-_ne5ElV8


sabato 8 giugno 2019

Alla scuola di san Gregorio Magno

Risultati immagini per scuola di san Gregorio Magno
— Come bisogna ammonire i sudditi e i prelati


Diverso è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché l’assoggettamento non annienti i primi e la posizione elevata non esalti i secondi. 

Quelli non compiano meno di ciò che è stato loro ordinato, e questi non ordinino pila di quanto giustamente si può compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano con moderazione. 

Infatti, per quanto si può anche intendere in modo figurato, ai sudditi viene detto: Figli, obbedite ai vostri genitori, nel Signore; e per i prelati c’è il precetto: E voi, padri, non provocate all’ira i vostri figli (Col. 3, 20-21). 

I primi imparino come disporre il proprio intimo agli occhi del Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro affidati. I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione che essi offrono ai loro sudditi. 

Perciò è necessario che si custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei delle anime altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi esempi. 

Così occorre ammonire i sudditi, che saranno severamente puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto a se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda personalmente.

I sudditi abbiano una cura tanto pila sollecita del proprio dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i prelati provvedano agli interessi altrui senza tralasciare di curare i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in nulla devono essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati. 
Infatti a colui che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’ dalla formica, pigro, e considera le sue vie e impara la sapienza (Prov. 6, 6);
ma all’altro viene fatta una terribile ammonizione quando gli è detto: Figlio mio, ti sei impegnato per il tuo amico, hai dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio con le parole della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi (Prov. 6, 1). 

Infatti, impegnarsi per un amico equivale a prendere su di sé l’anima di un altro a rischio della propria vita; per questo poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo si lega a una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva. Ed egli è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a coloro che gli sono stati affidati è necessario che prima egli stesso custodisca ciò che dice, ed è quindi propriamente preso al laccio dalle parole della sua bocca quando è costretto dalla coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va insegnando.

E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad adempiere, praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto agli altri a parole. 
Segue poi subito e opportunamente l’esortazione: Dunque, fa’ quanto ti dico, figlio mio, e liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, corri, affrettati, sveglia il tuo amico, non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre (Prov. 6, 3-4). Chi infatti è preposto agli altri come esempio di vita è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma anche a svegliare l’amico. Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che vegli, se non separa dal torpore del peccato anche colui a cui presiede. 

Ed è detto bene: Non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre. Dare sonno agli occhi significa trascurare affatto la cura dei sudditi cessando l’attenzione per loro. 
E le palpebre sonnecchiano quando i nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo dissimulano, resi
indolenti dalla pigrizia. 

Infatti, dormire profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che va rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per una specie di pigra noia dello spirito. 
Ma, sonnecchiando, l’occhio cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando chi governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della sua negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più riconoscere il peccato commesso dai sudditi. 

Pertanto, bisogna ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro di sé e attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi per divenire animali celesti (cf. Ez. 1, 18): quegli animali celesti che vengono descritti
tutti pieni di occhi di dentro e di fuori (cf. Ap. 6, 6). 

Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano abbiano occhi rivolti dentro di sé e attorno e, mentre cercano di piacere nel loro intimo al Giudice interiore, offrendo all’esterno esempi di vita scorgano anche ciò che va corretto negli altri. 

sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei loro superiori, se capita di vederli fare qualche cosa degna di rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali peggiori. 

Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei superiori, non diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di fatto in essi alcune gravi colpe, le discernano così però da non rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro confronti il giogo del rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio. 

Ciò si dimostra meglio portando l’esempio di quanto fece  David: una volta che Saul, il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là c’era David coi suoi uomini — il quale già da lungo tempo portava il peso della sua persecuzione — questi, poiché i suoi lo incitavano a colpire Saul, li persuase con la risposta che non si doveva mettere le mani sull’unto del Signore. Tuttavia si alzò di nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf. 1 Sam. 24, 4 ss.). 

Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e David, se non i buoni sudditi? Pertanto, Saul che evacua designa i superiori empi che estendono la malizia concepita nel cuore a compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. 

E tuttavia David ebbe timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono da ogni pestifera maldicenza non
colpiscono la vita dei superiori, con la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la imperfezione. 

E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno fatica ad astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è come se tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di loro. 

Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si trova giustamente scritto in quel luogo: Dopo ciò David percosse il suo cuore, per aver tagliato l’orlo del mantello di Saul (1 Sam. 24, 6). 

Dunque, le azioni dei superiori non bisogna ferirle con la spada della bocca, anche quando si giudica che sia giusto rimproverarle. 
Se però qualche volta la lingua si lascia andare anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il giudizio di colui che gliel’ha preposta. 

Perché quando pecchiamo contro i superiori contravveniamo a quella disposizione che ce li ha preposti. Perciò anche Mosè, quando venne a sapere che il popolo si lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che cosa siamo noi? La vostra mormorazione non è contro di noi, ma contro il Signore (Es. 16, 8). 


http://www.ortodossia.it/w/media/com_form2content/documents/c17/a2136/f255/Gregorio%20Regola.pdf
AMDG et DVM