lunedì 13 maggio 2019

Santo Rosario


ROSA VENTISETTESIMA

[81] Per invogliarti ancor più ad abbracciare questa devozione delle
anime grandi, aggiungo che il Rosario recitato con la meditazione dei
misteri:

1) ci eleva insensibilmente alla perfetta conoscenza di Gesù Cristo;
2) purifica le anime nostre dal peccato;
3) ci rende vittoriosi su tutti i nostri nemici;
4) ci facilita la pratica delle virtù;
5) ci infiamma d'amore per Gesù;
6) ci arricchisce di grazie e di meriti;
7) ci fornisce i mezzi per pagare a Dio e agli uomini tutti i nostri debiti
e infine ci ottiene ogni sorta di grazie.

[82] La conoscenza di Gesù Cristo è la scienza dei cristiani, la scienza
della salvezza; supera in eccellenza e in pregio -dice san Paolo - tutte
le scienze umane: 

1) per la dignità dell'oggetto, un Dio-uomo, al
cospetto del Quale l'universo intero non è che una stilla di rugiada o un
granello di sabbia; 

2) per l'utilità poiché le scienze umane ci riempiono
solo di vanità e del fumo d'orgoglio; 

3) per la sua necessità poiché non
è possibile salvarsi senza la conoscenza di Gesù Cristo, mentre chi
ignora tutte le altre scienze ma è istruito nella scienza di Cristo Gesù,
sarà salvo.

Benedetto Rosario, che ci dai questa scienza e conoscenza di Gesù
facendocene meditare la vita, la morte, la passione e la gloria! 

La regina di Saba, ammirata per la saggezza di Salomone, esclamò: Beati i tuoi uomini, beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ascoltano la tua saggezza! (1 Re 10,8. Cfr. Gv 17,3). 

Ma più felici sono i fedeli che meditano attentamente la vita, le virtù, le sofferenze e la  gloria del Salvatore, perché acquistano con tale mezzo, la perfetta conoscenza di Lui nella quale consiste la vita eterna.
http://www.parrocchiasantalessandro.it/Avvisi/Avvisi%20Maggio%202014/IL%20SEGRETO%20AMMIRABILE%20DEL%20SANTO%20ROSARIO.pdf


AVE MARIA!

sabato 11 maggio 2019

Le cose amiche

AUTOBIOGRAFIA 

CAPITOLO 6


Le cose amiche.

MV a 5 anni
   Si legge nella Genesi che Dio fece gli animali perché servissero l'uomo. E anche perché lo confortassero, dico io.
   Sì. Tanto più l'uomo possiede per volere di Dio un'anima che esce dalla mediocrità della massa — la quale pare composta per la maggior parte di esseri amorfi, addormentati, qualcosa che assomiglia all'animale sazio o all'insetto nel bozzolo, esseri che si appagano del loro tran-tran e chiedono e si studiano solo di viverlo senza scosse ma anche senza sforzo — e tanto più è destinato a soffrire dell'incomprensione del suo prossimo. E allora si rifugia nelle bestie per quanto riguarda quaggiù, in Dio per quanto riguarda lassù, e fra questi due apici tesse la sua tela che passa e ripassa continuamente fra tutto il resto… un resto più ispido, più martirizzante del cardo con cui i tessitori si aiutano nella loro opera paziente!
   Il prossimo… Che cardo irto di aculei che è sempre, e tanto più lo è quanto più l'essere nostro è di natura affettuoso, umile, sensibile. Ci irride, ci calpesta, con una spallata ci butta ai margini della vita che, umanamente parlando, è via maestra pei prepotenti, gli aridi di cuore, gli spensierati, i subdoli.
   Dal lato soprannaturale, no. Siamo noi — gli apparentemente vinti della vita, perché non sappiamo essere degli egocentrici come la vita richiede si sia per trionfare — i veri vincitori. Poiché conquistiamo, a prezzo di noi stessi, non la piccola vita limitata nel tempo, ma la Vita che è perpetua aurora, che è perpetuo meriggio, anzi meriggio pieno, beatifico, scorrente pei secoli dei secoli nell'orbita e nella luce del Sole eterno.
   Ma quanto dolore per arrivarvi! Ma quanto gelo! Ma quanta solitudine! Ma quanta amarezza! Ma quante lacrime! Ma quanto morire, ora a ora, in mille modi: uccisi da noi stessi per nostro bene, uccisi dagli altri per loro impulso malvagio! Morire di una morte morale rispetto alla quale la morte di Dio, la morte fisica, punizione di Adamo, è molto, molto meno!
   E allora ci si guarda intorno col cuore stretto e il volto bagnato di pianto… e per gli sguardi assenti o ostili dei nostri simili si incontra lo sguardo fedele delle creature minori. E allora per il bacio che ci è negato o dato a tradimento dal prossimo si incontra il sincero saluto dell'animale, e allora le nostre mani che inutilmente si sono stese per abbracciare e accarezzare e sono state respinte, si chinano a carezzare le bestie che non respingono mai chi le ama e lo ripagano con schiettezza d'affetto.
   Chi è felice non sa… Ma chi non fu felice sa cosa rappresenti di conforto un animale a chi è solo della peggiore solitudine: quella del cuore.
   Io ho molto amato le bestie come opera di Dio e come conforto nella mia vita che non fu felice mai, sempre umanamente parlando. Prigioniera di troppe cose, poiché si può essere prigionieri pur essendo fuori di un carcere materiale, ho avuto in comune con tutti i prigionieri l'amore per le bestie che sono state le compagne e le confortatrici in tante, in tutte le mie ore di prigionia. E non creda che esageri. Ho molto, molto sofferto e spero di potergliene dare una sebben concisa descrizione attraverso queste pagine che Lei ha chiesto le scrivessi.
   Ho molto sofferto. Parrebbe a tutta prima impossibile: figlia unica, abbastanza ricca, sana fino a vent'anni, coi genitori viventi e… apparentemente viventi in buona armonia, cosa, in apparenza, mi mancò? Nulla. Cosa mi mancò in realtà? Tutto. Quel tutto che ci voleva per me: ossia un grande, un grande, un grande amore di mamma.

Risultati immagini per animali domestici

   Che mi importavano balocchi, dolci, divertimenti, quando essi mi venivano dati con fanfara di anticipo e con galoppo finale di una severità glaciale, o peggio con accompagnamento di scene disgustose nell'interno della famiglia? Come ho invidiato i bimbi poveri che vedevo mangiare il loro tozzo di pane in braccio alla mamma, che vedevo giocare col pupazzo di cenci che l'amore di mamma aveva confezionato per loro, che vedevo crescere come pulcini allegri su un'aia piena di sole in una casa dove l'amore di tutti e due i coniugi brillava come sole riversandosi in fiotti di amore sui figli!
   «Niuna invidiò la sua reggia pur che avesse presso il foco spento un tremolìo di cuna», dice il Pascoli, se non sbaglio nel ripetere il verso dopo tant'anni che l'ho studiato. Io di me posso dire: «Niuno invidierebbe la mia vita, apparentemente dotata di bene, se avendo l'amore nella sua povera casa avesse potuto vedere la realtà della mia casa».
   Perciò non deve far stupore se mi attaccai alle bestie con tanta passione. Uccellini, cani, tartarughe, polli, piccioni, conigli… i miei compagni di giuochi e di solitudine, compagni che mi dettero più gioia delle bambole perché erano «vivi», e più dolore perché… morivano. Ogni morte era una tragedia…
   Mia mamma, il «dominatore» della casa, il «dittatore», decretava ogni volta: «Guai se viene qualche altro cane, qualche altro uccello». Ma allora mi attaccavo alle gallinelle, ai colombi, ai coniglietti… Doppi pianti perciò perché… erano i predestinati allo spiedo o al tegame!…
   E poi, sfidando le ire coniugali, c'era papà che mi riportava il canino: regalato proprio a me dall'Ufficiale Tal dei Tali, oppure l'uccellino che il Colonnello mi pregava di allevare. Povero papà che, amando tanto la sincerità — e mi ci ha così bene avvezzata — ma amando anche tanto la sua povera figlietta e la pace coniugale, trovava questa… via per conciliare la mia sete di amare, la sua gioia di farmi contenta, e il voleredella moglie!
   Mia mamma faceva una scenata, il broncio durava per un tempo indeterminato, papà lo subiva con calma, io piangevo… ma piangevo sul capino di un cucciolo o sulle alucce di un passerotto, e le lacrime erano meno amare perché la bestiolina asciugava le mie lacrime con la sua linguetta tenerella o beveva le gocce del pianto col suo becco ancora molle di nidiace.
   Bisogna aver provato queste cose per poterle capire senza dirle: «Stupidaggini!».
   Dopo le bestie, i fiori. Come mi sono sempre piaciuti! In vaso sulla mia finestrella o colti lungo le verdi strade di campagna, erano la mia gioia.
   Anche qui mio padre era stato il mio maestro. Da lui che non sapeva passare indifferente davanti ad una corolla e ammirava tanto l'umile pratolina come l'orchidea rara, ho appreso l'amore per i fiori, questi infiniti capolavori di Dio che seminano di colori e di fragranze il nostro fango terrestre così come le stelle seminano di gemme il firmamento: fiori dei giardini celesti gli astri, astri dei giardini terrestri i fiori.
   Quando andavamo per la campagna, quanti fiori non coglieva papà mio! Me ne incoronava, me ne empiva le braccia, me ne illustrava le bellezze sempre nuove, sia che fossero un boccio ancor chiuso, inviolato al tocco delle api e delle rugiade, sia che già s'aprissero pomposi a ricevere i baci delle farfalle, le carezze del sole, il lavacro delle piogge o il bagno di luce fosforica delle stelle. E in tutto questo bello che la mano di Dio ha sparso intorno all'uomo, sotto i piedi dell'uomo, della creatura sovrana che il Padre ha amato fino al punto di donargli suo Figlio, e che così pochi vedono sulla terra (per me vedere è amare), babbo mi faceva vedere l'opera del Creatore. Quante volte, ad appoggio delle sue parole e intuendo la mia natura spontaneamente d'artista, egli non citava brani di prosa, e specie di poesia, che più illustravano il bello del creato e che facevano notare in esso l'impronta dell'Essere divino che fece tutte le cose!
   Animali e piante, tramonti, aurore, notti lunari così verginali e caste, notti di stelle così piene di palpiti, e voi sonanti marine che parlottate con lo sciabordìo dell'ondette leggere, che sospirate stanche nelle notti piene, che schiaffeggiate con urla e risate infernali le scogliere, e voi azzurri laghi d'Italia e colli, e pianure, e montagne, voi, voi tutte cose belle perché fatte dal mio Dio, voi che ho amato e che mi avete amata e che venite, nella mia decenne clausura, a trovarmi, poiché v'ho tanto amato, guardato, studiato, che vi vedo ancora coll'occhio della mente, siate benedette per la gioia che mi avete data, siate benedette per la fede che mi avete data, siate benedette per lasperanza di un Bello eterno, più grande, di cui voi siete un riflesso limitato, che mi avete infusa, per l'amore che da voi mi venne, che a voi mi unì, per l'amore con cui mio padre vi amava, con cui mio padre fece che vi amassi, per l'amore con cui Dio vi fece e vi conserva; oh! siate, siate benedette!
   E benedetto sia Colui che a conforto dell'uomo vi fece e che a conforto di me, sua povera figlia, donò al mio io capacità di vedervi così come siete: perfezione e testimonianza di Dio, parola di Dio in tutte le ore, sprone all'ubbidienza, alla bellezza, all'uti­lità…
  Sono stanca e malata più del solito e il pensiero sfugge. Ma non tendo a fare opera letteraria. Ubbidisco solo a un suo desiderio, Padre. Perciò poco mi occupo dello stile. Dico, così come lo permette la mia attuale debolezza, il mio sentimento rispetto alle cose che hanno trovato rispondenza in me.
  E bellezza, opera del genio: chiese d'Italia dove la vita del Cristo e di Maria, dove la vita dei Santi di Dio palpita eterna in raffigurazioni di bellezza ultraterrena. E castelli e regge d'Italia, monumenti d'arte secolare il cui attuale pericolo1 o la già avvenuta distruzione è spasimo per il mio cuore. E musei fastosi di tele, di statue, di oggetti rari venuti fin dal lontano Oriente, cose amate fin che vi ho possedute in un con la salute, ora ancora amate nel ricordo e col ricordo, perché mi portate l'eco di giorni in cui ancora conoscevo della vita non il completo fiele che dovette divenire dolce solo dopo aver stritolato in essa vita il mio io…
   Ecco gli amici nelle cose minori, gli amici che non mi tradirono e con opera non avvertibile fecero in me un lavoro di elevazione a Dio, certo predisposto da Dio che usava di tutte le cose umane per lavorarmi l'anima per l'eternità.

   pericolo… distruzione, a causa della seconda guerra mondiale, allora (era l'anno 1943) in corso.


AMDG et DVM

Regolatevi. Attenzione però. Ne va di mezzo la vera libertà.

Inizia l'era dell'uomo cyborg

Microchip sottopelle: è boom di operazioni in Svezia. Libertà sacrificata sull'altare della comodità

FEDERICO CENCI
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Microchip sottopelle
Microchip sottopelle
"L
a libertà è schiavitù". Un ossimoro: verrebbe da definire così uno dei motti che compaiono sui manifesti di propaganda che ritraggono il Grande Fratello nel celebre romanzo distopico "1984" di George Orwell. Lo scrittore inglese immagina un mondo suddiviso tra tre potenze totalitarie in costante guerra tra loro, impegnate a sottomettere i cittadini anche attraverso un bombardamento di messaggi tesi a condizionare i comportamenti facendo credere che l'autonomia costituisca una prigione e che, al contrario, la schiavitù sia la vera libertà. La brillante fantasia di Orwell, sbocciata sul finire degli anni '40 in un'Europa ancora ferita dal conflitto bellico, offre spunti profetici. Il mondo oggi non è alla mercé di tre regimi totalitari, gli eccessi repressivi descritti dalla sua abile penna sono fortunatamente poco o per niente diffusi in gran parte del pianeta, ma alcune circostanze del romanzo sembrano davvero riecheggiare nella realtà odierna.

La pioniera azienda svedese

Già nel giugno 2017 In Terris si era occupato di un fenomeno diffuso in Svezia. Un'azienda di hi-tech del Paese scandinavo aveva iniziato ad offrire dal 2015 la possibilità ai dipendenti di farsi impiantare dei microchip nelle mani. Un anno e mezzo fa erano centocinquanta sui tremila totali, i dipendenti che avevano accettato la stravagante proposta. Questi minuscoli apparecchi elettronici sottopelle, la cui applicazione avviene oggi su scala ristrettissima in tutto il mondo, venivano e vengono tuttora usati al posto dei cartellini, per usare le stampanti o per pagare la mensa e le macchinette che distribuiscono cibo e bevande. "Il beneficio più grande è la comodità. Sostanzialmente sostituisce un sacco di cose che hai, dalle chiavi ai badge", spiegava il direttore generale dell'azenda svedese.

Quattromila nuovi "uomini cyborg"

Ebbene, quella che sembrava una realtà di nicchia si sta diffondendo come un'epidemia contagiosa. In Svezia - come riferisce un servizio del Tg1 - sono già in quattromila ad essersi sottoposti a questa veloce operazione per avere, sottopelle tra l'indice e il pollice, un oggetto minuscolo ma capace di registrare dati che vanno da quelli della carta di credito a quelli della tessera sanitaria. Il nuovo modello scandinavo di "uomo cyborg", dunque, può acquistare prodotti semplicemente passando la mano vicino a un sensore e, con lo stesso gesto, può aprire la porta di casa, accedere a cure sanitarie o, come l'azienda hi-tech ha insegnato, timbrare il cartellino sul posto di lavoro. Il costo? Non elevatissimo: il microchip si ottiene con poco più di cento euro. A lanciarsi in questa proficua attività imprenditoriale in Svezia è stato, ormai cinque anni fa, un piercer professionista (cioè uno che per lavoro effettua piercing a chi lo desidera). Il successo della sua idea ha travalicato i confini svedesi: richieste giungono dalla Gran Bretagna, mentre negli Stati Uniti si tratta di una realtà che va già affermandosi; il Tg1 spiega che nel Wisconsin un anno fa circa cinquanta dipendenti di un'azienda hanno seguito l'esempio dei lavoratori svedesi facendosi impiantare il microchip sottopelle.

C'è chi dice no

Il fenomeno è dunque destinato a crescere. Il sito di informazioni giuridiche e consulenza legale Studio Cataldi spiega che talmente alta è la richiesta che per ora "le industrie del settore non sono riuscite a far fronte alle domande". C'è, tuttavia, chi oppone un fermo "no" a questa sorta di nuova moda scandinava. L'allarme giunge da alcuni settori del mondo sindacale: raccogliere informazioni su comportamenti professionali e personali, dati medici ed altro ancora, tracciando ogni passo, non fa altro che ledere la sfera privata dell'individuo. Eppure - come riferisce al Tg1 una donna, tra le persone che in Svezia si sono sottoposte all'iniezione del microchip - per qualcuno cedere la propria privacy non ha molta importanza, dal momento che il microscopico oggetto sottocutaneo rappresenta una forma di libertà "dalla schiavitù delle password". Come a dire, pur di non dover fare lo sforzo mentale, benché libero, di ricordare qualche cifra, si è disponibili a diventare oggetti del controllo da parte di terzi. Pare che l'orwelliano motto "la libertà è schiavitù" sia stato davvero profetico.

venerdì 10 maggio 2019

Julien Green

Per spiegare ai preti la vocazione, Ratzinger parlava loro della conversione di Julien Green 

L’Osservatore Romano pubblica una giovanile riflessione del papa Benedetto XVI. «Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso»

Oggi sull’Osservatore Romano è stato pubblicato un articolo a firma Joseph Ratzinger e intitolato “E Julien Green ridiventò se stesso”. Il testo è tratto dal XII volume dell’opera omnia del papa emerito, in libreria in questi giorni con il titolo Annunciatori della Parola e Servitori della vostra gioia. teologia e spiritualità del Sacramento dell’Ordine (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pagine 982, euro 55). L’opera, curata dall’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, raccoglie studi scientifici, meditazioni e omelie – dal 1954 al 2002 – sul servizio episcopale, sacerdotale e diaconale. L’Osservatore Romano ha anticipato i brani di due omelie: una tenuta nel 1978 nella celebrazione per il settantesimo compleanno del vescovo Ernst Tewes, e l’altra pronunciata nel 1955 in occasione della prima messa di un sacerdote suo amico.
Julien Green (1900 – 1998), scrittore e drammaturgo statunitense omosessuale, si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo nel 1916.
Casualmente in questi giorni ho letto il racconto che il grande scrittore francese Julien Green fa della sua conversione. Scrive che nel periodo tra le due guerre egli viveva proprio come vive un uomo di oggi: si permetteva tutto quello che voleva, era incatenato ai piaceri contrari a Dio così che, da un lato, ne aveva bisogno per rendersi la vita sopportabile, ma, dall’altro, trovava insopportabile proprio quella stessa vita. Cerca vie d’uscita, allaccia rapporti. Va dal grande teologo Henri Bremond, ma la conversazione resta sul piano accademico, sottigliezze teoriche che non lo aiutano.
Instaura un rapporto con i due grandi filosofi, i coniugi Jacques e Raîssa Maritain. Raîssa Maritain gli indica un domenicano polacco. Lui lo incontra e gli descrive ancora questa sua vita lacerata. Il sacerdote gli dice: «E Lei, è d’accordo a vivere così?». «No, naturalmente no!», risponde. «Dunque vuole vivere in modo diverso; è pentito?». «Sì!» fa Green. E poi accade qualcosa di inaspettato. Il sacerdote gli dice: «Si inginocchi! Ego te absolvo a peccatis tuis — ti assolvo». Scrive Julien Green: «Allora mi accorsi che in fondo avevo sempre atteso questo momento, avevo sempre atteso qualcuno che mi dicesse: inginocchiati, ti assolvo. Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso».
Se siamo onesti, se riflettiamo su questa vicenda in profondità, vediamo che in ultima analisi questa attesa è in ognuno di noi, che il nostro intimo grida che vi sia qualcuno che dica: «Inginocchiati! Ego te absolvo!».
Un famoso teologo protestante qualche tempo fa ha detto: oggi bisognerebbe raccontare la parabola del figliol prodigo in modo nuovo, come parabola del padre perduto. E in effetti, lo smarrimento di questo figlio consiste proprio nel fatto che ha smarrito il padre, che non lo vuole più vedere. Ma questo figliol prodigo siamo noi. La sua difficoltà è la difficoltà del nostro tempo che si vanta di essere una società senza padre. Seguendo Freud, abbiamo creduto che il padre fosse l’incubo del “Super Io”, colui che limita la nostra libertà, e che ce ne dobbiamo liberare. E ora che questo è accaduto riconosciamo che, facendo così, ci siamo emancipati dall’amore e abbiamo amputato da noi stessi quello che ci fa vivere.
Ma allo stesso tempo emerge così di nuovo quello che vi è di più profondo nel ministero episcopale e sacerdotale: poter rappresentare il Padre, il vero Padre di noi tutti, del quale abbiamo bisogno per poter vivere come uomini. Il sacerdote può renderlo presente dando la sua pace, la sua grazia, la parola trasformatrice dell’assoluzione.
Un secondo compito del ministero sacerdotale, con questo strettamente intrecciato, viene in luce quando Paolo nel versetto successivo dice: «Siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza». Prendiamolo come esame di coscienza. Certo, siamo molto ricchi di parola e di conoscenza. Ma siamo veramente ricchi della Parola che è conoscenza e che ci guida in mezzo a tanti discorsi inutili? Oppure è proprio di questa che siamo divenuti estremamente poveri?
Torniamo ancora una volta a Julien Green. Egli racconta come, sin dalla fanciullezza, sua madre, anglicana, lo avesse letteralmente immerso nella Sacra Scrittura. Era ovvio per lui sapere a memoria tutti e centocinquanta i Salmi. La Scrittura era l’atmosfera della sua vita. E dice: «Mia madre mi insegnò a comprenderla come libro d’amore. E mi permeò profondamente dell’idea che, da un capo all’altro della Scrittura, fosse unicamente l’amore a parlare. E tutto il mio essere non voleva nient’altro che amare». Ecco, alla fine non può perdersi un uomo che ha ricevuto delle basi così.
E noi? Non dobbiamo forse iniziare in modo del tutto nuovo a dare spazio a questa Parola, nella quale da un capo all’altro ci avvolge l’amore, farne l’atmosfera delle nostre case e della nostra vita quotidiana? Non è assolutamente una garanzia che nella vita tutto andrà a gonfie vele. Ma è un’ultima forza portante che sempre di nuovo ci ricondurrà a casa, che ci renderà ricchi di vera conoscenza.
Infine un terzo punto. Paolo dice di essere grato per il fatto che «nessun dono di grazia più vi manca». Sentendo queste parole è quasi come se vedessi davanti a me il volto di san Paolo che sorride con una sottile, lieve ironia. Infatti, alcune pagine dopo, punta l’indice contro i Corinzi perché sono addirittura assetati di carismi. Egli non ritira quella frase, non è adulazione. No, non manca loro alcun carisma, alcun dono di grazia. E tuttavia essi rischiano di essere scriteriati, perché importa loro solo il particolare, perché ognuno vuole sopraffare l’altro e perché così non è più evidente che tutti i carismi, tutti i doni hanno un unico fine: introdurci all’amore ed edificare così l’organismo vivo di Gesù Cristo.
Ma mi viene in mente anche san Filippo Neri (…), quel santo che con il suo inesauribile umorismo e con la sua fede smisurata fece della Roma della seconda metà del XVI secolo una città nella quale la luce di Gesù Cristo era di nuovo posta sul candelabro e poteva di nuovo essere criterio per i cristiani.
Egli raccoglieva dei giovani che con lui leggevano la Scrittura, si immergevano nei tesori della storia della Chiesa e per i quali era ovvio che chi si abbeverava di questa parola, dopo la dovesse distribuire andando fra i malati nel vicino ospedale di Santo Spirito, dai sofferenti e dai poveri di Roma.
A questa scuola dei carismi sono cresciuti uomini eccellenti come Cesare Baronio — il grande storico della Chiesa — e tanti altri uomini nei quali furono risvegliati dei doni e nei quali, senza alcun ministero o chiamata particolare, divenne viva la forza della Parola di Dio. Questa Parola prese quegli uomini al proprio servizio e tutto venne a raccogliersi, sempre e comunque, attorno a quel centro che si chiama amore, fede, speranza.

Graham Greene

Storie di conversione: Graham Greene

di Giulia Galeotti
Il 13 luglio 1965 Paolo VI riceve in udienza privata lo scrittore inglese Graham Greene (1904-1991). L’incontro ha un duplice spessore:  da un lato v’è l’uomo di fede, cresciuto e maturato nel proprio cammino di conversione, che viene accolto dal suo Pontefice; dall’altro, l’autore di un romanzo incappato nelle maglie del Sant’Uffizio e l’illuminato ministro di Dio che, oltre un decennio prima, aveva saputo cogliere il valore e il profondo significato dell’opera. 
A tu per tu nella calda estate romana, si parlò, infatti, anche de Il potere e la gloria (1940):  all’inglese che gli ricordava la condanna ricevuta, sorridendo Montini rispose:  “Mister Greene, certe parti del suo romanzo non possono non offendere alcuni cattolici, ma lei non dovrebbe attribuire alcuna importanza a questo”.

Nato a Berkhamstead nel Hertfordshire e compiuti gli studi al Balliol College di Oxford, Green lavorò inizialmente come giornalista (al “Nottingham Journal”, al “Times” e infine allo “Spectator”). Quindi, fu alle dipendenze del Ministero degli esteri, ricoprendo il ruolo che tanto spazio avrà in molti dei suoi romanzi:  fu una spia al servizio di sua maestà. Soprattutto, però, in questi anni, si era già verificato l’evento decisivo della sua vita, ricco di implicazioni sulla sua produzione letteraria:  la conversione al cattolicesimo. Il tramite fu una donna. Lavorando al “Nottingham Journal”, infatti, Greene aveva avviato una fitta corrispondenza con Viviene Dayrell-Browning, a sua volta convertitasi al cattolicesimo. L’incontro porterà nel febbraio del 1926 al battesimo di Greene e, l’anno dopo, al loro matrimonio.

È del 1938 il primo romanzo del ciclo cattolico (La roccia di Brighton), ciclo che da subito si delinea nei suoi inconfondibili tratti:  l’imprinting protestante e una certa tristezza puritana si combinano con la luce del cattolicesimo. Se il protagonista dei suoi romanzi è l’uomo moderno corrotto, cacciato e disperato, preda dell’ansia e della paura, circondato e braccato dal male, la presenza di Dio, amorevole e salvifica, è comunque una certezza. “Sono uno scrittore al quale è capitato di essere cattolico”, ripeteva Greene:  sono gli incontri e le esperienze della vita, le delusioni, le speranze, i desideri realizzati e quelli che si perdono per la via, a condire le pagine della sua letteratura, a dipingere sulla carta intrecci che sono, al contempo, molto più profondi e carichi di speranza di quanto non sia immediatamente percepibile.

Uno dei tratti distintivi del suo essere cattolico è ravvisabile nell’atteggiamento di grande compassione che Greene nutre verso la debolezza e la fragilità degli uomini. Il suo messaggio è stato perfettamente colto da Charles Moeller, autore della monumentale Letteratura moderna e cristianesimo:  “L’opera di Greene altro non è che un commento alla parola divina:  non giudicate. Non giudicate il mondo che vi sembra abbandonato da Dio:  esso è abitato da Dio. Non giudicate l’umanità che in apparenza ha ucciso Dio:  essa è salvata da Dio. Non giudicate la sconfitta di Dio, calpestato nelle sue istituzioni che vengono abbandonate al demonio, deriso nella debolezza dei sacramenti:  la potenza e la gloria di Dio vi sono presenti”. Come dice Scobie ne Il nocciolo della questione (1948), “Per essere veramente umano, tu devi bere il tuo calice fino alla feccia. Se una volta sei fortunato, e un’altra volta codardo, il calice ti vien presentato una terza”.

È esattamente quanto fa il protagonista de Il potere e la gloria, il prete che nel Messico insanguinato dalla rivoluzione, tenta di sfuggire alle autorità che perseguitano, fucilando o costringendo alle nozze i ministri di Dio. Questa figura è l’autentico capolavoro di Greene:  il prete, infatti, è un peccatore (“era un cattivo prete, lo sapeva. La gente aveva un nomignolo per quelli come lui:  preti spugna”). Lentamente ma inesorabilmente, il peccato arrugginisce e corrode la sua vita. “Non era che l’ennesima resa. Gli anni alle sue spalle erano disseminati di analoghe capitolazioni (…). La sua vita quotidiana si era riempita di crepe, come una piaga, e la dimenticanza si infiltrava nelle fessure spazzando via questo e quell’altro”. Del resto, quando già abbiamo appreso del suo alcolismo e dell’esistenza di una figlia concepita in una sera in cui era ubriaco, scopriamo quello che è in realtà il suo vero peccato:  l’orgoglio.
Dio sembra assente in questo romanzo (come in tutto il mondo raccontato da Green). Lo Stato tenta di estirparlo, il comportamento dei suoi ministri fa di tutto per bestemmiarlo, Dio, infine, sembra sopraffatto dalla superstizione, dall’ignoranza e dalla cattiveria. Eppure, le pagine traboccano della presenza di Dio. “Era per quel mondo che Cristo era morto; quanto più male si vedeva e si sentiva in giro, tanto più grande era la gloria circonfusa attorno alla sua morte. È troppo facile morire per le cose buone o belle, per la patria, i figli, la civiltà… ma ci voleva un Dio, per morire per gli indifferenti e i corrotti”.
Qualche giorno prima di essere giustiziato, il prete spiega al tenente che l’ha catturato la grande differenza tra i rivoluzionari atei e la rivoluzione della fede. Nelle prime i rivoluzionari debbono necessariamente essere buoni, mentre “anche se tutti i preti fossero come me, ubriaconi, vigliacchi, avidi, questo non cambierebbe nulla, perché essi potranno sempre dare Dio agli uomini”. Il prete spugna, del resto, non è braccato solo dalla polizia, ma anche dalla sua coscienza, da Dio:  come ha scritto Paul Rostenne, il suo destino diventa così una vocazione. Proprio in quest’ottica, anch’egli è un testimone dell’esistenza e dell’amore di Dio. Nell’imminenza dell’esecuzione, non ha paura né della dannazione eterna, né del dolore fisico:  “Provava solo un’immensa delusione di doversi presentare a Dio a mani vuote, senza un’opera da offrire. Gli pareva, in quel momento, che sarebbe stato così facile essere un santo. Sarebbero bastati un po’ di autodisciplina e un po’ di coraggio. Si sentiva come chi, per pochi secondi, avesse mancato l’appuntamento con la felicità. Adesso sapeva che, alla fine, una sola cosa conta veramente:  essere santi”. Il potere e la gloria manifesta la forza soprannaturale del paradosso cristiano. Avere fede è credere che Dio non tace, che Dio non abbandona i suoi figli. Per questo, il peccato peggiore, “il peccato imperdonabile”, è la disperazione.

In La fine dell’avventura (1951) Greene racconta una storia di conversione. Una bomba cade sopra la casa in cui si trovano l’adultera Sara Miller e il suo amante. Quando la donna, che è stata battezzata ma non lo sa, scopre l’uomo sepolto dalle macerie e lo crede morto, fa una cosa inspiegabile:  inginocchiatasi, implora Dio, quel Dio che non conosce e al quale non crede, di salvare l’amante, impegnandosi in cambio a non vederlo mai più. Ebbene, qualche minuto dopo, scopre che in realtà Maurice è vivo. Sebbene non voglia mantener fede a quella promessa, non rivedrà più l’uomo. Per questo Sara si ritrova a odiare quel Dio, al quale continua a essere sicura di non credere, che le sta sottraendo la sua felicità. Ma proprio odiandolo perché l’ha presa alla lettera, la donna capisce che in realtà crede in Lui “perché non si può odiare dell’aria”, (similmente accadrà a Maurice, dopo la morte di Sara). Come i due amanti, così fa anche il mondo.
In diverse forme e con variopinte sfumature Graham Greene ci suggerisce che la conversione è un processo costante. Convertirsi è attraversare e riattraversare il mondo, le sue crudeltà, i suoi silenzi e le fitte tenebre, in un continuo colloquio con Dio.
su L’Osservatore Romano del 29-30 agosto 2008
AMDG et DVM