mercoledì 8 maggio 2019

MARIA ROSA MISTICA

Le apparizioni di Maria Rosa Mistica: Il primo periodo delle apparizioni (1944-1949)

Il 14 aprile 1944, all’età di 33 anni Pierina Gilli entra in Convento come postulante delle Ancelle della Carità e viene mandata come infermiera all’Ospedale dei Bambini in Brescia. 
Il primo dicembre dello stesso anno Pierina è colpita da meningite. è’ l’inizio delle tribolazioni gravissime in connessione con la prima fase delle apparizioni dalla fine del 1944 alla fine del 1947. 
Trasportata all’infermeria del Ronco cadde in uno stato d’incoscienza durante il quale ricevette gli ultimi sacramenti. Se ne aspettava la morte, quando nella notte del 17 dicembre 1944 le apparve S. Maria Crocifissa Di Rosa, la Fondatrice delle Ancelle della Carità, che le spalmò sulla testa e sul dorso uno speciale unguento e la guarì, pur richiedendo una lunga convalescenza. 
I particolari di questa apparizione vengono descritti in seguito in questo libro. Rimandata a casa per la gracilità della salute, offrì questo sacrificio per la salvezza delle anime consacrate dell’Istituto. 
Tuttavia nel luglio successivo (1945) sentendosi bene riprese il servizio a Desenzano del Garda. 
Ma il male ritornò il 17 dicembre 1945: sospetta meningite, otite, coliche renali. Fu trasportata all’Ospedale di Montichiari perché fosse più vicina a casa nell’eventualità della morte. 
Le cose volsero per il meglio e l’anno successivo alla fine di aprile 1946 ritornò come infermiera all’Ospedale di Montichiari. Ma il benessere durò poco: a metà novembre 1946 Pierina fu colpita da fortissimi dolori e vomito, sintomi di una occlusione intestinale, per la quale era imminente l’intervento chirurgico. 
Fu nella notte tra il 23 e il 24 novembre che apparve a Pierina di nuovo S. Maria Crocifissa Di Rosa, ma questa volta con la Madonna che portava tre spade confitte nel petto. I particolari sono narrati più avanti nella seconda parte del libro. 
L’anno successivo Pierina fu assalita da coliche renali fortissime, cistite assai dolorosa fino a giungere a un collasso cardiaco. Il 12 marzo 1947 aveva perso conoscenza ed era in fin di vita. Con le suore la assistevano la mamma e le sorelle in attesa di vederla spirare. Invece la videro improvvisamente alzarsi a sedere sul letto, tendere le braccia verso una direzione e parlare con una persona invisibile, dopo di che ricadde sul letto e aperse gli occhi come si svegliasse dal sonno. Era effettivamente guarita tanto che tre giorni dopo riprese servizio. Quello che era avvenuto è narrato da Pierina stessa. Le era apparsa S. Maria Crocifissa con queste parole: 
“Il Signore voleva portarti in Paradiso, invece ti lascia ancora sulla terra. Fino a dicembre offrirai le tue sofferenze per la conversione di una nostra Religiosa… Accetti questo?”. 
Pierina rispose: “Si, generosamente”. 
Continuò: “Davanti agli uomini non hai più niente, ma tu avrai sempre le medesime sofferenze”. 
Pierina domandò: “Sempre la nuda croce?”. 
Rispose: “Si, il Signore in cambio di questo ti da la conversione dei peccatori!” E Pierina: “Quale grazia! Sono tutti salvi! Grazie, grazie!”. 
Da questo momento cominciano per Pierina le sofferenze più profonde, e non soltanto fisiche. Sentendosi impegnata per la conversione di quella religiosa, commette l’imprudenza di chiedere al Signore di farle sentire tutto quello che passava in quell’anima da convertire. Ed ecco che si sente cambiata: per due mesi prova suo malgrado una strana indifferenza verso le cose sacre e un’avversione inspiegabile verso la Madre Superiora, il Confessore e le altre suore. Passati questi due mesi ai primi di maggio incominciano le persecuzioni diaboliche che Pierina descrive minutamente giorno per giorno nel suo diario. Evidentemente i demoni vogliono spaventarla e scoraggiarla, perché lasci perdere quelle anime. Pierina infatti d’accordo col Confessore e la Superiora e confortata dalle apparizioni di Santa Crocifissa, dorme in terra su una coperta e digiuna tre giorni a pane ed acqua. Le appare ripetutamente un demonio dall’aspetto mostruoso. Altri demoni l’assalgono e la picchiano in tutto il corpo. Le suore di guardia costatano il divincolarsi e le piaghe sul corpo di Pierina, senza tuttavia vedere i demoni. Furono loro le prime a percepire rumori spaventosi che rivelavano la presenza dei demoni. Più volte il demonio si è presentato sotto l’aspetto di una suora per persuadere Pierina a sospendere le sue penitenze. Inoltre Pierina è tormentata da ascaridi nell’intestino, che le provocano conati di vomito e soffocamento. 
Queste persecuzioni durano un mese e raggiungono il culmine la notte del primo giugno con la visione dell’inferno, nel quale Pierina distingue in tre reparti diversi tre categorie di religiosi, anime consacrate e sacerdoti, corrispondenti alle tre spade della visione e alle tre intenzioni per le quali deve pregare e soffrire. 
Ma dopo la visione dell’inferno in quella stessa notte del primo giugno 1947 alle ore tre e quindici Pierina fu visitata dalla seconda apparizione della Madonna con tre spade infisse nel petto. 
L’apparizione, che sarà descritta con le parole di Pierina nella seconda parte di questo libro, aveva lo scopo di confermare il significato delle sue sofferenze e di proporre all’Istituto delle Ancelle una devozione specifica in questo senso riparatore. 
Nei giorni seguenti Pierina continuò a sentire dolori lancinanti alla testa, allo stomaco, al fegato, con sintomi di flebite alla gamba sinistra, che spesso la costringevano a letto. 
Dall’11 giugno al 12 luglio quasi quotidianamente aveva la visita di S. Maria Crocifissa, che la consigliava e confortava. 
Riportiamo alcune frasi che spiegano il carattere delle sofferenze della veggente. 
Pierina: “Perché mi avete detto che sarei guarita, mentre sono ancora ammalata?” 
La Santa mi rispose: “Non si può forse soffrire senza essere ammalati?”. Soffrivo immensamente, perciò mi lamentai di nuovo: 
“Perché mi dite che guarisco e poi soffro ancora come prima e più di prima?”. Mi rispose: “Nostro Signore tratta così le anime per abituarle a staccarsi da sé stesse. Ama Gesù e non lamentarti”
Pierina soffriva dunque per i sintomi dolorosi di malattie che non aveva. Queste visite di S. Maria Crocifissa ebbero anche lo scopo di preannunciare e preparare spiritualmente la grande apparizione che doveva avvenire il 12 luglio, ma per punizione causata da una non sufficiente preparazione spirituale, avvenne il 13 luglio. 
L’apparizione del 13 luglio 1947 è descritta con le parole di Pierina, e riportata nella seconda parte di questo libro. 
Questa è la prima apparizione veramente programmatica, della quale le precedenti sono una preparazione. La Madonna che appare con tre rose, bianca, rossa e giallaoro sul petto al posto delle tre spade, esprime i suoi desideri: porta una nuova devozione per gli Istituti religiosi, cominciando da quello delle Ancelle della Carità. La devozione consiste in preghiere (rosa bianca), sacrifici (rosa rossa), penitenze (rosa giallooro), rispettivamente per la conversione di tre categorie di anime consacrate infedeli alla propria vocazione. Inoltre il giorno 13 di ogni mese doveva essere santificato e preceduto da 12 giorni di preghiere speciali e festeggiato in modo particolare negli Istituti religiosi. 
Notiamo che la devozione proposta dovette sembrare indiscreta ai superiori religiosi, ponendo il dito su una piaga che era meglio restasse in sordina. Ciò doveva inclinarli a contestare l’attendibilità del messaggio di Pierina. Ma le grandi defezioni moltiplicatesi negli anni successivi danno ragione di questa proposta d’intercessione e di riparazione spinta fino all’eroismo del sacrificio. 
Comunque per il momento Pierina non ebbe dal Confessore, Don Luigi Bonomini, il permesso di rivelare il contenuto dell’apparizione. 
Il 6 settembre la Madonna bianco vestita con le tre rose apparve a Pierina nella Cappella della Casa Provincializia delle Ancelle a Mompiano. Si trattava di un messaggio privato:“Da questo momento avrai tante umiliazioni, anche dall’Istituto, sarai incompresa”; insieme con l’ordine di recarsi a Brescia nella Cappella della Casa Madre. Qui la Madonna apparve ancora con l’incarico di informare la Madre Generale, con l’affermazione che il miracolo richiesto dai Superiori “non avverrà” e con un messaggio per il Vescovo: radunare le rappresentanti di tutte le religiose della Diocesi, due per ogni Istituto: “A loro, che non mi vedranno, manifesterò quanto desidero”. 
Pierina non è creduta e viene trattata con severità. 
Il 22 ottobre si verifica un segno miracoloso, forse non un miracolo come esigevano i Superiori, comunque l’effetto di questo venne subito vanificato. 
Ecco ciò che avvenne. 
Nella Cappella dell’ospedale di Montichiari verso le ore 19 in attesa del miracolo la Superiora, avvertita da Pierina, aveva chiamato i sacerdoti della Parrocchia; insieme vi erano i medici, gli infermieri e le suore con qualche ammalato. Nella Cappella a sinistra si trovava una statua di gesso in una nicchia: rappresentava S. Maria Crocifissa Di Rosa con in mano un Crocifisso. Durante la recita del Rosario, Pierina vide improvvisamente un raggio luminoso partire dal tabernacolo verso la statua. Allora si portò davanti alla statua e si mise in ginocchio. La statua divenne un’apparizione vivente ed anche il Crocifisso si mostrava palpitante, anzi più grande di come era nelle mani della statua. La Santa Fondatrice disse: 
“Guarda quanto Sangue perduto inutilmente!” e la invitò a recitare: 
“Gesù mio, misericordia, perdonate i nostri peccati”. 
Intanto dal costato di Gesù usciva Sangue vivo. Pierina allora, istruita dalla Santa, si alzò, prese dall’altare il purificatoio che abitualmente si trova vicino al tabernacolo, salì su una sedia per essere più vicina al Crocifisso e distendendo il purificatoio raccolse alcune gocce di quel Sangue. Poi riportò il purificatoio sull’altare e vedendo che l’apparizione era scomparsa, lasciando la solita immagine dietro il cristallo della nicchia, s’inginocchiò davanti all’altare recitando il “Miserere” mentre i presenti, che in silenzio avevano assistito ai gesti, si affollavano per vedere le macchie di sangue sul purificatoio. 
A questo punto la Madonna con le tre rose apparve di nuovo a Pierina: i presenti compresero e rimasero in attesa. 
Ecco le parole della Madonna: 
“Per l’ultima volta vengo a chiedere la devozione già raccomandata altre volte. il mio Divin Figlio ha voluto lasciare le tracce del suo preziosissimo Sangue per testimoniare quanto grande è il Suo amore per gli uomini, dai quali è ricambiato con gravi offese. Prendi il purificatoio e mostralo ai presenti”. 
Pierina prese il purificatoio e lo distese davanti a tutti, poi disse: 
“Ecco le gocce del Sangue del Signore!” e lo ripose sull’altare. 
La Madonna continuo’: 
“Sia coperto con velo bianco e poi sia esposto per tre giorni in mezzo alla Cappella assieme alla statua di S. Maria Crocifissa Di Rosa, che sarà miracolosa per la devozione dei fedeli. Sia riferito a Mons. Vescovo il fatto testé avvenuto e si dica a lui che si verificheranno conversioni e risveglio di fede.
Io mi sono interposta come Mediatrice tra gli uomini e in particolare per le Anime Religiose e il mio Divin Figlio, stanco delle offese continuamente ricevute, voleva esercitare la sua giustizia”. Poi continuò:
“Desidero vivamente che l’Istituto delle Suore Ancelle della Carità sia il primo ad onorarmi col titolo di Rosa Mistica”.
Quale protettrice di tutti gli Istituti religiosi assicuro la mia protezione per un vivo risveglio nella Fede e perché le anime elette ritornino al primitivo spirito dei loro Fondatori”.
Dopo una pausa di silenzio aperse un po’ le braccia e con esse il manto in segno di protezione, lasciando vedere le tre rose sul petto. Piegandosi verso Pierina le disse come saluto e ricordo: 
“Vivi di amore!”. Poi lentamente scomparve. 
Subito dopo, portata nella piccola sacrestia, Pierina fu “assalita” come lei stessa scrive: 
“I Reverendi Sacerdoti mi tempestarono di domande e in più si aggiunse che anche i Signori Medici mi volevano visitare e scrutare da ogni parte”. 
Fu portata in sala operatoria: 
“Passai qualche ora come zimbello nelle mani dei Signori Dottori, perché non erano convinti di ciò che era avvenuto. Perciò erano un po’ agitati e i ferri che adoperavano per controllare mi facevano male, ma ebbi sempre forza e coraggio di lasciar fare, affinché si convincessero della verità”. 
Il Vescovo, Mons. Giacinto Tredici, fu informato la sera stessa dal Confessore, che era uno dei presenti. Il purificatoio fu esposto e venerato da pie persone per tre giorni come aveva ordinato la Madonna; ma qualche tempo dopo fu portato in Curia per essere sottoposto ad analisi; non se ne seppe più nulla. 
Notiamo che le parole della Madonna: 
“Per l’ultima volta vengo…” si riferiscono alla richiesta della nuova devozione fatta all’Istituto delle Ancelle. 
D’ora innanzi non verrà più nelle case delle Ancelle; le altre apparizioni avverranno nella Chiesa parrocchiale (il Duomo) ed avranno come destinatari non solo gli Istituti religiosi, ma tutto il popolo cristiano. 

Si leggano i particolari delle quattro apparizioni in Duomo come li descrive Pierina, nella seconda parte di questo libro. 
La prima delle apparizioni in Duomo avvenne il 16 novembre 1947, dopo la S. Messa del mattino ed ebbe carattere strettamente personale. Aveva lo scopo di preparare le successive. 
La seconda, per cui furono avvisate la Superiore dell’Ospedale ed altre suore che si recarono appositamente in Duomo con Pierina, presenti due sacerdoti, avvenne nel pomeriggio del 22 novembre. 
La Madonna rivelò un segreto personale che riguardava solo l’avvenire di Pierina, un messaggio per il Papa ed inoltre un “Segreto” da sigillare e tenere nascosto fino a nuovo avviso. 
La Madonna parlò della profanazione del luogo dove Ella nel 1944 presso Bonate (Bergamo) era apparsa ad Adelaide Roncalli, una bambina di sette anni. 
Già nell’apparizione precedente aveva deplorato la mancanza di fede e l’abbandono in cui era lasciato il posto, frequentato da gente di malaffare. Ora ordinava che per tre giorni si facesse un pellegrinaggio riparatore da Ponte San Pietro al luogo delle apparizioni. Importante l’appuntamento per l’8 dicembre, quando la Madonna sarebbe tornata a mezzogiorno per l’ “Ora di Grazia”. 
La notizia di questa futura apparizione si diffuse, provocando grande attesa nel popolo e maggior preoccupazione nelle Autorità Diocesane. 
Il 7 dicembre, ancora in Duomo, la Madonna apparve prima del previsto, presenti solo Pierina, la Superiore dell’Ospedale e il Confessore. Con la Madonna vi erano Francesco e Giacinta, i due bambini che avevano visto la Madonna a Fatima. In quest’apparizione la Madonna afferma il nesso tra Fatima, Bonate e Montichiari. La Madonna a Fatima chiede la consacrazione dell’umanità, a Bonate la consacrazione delle famiglie, a Montichiari la fedeltà delle anime consacrate alla propria vocazione. 
L’8 dicembre, mentre il Duomo andava riempiendosi di una folla impressionante, le autorità della Curia volevano proibire a Pierina di recarsi all’appuntamento, ma infine cedettero. 
Nuova in quest’apparizione fu la visione del S. Cuore di Maria e l’istituzione dell’ “Ora di Grazia” a mezzogiorno dell’8 dicembre, con l’ordine di far pervenire al Papa il desiderio della Madonna che questa devozione fosse estesa a tutto il mondo. 
La reazione del popolo fu positiva. Avvennero anche alcune guarigioni miracolose. Ma per Pierina incominciò un periodo burrascoso, proprio come per una barca sballottata dai flutti in cerca di un punto di approdo. 
Le autorità della Curia impedirono che Pierina avesse contatti con la popolazione. Fu subito portata lontano, a Brescia, dove rimase nascosta quel giorno. Ricondotta alla sera all’Ospedale di Montichiari vi rimase senza che lo si venisse a sapere, e il 23 o 24 dicembre per interessamento del Confessore Don Luigi Bonomini, fu mandata a Brescia presso l’Istituto femminile delle Ancelle in Contrada S. Croce, dove rimase tre mesi sempre con l’abito di probanda o postulante. 
Ai primi di gennaio 1948 fu chiamata e interrogata dalla Commissione composta da Don Agostino Gazzoli, il Cancelliere, che sarà sempre contrario all’autenticità delle apparizioni, Mons. Zani, Mons. Bosio poi Vescovo di Chieti, e Mons. Bosetti, poi Vescovo di Fidenza. 
Fu anche visitata da medici specialisti. A quanto pare nella Commissione alcuni erano favorevoli, per cui non si arrivò a nessuna conclusione. Fu esortata a vivere ritirata, ancora con l’abito di probanda. 
All’inizio di Giugno 1948 fu allontanata da Montichiari, ospite di una buona signorina, Martina Bonomi, che la ospitò nella sua casa di Castelpocognano (Arezzo). Dovette però non solo deporre l’abito di postulante, ma anche la propria identità, presentandosi col nome di Rosetta Chiarini. Nessuno doveva sospettare dove fosse Pierina Gilli. 
Nel diario, Pierina, esprime tutta la sua amarezza: 
“..per far scomparire ogni traccia della mia esistenza, affinché le persone non sapendo più nulla di me, non avrebbero più disturbato nessuno”. 
Rimase in quell’esilio fino alla fine di novembre, soffrendo spesso di coliche renali, curata con calmanti, ma senza che intervenisse il medico perché non si scoprisse la sua vera identità. 
Ebbe molto a soffrire nonostante qualche apparizione di S. Maria Crocifissa e la bontà e gentilezza della Bonomi. 
Alcuni fenomeni mistici accrebbero le sue sofferenze fisiche, facendole percepire nel proprio corpo i dolori della Passione di Cristo. Richiamata a Brescia per nuove interrogazioni, che avvennero alla fine di febbraio 1949, fu obbligata a rimanere a casa presso la madre e i familiari, i quali erano coinvolti nelle umiliazioni che Pierina dovette subire da parte di gente che la derideva come fosse un’illusa, una pazza, un’isterica. Allo scopo di essere interrogata fu poi tenuta segregata per quaranta giorni in un luogo a tutti sconosciuto a disposizione della Commissione esaminatrice, formata da tre persone, due medici e Mons. Gazzoli. 
Esasperata dalle insistenze con cui volevano la sua ritrattazione, disse che era pronta a dare la vita, ad accettare qualunque castigo per sostenere la verità delle visite della Madonna. Alla fine, alla presenza del Vescovo, le fu proposto di giurare sul Vangelo. Giurò e firmò le carte che avevano preparato. Probabilmente il vescovo, Mons. Giacinto Tredici, non era del parere negativo della Commissione. 
Scrisse Pierina nel diario: 
“Mons. Vescovo mi volle da sola nel suo studio, ove ebbe parole di conforto, invitandomi a diventare buona e a farmi santa. Mi chiese che intenzioni avevo. Gli risposi. Ho poca salute e non so dove debbo andare. Mi consigliò di non rimanere a casa per la gente, ma che sarebbe stato meglio ritirarsi presso qualche casa di Suore”. 
Scrisse ancora nel diario: 
“Allora si cercò, si bussò a parecchi Conventi. Venni rifiutata da ogni casa, da ogni porta…; il mio nome era un terrore… Nessuno mi voleva”. 
Allora un gruppo di pie persone con la Signorina Bonomi e la Signorina Maria Bergamaschi si offrì per pagare la retta giornaliera presso un Collegio, dove Pierina rimase nascosta in una stanzetta. Solo la Superiora andava a visitarla. 
Le signorine benefattrici erano in amicizia col Padre Giustino Carpin, Superiore dei Padri Francescani Conventuali, dai quali dipendeva il Convento delle Suore Francescane del Giglio di Brescia. Informato della situazione di Pierina, il Padre Carpin, d’accordo con la Superiora, Suor Agnese Lanfaloni, decise di accoglierla provvisoriamente in Convento; era il 20 maggio 1949. 
Dopo una ventina di giorni venne a trovare Pierina il Provinciale dei Conventuali, Padre Andrea Eccher, il quale le chiese se stava volentieri in quella casa di Suore. Alla sua risposta affermativa, il Provinciale col Padre Giustino dissero: “Resta pure con noi”. 
Leggiamo nel diario: 
“Quanta gioia ho provato! Finalmente avevo trovato una casa!”. 
La barca di Pierina dopo tante traversie era approdata in un porto sicuro. 

Vicende dal 1947 al 1966

Perdurando lo stato precario di salute di Pierina, un gruppo di pie persone si interessò della sua sistemazione ed alla fine fu provvisoriamente ospitata presso il Convento delle Suore Francescane del Giglio di Brescia: era il 20 Maggio 1949. Questa provvisorietà durò diciannove anni, durante i quali Pierina approfondì la propria spiritualità mariana con particolare attenzione alla devozione del santuario di Lourdes e agli ammalati e alle intuizioni avute nel 1947 con il riferimento a Maria, Rosa mistica.
Questa sensibilità la porterà a individuare nel sito di Fontanelle un luogo adatto per svilupparvi iniziative di accoglienza e di preghiera per gli ammalati, da dedicare a Maria, Rosa mistica. Il 17 Aprile 1966, prima Domenica dopo Pasqua, detta in albis, Pierina ha l’intuizione di invitare tutti gli ammalati a recarsi alla fonte del sito per chiedere alla Rosa mistica misericordia e consolazione.
Il 13 Maggio 1966 Pierina pensò che la sorgente potesse essere chiamata “Fonte di Grazia” e che venisse edificata una vasca per accogliervi i malati.
Nella festa del Corpus Domini, il 9 Giugno 1966, tra i campi di grano maturi, Pierina intuì la profonda connessione fra la spiritualità mariana e l’Eucaristia: il Pane Eucaristico era alimento per tante comunioni riparatrici.
Nella successiva festa della Trasfigurazione, 6 Agosto 1966, Pierina ebbe l’intuizione che il giorno del 13 ottobre si celebrasse la giornata mondiale della Comunione Riparatrice.

Ultimi anni

Pierina visse nell’umiltà della vita quotidiana, e pur obbedendo sempre alle disposizioni ecclesiastiche, rimase un punto di riferimento per i pellegrini sempre più numerosi che venivano a Montichiari attratti dalla devozione alla Madonna. Lei accoglieva paziente nella sua piccola casetta vicino al nuovo Ospedale della città pronta a intercedere in favore delle persone che chiedevano preghiere. A molti diede consolazione, consigli e preparò molti cuori alla conversione.
Pierina assistette in particolar modo gli ammalati, e questo per molti anni, fino al 1990, quando, aggravandosi la sua infermità, fu costretta in carrozzella.
Il 12 gennaio 1991, Pierina morì dopo una lunga purificazione del corpo e dello spirito. Alla presenza di una grande folla di fedeli, accorsa per l’ultimo saluto si celebrò il suo funerale. Fu accompagnata fuori dalla chiesa, verso il Cimitero dove ancora è sepolta, con le dolci parole: «O Maria, nostra speranza, ci assisti e pensi a noi…». Le stesse parole che la piccola aiuto-infermiera aveva osato intonare l’8 Dicembre 1947 alle ore 12, illuminata da Maria Rosa Mistica, nel grande Duomo di Montichiari.


Fonte: Maria Rosa Mistica Madre della Chiesa. Le apparizioni della Madonna a Fontanelle Montichiari. (Enrico Rodolfo Galbiati) 
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Fontanelle di Montichiari (Brescia) 1911 –1991. 

La medaglia di Rosa Mistica

fontanelle-rosa-mistica-madonnaFontanelle di Montichiari (Brescia), Pierina Gilli, 1911 –1991

Mentre la Chiesa è colpita da dolorosi travagli interni ed esterni e il mondo sembra travolto da grosse ondate di materialismo laicista e marxista e dal rifiuto progressivo e ostinato di Dio, Maria, Rosa Mistica, scende visibilmente a Montichiari, ridente e industrializzata località lombarda dell’Italia del Nord, lontana una decina di kilometri da Brescia (Italia), posando i suoi piedi al centro del maestoso Duomo (22 novembre 1947) e poi sui gradini della piccola, rustica scala di pietra, che porta alla sorgente delle Fontanelle, tra il verde aperto della campagna (17 aprile 1966).

fontanelle-gilli-rosa-mistica-madonna (3)La medaglia di Rosa Mistica

L’apparizione del 19 maggio 1970 ebbe un suo particolare significato. Maria SS. apparve, come sempre, nel suo candido manto, il Cuore ornato con tre rose (bianca, rossa e giallo-oro). Al braccio destro un grande rosario che terminava con una medaglia invece della croce. Quindi, stendendo ambedue le braccia, la SS. Vergine mostrò una medaglia rotonda e dorata sulle due palme delle mani. Su quella della mano destra Pierina vide incisa la figura di Maria in piedi, in cima alla scala con le mani giunte e con il capo, come sempre, chinato in avanti sulla sinistra, circondato di rose. Molte rose erano pure ai suoi piedi, sparse per la scala. Sull’orlo della medaglia della mano destra vi era scritto: “Rosa”; su quello della sinistra “Mistica”. Quindi a tergo di una delle medaglie Pierina osservò distintamente una bella chiesa a cupola con tre grandi porte. Sopra vi era la scritta:
”Maria Madre della Chiesa”
A questo punto la Madre celeste prese a parlare e disse:
“Desidero sia fatta coniare una medaglia come questa e con le due iscrizioni. il Signore mi ha inviata in questo luogo da Lui prescelto per portare il dono del suo amore, il dono della fonte delle grazie e quello della medaglia del mio amore materno. Oggi sono qui per far conoscere questa medaglia, dono dell’amore universale e che sarà portata dai figli sul loro cuore ovunque andranno. Prometto a questi miei figli la mia protezione e la mia grazia materna. Questa è l’ora in cui si cerca di annientare il più possibile la venerazione che mi si deve. La medaglia del mio amore materno farà si che i figli miei mi abbiano sempre con sé. Io sono la Madre del Signore, la Madre della umanità. Vi sarà il trionfo dell’amore universale! La benedizione del Signore, assieme al mio amore, accompagneranno sempre tutti i figli che ricorreranno a me
P. Taddaus e Signora Horst: le medaglie di Maria Rosa Mistica hanno operato molti miracoli. Maria dice: “La mia medaglia è anche per l’acqua, per benedirla; poi bevetela a digiuno e io un po’ alla volta vi farò guarire” e molti sono gia guariti per aver bevuto quell’acqua.
Una donna aveva un cancro alla gola, da tre giorni non poteva più mangiare o bere, il collo le si era gonfiato. Era una situazione tremenda perché ha una famiglia numerosa. Durante la venerazione della Madonna Pellegrina venne a pregare un gruppo carismatico. Maria Rosa Mistica ispirò una ragazzina che partecipava di prendere un bicchiere d’acqua e di immergervi la sua Medaglia che era attaccata al rosario. Essa immerse la Medaglia e disse alla donna: “Bevi quest’acqua in onore di Maria Rosa Mistica”. Quand’ella ebbe bevuto, ogni gonfiore era scomparso. Onore e grazie a Maria Rosa Mistica!

fontanelle-gilli-rosa-mistica-madonna (1)Sintesi delle devozioni richieste da Rosa Mistica nei suoi messaggi

1. Ogni 13 del mese sia dedicato a speciali atti di devozione a Maria, con una preparazione di preghiera nei 12 giorni precedenti.
2. Il 13 luglio di ogni anno sia festeggiato in onore di Maria “Rosa Mistica”.
3. Il 13 ottobre di ogni anno sia santificato con la Santa Comunione Riparatrice. Il messaggio parla di “Unione Mondiale della santa Comunione Riparatrice”. Sotto questa denominazione si possono costituire Gruppi di Preghiera o Congregazioni.
4. Ogni anno l’8 dicembre, festa della Immacolata Concezione, a mezzogiorno si pratichi l’Ora di Grazia, attendendo le grazie particolari di conversione e di santificazione promesse per quell’Ora. La si pratichi nella propria Chiesa adorando il SS. Sacramento, se è possibile, altrimenti anche privatamente o in gruppi di preghiera.
5. Recarsi alla Fonte benedetta in processione, con preghiere penitenziali. Vi si portino gli ammalati e vi si rechino come pellegrini i bisognosi di aiuti spirituali per sé e per i propri cari.
6. Rimangano fondamentali e caratteristiche della Devozione a Maria Rosa Mistica le tre parole significate dalle tre rose: Preghiera, Sacrificio, Penitenza, cioè pregare con perseveranza e non sottrarsi alle sofferenze, e questo in favore delle anime consacrate.
In particolare: per la conversione delle anime consacrate infedeli alla propria vocazione; per la santificazione delle anime consacrate;
per l’aumento del numero delle vocazioni religiose e sacerdotali. Questo scopo della devozione era stato proposto da Maria prima per gli Istituti Religiosi, ma rimane una proposta aperta a tutti.
7. Pure caratteristica in tutti questi messaggi è lo scopo di devozione riparatrice delle offese contro il sacramento dell’Eucaristia, contro il nome di Dio e di Gesù, contro i privilegi di Maria, contro la Chiesa e il Papa, contro l’innocenza dei piccoli e delle anime semplici, contro la sacralità della vita umana e la santità della famiglia.
Naturalmente presupposto di queste pratiche devozionali è l’osservanza dei Comandamenti, la pratica delle virtù cristiane e in primo luogo della carità verso il prossimo.
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AMDG et DVM

lunedì 6 maggio 2019

Il racconto che il grande scrittore francese Julien Green fa della sua conversione.

E Julien Green ridiventò se stesso. Omelia di Joseph Ratzinger nella celebrazione per il settantesimo compleanno del vescovo Ernst Tewes (1978)

Il 12° volume dell'Opera Omnia di Joseph Ratzinger "Annunciatori della Parola e Servitori della vostra gioia"

E Julien Green ridiventò se stesso

di Joseph Ratzinger

Casualmente in questi giorni ho letto il racconto che il grande scrittore francese Julien Green fa della sua conversione. Scrive che nel periodo tra le due guerre egli viveva proprio come vive un uomo di oggi: si permetteva tutto quello che voleva, era incatenato ai piaceri contrari a Dio così che, da un lato, ne aveva bisogno per rendersi la vita sopportabile, ma, dall'altro, trovava insopportabile proprio quella stessa vita. Cerca vie d'uscita, allaccia rapporti. Va dal grande teologo Henri Bremond, ma la conversazione resta sul piano accademico, sottigliezze teoriche che non lo aiutano.

Instaura un rapporto con i due grandi filosofi, i coniugi Jacques e Raîssa Maritain. Raîssa Maritain gli indica un domenicano polacco. Lui lo incontra e gli descrive ancora questa sua vita lacerata. Il sacerdote gli dice: «E Lei, è d'accordo a vivere così?». «No, naturalmente no!», risponde. «Dunque vuole vivere in modo diverso; è pentito?». «Sì!» fa Green. E poi accade qualcosa di inaspettato. Il sacerdote gli dice: «Si inginocchi! Ego te absolvo a peccatis tuis -- ti assolvo». 
Scrive Julien Green: «Allora mi accorsi che in fondo avevo sempre atteso questo momento, avevo sempre atteso qualcuno che mi dicesse: 
inginocchiati, ti assolvo. Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso».
Se siamo onesti, se riflettiamo su questa vicenda in profondità, vediamo che in ultima analisi questa attesa è in ognuno di noi, che il nostro intimo grida che vi sia qualcuno che dica: «Inginocchiati! Ego te absolvo!».

Un famoso teologo protestante qualche tempo fa ha detto: oggi bisognerebbe raccontare la parabola del figliol prodigo in modo nuovo, come parabola del padre perduto. 

E in effetti, lo smarrimento di questo figlio consiste proprio nel fatto che ha smarrito il padre, che non lo vuole più vedere. Ma questo figliol prodigo siamo noi. 

La sua difficoltà è la difficoltà del nostro tempo che si vanta di essere una società senza padre. Seguendo Freud, abbiamo creduto che il padre fosse l'incubo del “Super Io”, colui che limita la nostra libertà, e che ce ne dobbiamo liberare. E ora che questo è accaduto riconosciamo che, facendo così, ci siamo emancipati dall'amore e abbiamo amputato da noi stessi quello che ci fa vivere.

Ma allo stesso tempo emerge così di nuovo quello che vi è di più profondo nel ministero episcopale e sacerdotale: poter rappresentare il Padre, il vero Padre di noi tutti, del quale abbiamo bisogno per poter vivere come uomini. Il sacerdote può renderlo presente dando la sua pace, la sua grazia, la parola trasformatrice dell'assoluzione.

Un secondo compito del ministero sacerdotale, con questo strettamente intrecciato, viene in luce quando Paolo nel versetto successivo dice: «Siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza». Prendiamolo come esame di coscienza. Certo, siamo molto ricchi di parola e di conoscenza. Ma siamo veramente ricchi della Parola che è conoscenza e che ci guida in mezzo a tanti discorsi inutili? Oppure è proprio di questa che siamo divenuti estremamente poveri?

Torniamo ancora una volta a Julien Green. Egli racconta come, sin dalla fanciullezza, sua madre, anglicana, lo avesse letteralmente immerso nella Sacra Scrittura. Era ovvio per lui sapere a memoria tutti e centocinquanta i Salmi. La Scrittura era l'atmosfera della sua vita. E dice: «Mia madre mi insegnò a comprenderla come libro d'amore. E mi permeò profondamente dell'idea che, da un capo all'altro della Scrittura, fosse unicamente l'amore a parlare. E tutto il mio essere non voleva nient'altro che amare». Ecco, alla fine non può perdersi un uomo che ha ricevuto delle basi così.

E noi? Non dobbiamo forse iniziare in modo del tutto nuovo a dare spazio a questa Parola, nella quale da un capo all'altro ci avvolge l'amore, farne l'atmosfera delle nostre case e della nostra vita quotidiana? Non è assolutamente una garanzia che nella vita tutto andrà a gonfie vele. Ma è un'ultima forza portante che sempre di nuovo ci ricondurrà a casa, che ci renderà ricchi di vera conoscenza.

Infine un terzo punto. Paolo dice di essere grato per il fatto che «nessun dono di grazia più vi manca». Sentendo queste parole è quasi come se vedessi davanti a me il volto di san Paolo che sorride con una sottile, lieve ironia. Infatti, alcune pagine dopo, punta l'indice contro i Corinzi perché sono addirittura assetati di carismi. Egli non ritira quella frase, non è adulazione. No, non manca loro alcun carisma, alcun dono di grazia. E tuttavia essi rischiano di essere scriteriati, perché importa loro solo il particolare, perché ognuno vuole sopraffare l'altro e perché così non è più evidente che tutti i carismi, tutti i doni hanno un unico fine: introdurci all'amore ed edificare così l'organismo vivo di Gesù Cristo.

Ma mi viene in mente anche san Filippo Neri (...), quel santo che con il suo inesauribile umorismo e con la sua fede smisurata fece della Roma della seconda metà del XVI secolo una città nella quale la luce di Gesù Cristo era di nuovo posta sul candelabro e poteva di nuovo essere criterio per i cristiani.

Egli raccoglieva dei giovani che con lui leggevano la Scrittura, si immergevano nei tesori della storia della Chiesa e per i quali era ovvio che chi si abbeverava di questa parola, dopo la dovesse distribuire andando fra i malati nel vicino ospedale di Santo Spirito, dai sofferenti e dai poveri di Roma.

A questa scuola dei carismi sono cresciuti uomini eccellenti come Cesare Baronio -- il grande storico della Chiesa -- e tanti altri uomini nei quali furono risvegliati dei doni e nei quali, senza alcun ministero o chiamata particolare, divenne viva la forza della Parola di Dio. Questa Parola prese quegli uomini al proprio servizio e tutto venne a raccogliersi, sempre e comunque, attorno a quel centro che si chiama amore, fede, speranza.

(©L'Osservatore Romano 15 maggio 2013)
http://ilblogdiraffaella.blogspot.com/2013/05/e-julien-green-ridivento-se-stesso.html

AMDG et DVM

Un episodietto.

MV a 3 anni
MV a 3 anni


AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 4

La mia Pentecoste.

   Le Marcelline avevano allora una piccola succursale del grande Istituto di via Quadronno, se non erro, in via XX settembre. Una graziosa villetta allegra, circondata da un giardino pieno di sole e di fiori e con una chiesina gaia come un'alba di maggio. Tutto all'opposto dell'Istituto delle Orsoline.

   Anche le Suore erano diverse. Più festose, parevano grandi bimbe vogliose di giuoco. Una santa ilarità informava la regola del piccolo Istituto. C'era solo la Superiora che… era il babau. Malatissima di nervi — morì poi pazza — aveva cambiamenti di umore strani. Un giorno ci perdonava tutto, un altro era di una intransigenza spaventosa. Alta, magrissima, bruna, con due occhioni neri, piuttosto spiritati, ci metteva una gran paura. Meno male che spesso era a letto. In quei giorni le allieve, e credo non le sole allieve, erano felici: come liberate da un incubo.

   Io facevo la prima ed ero la prima della classe per l'intelligenza, dono di Dio, e perché a casa mamma coi suoi metodi magistrali e papà col suo amore mi istruivano sempre e perciò ero più erudita che l'età non comportasse.

   Tutti i sabati portavo a casa il mio biglietto di lode. Biglietto che mi attirava i baci e i premi di papà, gli elogi degli amici di casa e l'ammirazione della domestica e del soldato. E siccome, come tutti i figli di Adamo, avevo anche io la mia parte di orgoglio, non restavo indifferente agli elogi e alle ammirazioni come non restavo indifferente ai baci e ai premi. Solo avrei voluto anche quelli di mamma, ma lei mi diceva che «così facendo non facevo che il mio dovere e perciò…». Metodo suo, e col suo metodo è inutile discutere. Credo facesse forza a sé stessa per non dirmi «brava», ma fedele al suo metodo non lasciava la sua condotta severa. Amen!

   Se devo dire il vero, fui e non fui contenta del cambio di Istituto. Prima di tutto mi fu dolore staccarmi dalle Suore che ormai amavo. In secondo luogo non passavo più davanti a quei due mirabili negozi di frutta rare l'uno, di dolciere l'altro, che avevano per me tanta seduzione.

   Ero golosetta, sa? Oh! si accorgerà, leggendo questa mia vita, che tutti i vizi capitali erano in me. Ossia tutti no. Non ho mai conosciuto l'avarizia, la quale può essere di denaro ma può anche essere di tante altre cose più spirituali del denaro. Non fui mai avara di affetti perché molto ho amato Dio e prossimo mio, sebbene da quest'ultimo abbia ricevuto più morsi che baci. Non fui mai avara della mia intelligenza ed ero ben lieta di aiutare le compagne più ottuse, anche a costo di rimanere poi io a corto di argomenti per i miei temi d'italiano o di essere sorpresa dalle insegnanti a fare il lavoro altrui e punita. Anche qui ebbi ingratitudine e non riconoscenza. Ingratitudine che giunse persino ad accusarmi di essere io che «rubavo i componimenti delle altre». Era invece tutto il contrario perché, se ero una vera bestia nelle matematiche e il mio voto massimo in dette materie, dalle elementari alle scuole superiori, non superò mai il 6-, e dato per pietà, fra lunghe tappe di 2, 3, 4 e anche qualche tondo zero, in italiano avevo una vena inesauribile di immaginativa e stile naturalmente buono, per cui fare anche otto volte lo stesso tema in otto svolgimenti diversi era per me un giuoco. Anche nelle altre materie ero veramente brava, e non poteva essere altrimenti se si pensa che po' po' di istitutrice avevo addosso, a casa, nell'ora delle lezioni. Se non sapevo alla perfezione le lezioni, se non facevo i miei compiti ultrabene, erano castighi e molto severi.

   Ma poi l'avrei fatto il mio dovere anche senza quelli, per una ragione… di superbia. Vede? Un altro vizio capitale che spunta. Io non volevo chiedere scusa. Mi pareva di ledere a morte la mia… dignità di scolara o di figlia. Più tardi, fatta donna, chiesi scusa anche di colpe non commesse… Ma allora era un'altra cosa. Lo facevo perché mi pareva che Gesù mi chiedesse l'obolo di quella mia umiliazione e glielo davo, anche sentendomi stritolare sotto la persuasione della altrui ingiustizia, riconoscendo che, dal punto di vista umano, ero una scema, ma che dal punto di vista soprannaturale quell'umiliarmi mi faceva salire di un gradino la scala che porta presso Dio.

   Dunque facevo il mio dovere per non avere da chiedere scusa e poi per dare gioia a papà mio, a mia nonna. Dunque anche l'amo­re era una delle due redini che mi guidavano. E se la superbia era riprovevole, l'amore era commendevole, di modo che penso che il buon Gesù «perché molto amavo» mi avrà scusata anche della superbia e avrà sceverato Lui, dalla mia matassa, i fili della superbia che arruffavano tutto e li avrà distrutti mettendo solo in serbo, per tessermi la veste di pace eterna, i dolci fili dell'amore. Non crede?

   Non ero neppure avara di balocchi e di dolci a quelli che erano più poveri di me. Perché dolci e balocchi ne avevo molti. Mia mamma, l'ho detto, era severa per sbagliato concetto di autorità. Ha fatto tanto male a quelli che più ha amato per questo errato concetto! Ma ripeto: Amen. Mentirei se dicessi che mi fece soffrire fame, freddo, se dicessi che malata non mi curava, se dicessi che mi negava quello che tanto piace ai bimbi: dolci e balocchi. Solo io non dovevo assolutamente chiedere mai nulla. Se chiedevo non avevo più niente, anche se un minuto avanti mamma pensava di darmi proprio quella cosa.

   Voglio narrarle un episodietto.

   Nella piazza di S. Ambrogio, a Milano, nei giorni che vanno dal 1° al 15 dicembre vi è una fiera di giocattoli, dolci e oggetti antichi. Ai banchi di questi ultimi vanno, naturalmente, gli adulti, gli amatori di antichità: lampade, forzieri, quadri, ferri battuti e simili cose. Ma i banchi dei giocattoli e dei dolci sono la calamita dei bimbi che affluiscono da tutta Milano coi papà, le mamme, i nonni, gli zii alla Fiera degli O bei, o bei (legga: che belli, che belli, sottintesi i dolci e i balocchi). Quanti sogni per tutto l'anno e quanti desideri davanti a quei banchi che anticipano di una ventina di giorni la festa «del Bambino», ossia il Natale, giorno in cui i bimbi di Milano ricevono i regali. Io veramente li avevo per S. Lucia, perché nel Veneto e in molta parte della Lombardia è la Santa martire la dispensatrice di doni.

   Ma torniamo alla Fiera. Che sogni, che desideri, che preghiere perché il «Bambino» capisse che è quel giocattolo che si vorrebbe, perché il «Bambino» perdonasse tutti i capriccetti, tutte le marachelle commesse durante l'annata e delle quali ci si pente proprio e si promette proprio di non farli più… Non le pare che per tutta la vita siamo degli eterni bambini che si promette e ci si pente in ore speciali, salvo poi ricominciare come prima?

   I papà, le mamme, i nonni, gli zii scrutano, ascoltano, studiano i sospiri, le esclamazioni, le subite fermate davanti a quel dato balocco che ipnotizza il piccolo desideroso, e se ne servono, di questo studio, per far poi trovare ai piedi del «Bambino» o appeso all'albero di Natale il sognato tesoro. Lì per lì comprano qualche altra cosa salvo poi, due ore dopo, quando scende la sera, tornare a passi di lupo a comperare l'oggetto desiderato e portarlo a casa, e nasconderlo al riparo da quel sesto senso dei bimbi e che dà loro un fiuto, una vista, un udito… pericolosi pei grandi…

   Io ero andata dunque alla Fiera degli O bei, o bei! con mamma, nonna e cameriera. Era il dicembre 1902. Avevo dunque cinque anni e nove mesi. Girammo fra le decine e decine di banchi e io notai su uno delle culline di ottone per le bambole. Vere culline col loro piedestallo che sosteneva la zana in bilico, ondulante, per conciliare il sonno alla pupa, col loro sostegno per il velo messo perché la luce non svegliasse la pupa, col materassino, il capezzale, le lenzuoline… un amore di cuna che mi pareva d'oro perché era gialla e lucente. Misi le radiche davanti a quel banco. Era tanto che desideravo una cuna per la bambola prediletta, che a furia di… lavaggi avevo ridotta bianca come un giglio e la chiamavo «Rosina» col nome della cara creatura che era stata nostra cameriera a Faenza ed era morta tisica, angelo buono che la terra non meritava di avere.

   Io sento che se io fossi stata mia mamma e mia mamma fosse stata me, avrei capito subito cosa desiderava, perché sul banco non c'erano che cune e bambole, e di bambole io ne avevo così tante che non ne potevo desiderare altre, mentre di cune non ne avevo punte. Ma mia mamma non ha assolutamente spirito d'osservazione. Anzi ha un difetto in questo spirito per cui le sfugge sempre il fatto saliente o capisce tutto all'incontrario.

   Io non dovevo chiedere mai nulla perché i bimbi non devono chiedere mai e tanto meno quando sono cose di valore. Ora quella cuna per me era d'oro. Dunque non chiedevo e pregavo il mio angelo che lo dicesse lui a mamma che volevo quella cuna. Ma quel giorno il mio angelo doveva esser volato nell'Empireo a cantare il «Sanctus» all'Agnello. Una nostalgia di cielo; né lo so rimproverare di ciò. L'avrei fatto io pure infinite volte nella vita un volo in cielo per dimenticare la terra!!!

  Mamma stette ferma qualche minuto e poi mi prese per mano e mi tirò via. Girammo, girammo, girammo… e lei non capiva che tutte le volte che tornavamo davanti a quel banco io rimanevo impaniata fra il vischio del desiderio. Mi offerse altri giocattoli ma io, col cuore sempre più grosso e le lacrime nella strozza, risposi sempre: «No, grazie». Avrei potuto dirlo a nonna, alla domestica… Ma sapevo per esperienza che anche se mamma avesse aderito alla loro preghiera in mio favore le avrebbe poi rimproverate perché «mi viziavano», ed io avevo tutti i vizi capitali in me, ma non avevo durezza d'animo e preferivo soffrire che veder soffrire. Perciò non parlai.

   Mamma alla fine decise di tornare a casa… Davanti al mio desiderio che si spezzava come palla di vetro caduta al suolo o dileguava come bolla di sapone nell'aria decembrina, mi posi a piangere. Mamma, già tutta rabbuiata davanti a quello che lei chiamava «capriccio», mi disse, e me lo disse in un modo tale da mozzare la parola in bocca anche a un eroe, figurarsi a me, povero coniglietto: «Decìditi, di' cosa vuoi. Se sarà cosa possibile bene, se no starai senza». Come, come dire che volevo la cuna d'oro, io che ero rintronata da mattina a sera di prediche materne sul bisogno dell'economia e sul dovere di non avere desideri illeciti? Piansi più forte e finii trascinata dentro un portone, presso a quella che ora è l'Università Cattolica e che allora era l'Ospedale Militare, e là dentro ebbi una buona dose di schiaffi. La cuna la aspetto ancora ora…

   Nella mia vita umana fu sempre così. Solo Dio ha risposto al mio desiderare. Gli altri, o perché non potevano o perché non volevano, infransero sempre il mio sogno e mi colpirono poi perché sulle rovine di questo piangevo.

   Ho fatto una lunga digressione. Ma non me ne pento perché in un quadro, oltre al soggetto, occorre lo sfondo, e queste digressioni sono lo sfondo e il contorno del quadro su cui campeggia la mia vita. Ora torno alla narrazione.

   Dicevo dunque che materialmente non mi mancava nulla del necessario e avevo anche del superfluo. Ma le confesso che avrei preferito molto meno ma dato con più amore palese.

   Esser madre non consiste solo nell'imporre la propria volontà ai figli e nel rappresentare il potere. Vuole soprattutto dire essere la prima confidente, la prima amica dei figli, colei che con rettezza, ma anche con pietà, studia le tenere creature, le guida, le consola e fa loro sentire il suo amore in modo che i cuori dei figli si aprono, al bacio di quell'amore, come fiori sotto il bacio del sole.

   Il mio cuore invece si è chiuso sotto il rigore materno come corolla che la brina intirizzisce, e tutte le volte, anche ora, che ho tentato e tento di volgermi al suo amore e di aprire questo mio povero cuore che ha tanto sofferto e che ha tanto amato, cozzo contro la parete intaccabile e gelida del suo rigore, della sua autoritarietà. Amen. Ne ho sofferto disperatamente…Ora ne soffro intensamente, ma so,perché Gesù me lo dice, che ciò non è senza scopo…

   Non ero avara, dicevo, e non lo sono come non fui e non sono mai stata accidiosa. L'ozio ed io siamo sempre stati nemici. L'ozio e la mollezza. Educata un poco alla garibaldina, alla militare, non mi pesò mai l'alzarmi presto, il mangiare quando si poteva, il bere se si poteva. La necessità di lunghi viaggi, e in tempi in cui il viaggiare non era un esemplare di comodità, mi aveva abituata a sopportare senza piagnucolare il freddo, le alzatacce, i letti scomodi degli alberghi, il vitto diverso, il non trovare cibo o bevanda adatti alla mia costituzione e perciò a restare senza bere e senza nutrirmi, così come ero stata abituata a sopportare, senza fare smanie, il sassolino nella scarpetta, il cappellino che pesava sulla testa e altre noie piccole ma esasperanti come una ragnatela sul viso.

   Nelle vacanze papà mi suonava la sveglia all'alba per portarmi lungo le rive del mare o sulle pendici appenniniche per farmi ammirare il bello del creato, il miracolo della luce che torna ogni aurora a parlarci di Dio che la fece, per farmi pregare insieme all'onde che fremono d'ubbidienza sui liti terrestri nei limiti in cui l'Eterno le pose. Ma la gioia dell'uscire con papà e la gioia del bello che aspiravo con tutti i miei sensi umani e sovrumani erano così grandi da farmi guardare come una festa quelle sveglie mattutine, da farmele amare come un premio, da rendermele così familiari da non pesarmi più.

   Ho dormito sempre poche ore, di notte. Ma quei sonni erano pieni, riposanti, vera sosta del corpo. Solo l'anima in essi era vigile. Ma di questo dirò poi. Ora torniamo al primo argomento.
   Mi spiaceva dunque cambiare istituto per un motivo tutto animale: la gola; per uno affettivo: l'abbandono delle Suore alle quali volevo bene. Ma poi mi era gran dolore non vedere più quel Gesù morto. Mi pareva di perderlo e di dargli dolore. Infatti un poco lo persi di vista. Dalle Marcelline c'era molta… come dire? Non trovo il termine esatto. Fatto sta che mi dissipai. Ma mi accorgo di aver omesso di parlare di nonna.
  

   Nel dicembre 1903 morì mia nonna. Nel luglio del 1902, a Montecatini, mentre insieme a me era presso uno zio — mi piaceva tanto quel posto pieno di chioccolìo d'acque e di sospiri di canne, in quell'ora piena del meriggio dove solo le cicale mettono il loro frinire instancabile — venne ferita da un cattivo ragazzaccio. Un colpo di forcina le mise a nudo il malleolo. Io, che m'ero voltata al tonfo del primo sasso, vidi il monello scoccare il secondo, vidi nonna impallidire, poi scalzarsi e mettere il piede nell'acqua fresca che si arrossava del suo sangue, e sul mio piangere scesero i suoi baci. Povera nonna! Non stette più bene.

   Nel novembre volle tornare a Mantova, andare sulla tomba del marito e della sorella, morti a sette giorni di distanza nel 1899. Tornò più malata di prima. Mia mamma la rimproverò per la inutile imprudenza, diceva lei. No, non inutile. Un presagio le diceva che la sua vita era al termine ed aveva voluto vedere per l'ultima volta la tomba del consorte di cui fu sempre compagna perfetta.

   Il 10 dicembre — doveva essere di giovedì perché io non ero a scuola — venne colpita da apoplessia. Avevamo mangiato da poco e mamma, che non si fida di nessuno, era scesa in cantina per sorvegliare il soldato e la donna intenti a travasare del vino. Papà leggeva il giornale in attesa di tornare in caserma. Nonna, sempre buona, era andata in cucina per fare qualche cosa perché la donna, risalendo verso sera, non trovasse ancora tutto il disordine del pasto. Io ero andata con nonna e ciaramellavo intorno a lei. La vidi curvarsi per raccogliere un ciocco e metterlo nella cassa della legna da bruciare nel caminetto del salotto. La vidi illividire, travolgere i tratti, la udii farfugliare parole confuse. Mi impaurii e gridai. Babbo accorse. In tempo per impedire che piombasse al suolo. Non ho mai più potuto guardare uno dormire, o svegliare un dormiente, senza tremare, perché il volto nel sonno prende sovente tratti alterati come quelli di nonna mia e perché mi fa sempre l'effetto che uno debba esser morto nel sonno…

   Agonizzò due giorni e mezzo e spirò all'alba del 13 dicembre, esattamente sei anni dopo il figlio suo. Era il giorno di S. Lucia e fra i doni per me vi era un orologino d'oro appeso ad una spilla d'oro a forma di nodo… Povera nonna! L'ultimo ricordo! E me lo aveva preso, sfidando le prediche di mamma, per lasciarmi un ricordo duraturo.

   Non ho molto attaccamento alle cose, specie ai preziosi, e quando necessità di malattia hanno consigliato a mamma di realizzare del denaro dall'oro che avevamo non ho detto nulla. Ma vedere vendere i bottoni da polso e la catena di papà e l'orologio della nonna mi fu strazio. Avrei preferito fossero venduti altri oggetti. Pazienza!

   Ricordo esattamente tutto di quei tristi giorni e non lo descrivo perché ne soffrirei troppo, cosa che non posso fare se devo conservare lena per scrivere. Soffocai il mio dolore perché papà me lo raccomandava per non turbare di più mia mamma. Il cuore mi si spezzava per il pianto che vi piombava dentro invece di colare dagli occhi… Fu la prima volta che macerai me stessa nel pianto interno, il più amaro e il più incompreso. E infatti non fu compreso. Mamma disse che non avevo sofferto e decretò che ero una superficiale… Dio la perdoni! Ho cominciato a morire in quel freddo pomeriggio del 10 dicembre 1903.

   Papà accompagnò la salma a Mantova. Otto giorni di assenza sua e di desolazione mia. Senza nonna, senza papà, sola con mamma che non ammetteva che il suo dolore… Quanto, quanto dolore!!! Poi mamma ammalata gravemente per mesi e mesi e più che mai intrattabile e nervosa. Che triste primavera!

   Il 18 marzo 1904 feci la prima confessione, nella cappella dove il mio Gesù dormiva il suo sonno di morte. Ho ancora l'immagine ricordo datami da Suor Bianca, la Superiora.

   San Giuseppe, alla vigilia della sua festa — ed era una ben triste festa quell'anno perché nonna Giuseppina non c'era più — mi fece tuffare per la prima volta l'anima nel Sangue di Cristo, in quel Sangue preziosissimo che amo tanto e che vorrei aspirare da tutte le sue piaghe con tutta la mia forza, in quel Sangue al quale 27 anni dopo offersi me stessa, chiedendo di fondere me a Lui in un unico sacrificio onde il mio, tutto il mio sangue, fosse sparso insieme al suo per i fini che Egli sa.
  

   E ora che ho riparato alla mia omissione torniamo all'Istituto delle Marcelline.
   Nella primavera del 1905 io e alcune mie compagne fummo istruite per ricevere la S. Cresima. Stavamo all'Istituto non più dalle 9 alle 16 ma fino alle 18 per l'istruzione catechistica.

   Ma di questo periodo ricordo ben poco. Ero troppo triste e malazzata per morbillo, scarlattina e varicella, fatte l'una dopo l'altra senza quasi intervallo. Ricordo solo, con nessun piacere, l'ora della minestra. È sempre stata una brutta ora per me, anche in famiglia. Figurarsi poi quando dovevo anche solo sentire l'odore del famigerato riso e cavolo che mi ha perseguitata per tredici anni consecutivi!!! Io non mangiavo quel riso stracotto, ma solo l'odore me ne ripugnava. Se ci penso lo sento ancora. È stato il mio fioretto più grosso per ricevere lo Spirito Santo. Avrei preferito rimanere senza mangiare anziché scendere nel refettorio e sentire quell'odore… Ma era ordine così e lo dovetti subire per due mesi.

   Come Lei vede, ero in un periodo di intontimento spirituale assoluto. Facevo tutto con svogliatezza, con opacità. Intendo dire tutto quanto aveva riferimento con lo spirito. Per il resto ero sempre la stessa figlia e scolara di prima. Ossia no. Fui bugiarda, io che non ho mai saputo farmi strada in questa terra di menzogna per la mia fin troppo rude sincerità.

   Ho detto che ero stata molto ammalata. Avevo notato che quando ero malata mamma mi baciava, mi stava vicino, tutta diversa nei modi di come era quando ero sana. Era la Mamma allora, così come io la penso e come la vorrebbe il mio cuore. Allora pensai di… ammalarmi. Approfittando di una fortunata caduta che mi aveva contuso ed escoriato fortemente il gomito destro, tanto da dovere richiedere medicazioni e fasciature, anche dopo che era guarito, io, di notte e di giorno, grattavo, grattavo, irritando la ferita perché non guarisse mai e così mi durasse la gioia d'esser carezzata, vestita da mamma. Ma il giuoco un bel giorno fu scoperto da Suor Erminia, la Superiora semi-pazza. Mamma fu avvisata e io punita.

   Me lo meritavo perché avevo mentito, è vero. Ma due educatrici come la Superiora e specie mia madre, dopo la mia confessione ampia e dolente, non avrebbero dovuto capire il perché buono, pur dietro la quinta malvagia della bugia, della mia menzogna? Io non mi scuso. Riconosco di avere allora mancato. Ma perché neppure allora si volle credermi, allora che dicevo aver sbagliato per sete di baci materni?

   Non fui creduta. Non fui compatita. La porta del mio cuore si abbassò un po' di più ancora fra me e il mondo. Quando sarà stata del tutto ribadita, ossia ora che sono al termine della mia vita, allora capirò che era la bontà di Dio a permettere questo per staccarmi da tutto e unirmi a Lui solo.

   Ma ho molto sofferto e — ecco Teresa la nutrice pazza che rispunta — e odiai profondamente la Superiora che mi aveva denunciata senza prima scrutare le cause della mia messa in scena. E l'odio rimase tenace per i primi tempi, tanto che nell'anno scolastico susseguente, quando seppi che una nuova Superiora aveva preso il posto di Suor Erminia, ricoverata in una Casa di cura per malattie nervosi e mentali, ne fui lieta. Vede che po' po' di arnese ero io?

   Il 30 maggio 1905 ricevetti la S. Cresima dalle mani di S. E. il Cardinale Arcivescovo Andrea Ferrari. Dicono che sia un santo1.

   Io lo credo, perché il tocco delle sue mani mi infuse veramente lo Spirito d'amore, strinse il legame d'amore fra me e il Paraclito, di cui sento costante la presenza e l'assistenza e soavissimi i conforti.
   Quella mattina, alle sette, andammo nel grande Istituto delle Marcelline in Via Quadronno. Mentre già tutte vestite di bianco e velate ci avviavamo processionalmente alla Cappella, una irrequieta e disubbidiente mia compagna cambiò mano al cero acceso ponendolo, anziché all'esterno, nell'interno della fila. I veli leggeri, i nastri dei capelli presero fuoco. Uno spavento e un disastro. Io sola, pure essendo proprio al centro del cerchio di fiamme, non ebbi neppure un riverbero di vampa. Quel velo è ancora, illeso, in casa mia.

   Il fuoco m'ha sempre rispettata. Per tre volte fui fra le fiamme. La prima avevo sei anni. Prese fuoco un secchiello pieno di ragia messo imprudentemente presso il fuoco. La domestica restò ustionata. Io che ero presso a lei non risentii nulla. La seconda il dì della cresima. La terza, quando avevo diciotto anni, per l'esplosione di una stufa a spirito. Le fiamme andarono al soffitto. Io ero in mezzo, colle mani sul volto, ferma. Sentii diminuire piano l'ardore della vampa e quando tutto fu spento si notò che non un capello, non un filo era bruciato del mio capo e della mia veste. Si vede che il fuoco mi vuole bene. Amore non corrisposto perché io del fuoco ho molta paura e non posso pensare al Purgatorio senza tremare. Di fuoco mi piace solo quello dell'amore. Oh! questo sì, e che mi arda e liquefaccia tutta nei suoi ardori!!!

   Ricevetti dunque lo Spirito Santo. Egli scese in me e vi lasciò il suo seme di certo. Ma per allora non sentii. Fu anzi una giornata molto noiosa, iniziata male, trascinata peggio, finita malissimo in un teatro dove… vi era una gara di lotta greco-romana. Mi chiedo ancora perché la zia e madrina mi condusse là… Delle volte gli adulti hanno delle incongruenze più solenni dei piccini e non riflettono che certi ricordi restano per tutta la vita con sapore di cenere e con luce caliginosa. Mah!
   Insomma così avvenne la mia Confermazione in Cristo.



   1 un santo: Andrea Carlo Ferrari (1850-1921), cardinale, arcivescovo di Milano dal 1894 fino alla morte, proclamato beato dal papa Giovanni Paolo II nel 1987.

AMDG et DVM