martedì 6 febbraio 2018

TERESA NEUMAN tra uccelli fiori chiesa giardini ammalati pellegrini corrispondenza e "il bel mondo di Dio"

Alcuni racconti

Quando Teresa Neumann non era troppo sofferente (ebbe molte tribolazioni e malattie anche dopo le miracolose guarigioni) e non aveva visioni, conduceva una vita normale, nei limiti in cui le sue dolorose stigmate glielo consentivano: amava curare il suo piccolo giardino, ornare di fiori l'altare della chiesa, occuparsi degli animali. Aveva una predilezione per gli uccellini esotici. Dedicava anche molto tempo alle visite agli ammalati, ai colloqui con la gente che veniva a incontrarla da tutte le parti della Germania e dall'estero, al disbrigo della vastissima corrispondenza. Tutti coloro che l'hanno conosciuta la descrivono concordemente come una donna di grande semplicità e disponibilità, di carattere allegro, aperta al dialogo, innamorata della natura e di quello che chiamava «il bel mondo di Dio». Teresa non era esente da certe debolezze, come tutti i comuni mortali. 
Racconta infatti il fratello Ferdinand: « Mia sorella aveva un temperamento forte, deciso, e poteva anche inalberarsi facilmente, soprattutto con i visitatori che erano di un'insistenza incredibile. Lei ogni giorno metteva alcune ore a loro disposizione, dall'una alle quattro del pomeriggio, e aveva anche appeso un cartello fuori della porta per renderlo noto. Però non la lasciavano in pace un momento, le correvano dietro anche in chiesa, in giardino, dappertutto. Lei allora si irritava: "Ma voi non avete proprio niente da fare? Perché non andate a lavorare?". Se però capiva che non era semplice curiosità, ma necessità autentica di colloquio e consiglio, si metteva di nuovo a disposizione. I visitatori, bisogna dirlo, l'hanno molto tormentata. Ricordo che quando chiedeva al Salvatore qualcosa (mai per sé, sempre per gli altri) prometteva: “Salvatore, ti chiedo questa grazia. In cambio per un mese sarò più paziente con i visitatori!” Solo per amore del Salvatore aveva accettato i suoi fenomeni straordinari, in particolare il digiuno. Anni Spiegì, che visse per settimane intere in casa Neumann, ricorda come Resi non fosse praticamente mai sola: «Se per trentasei anni fosse riuscita a mangiare e bere di nascosto, sarebbe un miracolo ancora più grande del digiuno stesso!».
Racconta poi un episodio che fa capire chiaramente quale fosse lo stato d'animo di Resi nei confronti di questo tanto discusso digiuno: «Una volta tutta la famiglia Neumann era a lavorare in campagna e io rimasi a casa sola con Resi. Preparai il pranzo per tutti. Mentre mescolavo il cibo nella pentola, chiesi a Resi che era accanto a me di assaggiano per sentire se era giusto di sale. Lei scosse la testa. Io insistetti, affermando che bastava che provasse appena con la punta della lingua. E Teresa: "Guarda, proprio non posso, non riesco ad assaggiare nulla neppure se ho le labbra secche, aride e sanguinanti". Io allora le chiesi se non sentisse mai fame, oppure se rinunciasse volontariamente al cibo o se proprio non riuscisse a mangiare. Lei allora divenne triste e disse: "Spesso ho pregato il Salvatore di consentirmi di mangiare come l'altra gente. Credi ché sia facile per me essere ritenuta da tanti una mistificatrice? Io non posso mangiare e non provo neppure mai la sensazione della fame! "». Anni Spiegì ricorda ancora che un giorno un visitatore disse a Resi: «Che meraviglia vivere di niente!». E lei di rimando: «E’ meraviglioso anche vivere di un pezzo di pane. Entrambi sono miracoli, però uno colpisce di più perché è raro».
Resl andava a tavola insieme ai familiari, recitava con loro la preghiera, partecipava alla conversazione, li serviva. La famiglia aveva imparato ad accettare serenamente la situazione. Una volta Anni lavorava con Resl in giardino. Passò mezzogiorno e Anni cominciò a sentir fame, però non voleva disturbare Resl che lavorava con entusiasmo. Verso le tre venne in giardino la madre di Resl: portava la colazione per Anni e fece un rimprovero alla figlia: « Perché non mandi a casa Anni a mangiare? Tu non hai bisogno di mangiare e pensi che neppure gli altri sentano la fame! ». La famiglia fu sempre un prezioso appoggio per Resl. Fu anche grazie all'affettuoso sostegno dei familiari che riuscì a sopportare con tanta forza e serenità gli anni della malattia e della cecità. La sua camera era proprio sopra il laboratorio di sartoria del padre, e quando aveva bisogno di qualcosa picchiava col bastone e qualcuno accorreva. La sua camera era del resto divenuta il cuore della casa: qui venivano discusse le questioni familiari, la compra e vendita del bestiame, tutto ciò che riguardava la famiglia. La domenica in camera di Resl si davano convegno le amiche: raccontavano e pregavano insieme, leggevano, cantavano. Queste ore liete davano a Resl la forza per affrontare gli altri giorni della settimana. Vediamo ora più da vicino le persone che costituivano lo stretto entourage di Teresa Neumann, cominciando dai genitori e dal pastore Naber.
La madre
Anna Grillmeier, la madre di Teresa, era nata nel 1874 non lontano da Konnersreuth e si era sposata a 23 anni. Il suo matrimonio col sarto Ferdinand Neumann era stato allietato dalla nascita di ben undici figli, uno dei quali, Engelbert, mori piccino. Anna era una donna solida, robusta, non molto alta: la figlia Teresa le assomigliava molto fisicamente e anche per le doti di carattere. Tra madre e figlia il rapporto fu infatti sempre molto stretto e affettuoso. Anna Neumann aveva humor, era intelligente, devota, laboriosa, ed era molto amata e rispettata da tutti i suoi figli. Anni Spiegi racconta che quando scoppiò la seconda guerra mondiale parecchi dei suoi figli e dei suoi generi furono richiamati sotto le armi e combatterono su molti fronti. Lei si era procurata una carta geografica e con spilli segnava le varie posizioni al fronte: si teneva quotidianamente informata tramite i bollettini radiofonici. Quando il partito volle assegnarle la croce al merito che veniva attribuita alle madri, lei rifiutò: «Non ne ho bisogno! Ho messo al mondo i miei figli per il Signore, non per Hitler!». I fatti straordinari di cui era protagonista sua figlia Teresa furono da lei accettati coraggiosamente, ma non le resero certo facile la vita. Per decenni dovette confrontarsi, oltre che con le polemiche di cui abbiamo già parlato, anche con i numerosissimi visitatori che volevano vedere Teresa, cosa che non le riusciva né facile né gradevole. Se però si rendeva conto di un autentico bisogno, era subito pronta ad aiutare e a mettersi a disposizione. Anche in questo Teresa (e la sorella Ottilia, che le somigliava molto) era simile alla madre. Anna Neumann morì a 75 anni nel 1949, prima del marito.
Il padre
Ferdinand Neumann era sarto ed era nato nel 1873 a Konnersreuth. Era alto, magro, riservato, di poche parole. Amava molto la sua famiglia ed era profondamente rispettato e ubbidito dai figli, sebbene raramente li punisse. Sopportava la povertà dignitosamente e con estrema discrezione. Capitava per esempio che non sempre il suo lavoro gli venisse pagato, lui però non chiedeva mai nulla, perché esigere un pagamento era considerato una vergogna. Nella famiglia Neumann regnava un’atmosfera affettuosa e serena. Ferdinand era un uomo deciso e sicuro di sé, e quando diceva no, non cambiava mai idea. Di questa fermezza di carattere diede prova anche in occasione dei controlli per il digiuno di Teresa, come abbiamo già avuto occasione di vedere. Soffrì molto, essendo persona estremamente onesta e retta, delle polemiche che sorsero intorno alla figlia e dei sospetti di imbroglio che circondarono la faccenda del digiuno. Protesse sempre Teresa, sia dal punto di vista morale che pratico e concreto, e quando era necessario sapeva essere duro e deciso. Morì nel 1959 a 86 anni, dopo breve malattia che accettò con molta tranquillità e rassegnazione.
Il pastore Naber
Insieme ai famigliari, padre Naber è una delle figure fondamentali nella vita di Teresa Neumann. Fu per ben cinquant'anni parroco a Konnersreuth e vide crescere generazioni e generazioni. Persona di assoluta integrità e onestà, testimoniò per decenni dell'autenticità dei fenomeni di Teresa, che aveva conosciuto a undici anni e che segui fino alla morte. Nei confronti degli eventi straordinari di cui per decenni fu testimone, il suo atteggiamento fu sempre questo: « Fin da principio mi sono proposto questa direttiva: osservare scrupolosamente gli eventi straordinari, caso mai si fosse verificata qualche trasgressione alla dottrina e alla morale ecclesiastica; in caso affermativo, intervenire senza esitazione; in caso contrario lasciare che le cose seguano il loro corso, per non intralciare sconsideratamente i piani del Signore ». Nei confronti di quanto avveniva a Konnersreuth fu sempre prudente, ma non ebbe mai paura di dare piena testimonianza della verità. Fu legato da calda amicizia a Teresa Neumann, fu finché visse il suo consigliere spirituale, ogni giorno le portò la comunione, per anni riferì al vescovo di Ratisbona lo svolgersi dei fatti. Il clamore che venne a crearsi intorno a Konnersreuth coinvolse ampiamente anche lui, perché egli era continuamente chiamato in causa: inutile dire per esempio che molte delle conversioni che avvenivano in casa di Teresa si completavano poi in chiesa, al suo confessionale. Piccolo di statura, magro, all' apparenza fragile, padre Naber era in realtà una personalità forte e coraggiosa; Teresa aveva un enorme rispetto di lui e tutto il paese gli era devotissimo. Per cinquantaquattro anni frequentò quotidianamente casa Neumann, che del resto si trova proprio di fronte alla chiesa, e fu testimone di tutto quanto Teresa visse. Per trentacinque anni Maria, sorella di Teresa e appena un anno più giovane di lei, gli fece da governante. Dopo la morte di Maria, che mancò neppure un anno dopo Teresa, rimase solo. Mori nel 1967, a 96 anni. Il suo Diario, che è stato pubblicato di recente, è una fonte preziosa di notizie su Teresa Neumann.
La « cerchia di Konnersreuth »
Si tratta di un gruppo di amici di Teresa, che ebbe una notevole importanza nella sua vita. Era composto di persone notevoli nei vari campi della vita sociale e culturale, che venivano per lo più ad Eichstàtt, dove anche Teresa trascorreva molto del suo tempo. Il gruppo era decisamente antinazista. Tra i membri del gruppo non si può non citare per primo il professor Franz Xaver Wutz, sacerdote e orientalista. La sua casa di Eichstàtt era il luogo in cui gli amici si riunivano e dove Teresa stessa visse a lungo. Il professor Wutz era un personaggio notissimo: docente di scienze bibliche e di esegesi veterotestamentaria, era famoso e stimato sia in Germania che all'estero. Aveva conosciuto Teresa e la sua famiglia fin dall'inizio dei fatti straordinari di cui aveva letto sui giornali: si era infatti recato a Konnersreuth ed era rimasto subito molto ben impressionato dalla semplicità e devozione della famiglia Neumann.
Si era anche reso conto delle difficoltà che Teresa e i suoi dovevano affrontare ora che erano al centro dell'interesse e della curiosità generale. Il professor Wutz guidava la macchina e tornò molte volte a Konnersreuth, specie di venerdì. Assisteva alle sofferenze e alle visioni della passione e mostrava un interesse particolare per le parole in aramaico che Teresa pronunciava. Ben presto si convinse dell'autenticità di quanto avveniva a Konnersreuth, e tra lui e la famiglia Neumann venne a crearsi una calda amicizia. Wutz fu vicino ai Neumann come sacerdote e come amico, e Resl aveva nei suoi confronti una fiducia illimitata. Ottilia, la sorella di Resl, fu per molti anni governante di Wutz a Eichstàtt; e in seguito Ferdinand e Hans, i due fratellini minori, furono accolti nella casa di Wutz a Eichstàtt per poter studiare. In questo modo Eichstàtt divenne la seconda casa di Resl, che vi trascorreva intere settimane. Il professor Wutz ottenne dal vescovo il permesso di trasformare una stanza in cappella, e li celebrava la Messa quando Resl era presente. Il professor Wutz mori improvvisamente nel 1938, ad appena 56 anni: la sua morte rappresentò un grande dolore per Resl, che tuttavia in un certo senso l'aveva prevista. Racconta infatti Anni Spiegì, che fu presente al fatto: « Poco prima della morte del professore, mentre riceveva la comunione, Teresa ebbe la visione del Salvatore che rivolgeva uno sguardo particolarmente intenso e amorevole a Wutz, che celebrava. Quando si riprese, Teresa disse: "Conosco quello sguardo buono, il Salvatore vuole qualcosa di grande". Infatti pochi giorni dopo il professor Wutz morì per attacco cardiaco ». La casa di Wutz, che per anni era stata il cuore della comunità di amici di Teresa, fu acquistata dopo la sua morte dal principe Erich Waldburg-Zeil, che faceva parte del gruppo: Ottilia ne rimase la governante. Durante la guerra la casa divenne un asilo per studenti, e in seguito fu trasformata in un pensionato per ragazze. Dopo la guerra fu una sede della Caritas e ospitò soldati, fuggiaschi, donne, bambini, gente affamata e stracciata che emergeva dalle macerie della guerra.
Ottilia fu infaticabile nell'aiutare, nel dare, nel prodigarsi per tutti. Casa Wutz fu venduta nel 1961, dopo la morte di Ottilia: e fu appunto pochi giorni prima di morire che Teresa vi soggiornò ancora, per aiutare a impacchettare mobili e suppellettili e a fare trasloco. Un altro personaggio importante nella vita di Teresa fu il dottor Fritz Gerlich, che faceva anche lui parte della cerchia di Konnersreuth. Gerlich era redattore capo del Munchner Neueste Nachrichten, era protestante e molto scettico. Come abbiamo già accennato, andò a Konnersreuth nel 1926 con l'intenzione di smascherare un inganno e di scrivere un articolo dissacrante sul suo giornale. Rimase invece così colpito dai fatti da escludere assolutamente ogni inganno e da convertirsi al cattolicesimo; in questo ebbe la guida del professor Wutz. Quello che vide a Konnersreuth cambiò totalmente la sua vita: e il libro che scrisse su Teresa è una miniera di notizie. Dichiaratamente ostile al nazismo, Gerlich fu arrestato nel 1933 dalla Gestapo e ucciso. Egli è considerato uno dei primi martiri del terzo Reich. Tra gli altri membri della cerchia di Konnersreuth, ricordiamo ancora padre Ingbert Naab, guardiano del convento dei Cappuccini di Eichstàtt. Fu collaboratore di Gerlich nell'editare la rivista Der Gerade Weg, apertamente contraria al nazismo e subì anche lui persecuzioni dalla Gestapo; dovette infatti lasciare il convento e rifugiarsi in Svizzera, dove morì nel 1935. Del principe Erich Waldburg-Zeil, che acquistò la casa di Wutz dopo la sua morte, abbiamo già detto. Anche lui mori presto, ad appena 50 anni, per un incidente di caccia, ma sua moglie rimase amica devota di Resl fino alla sua morte. Un altro membro importante della «cerchia» fu Bruno Rotschild, che era farmacista ed ebreo. Quanto vide a Konnersreuth lo indusse a convertirsi, a studiare teologia e a farsi sacerdote. Morì per attacco cardiaco la vigilia di Natale del 1932: Teresa, che non aveva ancora saputo della sua morte, lo vide nella sua visione di Natale presso il Salvatore, e ne fu così informata. Molto amica di Teresa fu la badessa del convento di S. Walburg, Benedikta von Spiegei, donna di grande carattere e intelligenza. Resl era spesso sua ospite al convento. Ricordiamo ancora, tra gli amici piu intimi di Teresa, il vescovo Preysing e il vescovo Rackl, entrambi amici del professor Wutz, il musicista Wilhelm Widmann, di cui abbiamo avuto già occasione di parlare; il professor Franz Xaver Mayr, docente di scienze naturali, uno dei pochi che sopravvissero a Teresa e fino all'ultimo le furono vicini; e il professor Josef Lechner, docente di diritto ecclesiastico ad Eichstàtt, grande amico della famiglia Neumann e strenuo difensore, con i suoi articoli, di Teresa. Da non dimenticare Anni Spiegi, di origine modesta (era commessa a Eichstàtt) ma di grande spiritualità e intelligenza, che conobbe Teresa attraverso il professor Wutz e ne divenne fedele e intima amica. Il suo piccolo libro di ricordi personali su Teresa Neumann è una insostituibile fonte di informazione. Tutte queste persone, e altre ancora, non esitarono a prendere fin dai primi tempi posizione a favore di Teresa Neumann, offrendole sia la loro amicizia personale che il conforto e il sostegno della loro stima, che seppero esprimere in modi molto concreti. Il gruppo di persone che gravitava intorno a Teresa era, come abbiamo visto, apertamente antinazista, e Teresa stessa non esitò mai ad esprimere pubblicamente la sua condanna del nazismo. Nonostante le difficoltà che molti della sua cerchia ebbero col regime, Teresa non ebbe particolari problemi: Hitler infatti aveva dato ordine di lasciarla in pace e di non toccare Konnersreuth, sebbene quando ci furono le elezioni in paese soltanto pochissime persone avessero optato per Hitler. Hitler era molto superstizioso e certamente in cuor suo aveva paura di molestare un personaggio che era protagonista di tanti fatti miracolosi. Resl inoltre era molto amata e stimata dalla gente e anche questo fatto contribuì certamente alla decisione di non disturbarla.
Negli ultimi giorni di guerra tuttavia a Teresa e ai suoi non mancarono le difficoltà. Come riferisce il dottor J. M. Hòcht nel suo ottimo libro sulla mistica, un capitolo del quale è dedicato a Teresa Neumann con cui fu per anni in rapporto di amicizia e fiducia, Konnersreuth fu oggetto di persecuzioni e sparatorie da parte della Gestapo poco prima che la guerra si concludesse. Addirittura una SS si presentò con la pistola in casa di Teresa, che era assente, ordinando che la stigmatizzata uscisse e lo seguisse. Fu fermato da un medico militare. La notte del 20 aprile 1945 Konnersreuth fu al centro del fuoco incrociato dei panzer delle SS che distrussero molte case e fienili. Durante questo assedio Teresa si trovava nella cantina del fienile della parrocchia, che andò in fiamme, e riuscì a uscirne evitando per un pelo il soffocamento. In maniera altrettanto fortunosa suo padre e suo fratello riuscirono a evitare le schegge delle granate rifugiandosi dalla cantina di casa nella camera di Resl. Il 29 aprile 1945, anniversario della beatificazione della piccola Teresa di Gesù Bambino, la santa si mostrò nuovamente a Teresa in una gran luce e le disse: « tate tranquilli e abbiate fiducia; avete potuto constatare con mano il modo meraviglioso con cui siete stati aiutati. Il grande piano infernale è stato annientato dalla forza celeste: avete pur visto e capito in quale terribile pericolo vi trovavate. Il Signore ha accolto il tuo sacrificio. Esso non è stato inutile». «Evidentemente», conclude il dottor Hòcht, «durante l'assedio Teresa aveva offerto con particolare intensità le proprie sofferenze e il proprio sacrificio». Dopo la guerra gli americani offrirono protezione a Teresa Neumann e alla sua famiglia. Teresa fece amicizia con molti di loro e tanti furono i soldati americani che poterono assistere alle passioni del venerdì. Del carattere di Teresa Neumann abbiamo già detto alcune cose. Vediamo ora le sue occupazioni quotidiane. Gran parte delle sue attenzioni andavano alla chiesa, dove trascorreva molto tempo. Durante le funzioni, per proteggerla dalla curiosità della gente, le era stato riservato un posto dietro l'altare. Però Teresa amava trascorrere in chiesa anche ore solitarie a pregare; e dedicava cure amorose a pulire e ornare la casa di Dio. Lei stessa procurava i fiori per l'altare: quei fiori che curava con le sue stesse mani. Amava anche intonare il colore dei fiori alle varie festività: fiori bianchi per le feste mariane, rossi a Pentecoste, gialli e oro per le nozze d'oro di padre Naber col sacerdozio. La casa di Teresa aveva fiori a tutte le finestre; per l'inverno c'era anche una piccola serra.
Il pezzetto di terra dove Teresa coltivava la maggior parte dei suoi fiori, quelli destinati alla chiesa, distava cinque minuti da casa. I fiori per Teresa erano espressione dell'amore di Dio e della bellezza del creato, e le ore che passava a curarli erano tra le più felici della sua giornata. Teresa amava moltissimo la natura e aveva una predilezione per gli animali e specialmente per gli uccellini. Teneva in casa le colombe, che le tenevano compagnia quando non poteva uscire. Possedeva anche un cavallino, di nome Lotte, che custodiva nella stalla della parrocchia. In un carrozzino trainato da Lotte, Teresa, che a causa delle stigmate camminava con molta fatica, si recava a visitare i malati. A quanto hanno detto parenti e amici, amava la velocità, e Lotte non si faceva certo pregare a mettersi al galoppo. Teresa Neumann amava ogni manifestazione della natura e non si stancava di ammirare il creato. Col professor Wutz, che possedeva un'automobile, fece molte gite e arrivò fino in Svizzera. In seguito fu suo fratello Ferdinand a farle da affettuoso e fidato autista. Conoscendo per esperienza personale che cosa volesse dire essere ammalati, Teresa aveva individuato fra le sue missioni anche quella di occuparsi degli infermi: per loro trovava sempre tempo. Konnersreuth per molto tempo non ebbe infermieri, e Teresa svolgeva con abilità e competenza anche questo compito. Per i numerosissimi ammalati che si rivolgevano a lei aveva sempre una parola di conforto, per tutti pregava: soprattutto li incoraggiava e chiedeva al Salvatore di dar loro la forza di sopportare. Tanta pazienza aveva con gli ammalati, tanto poca ne aveva con i curiosi, con i gruppi che arrivavano addirittura in pulìman per vederla e pretendevano di impadronirsi del suo tempo. Con chi invece aveva realmente bisogno, Teresa sapeva essere cordiale e disponibile come pochi sanno esserlo. Molti devono a lei il recupero della fede e della pace interiore. Teresa possedeva molto humor, che non di rado esercitava con i visitatori troppo curiosi e invadenti. Anni Spiegì racconta per esempio di essere stata presente alla conversazione di Teresa con un visitatore oltremodo scettico, che le disse: «Lei certamente si è immaginata le stigmate così a lungo che finalmente le sono venute!».
Al che Teresa aveva immediatamente risposto: «Proprio così; lei provi a immaginarsi che le crescono le corna, forse riuscirà a farsele venire davvero!». Per i bambini Teresa aveva un amore speciale. Era adorata dai suoi trenta nipoti e da tutti i bambini del paese, che la chiamavano Patin (madrina). La sua più grande gioia a Natale era distribuire ai bambini i piccoli doni che molto per tempo cominciava a preparare. Permetteva ai bambini di giocare nella sua camera, e averli intorno non la stancava mai. Per tutta la vita Teresa ebbe grandi sofferenze fisiche e malattie più o meno gravi. Da una di queste, di particolare gravità, fu salvata da un nuovo miracolo. Le cose andarono così. Il 17 luglio 1940 Teresa fu colpita da emorragia al lato sinistro del cervello e rimase paralizzata a tutto il lato destro del corpo. Il colpo apoplettico si ripeté per tre volte nei giorni successivi.
Il braccio e la gamba destra erano immobili, l'occhio strabico, la bocca rigida e storta, la parola quasi incomprensibile. Da questa infermità fu guarita durante la visione dell'Assunzione di Maria, il 15 agosto. Teresa stessa, quando si fu ripresa, narrò come erano andate le cose: «Quando la Madre di Dio si librò dal sepolcro assieme agli angeli, mi guardò sorridendo, si avvicinò a me e pose la sua mano destra sulla parte sinistra del mio capo. Benché di solito nelle visioni non percepisca niente di ciò che accade all'esterno, quella volta sentii come una fortissima scossa elettrica sul lato destro del corpo. Alzai la mano per afferrare quella della Madonna ». La descrizione della miracolosa guarigione è completata da padre Naber, che era presente: « Eravamo molto emozionati vedendo che, dopo un sussulto, la mano destra, che fino a quel momento era rimasta inerte, arrivò a toccare il lato sinistro della testa. L'angolo della bocca si drizzò e lei poté parlare in modo del tutto normale; l'occhio tornò a muoversi seguendo la visione e, quando questa finì, Teresa si alzò e camminò come prima. Eravamo tutti felici! ». Terminata la visione, Teresa fu in grado di andare in chiesa senza alcun aiuto. All'improvvisa e miracolosa guarigione aveva assistito anche il medico che aveva seguito il caso fin dall'inizio e aveva curato Teresa senza alcun esito. Oltre al medico e a padre Naber, erano presenti anche un sacerdote di Ratisbona, pad re Leo Ort, e alcune altre persone, i quali tutti confermarono i fatti. Sebbene la sua vita scorresse all'insegna della spiritualità, Teresa Neumann era una donna concreta, pratica e con i piedi per terra. Grande lavoratrice, sebbene le stigmate alle mani le dolessero continuamente, rispondeva di persona alle innumerevoli lettere che le arrivavano; più tardi, quando le fu installato il telefono, se ne serviva volentieri. Era molto abile, decisa e sicura anche nelle questioni molto concrete. Va ascritto a suo merito se il convento di Fockenfeld presso Konnersreuth, che era stato secolarizzato ed era finito in mano di protestanti, tornò ad essere un convento con una scuola per le vocazioni adulte. Al convento erano interessati i Salesiani di Eichstatt, i quali però non disponevano del denaro contante necessario ad acquistano dal proprietario. Teresa riusci a farsi prestare il denaro dal principe Waldburg-Zeil, che viveva ad Hanau presso Francoforte, e a questo scopo si recò da lui; in cambio riuscì a far pagare a lui dalle forze di occupazione i danni di guerra ammontanti a milioni e milioni per i boschi che erano stati abbattuti e devastati durante le operazioni militari. Teresa riuscì a condurre le cose in modo che le trattative si conclusero in breve tempo con soddisfazione generale. Quando padre Naber, a 85 anni, andò in pensione e dovette lasciar libera la canonica per il suo successore, Teresa decise su due piedi di trasformare la casa paterna in modo da ricavare alcune stanze per il suo parroco. Trasferì quindi sul piccolo pezzo di terra che il padre possedeva poco fuori dal paese gli attrezzi agricoli e la stalla, e iniziò con fervore i lavori. Seguiva personalmente gli operai, dai quali sapeva farsi benvolere, e faceva lavorare tutti i membri della famiglia. Nel 1959 padre Naber poté trasferirsi in casa Neumann, evitando così di dover lasciare il paese dove per cinquant' anni aveva svolto la sua attività di parroco.
Anche la grande croce che adorna il cimitero di Konnersreuth è dovuta a Teresa: essa è opera di uno scalpellino che anni prima, per intercessione di Teresa, era stato guarito da una paralisi. La tomba di Teresa si trova proprio accanto a questa grande, suggestiva croce. Poco prima di morire, Teresa si dedicò con grande slancio alla realizzazione di un progetto che le stava molto a cuore: la costruzione di un convento dedicato alla preghiera, a Konnersreuth. Il convento è stato realizzato: si chiama Theresianum. Ma di questo si dirà di più in seguito quando si parlerà degli ultimi giorni di Teresa Neumann. La creazione di un convento di preghiera corrispondeva ai più sentiti desideri di Teresa, la cui vita fu intessuta di preghiera e sofferenza. Aveva pochissimo bisogno di dormire e dedicava buona parte della notte alla preghiera. Immersa nella preghiera passava senza accorgersene ore e ore in chiesa, in intima comunione col Salvatore. Non aveva potuto realizzare il sogno di aiutare il prossimo con l'attività missionaria, ma lo aiutava con la preghiera. Innumerevoli testimonianze dimostrano che le sue preghiere erano ascoltate!
YOGANANDA A KONNERSREUTH
La testimonianza di un personaggio particolare, lo yogi indiano Yogananda, può essere molto utile per dare un'idea precisa del carattere di Teresa, delle passioni del venerdì e dell'impressione che ella faceva su chi l'avvicinava per la prima volta. Yogananda incontrò Teresa, di cui aveva molto sentito parlare, nel 1935: veniva da New York ed era sbarcato in Inghilterra. Di li, in compagnia di due amici, si era recato in Baviera per visitare « la grande mistica cristiana Teresa Neumann ». Il resoconto che segue è tratto dal libro autobiografico di Yogananda Autobiografia di uno yogi, un testo che ha avuto molto successo ed è considerato un classico nella letteratura specializzata. Yogananda visse molti anni negli Stati Uniti: a lui si deve in gran parte la conoscenza che in Occidente abbiamo della filosofia indiana e dello yoga. Ecco quanto egli scrive di Teresa e del suo incontro con lei. « Come sempre, in Oriente o in Occidente, ero avido di conoscere dei santi. Mi rallegrai quando, il 16 luglio, la nostra piccola comitiva raggiunse l'antico villaggio di Konnersreuth. I contadini bavaresi dimostrarono un vivo interesse alla Ford che avevamo portato dall'America e al nostro strano gruppo: un giovanotto americano, un' attempata signora e un orientale di colore olivastro, dai lunghi capelli cacciati sotto il bavero del cappotto. La casetta di Teresa, piccola e linda, con i gerani in fiore accanto a un pozzo molto primitivo, ahimè, era chiusa e silenziosa.
I vicini e lo stesso postino del villaggio non sapevano darci informazioni. La pioggia cominciò a cadere: i miei compagni proposero di andarcene. "No", dissi caparbio. "Starò qui finché non avrò trovato il modo di vedere Teresa Due ore dopo eravamo ancora seduti nell'automobile sotto una pioggia dirotta. "Signore!", sospiravo lamentosamente. "Perché m'hai condotto fin qui se ella è scomparsa?" Un uomo che parlava inglese si avvicinò alla nostra macchina ed educatamente ci offrì i suoi servigi. "Non so precisamente dove sia Teresa", disse, "ma spesso ella si reca a casa del professor Franz Wutz, un insegnante di lingue straniere dell'università di Eichstàtt, a ottanta miglia da qui". La mattina dopo partimmo in macchina per la tranquilla cittadina di Eichstàtt, dalle stradine lastricate di ciottoli. Il professor Wutz ci accolse con cordialità nella sua casa. "Sì, Teresa è qui". La informò dei visitatori e presto tornò con la sua risposta: "Benché il vescovo mi abbia imposto di non ricevere nessuno senza il suo permesso, riceverò quest'uomo di Dio che viene dall'India". Profondamente commosso da queste parole, seguii il dottor Wutz in un salottino al piano superiore. Subito Teresa entrò, irradiando un'aura di pace e di gioia. Aveva a quell'epoca trentasette anni, ma sembrava assai più giovane; possedeva una freschezza e un fascino infantili. Sana, robusta, dalle guance rosee, allegra, questa è la Santa che non mangia! Teresa mi salutò con una stretta di mano estremamente gentile. Eravamo entrambi raggianti, uniti in una silenziosa comunione, consci di amare entrambi profondamente Iddio. Il professor Wutz si offri cortesemente come interprete. Mentre sedevamo, notai che Teresa mi guardava con ingenua curiosità. Senza dubbio, gli indù erano rari in Baviera. “Non mangiate mai nulla?”. Volevo avere conferma dalle sue stesse labbra. "No. Solo un'ostia consacrata ogni mattina alle sei "Quanto è grande l'ostia?" "Sottile come la carta e non più grande di un soldo". E aggiunse: "La prendo come sacramento; se non è consacrata, non mi riesce di inghiottirla". "Ma non è possibile che abbiate vissuto solo di questo per dodici anni!". "Vivo della luce di Dio!".
Come era semplice la sua risposta, e come einsteiniana! "Vedo che vi rendete conto che l'energia fluisce nel vostro corpo dall'etere, dal sole e dall'aria". Un rapido sorriso le illuminò il viso. "Sono così felice che comprendiate come vivo!" "La vostra santa vita è una quotidiana dimostrazione della verità pronunciata dal Cristo:”Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. Di nuovo manifestò gioia per la mia spiegazione. "È proprio così; Una delle ragioni per cui sono oggi sulla terra, è appunto quella di dimostrare che l'uomo può vivere dell'invisibile luce di Dio, e non di cibo soltanto". "Potete insegnare ad altri come si fa a vivere senza mangiare?". Sembrò un po' urtata dalla mia domanda. "Non posso farlo. Dio non vuole!". Il mio sguardo cadde sulle sue mani forti e graziose. Teresa mi mostrò una ferita quadrata, appena rimarginata, sul dorso d'ogni mano. Sulle palme m'indicò due ferite piu piccole, a forma di mezzaluna, anch'esse appena chiuse. Ogni ferita trafiggeva la mano da una parte all'altra. Vedendo ciò, mi tornò distintamente alla memoria il ricordo dei grossi chiodi di ferro quadrati con punte a mezzaluna in uso ancor oggi in Oriente, ma che non ricordo di aver mai visto in Occidente. La Santa mi raccontò qualcosa delle sue estasi settimanali. "Come un povero e impotente spettatore assisto a tutta la passione di Cristo". Ogni settimana dalla mezzanotte del giovedì fino alle tredici del venerdì, le sue ferite si aprono e sanguinano. Ella perde quattro chili e mezzo del suo peso, che è di sessanta chili. Pur soffrendo intensamente per la sua amorosa pietà, Teresa attende con gioia questa settimanale visione del Signore. Mi resi subito conto che, per mezzo della sua strana vita, Dio aveva voluto dimostrare a tutti i cristiani l'autenticità storica della vita di Gesù e della sua crocifissione com'è narrata nel Nuovo Testamento, e palesare in modo drammatico l'eterno vincolo esistente tra il Maestro di Galilea e i suoi fedeli. Il professor Wutz mi narrò alcuni episodi, da lui controlla-ti, riguardanti la Santa. "Un gruppo di noi, inclusa Teresa, spesso viaggia per giorni interi in giro per la Germania", mi disse. "Fa impressione il contrasto fra i nostri tre pasti giornalieri, e Teresa che non mangia nulla.
Ella rimane fresca come una rosa, e la stanchezza che vince noi non la tocca. Quando, affamati, andiamo a caccia di un'osteria, ella ride allegramente". Il professore aggiunse altri interessanti dettagli fisiologici: "Poiché Teresa non prende cibo, il suo stomaco è atrofizzato. Non ha escrezioni, ma le sue glandole sudorifere funzionano, la sua pelle è sempre morbida ed elastica". Al momento di partire, espressi a Teresa il mio desiderio di assistere alla sua estasi. "Si, venite venerdì prossimo a Konnersreuth", disse gentilmente. "Il vescovo vi darà un permesso. Mi fa molto piacere che siate venuti a trovarmi ad Eichstàtt". Teresa ci strinse la mano molte volte, con dolcezza, e ci accompagnò fino al cancello. Wright aprì la radio dell'automobile: la Santa la esaminò con brevi, entusiastici scoppi di risa. Poiché una gran folla di ragazzi si stava radunando intorno a noi, Teresa si ritirò in casa. La vedemmo affacciata a una finestra da dove ci sbirciava, come una bambina, agitando la mano in segno di saluto. Da una conversazione che ebbi il giorno seguente con due suoi fratelli, molto cortesi e amabili, appresi che la santa donna, di notte, dorme solo una o due ore. Nonostante le molte ferite nel suo corpo, ella è attiva e piena di energia. Ama gli uccelli, si prende cura di un piccolo acquario e spesso coltiva il suo giardino. Tiene una vasta corrispondenza. I devoti cattolici le scrivono per chiederle preghiere e benediziom. Molti, mercé il suo aiuto, sono guariti da gravi malattie. Il fratello Ferdinando, di circa 23 anni, mi disse che Teresa ha il potere, per mezzo della preghiera, di prendere sul suo corpo i mali altrui. L'astinenza dal cibo della Santa data dal tempo in cui ella pregò il Signore di trasferire a lei il male alla gola di un giovane della sua parrocchia, che in quel momento si preparava a ricevere gli ordini sacri. Il giovedì pomeriggio ci recammo dal vescovo, che guardò con una certa sorpresa le mie chiome spioventi. Concesse subito il necessario permesso. Non vi era nulla da pagare; l'ordine dato dalla Chiesa aveva il solo scopo di proteggere Teresa dall'assedio dei turisti, che negli anni precedenti giungevano a Konnersreuth a migliaia ogni venerdì. Alle nove e mezzo del venerdì eravamo a Konnersreuth. Notai che la casetta di Teresa aveva una larga lastra di vetro sul tetto per darle abbondanza di luce.
Ci fece piacere trovare le porte non più sbarrate, ma spalancate e accoglienti. Una fila di venti visitatori, che avevano ciascuno un permesso scritto, includeva gente venuta da molto lontano per assistere alla sua mistica estasi. Teresa aveva già sostenuto con me la prima prova nella casa del professore, mostrando di sapere per intuitiva saggezza che io volevo vederla per ragioni spirituali e non per volgare curiosità. La seconda prova mi fu data quando, prima di salire le scale che conducevano alla sua stanzetta, mi sprofondai in uno stato di estasi yogica per entrare con lei in rapporto telepatico e veggente. Entrai nella stanza, piena di visitatori; ella era stesa sul letto e indossava una veste bianca. Wright mi seguiva dappresso e io mi arrestai sulla soglia, colpito da uno strano e impressionante spettacolo. Dalle palpebre inferiori di Teresa scorreva un sottile e continuo rivolo di sangue largo un dito. Il suo sguardo era fisso in alto nell'occhio spirituale al centro della fronte. Il panno che le avvolgeva il capo era inzuppato del sangue che usciva dalle stigmate corrispondenti alle ferite prodotte dalla corona di spine. La bianca veste aveva una macchia rossa al posto del cuore per la ferita al costato dove il corpo di Cristo ebbe, tanti secoli fa, quell'ultimo insulto dalla lancia del soldato. Le mani di Teresa erano distese in un gesto materno e supplichevole. Il suo viso aveva un'espressione torturata e allo stesso tempo divina. Sembrava più magra e mutata non solo fisicamente, ma anche in varie altre maniere ineffabili. Mormorando parole in lingua straniera, parlava con labbra lievemente tremanti a qualcuno, visibile solo al suo occhio interiore. Poiché ero in perfetta sintonia con lei, cominciai a vedere le scene della sua visione.
Ella fissava Gesù mentre egli portava il legno della croce tra la moltitudine che lo derideva. A un tratto sollevò il capo costernata: il Signore era caduto sotto il terribile peso. La visione scomparve. Affranta da un'infinita pietà, Teresa si abbandonò pesantemente sui cuscini. In quell'istante udii dietro di me un forte colpo. Mi volsi per un secondo e vidi due uomini portare via un corpo abbattuto. Uscivo appena allora da un profondo stato supercosciente, per questo non riconobbi subito la persona che era caduta. Fissai di nuovo il viso di Teresa, paffidissimo e solcato di rivoli di sangue, ma calmo e ormai irradiante purezza e santità. Più tardi guardai dietro di me e mi accorsi che Wright stava in piedi con una mano contro la guancia che gli sanguinava. "Dick", chiesi ansiosamente, "sei tu che sei caduto?" "Si, sono svenuto dinanzi al terrificante spettacolo". "Ebbene", gli dissi per consolarlo, "sei stato coraggioso a ritornare per guardarlo ancora. Ricordando la paziente fila dei pellegrini che attendevano, Wright e io demmo a Teresa un silenzioso addio e ci ritirammo dalla sua presenza...».
TERESA NEUMANN E IL PITTORE FEDERICO VON RIEGER
Un'altra testimonianza di grande interesse su Teresa Neumann ci viene dal pittore bavarese Federico von Rieger, nato nel 1903 e morto nel 1988, famoso ritrattista le cui opere figurano in molti musei, tra cui la Pinacoteca Ambrosiana di Milano, la casa di Dùrer a Norimberga, il museo di guerra di Rovereto, i musei di Como, Seveso, Bra, Ingolstadt e Wùrzburg. Von Rieger è vissuto a lungo in Italia, e fu appunto dopo una permanenza di quattro mesi nel nostro paese che fu invitato dal sindaco di Wùrzburg a recarsi ad Eichstàtt per fare un ritratto al vescovo di quella città, che desiderava averlo prima di essere trasferito a Berlino, e alla badessa del convento delle Benedettine della stessa città. Von Rieger rimase ad Eichstatt dal settembre al dicembre, e in quel periodo ebbe occasione di incontrare più volte Teresa Neumann, che come abbiamo visto era buona amica della badessa Benedikta von Spiegel. Ecco dunque il racconto del pittore: « Nel settembre del 1934 mi recai ad Eichstàtt per fare il ritratto di Sua Eccellenza Conrad von Preysing e della badessa Benedikta von Spiegel. Nella casa per gli ospiti dove abitavo avevo a mia disposizione una bellissima sala arredata con mobili di stile barocco, che mi serviva da studio. La superiora - una donna che per età poteva essere mia madre - venendo a posare portava spesso con sé dei visitatori, curiosi di conoscere il giovane pittore. Avevo allora 31 anni. Un giorno di novembre la badessa venne accompagnata da una donna di bell'aspetto e vestita di scuro alla moda campagnola. Le due donne si avvicinarono a me sorridendo e la badessa mi domandò: "Signor Rieger, ha mai sentito parlare di Teresa Neumann?". "Certo", risposi, "e ho letto anche de-gli articoli che parlano di lei". In un primo momento trovai la domanda singolare, poi il sorriso della badessa si accese ancora di più e disse: "Eccola qui". Nonostante la curiosità rimasi senza parole e senza saper cosa fare. Ricordo che mi tirai un po' indietro e feci cenno a Teresa di avvicinarsi ai due cavalletti sui quali erano i quadri non ancora finiti; lei li osservò a lungo. Approfittai di quel momento per fare un cenno alla badessa, senza che Teresa mi vedesse, affinché convincesse Teresa a farmi vedere le stigmate. La madre badessa disse: "Teresa, fai vedere le stigmate al pittore". Teresa mi guardò con due occhi straordinariamente limpidi e con espressione accondiscendente. Portava dei guanti di lana nera senza le dita, li tirò indietro e mi fece vedere le stigmate sia sul palmo che sul dorso della mano. Teresa non parlava un tedesco elegante, ma semplicemente un dialetto che io conoscevo molto bene poiché era il mio stesso dialetto; inoltre dava del tu a tutti. Mi disse: "Tu sei ancora così giovane e sei già così bravo!". "Ho studiato dieci semestri all'Accademia di Monaco", risposi. Prima di andarsene Teresa mi disse: "Domani ritorno", e mi porse le dita della mano destra: se infatti, salutandola, uno le avesse stretto tutta la mano, lei avrebbe sentito dolori atroci. Questo fu il nostro primo incontro.
Il giorno dopo ritornò con la badessa e mi salutò come se ci conoscessimo da tempo. Mentre la badessa posava per il ritratto, io ero abbastanza distratto: pensavo infatti al racconto delle visioni che Teresa mi andava facendo, visioni che si ripetevano ogni venerdì, a meno che non ricorresse la festa di qualche santo. Teresa si mise a raccontare un'infinità di particolari sugli apostoli; per due di essi aveva una netta preferenza, mentre san Pietro le era meno simpatico perché violento e rude. Smisi di lavorare e cominciai a tempestarla di domande. La pregai di posare per un disegno, ma lei rifiutò, schiva com'era di qualsiasi pubblicità. Pian piano il suo racconto si spostò su Gesù. Alle mie domande sull'aspetto fisico ,di Gesù, guardandomi rispose: "Press'a poco come te, non più alto. La sua barba e i suoi capelli sono color ramato, la barba non folta e il mento come il tuo. La voce baritonale". Il terzo giorno che venne a trovarmi, mentre lei chiacchierava con la badessa, feci a sua insaputa uno schizzo del suo viso che ancora conservo tra i miei disegni. Quel giorno mi parlò per la prima volta della scena del Calvario e della crocifissione. "Devi sapere", disse, "che Gesù trascinava per la Via Crucis tre pesanti pali legati insieme, non la croce già fatta, e cadde tante volte". Io ribattei: "Non ci hanno insegnato che Gesù è caduto tre volte?". "Tre volte in cui non riusciva ad alzarsi", disse, "cera un uomo che lo aiutò a portare i pali". Teresa descrisse la Via Crucis e la sua descrizione corrisponde perfettamente alla topografia di Gerusalemme di allora. Lei non era mai stata in quella città. "Arrivato sul Golgota", continuò Teresa, "Gesù si afflosciò per le fatiche fisiche e morali, e nel frattempo i boia montarono la croce certamente non fatta su misura". Mi descrisse poi la forma della croce, tutta diversa da quella tradizionale. "Finito questo lavoro", disse poi, "i soldati aiutarono Gesù ad alzarsi e gli sfilarono dalla testa il camice bianco che indossava; facendo questo la corona di spine che portava sul capo cadde a terra. Devi sapere che non si trattava di una corona di spine come la disegnano gli artisti, era come un grosso nido di uccelli, i soldati glielo avevano conficcato sulla testa un po in avanti, cosicché una lunga spina trapassò la pelle sopra il naso arrivando quasi all'orecchio sinistro". Per spiegarsi meglio, Teresa mi fece vedere i segni delle spine sulla sua fronte e mi parlò di una grossa ferita sulla spalla sinistra di Gesù, con escoriazione della pelle a causa del peso dei tre pali della croce. "Cristo", disse, "si trovò nudo in piedi davanti alla poca gente radunatasi sul Calvario, una donna presente alla scena strappò un turbante dalla testa di uno dei presenti e lo diede a lui, che se lo avvolse attorno ai fianchi facendo un nodo dalla parte sinistra. I soldati fecero distendere Gesù sulla croce che era per terra, poi tirarono le braccia un po’ a sinistra e un po’ a destra e infine lo legarono con una corda. Legarono le braccia, il torace e le gambe" Per farmi capire meglio, Teresa si fece dare dalla badessa che stava lì vicino sferruzzando il gomitolo e fece intorno a me quell'allacciamento strano delle corde di cui aveva parlato prima, e ricordo che i capi pendavano dalla parte destra. "La croce non era alta", mi disse, "così che la Maddalena inginocchiata toccava i piedi di Cristo.
Il calcagno di Gesù poggiava in un incavo fatto con uno strano strumento da quegli abilissimi crocifissori. In alto, tenuta da un grande chiodo, stava una tavoletta con su scritto 'INRI'. Dietro la croce non stava nessuno, essendoci una grossa buca piena di ossa. La testa di Gesù pendeva in avanti così che il sangue della sua testa colava sul capo della Maddalena". Teresa non mi parlò dei due ladroni, né della Madonna né di san Giovanni. Mi spiegò però, con una certa meticolosità, che le braccia del Cristo erano forzatamente tirate e in orizzontale, in modo che tra le sue braccia e quelle della croce si formava un triangolo. Come artista mi interessai in modo particolare alla descrizione della crocifissione. Il giorno dopo mi feci ripetere la descrizione così da impararla a memoria. Teresa raccontava con semplicità, e ricordava tutto con grande precisione, come uno che racconta un film che ha appena visto. Quello che mi stupiva erano i dettagli così difficili da immaginare anche da una persona dotata di grande fantasia. Alla mia domanda un po' audace, come mai si ricordasse di tanti particolari, mi disse: “Devi sapere che io nelle estasi vedo sempre le stesse cose, è come se sognassi sempre lo stesso sogno”. Vorrei aggiungere che quando conobbi Teresa ella aveva ancora tanti anni davanti a sé, e a lungo andare le immagini variarono un po’. Il fatto che lei fosse così aperta e comunicativa, mentre di solito provava avversione a parlare di sé e a farsi vedere da occhi curiosi, mi dava una certa confidenza, per cui le chiesi se parlasse con Gesù. La risposta fu pronta: "Si, una volta. Era la notte che precedeva il giorno della crocifissione. Gesù era seduto; solo in una specie di cantina, aveva il manto rosso 'regale' sulle spalle, la corona di spine in testa, lo scettro nelle mani legate e piangeva. Io ero davanti a lui, e prese a parlarmi, però non ricordo che cosa mi abbia detto. Ricordo che a un certo punto arrivò un ragazzino che cominciò a prendere in giro Gesù e infine gli sputò sulla faccia. Adirata diedi al ragazzino un solenne ceffone e lo cacciai via". Sappiamo che durante le estasi Teresa parlava in aramaico. Il professor Wutz, noto teologo e docente dilatino, greco ed ebraico antico, andò a trovarla e ne rimase profondamente colpito. Vi tornò più volte e assunse la sorella di Teresa come governante. Sapendo che mia madre desiderava vedere Teresa, le scrissi invitandola ad Eichstàtt; dopo qualche giorno mia madre arrivò e insieme un pomeriggio andammo a prendere il caffè dal professor Wutz. Teresa e sua sorella ci servivano. Mentre Teresa versava il caffè nella tazzina, mia madre le domandò: "Teresa, questo buon profumo di caffè non ti fa gola?".
Per tutta risposta Teresa fece con la testa un cenno di grande disgusto. Già da allora Teresa non beveva e non mangiava la minima cosa. Era tuttavia di florido aspetto e recuperava facilmente le gravi perdite di sangue che aveva durante le estasi. Teresa in genere non parlava mai di religione, e durante le nostre conversazioni non mi domandò mai se fossi cattolico e se fossi praticante. Mi raccontò anche come aveva ricevuto le stigmate. La prima ad apparire era stata quella della lancia. Lei non sapeva che cosa fosse quella piccola ferita e con l'aiuto di sua sorella cercava di medicarla, ma la ferita divenne sempre più grande fino alla misura normale di una ferita di lancia. Dopo vennero quelle dei piedi, e anche queste nonostante le cure si svilupparono rapidamente. A causa di queste ferite soffriva pene terribili e per questa ragione calzava sempre scarpe di panno. Poi si formarono le ferite delle mani e infine quelle piccole e non profonde della corona di spine. Ricordo che l'ultima volta che la badessa venne per posare per il suo ritratto le chiesi come mai Teresa, in genere così chiusa, taciturna e persino seccata quando qualcuno le faceva delle domande sulle sue visioni, si fosse mostrata con me così gentile e aperta. La badessa con un sorriso materno disse: "Se non la conoscessi così bene non glielo direi. Teresa mi ha detto: 'Il pittore è un uomo puro'; e se lo dice la Resl, lei può esserne fiero. Si sapeva che Teresa emanava un fluido speciale ed era capace di conoscere le persone a distanza; molti che si erano recati da lei con sicurezza o per metterla in imbarazzo ne erano ritornati indietro sconfitti. Dovendo Teresa tornare a Konnersreuth, venne a salutare me e la badessa. Bisogna sapere che nel tabernacolo dell'altare maggiore del convento delle Benedettine c'è una lastra di marmo sulla quale secoli fa fu posato il cadavere di san Willibaldo: questa pietra trasuda un liquido oleoso. Teresa espresse il desiderio di vedere la lapide, e siccome neppure io l'avevo mai vista, insieme alla badessa e a Teresa andai in chiesa. Presi uno sgabello con tre scalini e lo tenni fermo affinché le due donne potessero salire sulla mensa dell'altare. Prima che la badessa mettesse la chiavetta per aprire la porticina del tabernacolo, le due donne, come si usa fare davanti al santissimo sacramento, si fecero il segno della croce. Io ero rimasto dietro a loro, per cui non mi vedevano, e non mi feci il segno della croce. Improvvisamente Teresa, senza girarsi, mi disse in tono di rimprovero: "Potresti anche tu farti il segno della croce! ". Io rimasi mortificato. È un fatterello semplice, ma lo ricordo sempre e mi ha rivelato tanto di Teresa Neumann... » In seguito, nel 1947, il pittore von Rieger dipinse il Crocifisso secondo Teresa Neumann: un crocifisso unico nel suo genere, col Cristo legato alla croce con le corde, il cielo scuro, sullo sfondo un paesaggio collinare. Tutto secondo le indicazioni della Resl.
GLI ULTIMI GIORNI DI TERESA NEUMANN
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, Eichstàtt era diventata una seconda patria per Teresa, che trascorreva lunghi periodi nella casa del professor Wutz. Dopo la morte della sorella Ottilia, che aveva continuato per molti anni a gestire la casa anche dopo la morte del professore, la casa fu venduta. D'accordo con Anni Spiegì, Teresa decise di trascorrere un certo tempo ad Eichstàtt per vuotare dei mobili l'abitazione, e scelse il periodo tra il 6 e il 20 agosto 1962, quando Anni aveva le ferie. Dal libro della Spiegì riportiamo la descrizione di quei giorni: « Teresa arrivò ad Eichstàtt domenica 5 agosto, alle cinque del pomeriggio. Mi aveva telefonato prima di partire perché mi facessi trovare a casa. Io credevo che sarebbero stati giorni difficili, dato che per Resl c'erano tanti bei ricordi ed esperienze legati ad Eichstàtt e alla casa di Wutz. Ma non fu così. Appena arrivata, Resl mi confidò i suoi nuovi progetti: aveva l'intenzione di costruire a Konnersreuth un convento dedicato alla preghiera. Il progetto veniva da Sua Eccellenza il vescovo di Ratisbona, dottor Rudolf Graber, il quale aveva scritto a Teresa di pregare per la realizzazione di un convento dedicato alla preghiera che egli desiderava far sorgere nella sua diocesi: qui si sarebbe dovuto pregare soprattutto per le necessità e i bisogni della diocesi stessa. Resl aveva fatto subito suo questo progetto. Quando poco tempo dopo le fu offerto un terreno, le fu chiaro che il convento doveva sorgere a Konnersreuth. Andò quindi dal vescovo, il quale fu subito d'accordo. Si trattava ora di scegliere l'ordine per il convento. Da principio ci fu qualche difficoltà, poi Resl pensò alle Carmelitane di Ratisbona: la piccola santa Teresa, che era stata carmelitana, le aveva ispirato questa scelta? Resl discusse la cosa con la superiora, che le promise cinque suore. Così Resl aveva bisogno della cappella e dei mobili della casa di Wutz per il nuovo convento. Era così entusiasta del suo nuovo progetto che non sentiva il dolore di interrompere il legame con Eichstàtt. Cominciammo il lavoro subito il giorno dopo: ad aiutarci c'erano anche sua nipote Maria Pflaum, suo fratello Ferdinand e un chierico dei Cappuccini. Secondo le sue consuetudini, Resl volle che tutto fosse impacchettato e pulito a fondo. Era di ottimo umore e lavorava dalla mattina alla sera. In trent' anni in una casa si finisce per ammucchiare molta roba che non vale la pena di essere conservata. Allora facemmo in cortile un fuoco per bruciare ciò che non serviva. Era Teresa a scegliere e a bruciare. Vorrei a questo proposito raccontare un piccolo episodio tipico dell'animo di Resl. Quando il fuoco era ormai molto grande, io scesi con un vecchio cuscino, lo gettai tra le fiamme e dissi a Resl: "Ecco, questo andrebbe proprio bene per un bel martirio. Che cosa faresti se dovessi salire sul rogo?". E lei con decisione: "Se fosse il Salvatore a volerlo, ci andrei subito. Direi: Salvatore, con te!, e salterei nel fuoco". E i suoi occhi brillavano mentre diceva queste parole. Io rimasi molto impressionata! ». Quando il lavoro fu terminato e i mobili spediti a Konnersreuth, Resl partecipò anche alla pulizia radicale della casa, poi volle esser lasciata sola alcune ore nelle stanze dove aveva trascorso tante ore felici. Era previsto che sarebbe andata poi a dormire a casa di Anni, dove Resl non era mai stata, in quanto era sempre l'amica che la raggiungeva a casa Wutz. Quando fu nella piccola e accogliente casa di Anni Spiegì, si dichiarò felice di esserci e aggiunse: "Ora ho di nuovo una casa ad Eichstàtt!".
I giorni successivi furono dedicati alle visite, agli incontri con gli amici di Eichstàtt; quando le ferie di Anni finirono, Resl tornò a Konnersreuth. Già il 27 agosto scriveva però all'amica che sarebbe tornata il 1° settembre insieme al pastore Naber, che nonostante i suoi 92 anni era ancora vivace e in ottima salute. Il progetto fu realizzato e i tre amici trascorsero ancora alcune belle ore insieme ad Eichstàtt. Poco dopo il suo arrivo Resl ebbe però un piccolo attacco cardiaco: siccome non poteva ingoiare nulla, non prese alcuna medicina e si limitò a farsi massaggiare con acqua di Colonia, cosa che le faceva bene. Dato che era molto abituata alle sofferenze da cui ben di rado era esente, accettò senza problemi anche questo piccolo malore, da cui peraltro la mattina dopo sembrava essersi completamente ripresa. Fu infatti in grado di ricevere alcuni amici, di ascoltare la Messa e poi di proseguire il viaggio per Weingarten, come progettato. Il 9 settembre lei e padre Naber erano di ritorno ad Eichstàtt, sereni e in buona salute. Teresa avrebbe voluto trattenersi più a lungo, ma aveva fretta di tornare a Konnersreuth per dare inizio ai lavori del convento. Un paio di giorni in compagnia dell'amica, e poi si rimise in viaggio per Konnersreuth, con la promessa ad Anni Spiegì di tornare presto insieme a padre Naber. Era il 10 settembre: otto giorni dopo, il 18 settembre 1962, Anni veniva informata per telefono della morte di Resl.
La morte
Da anni Teresa Neumann soffriva di angina pectoris, e con ogni probabilità il viaggio, intrapreso ad Eichstàtt e Weingarten per mandare avanti il progetto del convento fu uno strapazzo. Tornata a Konnersreuth si dedicò alle abituali occupazioni, andò in chiesa, ornò l'altare di fiori, ebbe le visioni. Il 15 settembre subì un violento attacco cardiaco, contro il quale a nulla valsero le punture e i massaggi al cuore che il medico le praticò. Aveva dolori tanto forti da non riuscire a stare sdraiata, per cui fu sistemata a sedere sul letto, sorretta da cuscini: rimase così fino al 18 settembre, quando spirò fra le braccia della sorella Maria. La mattina alle undici aveva ricevuto per l'ultima volta la comunione dalle mani di padre Naber, il quale nel suo Diario così ricorda quei momenti: « Ricordo l'ultima comunione di Resl. Mi aveva chiesto di portargliela a mezzogiorno, ma alle undici mi mandò a chiamare dicendo che desiderava comunicarsi subito. Andai e la trovai molto debole. Chiese anche a Maria di portarle un po' d'acqua perché si sentiva la bocca molto riarsa. Dal 1927 non aveva più preso neppure una goccia d'acqua e rimanemmo molto stupiti alla sua richiesta. Tuttavia né Maria né io avemmo la percezione della fine, perché già molte volte era stata in condizioni altrettanto penose. Presi un cucchiaio con qualche goccia d'acqua e posai la particola sulla punta, avvicinandola alla sua bocca. Ma appena mi avvicinai col cucchiaio, l'ostia sparì senza che Resl l'inghiottisse. A lei succedeva sempre che la specie del pane non si dissolvesse, come capita a noi, in circa un'ora, ma restava intatta fino a poco prima della comunione successiva: così aveva sempre la percezione della presenza del Salvatore in lei. Questo le dava forza e gioia. Quando le domandavo: "Di che vivi?", lei rispondeva semplicemente: "Del Salvatore". Noi avemmo l'impressione che poco prima della morte il Salvatore fosse voluto andare ancora una volta da lei. Dopo aver comunicato Resl, fui chiamato in confessionale e poi a tavola. All'improvviso sentimmo il campanello della camera della Resl, Maria corse su e qualche minuto dopo la sentimmo gridare: "Signor parroco, signor parroco!". Salii anch'io, ma era troppo tardi: la vita era fuggita. Maria disse: "Pare la morte dell'estasi della passione!", e non voleva credere che fosse morta davvero. Aveva visto almeno cinque o seicento volte sua sorella soffrire col Salvatore l'agonia del venerdì e alla fine reclinare la testa esausta, senza dar segno di vita. Maria si aspettava che da un momento all'altro la sorella si riprendesse, ma non fu così. Resl era davvero morta fra le sue braccia ».
Dal martedì, giorno della morte, al sabato, giorno del funerale, Teresa rimase composta nella bara nella stanza di soggiorno della sua casa: davanti a lei sfilarono migliaia di persone, accorse a dare l'estremo saluto alla Resl. Fu constatato dai medici presenti che sebbene la bara fosse rimasta aperta per più di tre giorni in una stanza non grande e dal soffitto basso, con la stagione ancora calda e i ceri accesi in permanenza, non era avvertibile nessun segno di decomposizione né alcun odore cadaverico. Una folla di almeno diecimila persone, giunta con i pullman anche da molto lontano (Olanda, Svizzera, Francia, Belgio, Austria, oltre che da tutte le regioni della Germania) accompagno Teresa Neumann al piccolo cimitero di Konnersreuth, dove fu sepolta accanto alla sorella Ottilia, presso la grande croce di granito che Teresa stessa poco tempo prima aveva contribuito a far collocare nel camposanto. La tomba di Teresa è tuttora meta di un incessante pellegrinaggio; è coperta di fiori e di ex voto attestanti le grazie ottenute per sua intercessione. (Continua) 

AMDG et BVM

Benedetto XVI - Un Papa un uomo



PAPA  B E N E D E T T O  XVI





AMDG et DVM

lunedì 5 febbraio 2018

Valore del Messale antico // Scrigno di Bellezza

Il valore del Messale antico

L’abbandono della bellezza.
Esaminiamo nel dettaglio i principali elementi che le parole del Papa chiamano “deformazioni arbitrarie della liturgia” intervenute in quegli anni. 
Vi è in primo luogo il fattore estetico e artistico. È noto come nei secoli la Chiesa abbia tributato culto a Dio anche tramite l’impiego delle migliori e più magnifiche forme di espressione artistica, non accontentandosi delle esistenti, ma suscitando dal suo interno continuamente nuovi stili di espressione del bello e del sublime. 
Durante l’ultimo mezzo secolo (con consistenti anticipi anteriori) si è invece manifestata all’interno della Chiesa l’opposta tendenza alla semplificazione delle forme estetiche, all’insegna della “povertà” del culto, nella presupposizione che il “trionfalismo” delle forme artistiche, figurative, architettoniche e sonore, non farebbe che ricoprire e falsare la vera natura della liturgia. 
Ora, per Benedetto XVI “«l'abbandono della bellezza» si è dimostrato, alla prova dei fatti, un motivo di sconfitta pastorale” (Rapporto sulla fede, p. 132). Il testo continua: “È divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all'utile. L'esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull'unica categoria del «comprensibile a tutti» non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia «semplice» non significa misera o a buon mercato: c'è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica”. 
Per quanto il Papa abbia dedicato pagine notevoli alla iconografia e alla architettura religiosa, è soprattutto la musica sacra che attira la sua attenzione come insostituibile veicolo di reale partecipazione liturgica. Il testo citato sopra continua: “Si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della «partecipazione attiva»: ma questa «partecipazione» non può forse significare anche il percepire con lo spirito, con i sensi? Non c'è proprio nulla di «attivo» nell'ascoltare, nell'intuire, nel commuoversi? Non c'è qui un rimpicciolire l'uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo per far cantare tutto il popolo, opporsi alla «musica d'uso»: significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali”. E ancora: “Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica «corrente» cade nell'inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche «città della gloria», luogo dove sono raccolte e portate all'orecchio di Dio le voci più profonde dell'umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”. 

“Actuosa participatio”.
Come ricordato in quest’ultimo testo, il concilio Vaticano II ha in più riprese richiesto una “actuosa participatio”, una “partecipazione attiva” dei fedeli al culto. Come si sa, questo è stato di solito interpretato nel senso di una condanna al preteso ruolo “passivo” a cui la liturgia tradizionale avrebbe relegato i fedeli. La frase sopra citata, “Non c'è proprio nulla di «attivo» nell'ascoltare, nell'intuire, nel commuoversi?”, rivela chiaramente il pensiero del Papa in merito. Più notevoli ancora, e in parte sorprendenti, sono le righe che leggiamo in “Introduzione allo spirito della liturgia” a p. 167: “In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte”. Quale sarà dunque in realtà questa “actio”, questa azione a cui tutta l’assemblea è chiamata, ora come sempre, a partecipare? Come accenna il Papa, si sa che di solito si è dato a questa domanda la risposta pratica di moltiplicare e distribuire a quante più persone possibile i servizi paraliturgici durante la celebrazione: vi è chi accende le candele e chi le spegne, chi bada all’acqua e chi al vino, chi legge il profeta e chi l’epistola, chi canta il salmo e chi il Gloria; la preghiera dei fedeli deve vedersi alternare una persona diversa per ogni invocazione, e la processione dell’offertorio deve a volte somigliare a un corteo. Non così per il Papa. Continua il testo citato: “Con il termine «actio», riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. […] Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, il «canone» - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del temine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio. […] Ma come possiamo noi avere parte a questa azione? […] noi dobbiamo pregare perché (il sacrificio del Logos) diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta”. Qui, all’interno della fornace ardente che è il centro stesso della fede cristiana, siamo realmente a miglia di distanza dalle interpretazioni sociologiche banalizzanti di cui si diceva. E infatti prosegue il Papa: “La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui è dato oggi di assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato dell’essenziale. Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero) diventano l’essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia, che viene anzi ridotto a parodia”. 

Il problema della lingua liturgica. 
Chi abbia poco frequentato i testi (invero voluminosi) del concilio Vaticano II, è di solito persuaso che esso abbia decretato la soppressione della lingua latina nella Messa a favore di quella volgare. Si resta perciò colpiti nel leggere, all’inizio del punto 36 della costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium, la perentoria affermazione: “L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini (cioè salvo che nei riti orientali, N.d.R.)”. La medesima costituzione delimita con precisione il possibile ambito della lingua volgare: “Dato però che, sia nella Messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti”. Il successivo punto 54, dopo aver ripreso tali possibili concessioni, definisce che “si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spettano ad essi”. È del tutto evidente che i Padri conciliari, nell’approvare questo testo, non avevano minimamente l’intenzione di provocare la totale o quasi scomparsa della lingua latina dalla liturgia, cosa che invece accadde ben presto. 
Non valendo per i chierici, che si supponeva ovviamente istruiti nella antica lingua liturgica, il problema di comprensibilità dei riti, la medesima costituzione conciliare afferma perentoriamente al punto 101: “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell'ufficio divino la lingua latina”. Come è noto, anche questa richiesta del concilio è stata quasi immediatamente e totalmente disattesa. 
Nella già menzionata intervista del 5 settembre 2003, l’allora cardinal Ratzinger chiarisce in merito il suo pensiero. “In generale”, dichiara, “io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: «io sono nella stessa Chiesa». Perciò in generale, le lingue parlate sono una soluzione. Ma una qualche presenza del latino potrebbe essere utile per avere una maggiore esperienza di universalità. 
In “Dio e il mondo”, p. 381, dice: “Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. Ma così ci si preclude anche la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti”. 
Oltre alla lingua latina, anche un’altra lingua liturgica comune è caduta, salvo qualche eccezione, sotto i colpi delle riforme postconciliari: la lingua del silenzio. Nella liturgia tradizionale, offertorio e canone eucaristico formavano grandi zone di silenzio sacro, in cui il sacerdote celebrava sottovoce di fronte all’altare, mentre il popolo accompagnava l’azione in silenzio orante. Come si è visto, sotto i colpi della interpretazione sociologica della “actuosa participatio” questo sacro silenzio si è ridotto a una breve pausa durante l’elevazione. 
Nel più volte citato e fondamentale “Introduzione allo spirito della liturgia”, a p. 210-211, l’allora cardinale scrive: “Con disgusto di molti liturgisti nel 1978 avevo sostenuto che non è affatto detto che tutto il canone deve essere pronunciato a voce alta. Dopo averci riflettuto, vorrei ripeterlo ancora una volta con forza, nella speranza che dopo vent’anni questa tesi possa trovare un po’ di comprensione. […] Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della preghiera eucaristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l’educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l’indirizzo fondamentale del canone; dall’altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l’intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale. Chi ha personalmente vissuto l’unità della Chiesa nel silenzio della preghiera eucaristica ha sperimentato che cos’è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito”. 

Versus orientem.
L’attuale Papa ha sempre sostenuto, con numerosi interventi orali e scritti, il carattere arbitrario, contrario a una tradizione risalente ai tempi apostolici e pastoralmente poco produttivo, dell’orientamento verso il popolo del celebrante. Fino all’antichità cristiana più remota risale invece il fatto liturgico del comune orientamento di assemblea e celebrante, orientamento che – secondo la stessa etimologia del termine – era rivolto ad oriente, verso la direzione del sole nascente, simbolo del Cristo e della sua futura, definitiva venuta. 
Nella citata intervista del 5 settembre 2003 l’allora cardinale Ratzinger afferma: “«Versus orientem», direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l’espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche. Io penso che oggi questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune - prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto. Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos’è la direzione nella liturgia”. 
Un intero capitolo di “Introduzione allo spirito della liturgia” è dedicato a questo problema. Vi si legge ad esempio: “Al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene” (p. 70-71). 
Si dà di solito una duplice motivazione dell’innovazione consistente nell’orientamento del sacerdote verso il popolo: in primo luogo, egli rappresenterebbe Cristo nell’ultima cena seduto a tavola dirimpetto agli Apostoli; in secondo luogo, le grandi basiliche romane, e in primis San Pietro, sono rivolte verso occidente: il celebrante, se voleva volgersi a oriente durante la preghiera, doveva perciò guardare verso l’ingresso, e quindi verso il popolo. Nel testo sopra citato, il cardinal Ratzinger rivolge queste osservazioni a tali tesi, citando a sua volta e facendo proprio il testo di L. Bouyer “Architettura e liturgia”: “È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della basilica romana e della disposizione dell’altare al suo interno. […] Cito in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche importanza o solo anche qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente … Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il presbitero a doversi volgere verso oriente: era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui”. 
Quanto all’Ultima Cena, si legge: “In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma. Da nessuna parte, dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola”. 
In ogni caso, l’autore si prende immediatamente cura di segnalare che secondo la dottrina cattolica l’immagine del “pasto” e del “banchetto” è totalmente insufficiente a determinare la natura della celebrazione eucaristica. Per l’allora cardinale “il Signore ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ripeter questa novità, non il banchetto come tale”. 
All’atto pratico, l’effetto più notevole della modifica apportata è di aver reso il sacerdote (e non più Dio) il centro della celebrazione. “Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione […]. L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante quello che fanno le persone […]. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era «celebrazione verso la parete», non significava che il sacerdote «volgeva le spalle al popolo»: egli non era poi considerato così importante” (p. 76 del testo cit.). Insomma “si è così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza” – in stridente contrasto con i fini dichiarati della riforma. 
Vale la pena di sottolineare che le righe citate poco sopra, in cui l’attuale Papa disapprova la riduzione della celebrazione eucaristica a memoria di una cena, vanno a toccare tutto l’argomento della svalutazione dell’aspetto sacrificale proprio dell’eucaristia, svalutazione portata avanti da molti ambienti nel postconcilio. Nel citato libro-intervista “Rapporto sulla fede” leggiamo: “La Messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l'ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. È la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo”. La presenza reale del Signore nelle specie consacrate genera poi del tutto legittimamente forme di culto eucaristico anche esterne al rito della Messa: “Si è dimenticato che l'adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione «individualistica» ma della prosecuzione o della preparazione del momento comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli «archeologi» della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella processione non c'era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire, di portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato”. 

Unità nella diversità 
Abbiamo seguito i dettagli di una riforma liturgica che, secondo papa Benedetto XVI, non ha rispettato al meglio le richieste del concilio Vaticano II. Nelle parole del Papa che abbiamo riportato sono emerse varie proposte concrete di revisione della riforma: reintroduzione della celebrazione verso oriente, valorizzazione del sacro silenzio nel canone eucaristico, maggior spazio alla lingua liturgica universale e al canto gregoriano – e si tratta sempre di punti che vanno nella direzione di una maggiore aderenza all’ultimo concilio, nello spirito da più parti richiamato di una “riforma della riforma”. Un altro punto caldeggiato nei suoi scritti precedenti l’elezione papale, cioè la liberalizzazione dell’antica liturgia, è oggi in via di compimento per impulso del suo motu proprio Summorum Pontificum. Quale dovrebbe essere dunque l’evoluzione della riforma liturgica secondo il Papa? I due filoni menzionati sono infatti ben distinti: Benedetto XVI mira a una restaurazione dell’antica liturgia, ovvero punta a rettificare la liturgia esistente? Il Papa stesso non ha mancato di accennare una risposta a questa fondamentale questione. Ne “Il sale della terra”, p. 200, in replica a una domanda sulla opportunità di restaurare il rito tradizionale, il futuro Benedetto XVI risponde: “Da sola, questa non è una soluzione. […] un semplice ritorno all'antico non è una soluzione. La nostra cultura si è così trasformata negli ultimi trent'anni che una liturgia celebrata esclusivamente in latino comporterebbe un'esperienza di estraniamento insuperabile per molte persone. Quello di cui abbiamo bisogno è una nuova educazione liturgica, soprattutto dei sacerdoti. […] I luoghi dove la liturgia viene celebrata senza fronzoli e in modo riverente esercitano notevole forza di attrazione, anche se non si capisce ogni suo singolo elemento. Abbiamo bisogno di luoghi come questi, capaci di offrire dei modelli”. Indietro non si torna. Piaccia o meno, l’atteggiamento che prevede la pura e semplice restaurazione del passato non è in sintonia con l’intenzione del Papa. I motivi allegati sono stringenti: un conto è non piegarsi a concessioni eccessive e gratuite all’attualità, un altro è il non accorgersi dei devastanti mutamenti culturali sopraggiunti dagli anni dell’ultimo concilio in poi. In un altro luogo Papa Benedetto XVI rammenta come, da professore in Germania, poteva ancora permettersi di citare passi in latino all’uditorio studentesco certo di essere compreso; adesso non più. 
Si tratta dunque di prendere in esame la liturgia riformata, espungerne gli abusi mano a mano introdotti, e ricondurla nell’alveo delle intenzioni espresse a chiare lettere dal concilio Vaticano II. Qual è in tale progetto il ruolo della restituzione all’uso della liturgia tradizionale? Lo stesso Pontefice lo spiega nella lettera di accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum scritta ai vescovi: “Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione «Ecclesia Dei» in contatto con i diversi enti dedicati all’«usus antiquior» studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale”. La evoluzione “organica” delle due forme del rito romano deve dunque, per il Papa, riprendere di nuovo. Ed esse possono influenzarsi a vicenda: la forma tradizionale dovrà compiere gli aggiornamenti minimali (ad esempio circa il calendario liturgico) richiesti dal suo essere rimasta cristallizzata per quarantacinque anni. E soprattutto la forma riformata potrà e dovrà riconoscere nella forma antica un polo di attrazione, una norma a cui ispirarsi per tornare gradualmente nell’alveo della medesima evoluzione organica da cui gli anni della sperimentazione estrema l’avevano fatta uscire. 
Le due forme potranno poi in futuro confluire in una – il Papa lascia aperta questa eventualità. Ma se anche non dovessero farlo, molte dichiarazioni passate e presenti dello stesso Pontefice lasciano capire che un certo pluralismo liturgico – pur nell’unità di fondo del rito – non sarebbe un male. Anzi, tale situazione di pluralismo si è sempre data all’interno del rito latino, senza minimamente danneggiare il culto: “Prima di Trento, la Chiesa ammetteva nel suo seno una diversità di riti e di liturgie. I Padri tridentini imposero a tutta la Chiesa la liturgia della città di Roma, salvaguardando, tra le liturgie occidentali, solo quelle che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio, del rito ambrosiano della diocesi di Milano. Se potesse servire a nutrire la religiosità di qualche credente, a rispettare la pietas di certi settori cattolici, sarei personalmente favorevole al ritorno alla situazione antica, cioè a un certo pluralismo liturgico” (Rapporto sulla fede, cap. 9). 
Nel già citato discorso tenuto a Roma, presso l'Hotel Ergife il 24 ottobre 1998, in occasione delle celebrazioni per i dieci anni del Motu proprio "Ecclesia Dei", il futuro Papa Benedetto pronuncia le seguenti parole, che citiamo per esteso a conclusione di queste pagine: “C'è una pericolosa tendenza a minimizzare il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del sacro con il pretesto - un pretesto asserito imperativo - che in questo modo ci si fa comprendere meglio. Infine si percepisce la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo arbitrariamente in rilievo il suo carattere comunitario e conferendo all'assemblea il potere di decidere riguardo alla celebrazione. 
Esiste anche, fortunatamente, una certa avversione per un razionalismo pieno di banalità e per un pragmatismo di certi liturgisti, siano essi dei teorici o dei pratici, e si constata un ritorno al mistero, all'adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come sottolineato dalla "Oxford Declaration on the Liturgy" del 1996. Occorre riconoscere, d'altra parte, che la celebrazione della vecchia liturgia aveva perduto molto, rifugiandosi nell'individualismo e nel privato, e che la comunione fra sacerdote e popolo era insufficiente. Ho grande rispetto per i nostri vecchi che durante la Messa bassa recitavano le orazioni contenute nei loro libri di preghiere, ma non si può certo considerare questo come l'ideale di una celebrazione liturgica. Forse, queste riduzioni delle forme celebrative sono la vera ragione per cui in molti paesi la scomparsa dei vecchi libri liturgici non ha avuto peso e la loro perdita non ha causato dolore. Non c'era mai stato, infatti, un contatto con la liturgia in sé. D'altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva suscitato un certo amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio - come, ad esempio, la partecipazione di tutti nella preghiera all'azione liturgica — proprio lì è stato maggiore il dolore, di fronte ad una riforma intrapresa troppo frettolosamente e spesso limitata all'esteriorità. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito la riforma non ha sollevato, in un primo tempo, dei problemi. Questi sono sorti solo sporadicamente là dove il mistero sacro ha ceduto il posto ad una creatività selvaggia. 
Per questo è molto importante osservare i principi essenziali della «Costituzione sulla sacra liturgia», che ho ricordati sopra, anche quando si celebra con il vecchio Messale. Nel momento in cui questa liturgia tocca profondamente i fedeli con la sua bellezza e ricchezza, allora essa sarà amata e non la si porrà più in contrapposizione inconciliabile con la nuova liturgia, purché i criteri siano fedelmente applicati secondo i desideri del Concilio. 
Continueranno ad esistere, certamente, accenti spirituali e teologici differenti: non saranno due modi opposti di essere cristiani ma, al contrario, patrimonio della stessa ed unica fede. 
Quando, pochi anni fa, qualcuno ha proposto «un nuovo movimento liturgico» per evitare che le due forme liturgiche si distanziassero troppo fra loro e per portare a frutto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno espresso il timore che questo fosse solo uno stratagemma o un trucco per ottenere finalmente la completa eliminazione della vecchia liturgia. Queste preoccupazioni e queste paure debbono finire! Se l'unità della fede e l'unicità del mistero appaiono chiaramente in entrambe le forme di celebrazione, ciò può essere solo motivo di rallegrarsi e ringraziare Dio. Quanto più noi tutti crediamo, viviamo e agiamo con tale motivazione, tanto più saremo capaci di persuadere i vescovi che la presenza dell'antica liturgia non turba né rompe l'unità delle loro diocesi, ma è invece un dono destinato a rafforzare il Corpo di Cristo, del quale siamo tutti i servitori. 
Così, miei cari amici, vorrei esortarvi a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere dalla liturgia la forza per rendere testimonianza al Signore in questo nostro tempo

AVE MARIA PURISSIMA!

Peggio della gramigna è il razionalismo


Le parabole di Gesù
(003)
Parabola del seminatore (179.5 - 179.6)

"Udite e forse capirete meglio come possano esservi diversi frutti ad una stessa opera.

Un seminatore andò a seminare. 

I suoi campi erano molti e di diversa razza. 
Ce ne erano alcuni che egli aveva ereditati dal padre, sui quali la sua sbadataggine aveva lasciato proliferare piante spinose. 
Altri erano un suo acquisto: li aveva comperati così come erano da un negligente, e tali li aveva lasciati. 
Altri ancora erano stati intersecati da strade, perchè l'uomo era una grande comodista e non voleva fare molta strada per andare da un luogo all'altro. 
Infine ce ne erano alcuni, i più prossimi alla casa, sui quali egli aveva vegliato per avere un aspetto piacevole davanti alla dimora. 
Questi erano ben mondi di sassaia, di spine, di gramigne e così via.

L'uomo dunque prese il suo sacchetto di grano da seme, il migliore dei grani, e iniziò la semina. Il seme cadde nel buon terreno soffice, arato, mondato, concimato, dei campi prossimi alla casa. Cadde nei campi intersecati da vie e viette che li spezzettavano tutti, portando inoltre bruttura di polvere arida sulla terra fertile. Altro seme cadde sui campi dove l'inettitudine dell'uomo aveva lasciato proliferare le piante spinose. Ora l'aratro le aveva travolte, pareva non ci fossero più, ma c'erano, perchè solo il fuoco, la radicale distruzione della male piante, impedisce il loro rinascere.

L'ultimo seme cadde sui campi comperati da poco e che egli aveva lasciati così come erano, senza dissodarli in profondità e mondarli da tutte le pietre sprofondate nel suolo a fare un pavimento duro sul quale non avevano presa le tenere radici.

E poi, sparso tutto il seme, se ne tornò a casa e disse: "Oh! bene! Ora non c'è che da attendere la raccolta". E si beava perché col passare dei mesi vedeva spuntare fitto il grano nei campi davanti alla casa, e crescere....oh! che soffice tappeto! e spighire.... oh! che mare! e imbiondire e cantare, battendo spiga a spiga, l'osanna del sole.
L'uomo diceva: "Come questi campi, tutti! Prepariamo la falce e i granai. Quanto pane! Quanto oro!" E si beava....

Segò il grano dei campi più vicini e poi passò a quelli ereditati dal padre, ma lasciati inselvatichire. E restò di stucco. Grano e grano era nato, perchè i campi erano buoni e la terra bonificata dal padre era grassa e fertile. Ma la stessa fertilità aveva agito anche sulle piante spinose, travolte ma non sterilite.
Esse erano rinate ed avevano fatto un vero soffitto di ramaglie irte di rovi, attraverso i quali il grano non aveva potuto emergere che con le rare spighe ed era morto soffocato quasi tutto.

L'uomo disse: "Sono stato negligente in questo posto. Ma altrove non erano rovi, e andrà meglio."

E passò ai campi di recente acquisto. Il suo stupore crebbe in pena. Sottili, e ormai dissecate, foglie di grano giacevano come fieno secco sparse per ogni dove. Fieno secco. "Ma come? Ma come?" gemeva l'uomo. "Eppure qui non sono spine! Eppure il grano era lo stesso! Lo si vede dalle foglie ben formate e numerose. Perché allora tutto è morto senza fare spiga?"

E con dolore si dette a scavare il suolo per vedere se trovava nidi di talpe o altri flagelli. Insetti e roditori no, non ce ne erano. Ma quanti, quanti sassi! Una pietraia! I campi erano letteralmente selciati di scaglie di pietra e la poca terra che li copriva era un inganno. Oh! se avesse approfondito l'aratro quando era tempo! Oh! se avesse scavato, prima di accettare quei campi e comperarli per buoni! Oh! se almeno, dopo lo sbaglio fatto di acquistare quando gli veniva proposto senza persuadersi della sua bontà, li avesse resi buoni a fatica di reni! Ma ormai era tardi ed era inutile rammarico.

L'uomo si alzò in piedi avvilito e andò ai campi intersecati di stradette per comodità.... E si strappò le vesti dal dolore. Qui non c'era nulla, assolutamente nulla.... La terra scura del campo era coperta da un leggero strato di polvere bianca.... L'uomo si accasciò al suolo gemendo: "Ma qui perché? Qui non spine e non sassi perché sono campi nostri. L'avo, il padre, io, li abbiamo sempre avuti e in lustri e lustri li abbiamo fatti fertili. Io vi ho aperto le strade, avrò levato del terreno al campo, ma ciò non può averlo fatto sterile così...."

Piangeva ancora quando ebbe la risposta al suo dolore da un fitto sciame d'uccelli che si accanivano dai sentieri sul campo e da questo ai sentieri per cercare, cercare, cercare semi, semi, semi.... Il campo, divenuto una rete di stradette sui bordi delle quali era caduto il grano, aveva attirato molti uccelli, e questi prima avevano mangiato il grano caduto sulla via e poi quello del campo, fino all'ultimo chicco.

Così il seme, uguale per tutti i campi, aveva dato dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta, dove il nulla. 

Chi ha orecchie da intendere intenda. Il seme è la Parola: uguale per tutti. I luoghi dove cade il seme: i vostri cuori. Ognuno applichi e comprenda. La pace sia con voi."

*

SEGUE
Spiegazione
Spiegazione della parabola di Gesù
(003)
Parabola del seminatore (179.5 - 179.6)

Dice la parabola che  una parte del seme cadde sulla via e fu beccata dagli uccelli. 

La seconda parte cadde sulla pietra e mise radiche, ma subito seccò per mancanza di umori. 

La terza cadde fra i rovi e morì soffocata. 

La quarta, caduta in buon terreno, fruttò in maniera diversa.


La Parola di Dio è seme di vita eterna. Ma la Parola è molto insidiata e da molte cose. Lascio queste molte cose e parlo unicamente di una cosa, direi micidiale quanto, forse più, del peccato stesso. E non si scandalizzi nessuno spirito pusillo se dico che è forse più micidiale del peccato. E’ verità.
Il peccatore la cui mente non è corrosa dall’acido del razionalismo, ha novanta probabilità di saper accogliere la Parola e ritrovare la Vita. Il razionalista ha solo dieci probabilità e anche meno, di conservarsi capace di salvezza attraverso la Parola.

Peggio della gramigna è il razionalismo. Quando si vedrà la sua opera, nel momento    in cui tutto della terra e degli uomini sarà cognito, si vedrà che questa eresia è stata la più perniciosa perché la più sottile e la più penetrante. E’ come un gas. Lo assorbite e vi uccide, ma non lo vedete, talora neppure ne sentite l’odore, oppure, esso odore essendo gradevole, viene da voi aspirato con piacere. Ugualmente è il razionalismo. (…)

Il razionalismo  penetra inavvertito anche là dove si crede non possa entrare. Entra per mille forami, come un serpe. Si veste di vesti lecite, anzi ammirevoli e agisce sotto di esse ma contro di esse. E’ un virus. Quando uno se ne accorge lo ha già diffuso nel sangue e difficilmente se ne libera.

La reazione del peccato è violenta sotto il raggio della mia Misericordia. Ma quella del razionalismo è nulla. Come uno specchio ustorio, esso rende la via impraticabile alla grazia e la respinge. Anzi se ne fa un ardore nocivo per finire di darsi la propria condanna.
Il razionalista fa servire le cose di Dio al suo fine. Non se stesso al fine di Dio. Piega, spiega, usa la Parola al lume, povero lume, della sua mente turbata e come un pazzo che non conosce più il valore delle cose e delle parole, dà ad esse significati quali solo possono uscire da uno che l’opera astutissima di Satana ha sterilito.

Vi sono razionalisti e razionalisti. 
Inizierò dai più grandi. 

I “superuomini”. I negatori di Dio. Vogliono spiegare la creazione, il miracolo, la divinità secondo i loro concetti pieni di orgoglio umano. (…)

La seconda categoria sono gli umanamente colti. Questi non negano Dio. Ma sulla semplicità divina, che si è fatta tale perché anche i più umili la possano capire alla luce dell’amore,  mettono tutta una boscaglia di erudizione umana. (…)
Manca ad essi l’amore che è nervo all’ala per volare verso Iddio a che è corda alla cetra per benedire Iddio. La Parola scende su loro  e mette radice. Ma poi muore perché essi la infrondano e soffocano sotto le foglie inutili delle loro cognizioni umane. (…)

Terza categoria, coloro che hanno selciato con le pietre dell’altrui razionalismo il proprio cuore per renderlo meno ignorante. Sono gli adoratori degli idoli umani. Non sanno adorare Dio con tutto loro stessi, ma sanno rimanere estatici davanti ad un povero uomo che si atteggia a superuomo. Chiudono con  la diffidenza la porta al Verbo divino, ma accettano le spiegazioni di un simile a loro che abbia fama di dotto.
Basterebbe che chiedessero umilmente alla Grazia di illuminarli ed istruirli sul valore di quelle note e la Grazia farebbe loro vedere come quelle spiegazioni, quelle dottrine, si reggono su puntelli corrosi alla base da tarli e muffe e come quelle voci sono stonate e dissidenti da quelle di Dio. (…)
Uno è il frutto che vi fa dei, o uomini. Quello che pende dalla mia Croce.
Uno è Colui che dice alla vostre menti: “Effeta”. Il Cristo.
Uno è ciò che feconda il mistico suolo del vostro cuore perché il seme vi nasca. Il mio Sangue.
Uno è il sole che scalda e fa crescere in voi la spiga di vita eterna. L’Amore.
Una è la scienza che come vomere apre e dissoda la vostra gleba e la rende atta a ricevere il seme. La Scienza mia.
Uno è il Maestro: Io, il Cristo. Venite a Me se volete esser istruiti nella Verità

Quarta categoria è quella degli imprudenti. Sono vie aperte dove tutto passa. Non si circondano di una santa difesa di fede e di fedeltà al loro Dio. Accolgono la Parola con molta gioia, si aprono a riceverla, ma si aprono anche a ricevere qualsiasi dottrina con lo specioso pretesto che bisogna essere condiscendenti.
Si. Tanto condiscendenti verso i fratelli. Non sprezzare nessuno. Ma severi per le cose di Dio. Pregare per i fratelli, istruire i fratelli, perdonare i fratelli, difenderli contro loro stessi con un vero amore soprannaturale. Ma non rendersi complici dei loro errori. Rimanere granito contro lo sgretolamento delle dottrine umane. Nulla passa senza lasciare una traccia. Ed è imprudenza grande porre una punta contro il cuore. Potrebbe levarvi la vita o segnarvi ferite che a fatica guariscono e sempre lasciano una cicatrice.

Beati quelli che sono unicamente terreno di Dio e tali restano con vigilanza assidua. 
Beati quelli che, morbidi come zolla testé smossa, non hanno pietre per i fratelli né sassi per la Parola. 
L’amore li fa anime adoranti la Parola e anime pietose verso gli sviati lungi dalla Parola.
Ma l’amore è la loro più bella difesa e nessuna opera di male può ledere il loro spirito in cui cresce come spiga opulenta la Parola della Vita. 
Tanto più vi cresce, dando frutto dove di  trenta, dove di cinquanta, dove di cento, quanto più in essi l’amore è vasto. 

A chi lo possiede in modo assoluto, la Parola diviene loro stessa parola, poiché essi più non sono, ma sono uni con Dio loro amore.10.11.43

AMDG et DVM