giovedì 4 maggio 2017

BENEDETTO XVI CI PARLA DI SANT'AGOSTINO FIGLIO DI S.MONICA



Sant'Agostino di Ippona

Cari amici,

dopo la Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ritorniamo oggi alla grande figura di sant'Agostino. 
Il mio caro Predecessore Giovanni Paolo II gli ha dedicato nel 1986, cioè nel sedicesimo centenario della sua conversione, un lungo e denso documento, la Lettera apostolica Augustinum Hipponensem
Il Papa stesso volle definire questo testo “un ringraziamento a Dio per il dono fatto alla Chiesa, e per essa all'umanità intera, con quella mirabile conversione” (AAS, 74, 1982, p. 802). 

Sul tema della conversione vorrei tornare in una prossima Udienza. È un tema fondamentale non solo per la sua vita personale, ma anche per la nostra. Nel Vangelo di domenica scorsa il Signore stesso ha riassunto la sua predicazione con la parola: “Convertitevi”. Seguendo il cammino di sant'Agostino, potremmo meditare su che cosa sia questa conversione: è una cosa definitiva, decisiva, ma la decisione fondamentale deve svilupparsi, deve realizzarsi in tutta la nostra vita.

La catechesi oggi è dedicata invece al tema fede e ragione, che è un tema determinante, o meglio, il tema determinante per la biografia di sant'Agostino

Da bambino aveva imparato da sua madre Monica la fede cattolica. Ma da adolescente aveva abbandonato questa fede perché non poteva più vederne la ragionevolezza e non voleva una religione che non fosse anche per lui espressione della ragione, cioè della verità. La sua sete di verità era radicale e lo ha condotto quindi ad allontanarsi dalla fede cattolica. Ma la sua radicalità era tale che egli non poteva accontentarsi di filosofie che non arrivassero alla verità stessa, che non arrivassero fino a Dio. E a un Dio che non fosse soltanto un'ultima ipotesi cosmologica, ma che fosse il vero Dio, il Dio che dà la vita e che entra nella nostra stessa vita. 

Così tutto l'itinerario intellettuale e spirituale di sant'Agostino costituisce un modello valido anche oggi nel rapporto tra fede e ragione, tema non solo per uomini credenti ma per ogni uomo che cerca la verità, tema centrale per l'equilibrio e il destino di ogni essere umano. 

Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso dopo la sua conversione, fede e ragione sono “le due forze che ci portano a conoscere” (Contra Academicos, III, 20, 43). 

A questo proposito rimangono giustamente celebri le due formule agostiniane (Sermones, 43, 9) che esprimono questa coerente sintesi tra fede e ragione: crede ut intelligas (“credi per comprendere”) — il credere apre la strada per varcare la porta della verità — ma anche, e inseparabilmente, intellige ut credas (“comprendi per credere”), scruta la verità per poter trovare Dio e credere.

Le due affermazioni di Agostino esprimono con efficace immediatezza e con altrettanta profondità la sintesi di questo problema, nella quale la Chiesa cattolica vede espresso il proprio cammino. 

Storicamente questa sintesi va formandosi, prima ancora della venuta di Cristo, nell'incontro tra fede ebraica e pensiero greco nel giudaismo ellenistico. Successivamente nella storia questa sintesi è stata ripresa e sviluppata da molti pensatori cristiani. L'armonia tra fede e ragione significa soprattutto che Dio non è lontano: non è lontano dalla nostra ragione e dalla nostra vita; è vicino ad ogni essere umano, vicino al nostro cuore e vicino alla nostra ragione, se realmente ci mettiamo in cammino.

Proprio questa vicinanza di Dio all’uomo fu avvertita con straordinaria intensità da Agostino. La presenza di Dio nell’uomo è profonda e nello stesso tempo misteriosa, ma può essere riconosciuta e scoperta nel proprio intimo: non andare fuori – afferma il convertito – ma “torna in te stesso; nell’uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso

Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione” (De vera religione, 39, 72). Proprio come egli stesso sottolinea, con un’affermazione famosissima, all’inizio delle Confessiones, autobiografia spirituale scritta a lode di Dio: “Ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore, finché non riposa in te” (I, 1, 1).

La lontananza di Dio equivale allora alla lontananza da se stessi: “Tu infatti – riconosce Agostino (Confessiones, III, 6, 11) rivolgendosi direttamente a Dio – eri all’interno di me più del mio intimo e più in alto della mia parte più alta”, interior intimo meo et superior summo meo; tanto che – aggiunge in un altro passo ricordando il tempo antecedente la conversione – “tu eri davanti a me; e io invece mi ero allontanato da me stesso, e non mi ritrovavo; e ancora meno ritrovavo te” (Confessiones, V, 2, 2). Proprio perché Agostino ha vissuto in prima persona questo itinerario intellettuale e spirituale, ha saputo renderlo nelle sue opere con tanta immediatezza, profondità e sapienza, riconoscendo in due altri celebri passi delle Confessiones (IV, 4, 9 e 14, 22) che l’uomo è “un grande enigma” (magna quaestio) e “un grande abisso” (grande profundum), enigma e abisso che solo Cristo illumina e salva

Questo è importante: un uomo che è lontano da Dio è anche lontano da sé, alienato da se stesso, e può ritrovare se stesso solo incontrandosi con Dio. Così arriva anche a sé, al suo vero io, alla sua vera identità.

L’essere umano – sottolinea poi Agostino nel De civitate Dei (XII, 27) – è sociale per natura ma antisociale per vizio, ed è salvato da Cristo, unico mediatore tra Dio e l’umanità e “via universale della libertà e della salvezza”, come ha ripetuto il mio predecessore Giovanni Paolo II (Augustinum Hipponensem, 21): al di fuori di questa via, che mai è mancata al genere umano – afferma ancora Agostino nella stessa opera – “nessuno è stato mai liberato, nessuno viene liberato, nessuno sarà liberato” (De civitate Dei, X, 32, 2). In quanto unico mediatore della salvezza, Cristo è capo della Chiesa e a essa è misticamente unito al punto che Agostino può affermare: “Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi le sue membra, l’uomo totale è lui e noi” (In Iohannis evangelium tractatus, 21, 8).

Popolo di Dio e casa di Dio, la Chiesa nella visione agostiniana è dunque legata strettamente al concetto di Corpo di Cristo, fondata sulla rilettura cristologica dell’Antico Testamento e sulla vita sacramentale centrata sull’Eucaristia, nella quale il Signore ci dà il suo Corpo e ci trasforma in suo Corpo. 

È allora fondamentale che la Chiesa, popolo di Dio in senso cristologico e non in senso sociologico, sia davvero inserita in Cristo, il quale – afferma Agostino in una bellissima pagina – “prega per noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la sua” (Enarrationes in Psalmos, 85, 1).

Nella conclusione della lettera apostolica Augustinum Hipponensem Giovanni Paolo II ha voluto chiedere allo stesso santo che cosa abbia da dire agli uomini di oggi e risponde innanzi tutto con le parole che Agostino affidò a una lettera dettata poco dopo la sua conversione: “A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità” (Epistulae, 1, 1); quella verità che è Cristo stesso, Dio vero, al quale è rivolta una delle preghiere più belle e più famose delle Confessiones (X, 27, 38): “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ed ecco tu eri dentro e io fuori, e lì ti cercavo, e nelle bellezze che hai creato, deforme, mi gettavo. Eri con me, ma io non ero con te. Da te mi tenevano lontano quelle cose che, se non fossero in te, non esisterebbero. Hai chiamato e hai gridato e hai rotto la mia sordità, hai brillato, hai mostrato il tuo splendore e hai dissipato la mia cecità, hai sparso il tuo profumo e ho respirato e aspiro a te, ho gustato e ho fame e sete, mi hai toccato e mi sono infiammato nella tua pace”.

Ecco, Agostino ha incontrato Dio e durante tutta la sua vita ne ha fatto esperienza al punto che questa realtà – che è innanzi tutto incontro con una Persona, Gesù – ha cambiato la sua vita, come cambia quella di quanti, donne e uomini, in ogni tempo hanno la grazia di incontrarlo. Preghiamo che il Signore ci dia questa grazia e ci faccia trovare così la sua pace.

JHS
MARIA!

Sette omicidi

MORTE DI UN CARCERATO


Il seguente fatto avvenne diversi anni or sono in Sicilia, e precisamente nella Casa Penale di Nicosia. Lo raccontò a me personalmente il Maresciallo del carcere, testimonio oculare. Sono ancora vivi altri testimoni oculari.

In una cella c'era un detenuto che aveva commesso sette omicidi. L'anima dell'infelice era in disgrazia di Dio. In certe occasioni tanti carcerati si confessavano e si comunicavano; l'indurito omicida non voleva saperne di Sacramenti. Si avvicinò anche per lui la fine della vita. Una settimana prima di morire la cella del detenuto sembrò assalita dai demoni. L'omicida urlava di spavento continuamente: Che cose orribili vedo mai! Come sono brutti questi mostri! Aiuto! Aiuto! - Il Direttore del carcere ed il Maresciallo, credendo che il detenuto fosse in preda alla nevrastenia, lo sottoposero ad un'accurata visita medica. Il dottore assicurò che l'organismo era normale e che quanto avveniva non poteva essere effetto di nervi indeboliti.

Passarono alcuni giorni in tale stato. Intanto le carni dell'omicida apparivano strane, con delle chiazze nere. Dopo una settimana di sofferenze fisiche e morali, il detenuto moriva, rifiutando gli ultimi Sacramenti.

Il cadavere fu adagiato sulla branda dentro la cella. Per qualche ora nessuno rimase nella cella, essendosi ritirati i superiori del carcere per disporre l'occorrente per il trasporto del cadavere.

Dopo circa un'ora, rientrarono nella cella il Direttore, il Maresciallo ed alcuni custodi. Quale non fu la loro meraviglia a vedere là dentro due gattoni neri, grossi come due cani, avventati contro il cadavere dell'omicida. Con le zampe e con i denti cercavano di sventrare il morto. I presenti non sapevano spiegarsi come mai avessero potuto penetrare là dentro quelle due bestiacce, stranissime. 
Da dove sarebbero potuto entrare? Gridando e minacciando, i convenuti riuscirono a mettere in fuga i due gattoni, i quali scapparono per la porta della cella. Il corridoio attiguo era custodito dai vigili; presso i diversi cancelli c'erano le guardie. Il Direttore chiese subito: Avete visto due grossi gatti neri, che son passati proprio adesso di qua? - Nessuno ha visto niente! -

Le due bestiacce com'erano piombate improvvisamente nella cella dell'omicida, così improvvisamente erano sparite. Niente di difficile che siano stati due demoni.

(Brano tratto da “Gli angeli ribelli”, di Don Giuseppe Tomaselli (1902-1989))

JHS
MARIA!

MODELLO E PATRONA DELLE MADRI CRISTIANE

SANTA MONICA

Poche altre figure nella storia del cristianesimo riescono a impersonare il carisma femminile come santa Monica, la madre amorosa e tenace che diede alla luce sant'Agostino, vescovo e dottore della Chiesa, e che ebbe un ruolo determinante nella conversione di lui. 

La liturgia antica romana ne fa memoria il 4 maggio mentre la festività del figlio Agostino è il 28 agosto. Anche in questa donna vissuta in gran parte nell'ombra troviamo la mitezza e la dolcezza, unite a una straordinaria forza d'animo. E' una fede che non s'arrende, la sua, cresciuta, viene da pensare, sull'esempio delle grandi donne del Vangelo.


Figlia di famiglia agiata, Monica nacque nel 331 a Tagaste, nell'attuale Algeria, in quel mondo "globalizzato" che era il tardo impero romano. 
Diversamente dall'usanza comune, che non permetteva alle donne di studiare, ricevette una buona educazione e fin da giovane lesse e meditò la Bibbia. 

Una donna cristiana, colta e libera, dunque, col cuore orientato ai tesori spirituali. Ciò che sappiamo della sua biografia si ricava dagli scritti di Agostino: in particolare nelle Confessioni il grande vescovo ripercorre la sua tortuosa, travagliata storia personale e spesso ci parla della madre. 

Sappiamo dunque che Monica sposò Patrizio, uomo di carattere aspro e difficile, che tuttavia lei seppe accogliere con dolcezza e avvicinare anche alla fede: venne infatti battezzato nel 371, poco prima di morire. 
Così Monica, a 39 anni, si trovò sola alla guida della casa dovendo anche prendere in mano l'amministrazione dei beni. Sappiamo che ai suoi tre figli la donna trasmise l'educazione cristiana fin dalla più tenera età: lo stesso Agostino dice di aver bevuto il nome di Gesù insieme al latte materno e di essere stato iscritto, appena nato, tra i catecumeni.

Crescendo però, arrivò, com'è noto, l'allontanamento: il giovane prese altre strade, sedotto dalla retorica e dalle correnti filosofico-religiose più in voga in quegli anni, come il manicheismo, ma soprattutto iniziò una vita spregiudicata e sregolata, tra Cartagine e Roma. Non per questo Monica si arrese, ma continuò ad accompagnare il figlio con l'amore e la preghiera: nel 385 la troviamo a Milano, dove Agostino insegnava retorica. 

E fu proprio lì che avvenne il grande cambiamento: grazie alla predicazione di sant'Ambrogio, dopo tante traversie, Agostino abbracciò la fede cristiana, avviandosi su quella strada di santità che oggi ben conosciamo e che ha lasciato un segno indelebile nei secoli. Monica era presente al suo battesimo, nel 387.

Da allora i due non si separarono più. Deciso a intraprendere una vita monastica, Agostino decise di ritornare in Africa, fermandosi, come tappa intermedia, ad Ostia. 
E' in questo luogo, nella quiete serena di una casa, che tra madre e figlio si svolsero colloqui spirituali di straordinaria intensità, che Agostino scelse di trascrivere e che tutt'oggi rappresentano una guida per tanti cercatori di Dio. 

Dopo la sua morte nel 387, il suo corpo rimase per secoli nella chiesa di Sant'Aurea di Ostia, poi traslato a Roma nella chiesa di San Trifone, oggi di Sant'Agostino. «Mi hai generato due volte» le disse un giorno il figlio: alla vita e alla fede. La tenacia, la dolcezza e la sensibilità di Monica fanno di lei la patrona delle donne sposate e delle madri.


JHS
MARIA!

SIGNUM MAGNUM, 4

4. Il Cuore divino della Madre di Dio

l . Il Cuore spirituale di Gesù è il Cuore di Maria per la più intima unione di spirito e di volontà tra loro.
Se sta scritto dei primi Cristiani ch'essi «erano un cuor solo e un'anima sola» (At 4, 32), a più ragione quest'unione è verissima tra Gesù e Maria. Se S. Bernardo dice arditamente ch'egli non aveva che uno stesso cuore con Gesù: «Ego vere cum Jesu cor unum habeo» Maria, non può dire, a più forte ragione: «Il Cuore di mio Figlio è il mio cuore, ed Io non ho che uno stesso cuore con Lui»?
è questo che Gesù significò a S. Brigida: «Io, che sono Dio e Figlio di Dio da tutta l'eternità, mi son fatto uomo nella S. Vergine, il cui Cuore era come il mio cuore. Per questo posso dire che mia Madre ed io abbiamo operato la salute dell'uomo con uno stesso cuore, in certo modo, quasi «cum uno corde». Io, grazie alle sofferenze che ho sopportato nel mio Cuore e nel mio corpo. Lei con l'amore e i dolori del suo Cuore.

2. Il Cuore di Gesù, cioè lo Spirito Santo, è il Cuore di Maria. Poiché, se questo Divino Spirito è stato donato da Dio a tutti i cristiani, per essere loro Spirito e loro cuore, (Ez 36, 26) quanto più non sarà stato donato alla Madre di tutti i cristiani?
Si può dunque dire in verità che il Cuore della SS. Vergine è Gesù.
La Madonna disse a S. Brigida: «Siate pure certi, che Io ho amato mio Figlio così ardentemente e ch'Egli mi ha amato così teneramente che Lui ed Io non formavamo che un sol cuore: Quasi cor unum ambo fuimus». «Mio Figlio era veramente il mio cuore: ecco perché quando uscì dal mio seno, nascendo a questo mondo, mi parve che metà del mio cuore uscisse da me. E quando Egli soffriva, Io ne sentivo le pene come se il mio cuore fosse sottoposto agli stessi suoi tormenti.
«Quando mio Figlio fu percosso e torturato coi flagelli, il mio cuore si sentì torturare e flagellare con Lui.
«Quando mi guardò dalla Croce, Io pure lo guardai e dai miei occhi sgorgarono lagrime cocenti. Al vedermi così oppressa dal dolore, Egli risentì un'angoscia così violenta, che alla vista della mia desolazione gli parve quasi che il dolore delle sue piaghe si fosse attutito. Perciò oso dire che il suo dolore era il mio dolore, così come il suo cuore era il mio cuore. Adamo ed Eva, per un pomo rovinarono il mondo: perciò mio Figlio volle sua madre cooperatrice nel grande riscatto, dovuto ad uno stesso cuore: quasi cum uno corde!» (Revel., l. I cap., 35). . .
è evidente, dunque, che il Figlio di Dio è il cuore, la vita di sua Madre nella più perfetta maniera che si possa immaginare. 
Difatti, se questo adorabile Salvatore deve talmente vivere in tutti i suoi servi da rendersi manifesto nel loro stesso esteriore: «Vita Jesu manifestetur in carne nostra mortali» (2 Cor 4), chi potrà immaginare in quale modo e con quale abbondanza e perfezione Egli abbia comunicata la sua vita umanamente divina e divinamente umana alla Madre sua? Egli è vivente nell'anima di Lei, nel corpo di Lei; è tutto vivo in sua Madre, che è quanto dire che tutto ciò che vive in Gesù è vivente in Maria.

Il Cuor di Gesù vive nel cuore di Maria, l'anima di Gesù nella sua anima, lo spirito di Gesù nel suo spirito; la memoria, l'intelletto, la volontà di Gesù sono viventi nella memoria, nell'intelletto, nella volontà di Maria; i suoi sensi interiori ed esteriori vivono nei sensi di Lei; le sue passioni nelle passioni di Lei; le sue virtù, i suoi misteri, i suoi divini attributi, tutti vivono nel cuore di Lei e regneranno sovranamente in Lei; vi opereranno affetti meravigliosi e incomprensibili a noi mortali, e v'imprimeranno l'immagine vivente di Gesù stesso.


Ecco perché noi possiamo dire con tutta verità: Maria SS. ha un cuore tutto divino. Ed è questo il Cuore ammirabile che deve formare l'oggetto delle nostre lodi e della nostra venerazione specialissima.
AVE MARIA PURISSIMA!

La santa Messa spiegata

15. – La 15ma opera che il nostro Salvatore e Signore Gesù Cristo fece in questo mondo fu che dopo l’orazione nell’orto arrivò una gran moltitudine di gente con spade e bastoni, e il benigno Signore volle esser preso e legato. 
Così stretto con funi Lo condussero con grande obbrobrio  e gravi insulti davanti a Pilato. 
Dove finalmente gli fu annunziata la sentenza di condanna ad esser crocifisso, (sentenza) alla quale il benignissimo Signore non volle appellare, ma anzi abbracciando la stessa croce sulla quale sarebbe stato crocifisso, la caricò sulle spalle e la portò fino al luogo dove doveva essere appeso.
      E questo si ripresenta nella Messa quando il Sacerdote tiene l’ostia nelle mani per consacrarla e traccia il segno di croce sull’ostia. E questa croce fatta sull’ostia significa la sentenza di morte data da Pilato su Gesù Cristo.

16. – La 16ma opera di Gesù Cristo in questo mondo dopo la lettura della sentenza di morte fu l’esser condotto al monte Calvario e lì fu appeso in mezzo a due ladroni. 
E fu elevato in alto fino a tener sospeso tutto il suo corpo fissato con i chiodi delle sue due mani.
      
E questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote innalza l’Ostia tra la mano destra e la sinistra, che sono i due ladroni, che stavano uno a destra e l’altro alla sinistra. E l’Ostia nel mezzo significa Gesù che stava in  mezzo ad entrambi. E la bianchezza dell’Ostia indica come Gesù in croce impallidì e perse il colorito e il sangue. 

Poi il sacerdote elevando il calice ripresenta quando Gesù Cristo in croce offrì il suo sangue, dicendo: “Padre mio, benedici e accetta il mio sangue, che Ti offro per la remissione dei peccati di tutto il genere umano”. E perciò il sacerdote eleva il calice come dicendo:”Padre, Ti offriamo il prezzo della nostra redenzione”.

JHS
MARIA!