martedì 25 aprile 2017

La condizione per vincere,

è la preghiera continua del Rosario.
 Il Rosario è per voi.

"Il Rosario è un tesoro inesauribile di grazia del Dio unico nella Santa Trinità.
Ma per usufruire dei suoi benefici ci vuole la fede, che poi diventa gioia.
Il Rosario è vostro. Vi è stato dato per sempre, per ogni momento e per ogni necessità, e dipende da voi approfittarne e agire. Ma esige fedeltà e perseveranza.

È una preghiera che unisce in una grazia comune e in una forza vittoriosa tutti quelli che la stimano e l'amano mentre vivono sulla terra, e li unisce insieme a quelli che sono già nel trionfo del Cielo.
Tienilo come un sigillo sul tuo cuore. Con il Rosario è più facile bussare alla porta della Misericor­dia di Dio".

"Ogni vittoria sul male avvicina alla mèta: è la Mia stessa vittoria, che Io ho già ricevuto dal Figlio Mio. Ogni vittoria sul male avvicina il Mio Regno: la condizione per vincere, è la preghiera continua del Rosario.
AVE MARIA!

TESTIMONIANZA

La nona opera

Lavabo inter innocentes manus meas

9. – La nona opera, realizzata dal Signore e Salvatore Nostro Gesù Cristo, fu che dopo aver accudito e servito sua Madre, per quel che si legge in san Matteo e san Marco (cf. Mt. 13,55; Mc. 6, 3), il nostro Salvatore nella sua umiltà affiancò suo padre putativo Giuseppe nell’ufficio (professione) di carpentiere [nel manoscritto: fuster], dal momento che nella sua anzianità non poteva più maneggiare la sega, e pertanto l’aiutava a maneggiarla. 
Perciò riferendosi a questo passo evangelico il Maestro Nicolàs di Lyra dice che Gesù esercitò questa professione. A ragione i giudei, vedi in san Matteo (cf. Mt. 13, 55) e san Marco (cf. Mc. 6, 3), dicevano: Non è questi il figlio del carpentiere? Perché nostro Signore Gesù Cristo aiutava Giuseppe per poter vivere, e perciò credevano i giudei che fosse suo figlio. [Nel manoscritto a continuazione si legge: Qué estùpidos!].(!)
Dopo di ciò il benedetto Signore arrivò all’età di trent’anni e fu a battezzarsi per quanto Egli non ne avesse necessità. Ma lo fece per santificare le acque per nostra salvezza.
      Questo si ripresenta nella Messa quando il sacerdote lava le sue mani. 
Adesso vi domando: Perché il sacerdote si lava le mani? Forse non lavò la sua coscienza con la confessione sacramentale nonché le mani prima della Messa? Certo che sì, giacché non facendolo direbbe la Messa per la condanna della sua anima. Pertanto buona gente, il sacerdote lava le sue mani non perché sia bisognoso di pulizia, bensì per ripresentare il Salvatore e nostro Signore Gesù Cristo che ha la pienezza d’ogni santità e non necessitava di battesimo, però per umiltà e per nostra utilità Egli stesso volle battezzarsi e darci la virtù dell’acqua per lavarci.
A tal fine il sacerdote pur sacramentalmente confessato, benché sia santo e senza alcuna macchia di peccato, deve lavarsi le mani. Perciò il sacerdote dice: Lavo le mie mani nell’innocenza e mi muovo attorno al tuo altare, o Signore,  come dice il Salmo (Sal. 25, 6) che è supplica di un giusto nella persecuzione. 
   In sintesi voglio dire: Che io sia puro e senza alcuna macchia di peccato, per essere annoverato tra gli innocenti; ma tu, Signore, che sei pienezza di santità, per ripresentare quel salutare bagno del nostro battesimo volesti esser lavato, e per questo io mi laverò adesso.  
[nel manoscrittoQuaix que vulla dir: jatseia que yo sia pur, et net de màcula de peccat, per lo qual sia computat entre los innocents, emperò, Senyor, per representar aquell llavament del nostre baptisme, que jatseia que vós fósseu plenitudo de santedat, emperò volgués ésser llavat, perço yo·m llavaré ara].
AMDG et BVM

lunedì 24 aprile 2017

San Fedele, martire cappuccino, insegna che la verità va amata e difesa con coraggio, e che a Dio si deve restare fedeli. Fedeli, sino alla morte.

San Fedele da Sigmaringa 
(Sigmaringen 1578 - Seewes1622) 

I cappuccini, nel 1972, hanno ricordato il 350mo anniversario del martirio di un loro confratello, San Fedele da Sigmaringa. Con decreto del Vicariato di Roma, 6 febbraio 1973, in Via Monti di Pietralata, Roma, settore nord, venne costituita la parrocchia intitolata a lui, a S. Fedele martire. 
Chi è costui?
Una risposta, pur breve, tuttavia sicura ed esauriente, la troverai leggendo queste pagine. Alla fine della lettura, ti accorgerai di aver fatto conoscenza con un Santo « mai sentito ». Proverai ammirazione per un grande missionario e per un eroico martire. Spontaneamente, ti sentirai convinto a metterti in ginocchio per pregarlo e a metterti con impegno ad imitarlo. E' quanto ti augura, con cordialità e sincerità, il tuo parroco. Padre GEREMIA LUNARDI, dei cappuccini Roma, 24 aprile 1973, nella festa di S. Fedele martire. 

IN UNA POZZA DI SANGUE 

Ore 9 della mattina del 24 aprile 1622, quarta domenica dopo Pasqua. Sul pulpito della chiesa di Seewis (Svizzera), affollata di pochi fedeli e da molti calvinisti, è salito un cappuccino, per la predica. E' un frate di statura mediocre, dalla faccia piuttosto rotonda e ben colorita, con fronte spaziosa, occhi vivaci, barba corta e ricciuta di color biondo. Il suo nome di religioso: padre Fedele da Sigmaringa. Sulla sponda del pulpito era stato collocato un biglietto, su cui era scritto: Oggi predicherai e non più. Padre Fedele, in silenzio, lo legge. Resta pensoso, un istante. Senza la minima esitazione, inizia la sua predica, svolgendo un tema desunto dalla lettera di Paolo apostolo agli Efesini: Un solo Signore, un'unica fede, un solo battesimo (Ef 4,5). La voce non tradisce emozione: ha il tono franco di sempre, che scaturisce spontaneo dalla convinzione. Espone con chiarezza, con pronuncia spiccata e chiara, all'uditorio inquieto. «Basta! Smettila!» è il rabbioso invito di alcuni. «Fuoco! fuoco!», grida un soldato, entrando in chiesa. L'uditorio scatta in piedi, alcuni presi dal panico, altri da soddisfazione rabbiosa. Fischiano le palle, crepitano le munizioni che erano state apprestate precedentemente, in segreto, nel paese in cui covava la ribellione. Si dà ordine al padre Fedele di scendere dal pulpito. Nella chiesa e fuori, è un pandemonio. I soldati, a difesa della chiesa, cadono, uccisi. I pochi cattolici, terrorizzati, scappano qua e là, inseguiti, alcuni anche uccisi. Padre Fedele, dopo avere sostato in preghiera accanto all'altare, esce per la porta della sacrestia. Lo accompagna un capitano austriaco, Gioacchino Colonna. Assieme, percorrono un sentiero tortuoso, che li allontana dalla chiesa, verso Grusch, donde erano venuti. Quasi subito, si trovano accerchiati da venticinque uomini, armati di mazze ferrate, di forche, di spade. Sono calvinisti, appartenenti a una setta protestante, che da tempo erano in lotta con i cattolici della zona. A padre Fedele, preso a pugni, a calci, a percosse, propongono un dilemma: o apostatare dalla fede cattolica, o lasciarsi uccidere; o ripudiare la Chiesa di Roma, o sottostare alla morte. La risposta del frate è netta, immediata. Egli precisa di trovarsi in quel territorio non per farsi eretico, ma per estirpare l'eresia e far conoscere a tutti la vera ed unica religione, quella cattolica. Uno dei rivoltosi, un ceffo da galera, violento, sguaina la spada e colpisce. La testa di padre Fedele gronda sangue. Il frate cade in ginocchio, pregando Dio: chiede perdono per i suoi nemici, che non sanno quello che fanno; chiede a Gesù pietà per sé; implora dalla Madonna assistenza. Sul povero cappuccino cadono colpi di scure e lame di spade. Una picca gli trapassa il petto. Gli si fracassano le costole. Tutto il corpo è segnato da squarci e ferite. Gli si tagliuzzano le gambe. La testa, sul lato sinistro, è frantumata. Attorno, sul campo al ciglio della strada, la terra è rossa di sangue. I feroci calvinisti godono brutalmente ad insultare quel povero corpo. Sfogata tutta la loro rabbia, s'allontanano, lasciando a terra l'ucciso, il martire. Sono circa le 11 del mattino. Padre Fedele contava 44 anni. Dieci anni prima, quando indossò l'abito cappuccino, il maestro di noviziato padre Angelo Visconti da Milano, prendendo lo spunto dal nuovo nome impostogli «Fra Fedele», aveva iniziato il discorso con il versetto dell'Apocalisse: "Sii fedele sino alla morte, e ti darò la corona della vita" (Ap 2,10). Padre Fedele, in una pozza di sangue aveva mantenuto la consegna: fedele, sino alla morte. 

IN RIVA AL DANUBIO 

Sigmaringa, cittadina della Svevia, nella Germania sud-occidentale, è disposta su un colle, a 538 metri sul livello del mare. Capitale dell'antico principato Hohenzollern-Sigmaringen, dominata da un castello, vede scorrersi ai piedi il Danubio, dallo scorrere placido, quasi insonnolito. Il titolo più ambito della cittadina sveva è quello di essersi sempre mantenuta «una città cattolica» e di non aver mai tollerato entro le proprie mura un predicante di eresie. Non aveva ceduto neppure alla bufera della riforma protestante. Mentre la Germania accettava la predicazione di Lutero, trasmessa nei paesi vicini dai suoi seguaci Calvino e Zwinglio, Sigmaringa restava fedele al Papa di Roma. Quella dei Roy era tra le famiglie più distinte della città, oriunda dai Paesi Bassi. Dai Roy, nel 1578, probabilmente nei primi giorni d'ottobre, nacque S. Fedele, il martire di Seewis. Suo padre, Giovanni, questore, console e pretore di Sigmaringa, aveva sposato Genoveffa Rosemberger di Tubinga, che lo fece padre di numerosi figli. Ne ricordiamo due: Giorgio, che divenne sacerdote cappuccino, padre Apollinare (1584-1629); Marco, che seguì il fratello Giorgio, diventando lui pure sacerdote cappuccino, padre Fedele. Fu una nascita difficile, quella di Marco. Sua madre, trovatasi in estremo pericolo di vita, si dichiarò disposta a morire per lasciar sopravvivere la sua creatura. Provvidenza volle che fossero salvi madre e figlio. E fu davvero provvidenziale quella buona madre, che educò egregiamente tutti i suoi figli, sostenuta nella delicata opera educatrice dal marito. Marco, ormai cresciuto, frequentò le elementari, rivelando intelligenza e straordinaria memoria. Incoraggiato dai maestri e attratto dall'amore alla scienza, proseguì negli studi umanistici: pure in essi con grande successo. Sopravvenne il dolore a irrobustire la personalità del quasi ventenne Marco. Nel 1597, gli muore il papà, inaspettatamente. Poco dopo, la mamma passa a nuove nozze: «un matrimonio — scriverà le stesso S. Fedele nel suo testamento — che a me ed ai miei fratelli non fu eccessivamente gradito, e che non riuscimmo a spiegarci». Il peggio fu che, poco dopo, la mamma morì. Marco si recò all'università di Friburgo, nella Brisgovia, per lo studio della filosofia e delle lettere. Ne uscì, a 23 anni, 1601, laureato in filosofia, brillantemente addestrato a maneggiare la spada e il fioretto, dati anche i tempi malsicuri. Per altri tre anni s'impegnò allo studio del diritto civile e canonico, esercitandosi pure in dispute, meritandosi la benevolenza e la stima dei professori. Amante del bello, si sentì attratto alla musica. Vi si appassionò, tanto da riuscire a muovere abilmente le dita su ogni strumento musicale. Ciò gli era un hobby, che lo sollevava dai severi impegni di studio. L'impegno, tuttavia, più deciso era, per Marco, quello di essere un cristiano esemplare. In ciò l'aiutavano l'educazione avuta in famiglia e la sua buona volontà. E di questo s'accorgevano i suoi compagni di studio e quanti l'avvicinavano. Si poteva guardare al suo domani con la più grande fiducia. 

GUIDA TURISTICA 

Marco, ormai giovanotto, esperimentò uno di quegli intensi desideri che provano i popoli del nord Europa: mettersi in viaggio verso i paesi del sole, per godere di esso, ma, più ancora, per venire a contatto con le bellezze del paesaggio, con i monumenti di storia e d'arte di civiltà ormai passate, con mentalità, usi e costumi di altri popoli. Tanto più che uno dei suoi più affezionati colleghi di università, figlio del barone Giovanni Willitem von Storingen, aveva deciso, con altri suoi due compagni nobili tedeschi, di fare un viaggio per l'Europa, a motivo d'istruzione. Certo, un viaggio turistico-culturale del genere domandava tempo, mezzi e pure una buona dose di coraggio, conoscendo i mezzi di trasporto di quei tempi. Il fatto è che la comitiva, capitanata da Marco ventiseienne, guida soprattutto prudente ed educatrice, intraprese il viaggio, nel 1604. Marco, desideroso pure di apprendere bene le lingue italiana e francese, si assunse la responsabilità del giro d'Europa, anche per lasciare più tranquille le famiglie dei compagni. Il giro durò sei anni, concludendosi nel 1610. Furono visitate le principali città d'Italia, di Francia, di Spagna. In Italia e Francia, la precedenza fu data ai santuari cristiani, specialmente mariani. A Roma, città dei papi, la fermata fu più lunga che in altre città. C'era tanto da vedere e da godere. Non solo la varietà del paesaggio, i ruderi superstiti della Roma pagana, ma soprattutto i ricordi e i monumenti cristiani. Sorprendente, per la comitiva, una circostanza eccezionale: nel breve spazio di 49 giorni, assistette alle cerimonie dell'incoronazione di due papi, Leone XI e Paolo V, rispettivamente 10 aprile 1605 e 29 maggio. La visita di Roma lasciò il più incancellabile ricordo: basiliche, catacombe, ipogei dei martiri, ricordi di santi. Coerentemente, la comitiva si comportava con spirito cristiano. Di questo Marco era esempio e promotore: recitava le sue preghiere, mattina e sera; quotidianamente partecipava alla messa, pellegrinava alle chiese stazionali; si confessava e comunicava spesso; nei giorni di quaresima si flagellava e cingeva il cilicio; donava con carità ai poveri; si dedicava ad opere di bene e di apostolato. Ne documentò il comportamento un compagno di viaggio, il barone von Storingen. Adempiuti i suoi doveri di pietà, Marco diventava l'animatore del gruppo, che accompagnava a visitare cose belle, a godere dell'arte, a conversare con uomini di scienza, a intavolare dotte discussioni con i più distinti professori di università. Così ne guadagnava la loro cultura si procacciavano nuove e preziose cogni zioni, coltivavano i loro studi e apprendevano con maggior perfezione la lingua. Anche a Parigi partecipavano a pubbliche dispute scientifiche, con interventi rivelatori di vasto sapere e provocatori di vera stima. Quando s'arrivò a concludere il lungo viaggio, a malincuore la comitiva si staccò da Marco: era stato una guida sicura, uno splendido compagno, dal quale aveva imparato il godimento del bello, l'amore alla cultura, il dialogo con altri popoli, e, soprattutto, il comportamento cristiano, dotato di serena disinvoltura e di esemplare compostezza. Davvero, erano stati sei anni di scuola, di quella scuola autentica che insegna a vivere. 

AVVOCATO 

Rientrato in patria, nella natale Sigmaringa, Marco Roy riprese gli studi. Il 7 maggio 1611, a Willingen, consegue la laurea in legge: dottore in «utroque iure», cioè nel diritto ecclesiastico e in quello civile. Il suo nome (dott. Marco Roy) è registrato nell'albo degli avvocati. Il suo nuovo mondo è, ora, quello forense, fra cause e liti, a servizio del diritto, a difesa della legge. A Esisheim, cittadina dell'Alta Alsazia, il dott. Roy dà il via alla sua carriera legale. Si fanno subito palesi la sua perizia, la nitidezza d'espressione, a forza delle argomentazioni, la logica stringente, e (dote strana in un avvocato) la sollecitudine nel portare a termine le cause. Bravura e onestà, prudenza e lealtà orientano un grandissimo numero di clienti allo studio dell'avvocato Roy. Uomo di riflessione e di lavoro, si guadagna stima, ammirazione, inviti. Ha delle preferenze: le cause dei più bisognosi, dei più indifesi, dei più meritevoli di assistenza. Comprende, presto, i pericoli della carriera, le nascoste insidie della vita forense. Il suo sforzo resta sempre quello: fedeltà al dovere, dirittura morale. Nonostante tutto e tutti. Un brutto giorno, un suo avversario gli buttò una sfida: sospendere la difesa di una causa, che per lui, avvocato Roy, era una causa giusta; o, almeno, tirarla per le lunghe, e così guadagnarci di più. Marco sentì vera paura del mondo in cui viveva. Decise di piantare tutto e di ritirarsi da quell’inferno. Chiuse il suo studio di avvocato, si ritirò nel silenzio a pregare, a domandare a Dio di veder chiaro il proprio domani. Decise di chiudersi in un convento. Tanto più che, dinanzi a sé, aveva l'esempio del fratello Giorgio, lui pure laureato a Friburgo, fattosi cappuccino nel 1604, con il nome di Fra Apollinare. Nel 1612, l'avvocato Roy, anni 34, chiede al superiore provinciale dei cappuccini della Svizzera di essere ricevuto come frate. Il superiore non ne resta convinto, prospettandosi l'impossibilità che lui, avvocato già celebre, ormai con i suoi anni, si prepari e si adatti alle esigenze di una vita in convento. Gli consiglia di rifletterci di rifletterci meglio, perché nell'Ordine dei cappuccini tale è la vita, nella penitenza e nel lavoro, che c'è poco da scherzare. L'avvocato Roy ci ripensa, ma la decisione resta sempre quella: consacrarsi più strettamente a Dio, tra i cappuccini. Nell'attesa, si staccò da tutte le convenienze sociali, chiese e ottenne l'abito clericale, deciso nel frattempo di farsi sacerdote. In pochi giorni, con speciale concessione della Santa Sede, si preparò a ricevere gli ordini sacri. Nel settembre 1612, il vescovo suffraganeo di Costanza, Mons. Giacomo Murgel, lo consacrò prete, ministro dell’altare. Il mondo, che il dott. Roy s’era lasciato alle spalle, non tardò a fare i suoi commenti: giudicò vera pazzia che un giovane del genere avesse chiuso in tal modo una brillante promettente carriera. Altri, i buoni, ne lodavano Dio ed esaltavano il coraggio del Roy. Fatto sacerdote, Marco Roy si ripresentò ai cappuccini e rinnovò domanda di farsi frate, costi quello che costi. Dinanzi a tanta decisione, ai cappuccini non restò che aprire la porta del convento. Il sacerdote Roy divenne cappuccino. 

PADRE FEDELE 

Il 30 settembre 1612, il neo sacerdote Roy viene ammesso nel convento cappuccino di Friburgo. I1 4 ottobre, festa di S. Francesco d'Assisi, il sacerdote Roy celebra la messa, a cui segue il rito della vestizione religiosa. Il dottor sacerdote Marco Roy diventa Fra Fedele da Sigmaringa. Padre Angelo Visconti da Milano, superiore del convento e maestro dei novizi, gli commenta l'affermazione scritturale: «Sii fedele sino alla morte, e ti darò la corona della vita». Il novizio Fra Fedele inizia l'anno di prova. Lui, trentaquattrenne, convive con novizi quindicenni. Lui, avvocato, aiuta negli umili lavori del convento i confratelli meno istruiti e si sforza d'essere più umile di loro. Non si trova affatto in disagio. Preferisce alla toga il povero saio, allo studio d'avvocato la squallida cella, ai clienti di ieri i nuovi fratelli, figli, come lui, di S. Francesco. La virtù, che più decisamente s'impegnò ad acquistare, fu quella dell'umiltà. Un suo compagno di noviziato, padre Candido da Zug, ricorda come Fra Fedele s'impegnasse specialmente negli uffici bassi e penosi: «Andava in cucina a lavare le stoviglie, nell'orto a raccogliere insetti o a fare altri lavori manuali». Con tale virtù s'acquistò l'amore di tutti. Non è detto però che tutto gli corresse liscio. Non fu esente da tentazioni. Ebbe pur lui il dubbio se la strada intrapresa fosse proprio quella voluta da Dio, se i suoi talenti fossero sfruttati o buttati al vuoto nel nuovo genere di vita. Si sentì fortemente tentato di piantare tutto e tornarsene al mondo. Un teste oculare, padre Giovanni da Kruwangen, afferma: «Resistette con animo virile alla tentazione, e la durò con zelo ed entusiasmo sino alla fine dell'anno di prova». Ci permette di guardare entro la sua anima uno scritto, da lui incominciato il 1° ottobre 1612 e continuato durante l'anno di noviziato. Steso in latino, fu edito a Roma, nel 1746, sotto il titolo «Exercitia spiritualia», e, in successive edizioni, sotto il titolo «Exercitia seraphicae devotionis». E' un «vade mecum», compilato per uso proprio. Padre Fedele si stabilisce un ordine e un metodo negli esercizi della sua vita interiore e della sua devozione. Nelle prima parte, si prospetta l'esercizio delle preghiera e delle varie virtù: verità, umiltà, obbedienza, pazienza, austerità, carità fraterna. Nella seconda parte, si propone una virtù per ogni giorno della settimana. Nella terza parte, stende preparazione e ringraziamento alla santa messa, domandandosi: «Chi viene? A chi viene? Perché viene?» e proponendosi, quale spunto per ogni giorno della settimana, una delle sette petizioni del Padre nostro. Il fascicolo si chiude con una supplica alla Madonna e con un patto tra Dio e l'anima. Le rapide pagine, che nelle divisioni e sottodivisioni svelano un giurisperito, rivelano, oltre alle sue caratteristiche e predilezioni spirituali, con quale decisa volontà Fra Fedele abbia iniziato e percorso il cammino della perfezione: con eroica fedeltà, dal primo giorno di noviziato sino alla morte. Prima di emettere i voti, Fra Fedele fece testamento, lasciando tutto per amore di Dio, distribuendo quanto aveva tra parenti e studenti poveri di Sigmaringa. A conclusione del testamento, scrisse: «Né solamente lascio le cose mie, ma di più lascio tutto me stesso al mio Signore Gesù Cristo nella mia perpetua e irrevocabile professione di sempre vivere in un'altissima povertà, in una costantissima obbedienza ed in una inviolabile castità di corpo e di cuore... Al mio amabilissimo Redentore con piena deliberazione, offro, dono e consacro per sempre, il corpo e l'anima mia come vivo olocausto in questo santo Ordine». Il 4 ottobre 1613, Fra Fedele emise i suoi voti di obbedienza, povertà, castità, «con volto raggiante ed insolita devozione» ricorda un teste oculare. Rinnovò il proposito di far onore e di essere coerente al proprio nome: di essere Fedele di nome e fedele di fatto. Quel «Sii fedele sino alla morte», dettogli dal maestro di noviziato, lo si impresse talmente nell'anima, che se lo ripeteva di continuo, se lo scriveva sui libri, lo prepose al suo «vade mecum», lo ricordava come programma d'ogni giorno, d'ogni ora. Fedele, sino alla fine! 

EVANGELIZZATORE 

Dopo l'anno di noviziato, padre Fedele riprese in mano i libri e si sedette sui banchi di scuola, per lo studio della teologia. Prima a Frauenfeld, poi a Costanza: 1614-1618. Voleva immagazzinare più luce possibile, per poi distribuirla in abbondanza alle anime, verso le quali lo spingevano la sua identità e responsabilità sacerdotali. Terminata la scuola, si donò al mondo: non più come avvocato per cause umane, ma come ministro di grazia per la causa di Dio. Erano tempi difficili per la fede cattolica, nella Svizzera e nel territorio austriaco di confine. Calvino, con le sue eresie, era penetrato dovunque. Allettati al libertinaggio, non pochi cattolici avevano apostatato dalla fede e dell'eresia accettata se ne facevano propagandisti. Predicanti si muovevano per ogni dove, diffondendo le malsane dottrine e favorendo così libertinaggio, vizi e malcostume, in alto e in basso. Padre Fedele si sentì chiamato ad arginare questa alluvione calvinista, a richiamare i traviati, a sostenere i cattolici ancora fedeli. Con rilevanti doti oratorie, padre Fedele predica ottenendo successi insperati. Voce sonora, parola fluida, sguardo e modo avvincenti: sono doti assicuratrici di successo. Conosce, inoltre, la lingua italiana e francese. Ha un sistema tutto suo per riuscire nella predica: prima e dopo, trascorre un'ora prostrato dinanzi al Santissimo Sacramento. Essendo i calvinisti sempre in movimento, pure lui non resta fermo: raggiunge città e paesi, controbatte errori, presenta la verità, richiama la legge del Signore, risponde con amabilità a soprusi e a invadenze. Il primo magistrato di Feldkirch attesta che nessun abitante della città ricorda di aver mai udito un predicatore così potente ed efficace. I protestanti, trovando buon giuoco nella corruzione, s'infiltrano anche nel Prattigau, una vallata della Rezia, vicina e parallela al Voralberg, trascinando nelle proprie idee quei rozzi montanari. Per gli stessi viottoli scoscesi passa pure il padre Fedele, predicatore della verità. I poveri lo salutano come il loro difensore. Gli onesti lo proclamano portatore della pace e padre della patria. I benpensanti lo sostengono. Qualche calvinista si arrende e fa l'abiura nelle sue mani. Le conversioni non mancano, grazie a Dio e grazie ai sudori del padre Fedele. Le autorità lasciano libertà. I calvinisti guardano torvi il cappuccino di Sigmaringa troppo audace: gli si oppongono, lo minacciano, lo biasimano pubblicamente, lo tacciano come imprudente. Ricchi e nobili lo definiscono un retrogrado, che attenta invano alla libertà finalmente proclamata, Padre Fedele continua la sua predicazione, senza paura. Affronta incredibili sacrifici, sfida più volte imboscate e tranelli. Percorre strade impervie, anche per raggiungere un solo uomo da aiutare nella fede. La fama di questo predicatore, dalla robusta eloquenza e dalla logica stringata, si diffonde per i vari Cantoni della Svizzera. Molte città e villaggi desiderano d'udire i suoi discorsi, brevi, ben preparati, densi di contenuto, arricchiti di citazioni scritturistiche, pronunciati con fervore. Predica ad Altdorf, e vi corregge abusi assai gravi. A Wiltkirch inveisce contro il lusso eccessivo delle donne. A Feldkirch infastidisce degli uditori per l'annuncio di graffianti verità. Dal 1618, padre Fedele è scelto quale superiore di conventi, in diverse città della Svizzera: Rheinfelden, Feldkirch, Friburgo, ancora Feldkirch. Nei suoi religiosi trasfonde il proprio zelo per le anime, l'amore ad austera penitenza, l'esempio di preghiera di giorno e di notte. Segue tutti con dolcezza. Coltiva particolarmente la povertà. E' sollecito al tribunale della penitenza, a rassicurare i pentiti sul perdono e amore di Dio. S'inframmette tra nemici, tra famiglie in discordia, e convince alla pace. Capisce la sofferenza degli oppressi, dei tribolati, dei condannati, e trasmette loro fiducia in Dio e coraggio nella prova. Contro troppo facili esecuzioni, rivendica ed esalta il valore prezioso della vita umana. Accorre fra le truppe austriache, decimate dalla pestilenza, la «febbre ungherese», e si fa soccorritore materiale e spirituale, ottenendo dall'arciduca d'Austria alimentari, medicine, vesti, e donando assoluzione ai pentiti e pace ai moribondi. Competente, sostiene le cause dei poveri, rimprovera ingiustizie, sventa oppressioni. E', in poche parole, un apostolo: senza stanchezza, tutto amore per i buoni e per i cattivi. 

PREFETTO DELLA MISSIONE DEI GRIGIONI 

Quello dei Grigioni è uno dei molti stati o Cantoni, di cui era composta la Svizzera. Era la regione più orientale, confinante con il Tirolo, la Lombardia, il Ticino, Uri, Glarona e S. Gallo. Anticamente era chiamata Rezia. Il paese era aspro e montuoso, il più impervio di tutti gli altri, solcato da valli. Ci viveva una popolazione rude, bellicosa, ostinata, che parlava il romancio. Ignoranza e corruzione avevano lasciato via libera alla riforma protestante, predicata da Zwinglio e Calvino, che infierì contro i cattolici, il clero, le chiese, i conventi. Il Canton Grigioni era, allora, scisso in due partiti. Ogni partito era sostenuto da una potenza straniera: l'Austria cattolica, che resisteva al protestantesimo; la Francia che, per ragioni politiche, appoggiava i protestanti. Le due fazioni erano capeggiate da due ragguardevoli famiglie: quella cattolica, dalla famiglia di Rodolfo Planta; quella eretica, dal casato di Ercole de Salis. Le lotte vicendevoli non avevano sosta. La maggioranza dei cittadini si schierò, per maggior sicurezza, dalla parte dei più potenti, i protestanti. I pochi rimasti fedeli alla Chiesa ebbero la peggio, bersagliati da una vera e propria persecuzione, che riuscì perfino a bandire il vescovo di Coira, al quale tutto il Cantone era soggetto. Si arrivò persino a scontri armati, a guerre intestine, che si placarono, per un po', con il Trattato di Milano del 15 gennaio 1622. I Grigioniesi rinunziarono alla Valtellina, in favore della Spagna; fu data libertà al culto cattolico, in tutta la regione della Rezia; vennero abrogate le leggi anticattoliche; gli apostati stranieri, rifugiatisi nella Rezia, che erano i più rabbiosi contro i cattolici, erano messi al bando. Ma questi non disarmarono. Anzi, con astuzia, attesero tempi propizi alla loro vendetta. Per ricristianizzare un campo così difficile, si pensò ai cappuccini. Il vescovo di Coira ricorse al Papa e il Papa Paolo V, accettò l'idea di una missione di cappuccini. La provincia cappuccina di Milano-Brescia inviò un drappello di missionari alla guida di padre Ignazio da Casnigo, che arrivò nei Grigioni nel gennaio 1621. 

Tra i cappuccini, inviati a sostenere la missione della Rezia, fu scelto anche padre Fedele, predicatore infaticabile e conoscitore di molte lingue. A lui e ad altri suoi due compagni di evangelizzazione fu affidato, come campo di lavoro, la Prattigau (Prettigovia), o Valle dei Prati. Qui l'eresia aveva fatto più devastazioni, tra gente ostinatamente restia e fanatica, sostenitrice delle nuove idee luterane. Il clima era estremamente rigido e Padre Fedele vi arrivò proprio d'inverno, 1622. L'arrivo dei cappuccini impegnò i calvinisti a rabbiosa difesa. Ad un amico di infanzia padre Fedele confidò che nei Grigioni avrebbe trovato sicuramente la morte. Ad altri dichiarò di sentirsi pronto alla morte. Pronto senz'altro ad impegnare zelo, parola, scritti, vita, tutto, per salvare quanto era possibile salvare, tra quella gente refrattaria alla verità cattolica. In quell'anno, Gregorio XV istituì la Congregazione di Propaganda Fide, tanto sostenuta, anzi secondo alcuni studiosi ideata, dal cappuccino padre Girolamo da Narrai. Tale Congregazione si proponeva un duplice compito: evangelizzare tutti i popoli e arginare i progressi dell'eresia. Dalla Congregazione fu stabilita, quale prima missione, quella della Rezia. Venuti a conoscenza del mirabile apostolato che già vi svolgeva padre Fedele, il nunzio apostolico Alessandro Scappi e i superiori della provincia cappuccina svizzera decisero che padre Fedele venisse nominato Prefetto della missione dei Grigioni e gli inviarono un documento di nomina, datato 21 aprile 1622. Tale documento e le facoltà, concessegli dal nunzio apostolico, non pervennero tra le mani del destinatario, già in piena azione nella Prattigau e alla vigilia del martirio. La valle della Prattigau, tutta rocce, dirupi, precipizi, era in fermento. I protestanti, i predicanti eretici, avevano accumulate spade e mazze, tenendole nascoste nelle cascine, sotto la paglia e il fieno: attendevano il momento opportuno per togliere di mezzo quell'apostolo troppo convincente. Intanto si sforzavano di screditarlo presso gran parte del popolo, che sinceramente lo ammirava e amava. Due motivi principalmente avevano esasperato l'odio degli eretici contro di lui: la conversione del conte Rodolfo de Salis e la promulgazione di un editto favorevole ai cattolici, da parte del governatore Baldirone, convinto da padre Fedele. 
Il giorno di Sabato, 23 aprile 1622, padre Fedele celebra la Messa a Grusch. Subito dopo, alcuni eretici di Seewis lo invitano, all'indomani, a predicare nella loro chiesa. Ma Padre Fedele si accorge del tranello. Domenica, 24 aprile, celebrata la messa, con predica, a Grusch, padre Fedele, conscio del serio rischio, parte verso Seewis. E' accompagnato dal capitano Gioacchino Colonna e da alcuni ufficiali e soldati. Verso le ore 9, raggiunge Seewis. Entra nella chiesa per proclamare la verità, insegnata da Cristo e affidata alla sua Chiesa. Sono queste sue parole che fanno scoppiare il tumulto, già precedentemente organizzato, che si conclude, fuori della chiesa, con il suo martirio. Era il 24 aprile 1622, vigilia della festa di S. Marco Evangelista, del quale il cappuccino portava il nome e della cui missione evangelizzatrice era stato continuatore. Deciso di essere fedele, padre Fedele lo fu sino alla morte. Cadendo, ucciso, testimoniò con il proprio sangue l'amore a Dio, al suo Vangelo, alla sua Chiesa. 

IL MARTIRE SANTO 

Il corpo straziato di padre Fedele restò sul prato del martirio per un giorno e una notte. Poi il sacrista di Seewis, Giovanni Johanni, lo seppellì in una fossa, vicino alla chiesa. La sommossa s'allargò sull'intera Rezia. Cattolici e protestanti si scontrarono, armati. Un giorno, il martire padre Fedele apparve nel cielo con una spada sguainata contro gli eretici: tale visione incoraggiò i cattolici, che ebbero la meglio sui protestanti. Ritornata la calma, i cappuccini di Feldkirch si portarono in convento la testa e la mano sinistra del martire. In una seconda esumazione, furono raccolti i resti del frate ucciso e si conservano, sino ad oggi, nella cattedrale di Coira. Ad una voce, cattolici ed eretici, a Coira, a Costanza, in Germania, in Baviera, in Italia, acclamarono santo il martire di Seewis, che, invocato, elargiva ovunque guarigioni miracolose. Nel 1626, furono avviati processi per esaminarne le virtù. Fra i testimoni, fu interrogato padre Apollinare Roy, il fratello del martire. Risultarono virtù vissute in grado eroico. Perciò la Chiesa esaudì l'attesa di tanti fedeli e il desiderio della Congregazione di Propaganda Fide, che padre Fedele venisse dichiarato martire santo. Il 12 marzo 1729, padre Fedele fu dichiarato Beato. Se ne stabilì la festa al 24 aprile, il suo «dies natalis», il giorno del martirio. Il 29 giugno 1746, Benedetto XIV lo dichiarò Santo. Più città conservano reliquie del santo martire Fedele. Sigmaringa conserva ancora la sua casa natale, la culla su cui visse i primi mesi di vita, il pulpito di Seewis sul quale predicò per l'ultima volta. Coira, nella cattedrale, custodisce la maggior parte delle sue ossa. I cappuccini di Feldkirch conservano, nella loro chiesa e nella cella del Santo, la testa del martire, la spada del martirio, il cilicio, paramenti liturgici, il mantello ancora foracchiato dal tridente da fieno, i sandali, il cingolo insanguinato. La memoria più cara resta (specialmente tra i cappuccini) quella delle sue virtù, della sua santità, della sua eroica fedeltà a Dio e alla Chiesa. 

Il Santo da Sigmaringa è considerato dalla Congregazione di Propaganda Fide il suo protomartire e dall'Ordine cappuccino modello e patrono dei suoi missionari, evangelizzatori in ogni parte del mondo. Il Papa Pio XI, il 7 marzo 1922, scriveva al superiore generale dei cappuccini: «E’ degno certo di somma lode S. Fedele da Sigmaringa non solo perché con la sua morte preziosa sostenuta per Cristo aprì la lunga serie dei Martiri, che hanno illustrato le Missioni cattoliche dopo l'istituzione di Propaganda; ma ancora perché con l'innocenza della vita si rese esemplare perfetto ai nostri Missionari del come si debbano degnamente preparare al ministero apostolico». 
L'iconografia presenta S. Fedele in due atteggiamenti: in atto di calpestare l'eresia, simboleggiata in una donna discinta (ad esempio, il dipinto di Giovan Battista Tiepolo, nella pinacoteca di Parma); in atto di stringere tra le braccia la generica palma del martire, una spada e una mazza, strumenti del suo martirio. San Fedele, martire cappuccino, insegna che la verità va amata e difesa con coraggio, e che a Dio si deve restare fedeli. Fedeli, sino alla morte.


AVE MARIA PURISSIMA!

Benedetto XVI: "Per gli uomini di oggi Dio ha perso il primato"


 "Quaerere Deum " cercare DIO
«Se il Signore non è più importante, si spostano i criteri per stabilire quel che è importante. L’uomo, così, sottomette se stesso a costrizioni che lo rendono schiavo»
Nihil Operi Dei praeponatur — Nulla si anteponga al Culto divino. Con queste parole San Benedetto, nella sua Regola (43,3), ha stabilito la priorità assoluta del Culto divino rispetto a ogni altro compito della vita monastica. Questo, anche nella vita monastica, non risultava immediatamente scontato perché per i monaci era compito essenziale anche il lavoro nell’agricoltura e nella scienza.
Sia nell’agricoltura come anche nell’artigianato e nel lavoro di formazione potevano certo esserci delle urgenze temporali che potevano apparire più importanti della liturgia. Di fronte a tutto questo Benedetto, con la priorità assegnata alla liturgia, mette inequivocabilmente in rilievo la priorità di Dio stesso nella nostra vita: «All’ora dell’Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine» (43,1).

Nella coscienza degli uomini di oggi le cose di Dio e con ciò la liturgia non appaiono affatto urgenti. C’è urgenza per ogni cosa possibile. La cosa di Dio non sembra mai essere urgente. Ora, si potrebbe affermare che la vita monastica è in ogni caso qualcosa di diverso dalla vita degli uomini nel mondo, e questo è senz’altro giusto. E tuttavia la priorità di Dio che abbiamo dimenticato vale per tutti. Se Dio non è più importante, si spostano i criteri per stabilire quel che è importante. L’uomo, nell’accantonare Dio, sottomette se stesso a delle costrizioni che lo rendono schiavo di forze materiali e che così sono opposte alla sua dignità.
Negli anni successivi al Concilio Vaticano II sono nuovamente divenuto consapevole della priorità di Dio e della liturgia divina. Il malinteso della riforma liturgica che si è ampiamente diffuso nella Chiesa cattolica portò al mettere sempre più in primo piano l’aspetto dell’istruzione e della propria attività e creatività. Il fare degli uomini fece quasi dimenticare la presenza di Dio. In una tale situazione divenne sempre più chiaro che l’esistenza della Chiesa vive della giusta celebrazione della liturgia e che la Chiesa è in pericolo quando il primato di Dio non appare più nella liturgia e così nella vita. La causa più profonda della crisi che ha sconvolto la Chiesa risiede nell’oscuramento della priorità di Dio nella liturgia. Tutto questo mi portò a dedicarmi al tema della liturgia più ampiamente che in passato perché sapevo che il vero rinnovamento della liturgia è una condizione fondamentale per il rinnovamento della Chiesa. Sulla base di questa convinzione sono nati gli studi che sono raccolti nel presente volume 11 della Opera omnia. Ma al fondo, pur con tutte le differenze, l’essenza della liturgia in Oriente e Occidente è unica e la medesima. E così spero che questo libro possa aiutare anche i cristiani di Russia a comprendere in modo nuovo e meglio il grande regalo che ci è donato nella Santa Liturgia.
Città del Vaticano, nella Festa di San Benedetto,
11 luglio 2015
(traduzione di Pierluca Azzaro, copyright Libreria editrice vaticana)
http://chiesaepostconcilio.blogspot.it/2017/04/benedetto-xvi-per-gli-uomini-di-oggi.html#more

AMDG et BVM