SANTA MESSA PER I SACERDOTI AMERICANI
OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II
Filadelfia - Giovedì, 4 ottobre 1979
Cari confratelli sacerdoti.
1. Celebrando questa messa, che riunisce insieme i presidenti degli organismi presbiterali, o Consigli, di tutte le diocesi degli Stati Uniti, il tema vitale che s’impone alla nostra riflessione è uno solo: il sacerdozio e la sua importanza centrale nella missione della Chiesa. Nell’enciclica Redemptor Hominis ho descritto tale compito con le seguenti parole: “Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare della nostra, è di dirigere lo sguardo dell’uomo, di indirizzare la coscienza e l’esperienza di tutta l’umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 10).
I Consigli presbiterali costituiscono una struttura nuova nella Chiesa, voluti dal Concilio Vaticano II e dalla recente legislazione della Chiesa. Questa nuova struttura dà una concreta espressione all’unità del Vescovo e dei presbiteri nel servizio pastorale del gregge di Cristo, e assiste il Vescovo nel suo compito specifico di governare la diocesi, fornendogli il consiglio di collaboratori rappresentativi scelti tra il presbiterio. La concelebrazione dell’odierna Eucaristia vuol essere un segno di conferma del bene compiuto dai vostri Consigli presbiterali durante gli anni passati, ed al tempo stesso un incoraggiamento a continuare con entusiasmo e decisione a perseguire quest’importante meta qual è quella di “promuovere la conformità della vita e dell’azione del popolo di Dio con il Vangelo” (Ecclesiae sanctae, 16 § 1). Ma al disopra di tutto il desiderio che questa messa costituisca una speciale occasione per parlare, attraverso di voi, a tutti i miei fratelli sacerdoti di questa nazione intorno al nostro sacerdozio. Con grande amore ripeto le parole che vi ho scritto il Giovedì Santo: “Per voi io sono Vescovo, con voi sono sacerdote”.
La nostra vocazione sacerdotale ci è stata data da Gesù stesso. È una chiamata personale e individuale: siamo stati chiamati per nome, come Geremia. È una chiamata al servizio; siamo mandati a predicare la Buona Novella di Dio, a dedicare “la cura del pastore al gregge di Dio”. È chiamata a una comunione di intenti e di azione: costituire un unico sacerdozio con Gesù e fra di noi, proprio come Gesù e il Padre sono una cosa sola: un’unità così ben simboleggiata in questa messa concelebrata.
Il sacerdozio non è soltanto un compito assegnatoci: è una vocazione, una chiamata a cui prestare continuamente ascolto. Ascoltare questa chiamata e rispondere generosamente a quanto essa comporta è compito di ogni sacerdote, ma è anche responsabilità del Consiglio Presbiterale. Questa responsabilità significa approfondire e comprendere il sacerdozio così come Cristo lo ha istituito, così come egli ha voluto che fosse e che rimanesse, così come la Chiesa fedelmente lo spiega e lo trasmette. Fedeltà alla chiamata al sacerdozio significa costruire questo sacerdozio insieme col popolo di Dio mediante una vita di servizio in accordo con le priorità apostoliche: concentrare tutto “nella preghiera e nel ministero della Parola” (At 6,4).
Nel Vangelo di San Marco la vocazione sacerdotale dei Dodici Apostoli è come un bocciolo, la cui fioritura dispiega tutta una teologia del sacerdozio. Nel pieno del ministero di Gesù, noi leggiamo che egli “salì sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui ed anche per mandarli a predicare“; poi il passo evangelico elenca i nomi dei Dodici Apostoli (Mc 3,13-14). Noi qui scorgiamo tre aspetti significativi della chiamata di Gesù: per prima cosa egli chiamò i suoi primi sacerdoti individualmente e per nome; li chiamò al servizio della sua Parola, perché predicassero il Vangelo; e li fece suoi compagni, associandoli all’unità di vita e di azione che egli condivide col Padre nel più profondo della vita trinitaria.
2. Esploriamo questa triplice dimensione del nostro sacerdozio riflettendo sulle odierne letture bibliche. Infatti il Vangelo colloca nella tradizione della vocazione profetica la chiamata dei Dodici Apostoli da parte di Gesù. Quando un sacerdote riflette alla vocazione di Geremia all’ufficio profetico, rimane al tempo stesso rassicurato e scosso: “Non temere... perché io sono con te per proteggerti”, dice il Signore a tutti quelli che chiama, “ecco, metto le mie parole sulla tua bocca”. Chi non resterebbe confortato nell’udire queste rassicuranti parole divine? Quando noi consideriamo perché sono necessarie queste parole rassicuratrici, non vediamo forse in noi stessi quella stessa riluttanza che ritroviamo nella risposta di Geremia? Come lui, talvolta, il nostro concetto di questo ministero è troppo legato alla terra: manchiamo di fiducia in Colui che ci chiama. Possiamo anche rimanere attaccati a una nostra visione del ministero, pensando che esso dipenda troppo dai nostri talenti e capacità, ed a volte dimenticando che è Dio che ci chiama, come chiamò Geremia dal grembo materno. La cosa principale non è né il nostro lavoro né la nostra capacità; siamo chiamati a pronunciare le parole di Dio, non le nostre; ad amministrare i sacramenti che egli ha affidato alla Chiesa; chiamare il popolo ad un amore che egli per primo ha reso possibile.
Perciò arrendersi alla chiamata di Dio dev’essere compiuto con estrema fiducia e senza riserve. La nostra resa alla volontà di Dio dev’essere totale: il sì detto una volta per sempre modellandosi sul sì detto da Gesù stesso. Come ci dice San Paolo: “Come Dio mantiene la sua parola, io dichiaro che la mia parola verso di voi non è ora sì e ora no, ma in lui c’è stato il sì” (2Cor 1,18-19).
Questa chiamata di Dio è una grazia: è un dono, un tesoro “che noi abbiamo in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (2Cor 4,7). Ma questo dono non è dato al sacerdote prima di tutto per lui stesso, è anzi un dono di Dio all’intera Chiesa e per la sua missione nel mondo. Il sacerdozio è un segno sacramentale stabile il quale dimostra che l’amore del Buon Pastore per il suo gregge non verrà mai meno. Nella mia lettera ai sacerdoti, lo scorso Giovedì Santo, ho sviluppato quest’aspetto del sacerdozio come dono di Dio: il nostro sacerdozio – dicevo – “costituisce un particolare “ministerium”, cioè è “servizio” nei riguardi della comunità dei credenti. Non trae però origine da questa comunità, come se fosse essa a “chiamare” o a “delegare”. Il sacerdozio sacramentale è, invero, dono per questa comunità e proviene da Cristo stesso, dalla pienezza del suo sacerdozio” (Giovanni Paolo II, Epistula ad universos Ecclesiae Sacerdotes adveniente Feria V in Cena Domini anno MCMLXXIX, 8 aprile 1979, 4).
In quest’offerta di doni al suo popolo è il divin donatore a prendere l’iniziativa; è lui che chiama “chi lui stesso ha stabilito”.
Di qui, quando riflettiamo all’intimità tra il Signore e il suo profeta, il suo sacerdote – un’intimità che sgorga come risultante dalla chiamata con la quale egli ha preso l’iniziativa – noi siamo in grado di comprendere meglio certe caratteristiche del sacerdozio e renderci conto della loro rispondenza con la missione della Chiesa d’oggi come con quella del passato:
a) Il sacerdozio è per sempre – “Tu es sacerdos in aeternum” – noi non riprendiamo il dono una volta offerto. Non è possibile che Dio, il quale ha dato impulso a dire sì, ora voglia udire no!
b) Né deve sorprendere il mondo che la chiamata di Dio mediante la Chiesa continui a proporci un ministero celibatario di amore e di servizio, sull’esempio di Nostro Signore Gesù Cristo. L’amore di Dio, infatti, ci ha toccati nelle profondità del nostro essere. E dopo secoli di esperienze, la Chiesa sa quanto profondamente convenga che i preti possano dare questa concreta risposta nelle loro vite per esprimere la totalità del sì che hanno detto al Signore quando questi li chiamò per nome, al proprio servizio.
c) Il fatto che una chiamata personale, individuale al sacerdozio sia data dal Signore agli “uomini da lui prescelti” è in accordo con la tradizione profetica. Ciò dovrebbe aiutarci a comprendere che la tradizionale decisione della Chiesa di chiamare al sacerdozio degli uomini, e non chiamare delle donne, non comporta una dichiarazione di diritti umani né esclusione delle donne dalla santità e dalla missione della Chiesa. Piuttosto questa decisione esprime il convincimento della Chiesa circa questa particolare dimensione del dono del sacerdozio, mediante il quale Dio ha scelto di pascere il suo gregge.
3. Cari fratelli: “Il gregge di Dio è in mezzo a voi; dedicate ad esso le cure del pastore”. Com’è strettamente legato all’essenza della nostra comprensione del sacerdozio il compito di pastore; nella storia della salvezza questa è un’immagine ricorrente della cura di Dio per il suo popolo. E solo nell’ufficio di Gesù, il Buon Pastore, può essere compreso il nostro pastorale ministero come sacerdoti. Ricordate come, nel chiamare i Dodici, Gesù li chiamò ad essere i suoi compagni precisamente “per mandarli a predicare la Buona Novella”. Il sacerdozio è missione e servizio; esso è mandato da Gesù per “prodigare al suo gregge una cura di pastore”. Questa caratteristica del sacerdote – per richiamare una bella espressione su Gesù come “uomo-per-gli-altri” – ci mostra il senso genuino del “prodigare una cura di pastore”. Esso sta a indicare la consapevolezza dell’umanità al mistero di Dio, alla profondità della redenzione che si realizza in Cristo Gesù. Il ministero sacerdotale è essenzialmente missionario: ciò significa essere mandati per gli altri, come Cristo fu mandato dal Padre suo, per la causa del Vangelo, ad evangelizzare. Secondo le parole di Paolo VI, “evangelizzare significa portare la Buona Novella a tutti gli strati dell’umanità... e rinnovarli” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 18). Alla base e al centro del suo dinamismo, l’evangelizzazione contiene una chiara enunciazione che la salvezza sta in Gesù Cristo, Figlio di Dio. Il suo nome, il suo insegnamento, la sua vita, le sue promesse, il suo regno e il suo mistero noi proclamiamo al mondo. E l’efficacia di questa nostra proclamazione e quindi il vero successo del nostro sacerdozio dipendono dalla nostra fedeltà al Magistero mediante il quale la Chiesa custodisce “il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2Tm 1,14).
Come modello di ogni ministero e apostolato nella Chiesa, il ministero sacerdotale non dev’essere mai concepito in termini di cosa acquisita; in quanto dono, esso è un dono che dev’essere proclamato e condiviso con gli altri. Non lo si vede chiaramente nell’insegnamento di Gesù, quando la madre di Giacomo e Giovanni domandò che i suoi due figli sedessero alla destra e alla sinistra nel suo regno? “I capi delle nazioni dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo fra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,25-28).
Proprio come Gesù fu perfettamente un uomo-per-gli-altri, dandosi completamente sulla croce, così il sacerdote è soprattutto servo e “uomo-per-gli-altri” quando agisce in persona Christi nell’Eucaristia, guidando la Chiesa in quella celebrazione in cui si rinnova il Sacrificio della Croce. Perciò nel quotidiano sacrificio eucaristico della Chiesa la Buona Novella, che gli Apostoli furono inviati ad annunziare, viene predicata nella sua pienezza; l’opera della nostra redenzione viene rinnovata.
Quanto perfettamente i Padri del Concilio Vaticano II afferrarono questa verità fondamentale nel loro decreto sulla vita e ministero sacerdotale: “Gli altri sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla Sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati... Per questo l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione” (Presbyterorum Ordinis, 5). Nella celebrazione dell’Eucaristia noi sacerdoti siamo proprio nel cuore del nostro ministero di servizio, nel “prodigare al gregge di Dio una cura di pastore”. Tutti i nostri sforzi pastorali sono incompleti fin quando il nostro popolo non sarà guidato alla piena ed attiva partecipazione al Sacrificio Eucaristico.
4. Ricordiamo come Gesù chiamò i Dodici come suoi compagni. La chiamata al servizio sacerdotale include l’invito a una particolare intimità con Cristo. L’esperienza vissuta dei sacerdoti in ogni generazione li ha portati a scoprire nelle loro vite e nel loro ministero l’assoluta centralità della loro unione personale con Gesù, dell’essere suoi compagni. Nessuno può, in effetti, portare agli altri la Buona Novella di Gesù se egli stesso per primo non si è fatto suo costante compagno attraverso la preghiera personale, se non ha appreso da Gesù il mistero che deve annunziare.
Questa unione con Gesù, modellata sulla sua unità col Padre, riveste un’ulteriore intrinseca dimensione, come mostra la sua preghiera durante l’Ultima Cena: “Perché siano una cosa sola, Padre, come noi” (Gv 17,11). Il suo sacerdozio è uno, e questa unità dev’essere attuale ed effettiva tra i compagni da lui scelti. Di qui l’unità tra i sacerdoti, vissuta in fraternità ed amicizia, diventa esigenza e parte integrante della vita d’un prete.
L’unità tra i sacerdoti non è un’unità o fraternità fine a se stessa. Essa è per amore del Vangelo, per simboleggiare, nell’attuazione del sacerdozio, l’essenziale direzione alla quale il Vangelo chiama tutti quanti: l’unione d’amore con lui e vicendevolmente con gli altri. E solo questa unione può garantire pace, giustizia e dignità ad ogni essere umano. Senza dubbio è questo il significato soggiacente alla preghiera di Gesù, quando egli continua: “Prego anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola come tu, Padre, sei in me ed io in te” (Gv 17,20-21). Perciò come potrà il mondo credere che il Padre ha mandato Gesù se non vede in modo tangibile che coloro i quali credono in Cristo hanno ascoltato il suo comandamento di “amarsi a vicenda”? E come potranno i credenti essere assicurati che questo amore è concretamente possibile, se non hanno l’esempio dell’unità dei loro sacerdoti, di coloro che Gesù stesso si forma nel sacerdozio come suoi compagni?
Miei fratelli sacerdoti: non abbiamo forse toccato il cuore dell’argomento: il nostro zelo per il sacerdozio stesso? Esso è inseparabile da quello per il servizio del popolo. Questa Messa concelebrata – la quale simbolizza così bene l’unità del nostro sacerdozio – offre a tutto il mondo la testimonianza di quell’unità per la quale Gesù pregò il Padre suo a nostro vantaggio. Ma non deve diventare una pura manifestazione passeggera, che renderebbe sterile la parola di Gesù. Ogni Eucaristia rinnova questa preghiera per l’unità: “Ricordati, Signore, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra; rendila perfetta nell’amore in unione con il nostro Papa Giovanni Paolo, il nostro vescovo e tutto l’ordine sacerdotale”.
I vostri Consigli Presbiterali, come nuove strutture nella Chiesa, forniscono una meravigliosa opportunità di testimoniare visibilmente l’unico sacerdozio che voi partecipate con i vostri Vescovi e vicendevolmente, e per dimostrare che cosa dev’essere al centro del rinnovamento di ogni struttura ecclesiale: l’unità per la quale Cristo ha pregato.
5. All’inizio di questa omelia io vi ho addebitato il compito di assumere la responsabilità del vostro sacerdozio, un compito per ciascuno di voi personalmente, un compito da dividere con tutti i sacerdoti e che riguarda in modo particolare i vostri Consigli Presbiterali. La fede di tutta la Chiesa esige di avere ben chiara la comprensione esatta del sacerdozio e del suo posto nella missione della Chiesa. Così la Chiesa dipende da voi nell’approfondire sempre più questa comprensione, e per metterla in pratica nelle vostre vite e nel vostro ministero. In altre parole: per partecipare il dono del vostro sacerdozio alla Chiesa rinnovando la risposta che avete già data all’invito di Cristo: “Vieni, seguimi”, offrendo completamente voi stessi, come aveva fatto lui.
A volte sentiamo dire: “Pregate per i sacerdoti”. E oggi io rivolgo queste parole come un appello, come un’invocazione a tutti i fedeli della Chiesa negli Stati Uniti. Pregate per i sacerdoti, affinché ognuno di essi voglia costantemente ripetere il suo sì alla vocazione ricevuta, rimanere saldo nel predicare il messaggio evangelico, e fedele per sempre come compagno di Nostro Signore Gesù Cristo.
Cari fratelli sacerdoti, poiché rinnoviamo il mistero pasquale e stiamo come discepoli ai piedi della Croce insieme con Maria, la Madre di Gesù, permettetemi di affidarvi ad essa. Nel suo amore troveremo la forza per la nostra debolezza, la gioia per i nostri cuori.