domenica 4 dicembre 2016

Predicazione di Giovanni Battista

XXXXV. Predicazione di Giovanni Battista e Battesimo di Gesù. La manifestazione divina.

Vedo una pianura spopolata di paesi e di vegetazione. Non ci sono campi coltivati, e ben poche e rare sono le piante riunite qua e là a ciuffi, come vegetali famiglie, dove il suolo è nelle profondità meno arso che non sia in genere. Faccia conto che questo terreno arsiccio e incolto sia alla mia destra, avendo io il nord alle spalle, e si prolunghi verso quello che è a sud rispetto a me.
A sinistra invece vedo un fiume di sponde molto basse, che scorre lentamente esso pure da nord a sud. Dal moto lentissimo dell'acqua comprendo che non vi devono essere dislivelli nel suo letto e che questo fiume scorre in una pianura talmente piatta da costituire una depressione. Vi è un moto appena sufficiente a ciò l'acqua non stagni in palude. (L'acqua è poco fonda, tanto che si vede il fondale. Giudico non più di un metro, al massimo un metro e mezzo. Largo come è l'Arno verso S. Miniato-Empoli: direi un venti metri. Ma io non ho occhio esatto nel calcolare). Pure è d'un azzurro lievemente verde verso le sponde, dove per l'umidore del suolo è una fascia di verde folta e rallegrante l'occhio, che rimane stanco dallo squallore pietroso e arenoso di quanto gli si stende avanti.
Quella voce intima, che le ho spiegato di udire e che mi indica ciò che devo notare e sapere, mi avverte che io vedo la valle del Giordano. La chiamo valle, perché si dice così per indicare, il posto dove scorre un fiume, ma qui è improprio il chiamarla così, perché una valle presuppone dei monti, ed io qui di monti non ne vedo vicini. Ma insomma sono presso il Giordano, e lo spazio desolato che osservo alla mia destra è il deserto di Giuda. Se dire deserto per dire luogo dove non sono case e lavori dell'uomo è giusto, non lo è secondo il concetto che noi abbiamo del deserto. Qui non le arene ondulate del deserto come lo concepiamo noi, ma solo terra nuda, sparsa di pietre e detriti, come sono i terreni alluvionali dopo una piena. In lontananza, delle colline.
Pure, presso il Giordano, vi è una grande pace, un che di speciale, di superiore al comune, come è quello che si nota sulle sponde del Trasimeno. È un luogo che pare ricordarsi di voli d'angeli e di voci celesti. Non so dire bene ciò che provo. Ma mi sento in un posto che parla allo spirito.

Mentre osservo queste cose, vedo che la scena si popola di gente lungo la riva destra (rispetto a me) del Giordano. Vi sono molti uomini vestiti in maniere diverse. Alcuni paiono popolani, altri dei ricchi, non mancano alcuni che paiono farisei per la veste ornata di frange e galloni.

In mezzo ad essi, in piedi su un masso, un uomo che, per quanto è la prima volta che lo vedo, riconosco subito per il Battista. 

Parla alla folla, e le assicuro che non è una predica dolce. Gesù ha chiamato Giacomo e Giovanni «i figli del tuono» (Marco 3, 17; Vol 5 Cap 330; Vol 9 Cap 575). 
Ma allora come chiamare questo veemente oratore? Giovanni Battista merita il nome di fulmine, valanga, terremoto, tanto è impetuoso e severo nel suo parlare e nel suo gestire.

Parla annunciando il Messia ed esortando a preparare i cuori alla sua venuta estirpando da essi gli ingombri e raddrizzando i pensieri. Ma è un parlare vorticoso e rude. Il Precursore non ha la mano leggera di Gesù sulle piaghe dei cuori. È un medico che denuda e fruga e taglia senza pietà.

Mentre lo ascolto - e non ripeto le parole perché sono quelle riportate dagli evangelisti (Matteo 3, 1-12; Marco 1, 1-8; Luca 3, 3-18; Giovanni 1, 19-34), ma amplificate in irruenza - vedo avanzarsi lungo una stradicciuola, che è ai bordi della linea erbosa e ombrosa che costeggia il Giordano, il mio Gesù. Questa rustica via, più sentiero che via, sembra disegnato dalle carovane e dalle persone che per anni e secoli l'hanno percorso per giungere ad un punto dove, essendo il fondale del fiume più alto, è facile il guado. Il sentiero continua dall'altro lato del fiume e si perde fra il verde dell'altra sponda.

Gesù è solo. Cammina lentamente, venendo avanti, alle spalle di Giovanni. Si avvicina senza rumore e ascolta intanto la voce tuonante del Penitente del deserto, come se anche Gesù fosse uno dei tanti che venivano a Giovanni per farsi battezzare e per prepararsi ad esser mondi per la venuta del Messia. Nulla distingue Gesù dagli altri. Sembra un popolano nella veste, un signore nel tratto e nella bellezza, ma nessun segno divino lo distingue dalla folla.
Però si direbbe che Giovanni senta una emanazione di spiritualità speciale. Si volge e individua subito la fonte di quell'emanazione. Scende con impeto dal masso che gli faceva da pulpito e va sveltamente verso Gesù, che si è fermato qualche metro lontano dal gruppo appoggiandosi al fusto di un albero.
Gesù e Giovanni si fissano un momento. Gesù col suo sguardo azzurro tanto dolce. Giovanni col suo occhio severo, nerissimo, pieno di lampi. I due, visti vicino, sono l'antitesi l'uno dell'altro. Alti tutti e due - è l'unica somiglianza - sono diversissimi per tutto il resto. Gesù biondo e dai lunghi capelli ravviati, dal volto d'un bianco avoriato, dagli occhi azzurri, dall'abito semplice ma maestoso. Giovanni irsuto, nero di capelli che ricadono lisci sulle spalle, lisci e disuguali in lunghezza, nero nella barba rada che gli copre quasi tutto il volto non impedendo col suo velo di permettere di notare le guance scavate dal digiuno, nero negli occhi febbrili, scuro nella pelle abbronzata dal sole e dalle intemperie e per la folta peluria che lo copre, seminudo nella sua veste di pelo di cammello, tenuta alla vita da una cinghia di pelle e che gli copre il torso scendendo appena sotto i fianchi magri e lasciando scoperte le coste a destra, le coste sulle quali è, unico strato di tessuti, la pelle conciata dall'aria. Sembrano un selvaggio e un angelo visti vicini.

Giovanni, dopo averlo scrutato col suo occhio penetrante, esclama: «Ecco l'Agnello di Dio. Come è che a me viene il mio Signore?».

Gesù risponde placido: «Per compiere il rito di penitenza».
«Mai, mio Signore. Io sono che devo venire a Te per essere santificato, e Tu vieni a me?».
E Gesù, mettendogli una mano sul capo, perché Giovanni s'era curvato davanti a Gesù, risponde: «Lascia che si faccia come voglio, perché si compia ogni giustizia e il tuo rito divenga inizio ad un più alto mistero e sia annunciato agli uomini che la Vittima è nel mondo».
Giovanni lo guarda con occhio che una lacrima fa dolce e lo precede verso la riva, dove Gesù si leva il manto e la tunica, rimanendo con una specie di corti calzoncini, per poi scendere nell'acqua dove è già Giovanni, che lo battezza versandogli sul capo l'acqua del fiume, presa con una specie di tazza, che il Battista tiene sospesa alla cintola e che mi pare una conchiglia o una mezza zucca essiccata e svuotata.

Gesù è proprio l'Agnello. Agnello nel candore della carne, nella modestia del tratto, nella mitezza dello sguardo.
Mentre Gesù risale la riva e, dopo essersi vestito, si raccoglie in preghiera, Giovanni lo addita alle turbe, testimoniando d'averlo conosciuto per il segno che lo Spirito di Dio gli aveva indicato quale indicazione infallibile del Redentore. 
Ma io sono polarizzata nel guardare Gesù che prega, e non mi resta presente che questa figura di luce contro il verde della sponda.

Dice Gesù:
«Giovanni non aveva bisogno del segno per se stesso. Il suo spirito, presantificato sin dal ventre di sua madre, era possessore di quella vista di intelligenza soprannaturale che sarebbe stata di tutti gli uomini senza la colpa di Adamo.
Se l'uomo fosse rimasto in grazia, in innocenza, in fedeltà col suo Creatore, avrebbe visto Dio attraverso le apparenze esterne. Nella Genesi è detto che il Signore Iddio parlava familiarmente con l'uomo innocente e che l'uomo non tramortiva a quella voce, non si ingannava nel discernerla. Così era la sorte dell'uomo: vedere e capire Iddio proprio come un figlio fa col genitore. Poi è venuta la colpa, e l'uomo non ha più osato guardare Dio, non ha più saputo vedere e comprendere Iddio. E sempre meno lo sa.
Ma Giovanni, il mio cugino Giovanni, era stato mondato dalla colpa quando la Piena di Grazia s'era curvata amorosa ad abbracciare la già sterile ed allora feconda Elisabetta. Il fanciullino nel suo seno era balzato di giubilo, sentendo cadere la scaglia della colpa dalla sua anima come crosta che cade da una piaga che guarisce. Lo Spirito Santo, che aveva fatto di Maria la Madre del Salvatore, iniziò la sua opera di salvazione, attraverso Maria, vivo Ciborio della Salvezza incarnata, su questo nascituro, destinato ad esser a Me unito non tanto per il sangue quanto per la missione, che fece di noi come le labbra che formano la parola. Giovanni le labbra, Io la Parola. Egli il Precursore nell'Evangelo e nella sorte di martirio. Io, Colui che perfeziona della mia divina perfezione l'Evangelo iniziato da Giovanni ed il martirio per la difesa della Legge di Dio.

Giovanni non aveva bisogno di nessun segno. Ma alla ottusità degli altri il segno era necessario. Su cosa avrebbe fondato Giovanni la sua asserzione, se non su una prova innegabile che gli occhi dei tardi e le orecchie dei pesanti avessero percepita?

Io pure non avevo bisogno di battesimo. Ma la sapienza del Signore aveva giudicato esser quello l'attimo e il modo dell'incontro. E, traendo Giovanni dal suo speco nel deserto e Me dalla mia casa, ci unì in quell'ora per aprire su Me i Cieli e farne scendere Se stesso, Colomba divina, su Colui che avrebbe battezzato gli uomini con tal Colomba, e farne scendere l'annuncio, ancor più potente di quello angelico perché del Padre mio: "Ecco il mio Figlio diletto col quale mi sono compiaciuto". Perché gli uomini non avessero scuse o dubbi nel seguirmi e nel non seguirmi.

Le manifestazioni del Cristo sono state molte. La prima, dopo la Nascita, fu quella dei Magi, la seconda nel Tempio, la terza sulle rive del Giordano. Poi vennero le infinite altre che ti farò conoscere, poiché i miei miracoli sono manifestazioni della mia natura divina, sino alle ultime della Risurrezione e Ascensione al Cielo.

La mia patria fu piena delle mie manifestazioni. Come seme gettato ai quattro punti cardinali, esse avvennero
in ogni strato e luogo della vita: ai pastori, ai potenti, ai dotti, agli increduli, ai peccatori, ai sacerdoti, ai dominatori, ai bambini, ai soldati, agli ebrei, ai gentili. Anche ora esse si ripetono.
Ma, come allora, il mondo non le accoglie. Anzi non accoglie le attuali e dimentica le passate. Ebbene, Io non desisto. Io mi ripeto per salvarvi, per portarvi alla fede in Me.
Sai, Maria, quello che fai? Quello che faccio, anzi, nel mostrarti il Vangelo? Un tentativo più forte di portare gli uomini a Me. Tu lo hai desiderato con preghiere ardenti. Non mi limito più alla parola. Li stanca e li stacca. È una colpa, ma è così. Ricorro alla visione, e del mio Vangelo, e la spiego per renderla più chiara e attraente.
A te do il conforto del vedere. A tutti do il modo di desiderare di conoscermi.
E, se ancora non servirà e come crudeli bambini getteranno il dono senza capirne il valore, a te resterà il mio dono e ad essi il mio sdegno. Potrò una volta ancora fare l'antico rimprovero: (Vol 4 Cap 266) "Abbiamo sonato e non avete ballato; abbiamo intonato lamenti e non avete pianto ".
Ma non importa. Lasciamo che essi, gli inconvertibili, accumulino sul loro capo i carboni ardenti, e volgiamoci alle pecorelle che cercano di conoscere il Pastore. Io son Quello, e tu sei la verga che le conduci a Me».

Come vede, mi sono affrettata a mettere quei particolari che, per la loro piccolezza, mi erano sfuggiti e che lei ha desiderato di avere.

Dottore come nessun’altro ...


  • La Mamma mia. Dottore come nessun’altro in Israele, questa dolce Madre mia. Sede della Sapienza, della vera Sapienza, ci istruì per il mondo e per il Cielo. Dico: “ci istruì” perché fui suo scolaro non diversamente dai cugini. E il “sigillo” fu mantenuto sul segreto di Dio, contro l’indagare di Satana, mantenuto sotto l’apparenza di una vita comune. 38.9
  • Ella s'è data a Dio sin da quelle prime luci della sua alba nel mondo. E più ancora s'è data quando mi ebbe, per essere dove Io sono, sulla via della missione che mi viene da Dio. Tutti mi lasceranno in un’ora; magari per pochi minuti, ma la viltà sarà padrona di tutti e penserete che fosse meglio, per la vostra sicurezza, non avermi mai conosciuto, ma Lei, che ha compreso e che sa, Lei sarà sempre meco. E voi tornerete a essere miei per Essa. Con la forza della sua sicura, amorosa fede, Ella vi aspirerà in sé e perciò riaspirerà in Me, perché Io sono nella Madre ed Ella è in Me e noi in Dio. 51.4
  • E ’ Lei l’Iniziatrice della mia attività di miracolo e la prima Benefattrice dell’umanità.(…) Il mio primo miracolo è avvenuto per Maria. Il primo. Simbolo che Maria è la chiave del miracolo. Io non ricuso nulla alla Madre mia e per la sua preghiera anticipo anche il tempo della grazia.  Io conosco mia Madre, la seconda in bontà dopo Dio. So che farvi grazia è farla felice, poiché è la Tutta Amore. 52.9

AVE MARIA PURISSIMA!

sabato 3 dicembre 2016

Sermoni Domenicali di sant'ANTONIO: DOMENICA II DI AVVENTO


DOMENICA II DI AVVENTO
Temi del Sermone

– Vangelo della seconda domenica di Avvento: “Giovanni, avendo udito dal carcere le opere di Cristo”; si divide in tre parti.
– Anzitutto sermone per l’inizio del digiuno: “Scuotiti la polvere”.
– Parte I: Le quattro specie di peccatori: “Guai alla gente peccatrice!”
– Parte II: Sermone contro i superbi: “Chi è cieco se non colui che è stato venduto?”
– Contro l’ipocrita: “Gli zoppi camminano”.
– Contro i lussuriosi: “Naaman era un uomo potente”.
– Contro gli avari: “I sordi odono”.
– Contro i golosi: “I morti risorgono”.
– Ai poveri nello spirito, ai religiosi o ai claustrali: “Il Signore consolerà Sion”.
– Parte III: Sermone morale destinato in modo particolare ai claustrali e ai religiosi: “Che cosa siete andati a vedere?”, con ciò che segue.

esordio - sermone per l’inizio del digiuno

1. In quel tempo “Giovanni, avendo sentito in carcere le opere di Cristo”, ecc. (Mt 11,2).
Dice Isaia: “Scuotiti la polvere, àlzati e siediti, Gerusalemme! Sciogliti i legami dal collo, schiava figlia di Sion!” (Is 52,2). Fa’ attenzione a queste quattro parole: scuotiti, àlzati, siediti, sciogliti.
La polvere, così chiamata perché spinta dalla forza dal vento (lat. pulvis, da pulso, spingere), simboleggia la concupiscenza della carne la quale, sotto lo stimolo dell’istiga­zione diabolica, è trascinata a diversi peccati. Dice Giobbe: “Lo rapirà un vento infuocato” (Gb 27,21). Di questa polvere dice Isaia: “Pane del serpente” cioè del diavolo, “sarà la polvere” (Is 65,25). “O Gerusalemme, scuotiti dalla polvere”, vale a dire: O anima, scuotiti dai piaceri della tua carne, affinché il diavolo non ti divori insieme con essi. “Scuotete la polvere dai vostri piedi” (Mt 10,14), dice anche il Signore. “Ti potrà forse lodare la polvere?” (Sal 29,10).
Àlzati, dunque. Àlzati con l’anima e con il corpo, per compiere le opere di penitenza. È ciò che dice Salomone: “Togli la ruggine dall’argento e ne risulterà un vaso splendente” (Pro 25,4), come a dire: Scuotiti dalla polve­re, àlzati e siediti, cioè lìberati dal tumulto delle cose del mondo. Dice Geremia: “Se ne starà seduto da solo e in silenzio” (Lam 3,28); e Isaia: “Se ritornerete e starete in pace, sarete salvi” (Is 30,15).
“Sciogliti i legami dal collo!” Queste ultime parole sono in armonia con le prime: vengono inculcate le medesime cose affinché si imprimano più profondamente nella memoria. Il piacere della carne e la vanità del mondo sono i legami con i quali l’anima è tenuta schiava, legata per il collo, per impedirle di giungere alla libertà della confessione. “Sciogli, dunque, i legami dal tuo collo”. A questi legami accenna il brano evangelico di oggi dove dice: “Giovanni, avendo udito, mentre era in catene (in vinculis), le opere di Cristo…”, ecc.

2. In questo vangelo si devono notare tre fatti. Primo, la carcerazione di Giovanni: “Avendo udito in carcere”. Secondo, Cristo che compie i miracoli: “Andate e riferite a Giovanni”. Terzo, l’elogio di Giovanni fatto da Cristo: “Chi siete andati a vedere?”
Nella messa si canta l’introito: “Popolo di Sion, ecco il tuo Signore”. Si legge un brano della lettera ai Romani del beato Paolo: “Tutto ciò che fu scritto in passato” (Rm 15,4). Divideremo questo brano in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del brano evangelico. La prima parte: “Tutto ciò che fu scritto in passato”. La seconda: “Accoglietevi gli uni gli altri”. La terza: “Il Dio della speranza”.

I. la carcerazione di giovanni

3. “Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere di Cristo, mandò due dei suoi discepoli a dirgli: Sei tu colui che deve venire, oppure dobbiamo attenderne un altro? “ (Mt 11,2-3). Altrove Matteo scrive che “Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in carcere per causa di Erodiade, moglie di suo fratello. Giovanni gli diceva: Non ti è lecito tenerla” (Mt 14,3-4).
Vediamo quale significato morale abbiano Erode e Erodiade, Giovanni e le sue catene, e i due discepoli. Erode è il mondo, Erodiade la carne, Giovanni lo spirito dell’uo­mo, le catene sono la vanità e il piacere, i due discepoli sono la speranza e il timore.
Erode e Erodiade s’interpretano “gloria della pelle”. Il mondo e la carne menano vanto della bellezza esteriore. Dice in proposito Isaia: “Che cosa farete nel giorno del rendiconto e quando da lontano vi arriverà la rovina? A chi ricorrerete per avere aiuto? E dove lascerete la vostra gloria?” (Is 10,3). E ancora: “In basso”, cioè nell’inferno, “la sua gloria”, cioè la gloria del mondo e della carne, “brucerà e avvamperà come la fiamma di un rogo” (Is 10,16). “Ti lancerà come un palla in una terra larga e spaziosa” (Is 22,18), vale a dire nell’“inferno, il quale ha aumentato la sua capacità (animam suam) e ha spalancato la sua bocca in modo smisurato”(Is 5,14): “là tu morirai, là finirà il carro della tua gloria” (Is 22,18).
Giovanni s’interpreta “grazia del Signore”, e raffigura lo spirito dell’uomo che nel battesimo ha ricevuto la grazia del Signore. Concordano con questo le parole di Isaia: “Verserò acqua sull’assetato, farò scorrere torrenti sul terreno arido. Spanderò il mio Spirito sulla tua discendenza e la mia benedizione sulla tua stirpe. E cresceranno tra le erbe come i salici lungo acque correnti. Questi dirà: Io sono del Signore; e quegli chiamerà nel nome di Giacobbe. Questi scriverà con la sua mano: Al Signore, e sarà designato con il nome di Israele” (Is 44,3-5).
Assetata e arida è l’anima prima del Battesimo. “Per natura”, dice l’Apostolo, “eravamo figli dell’ira” (Ef 2,3). Ma il Signore, con l’acqua battesimale ha effuso il suo Spirito e la sua benedizione per fare dei figli dell’ira figli della grazia, e siano così discendenza e stirpe, cioè figli, della santa chiesa, e crescano tra le erbe, cioè tra i santi, come i salici, cioè rigogliosi di fede e di virtù, lungo le acque correnti, cioè tra i carismi e le grazie.
“Questi dirà: Io sono del Signore”: ecco Giovanni, ecco la grazia del Signore. “E quegli”, cioè un altro fedele, “chiamerà” alla penitenza, come fece Giovanni, “nel nome di Giacobbe”, vale a dire per soppiantare (vincere) i vizi. “E questi” – sempre Giovanni – “scriverà con la sua mano”, cioè con le sue opere: “Al Signore”, vale a dire: a onore del Signore! “E sarà designato con il nome di Israele”, cioè con il significato di quel nome: uomo che vede Dio; adesso nella fede e nella speranza, e alla fine nella realtà.

4. È questo il Giovanni, così illuminato dalla grazia del Signore, che Erode ed Erodiade, cioè il mondo e la carne, legano con le loro catene: il mondo con la vanità, la carne con il piacere. La vanità del mondo consiste nella superbia e nell’avarizia; il piacere della carne nella gola e nella lussuria. Di questi quattro vizi Isaia dice: “Guai alla gente pecca­trice”, del peccato di superbia, “al popolo carico di iniquità”, di avarizia; “alla stirpe malvagia” della gola, “ e ai figli scellerati” (Is 1,4)della lussuria. Ecco con quali catene il nostro spirito viene tenuto schiavo.
Ma che cosa deve fare mentre si trova legato con queste catene? Appunto quello che sta scritto nel brano evangelico di oggi: “Giovanni, in catene, avendo sentito parlare delle opere di Cristo”, ecc.
Le opere di Cristo sono la creazione e la nuova creazione (la redenzione). E in ciò concordano le parole di Isaia: “Cetra e lira e timpano e flauto e vino sono nei vostri banchetti” – in tutto questo sono simboleggiati i piaceri dei sensi, dei quali si è parlato a lungo nel sermone della I domenica dopo Pentecoste –; “ma voi non guardate l’opera del Signore e non considerate le opere delle sue mani” (Is 5,12).
L’“opera del Signore” è la creazione la quale, ben considerata, porta colui che considera all’ammirazione del suo Creatore. Se c’è tanta bellezza nella creatura, quanta ce ne sarà nel creatore? La sapienza dell’artefice risplen­de nella materia. Ma coloro che sono schiavi dei sensi non vedono questo, e neppure considerano “le opere delle sue mani”, che sulla croce furono forate dai chiodi. Con le mani inchiodate sulla croce Cristo sconfisse il diavolo e strappò dalle sue mani il genere umano.
Quando sente parlare di queste opere di Cristo, il nostro spirito, posto in catene, deve subito mandare due discepoli. Dico che sente parlare di queste opere interiormente, con l’orecchio del cuore, dall’ispirazione dello Spirito; oppure esternamente, con l’orec­chio del corpo, dalla voce del predicatore. Quando incomincia a sentire così, deve mandare da Gesù la speranza e il timore, e dirgli: “Sei tu che” mi hai creato e ricreato, che mi hai fatto e mi hai redento?” – e da ciò nasce in me la speranza nella tua misericordia. “Sei tu colui che verrà” a giudicarmi secondo le mie opere?” – e da ciò nasce in me il timore della tua giustizia –. “Oppure dobbiamo attendere un altro”, che giudichi la terra con giustizia? No, di certo! Colui che ha creato e redento, è lo stesso che giudicherà. “Il Padre ha rimesso ogni giudizio al Figlio” (Gv 5,22).

5. Con questa prima parte del vangelo, concorda la prima parte dell’epistola: “Tutto ciò che è stato scritto in passato” (Rm 15,4), ecc. Dice il Signore a Isaia: “Su, esci e scrivi loro su una tavoletta di bosso e registrarlo con esattezza in un libro e sarà in perpetuo una testimonianza per l’ultimo giorno” (Is 30,8).
“Su una tavoletta di bosso”, dice, perché resti in perpetuo. La sintesi di tutte le cose che sono state scritte per nostro insegnamento consiste soprattutto in tre eventi: nella creazione, nella redenzione e nel giudizio dell’ultimo giorno. La creazione e la redenzione ci insegnano ad amare Dio, l’ultimo giudizio a temerlo, “affinché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture, teniamo viva la nostra speranza” (Rm 15,4).
Senti in che modo la sacra Scrittura consola chi è tribolato. Dice il Signore per bocca di Isaia: “Se attraverserai l’acqua io sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno. Se passerai in mezzo al fuoco non ti scotterai e la fiamma non ti brucerà. Perché io sono il Signore, Dio tuo” (Is 43,2-3). E di nuovo: “Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, e neppure voi, o morti di Israele. Io sono stato il tuo aiuto, dice il Signore: il tuo redentore è il Santo d’Israele” (Is 41,14). E ancora: “Io stesso vi consolerò. Chi sei tu, per aver paura di un uomo mortale e di un figlio dell’uomo, che si seccherà come il fieno?” (Is 51,12).
“Il Dio della perseveranza” che dice per bocca di Isaia: “Ho taciuto, sono stato in silenzio, ho avuto pazienza” (Is 42,14); “il Dio della consolazione”, che dice ancora: “Io vi consolerò e in Gerusalemme sarete consolati. Vedrete e gioirà il vostro cuore e le vostre ossa cresceranno come erba fresca”(Is 66,13-14), cioè i vostri corpi rivivranno nell’immor­talità; “ egli vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una sola voce rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo” (Rm 15,5-6).
E questo è ciò che dice Isaia: Due serafini “proclamavano uno all’altro e cantavano: Santo, santo, santo è il Signore, Dio degli eserciti; tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6,3). Serafino s’interpreta “ardente”. Serafini sono coloro che ardono di reciproca carità, che hanno gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù. Quando dunque dice: “Dio vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti”, ecc., afferma appunto: “Due serafini proclamavano uno all’altro”; e quando aggiunge: “perché con un solo animo e una sola voce rendiate gloria, ecc., dice: “e cantavano: Santo, santo, santo”, ecc.
Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo che ci liberi dalle catene del mondo e della carne, in modo che diventiamo capaci di onorare e glorificare con un solo spirito e una sola voce colui della cui gloria è piena tutta la terra.
A lui onore e gloria per i secoli eterni. Amen.

II. Cristo compie i miracoli

6. “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete” (Mt 11,4). Con queste parole viene distrutto l’errore degli ereti­ci, i quali affermano che Giovanni è dannato, perché dubitò di Cristo quando disse: “Sei tu colui che ha da venire?”, e che, persistendo in quel dubbio, morì in carcere prima del ritorno dei discepoli che aveva mandato da Gesù.
Diventi muta quella lingua maledetta! Mai Giovanni dubitò di Cristo, al quale rese testimonianza: “Ecco l’agnello di Dio!” (Gv 1,36). Invece per confermare nella fede a Cristo i suoi discepoli, li mandò ad interrogarlo affinché, vedendo i suoi miracoli, neppure loro avessero più alcun dubbio. Infatti il Signore non rispose direttamente all’interrogazione di Giovanni, ma per rassicurare il cuore dei suoi discepoli disse: “I ciechi vedono, gli zoppi camminano” (Mt 11,5), ecc. Dice Gregorio: “Giovanni non dubita che Cristo sia il redentore del mondo, ma domanda di sapere se colui che di persona era venuto nel mondo, sarebbe anche disceso di persona agli inferi”.
E anche l’affermazione che fanno, che Giovanni sia morto prima del ritorno dei discepoli, risulta assolutamente falsa proprio dalle parole del santo Vangelo. O il Signore comandò ai discepoli una cosa impossibile, o gliene comandò una possibile, quando disse: “Andate e riferite...”. Mai il Signore comanda l’impossibile. Se Giovanni fosse morto in carcere prima che i discepoli ritornassero da lui, il Signore avrebbe comandato loro una cosa impossibile, quando disse: “Andate e riferite”. A chi avrebbero dovuto riferire? A un morto? No, di certo! È chiaro quindi che i discepoli trovarono Giovanni vivo e gli riferirono ciò che avevano udito e visto. Il Signore infatti comanda soltanto cose possibili.
“I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, i poveri vengono evanzelizzati”(Mt 11,5). Vedremo quale sia il significato morale di questi sei miracoli. I ciechi sono i superbi; gli zoppi sono gli ipocriti; i lebbrosi sono i lussuriosi; i sordi sono gli avari, i morti sono i golosi, e i poveri sono gli umili.

7. “I ciechi vedono”. Questo è ciò che dice Isaia: “Libe­rati dalle tenebre e dall’oscu­rità, gli occhi dei ciechi vedranno” (Is 29,18); e “Chi è cieco se non il mio schiavo, se non il servo del Signore? Tu che vedi molte cose, forse che poi le osservi?” (Is 42,19-20). Chi sono oggi i ciechi, cioè i superbi, se non coloro che si chiamano servi del Signore, ma che hanno solo l’apparenza di esserlo, cioè i religiosi e i chierici? Chi sono i superbi se non coloro che vedono tante cose nelle sacre Scritture, che predicano e insegnano tante cose, ma poi essi non le osservano? Vedono molte cose per gli altri, ma nulla per se stessi.
Della superbia di tutti costoro Isaia, sotto l’immagine della “valle della visione” (Is 22,1), dice: “Che hai tu dunque che sei salita tutta quanta sulle terrazze, città rumorosa e tumultuante, città gaudente?” (Is 22,1-2). Come dicesse: Si può ancora capire che i secolari bramino le grandezze terrene! Ma voi religiosi, gente istruita, che sapete tante cose, come avete potuto anche voi dare la caccia alle grandezze della terra, mettervi a salire sulle terrazze della superbia, piene di rumore? La superbia infatti è rumorosa, come dice Isaia: “Guai al rumore di popoli immensi, rumore come il mugghio dei mari” (Is 17,12). Invece, di Cristo umile dice sempre Isaia: “Non griderà, non si sentirà nelle piazze la sua voce” (Is 42,2).
“Città tumultuante”, cioè molto popolata, “città gauden­te”. Di essa dice Isaia: “Sulla terra del mio popolo”, cioè nella mente degli umili, “cresceranno spine e pruni”, cioè trafitture e sofferenze; “ma molto di più in tutte le case in allegria di una città gaudente” (Is 32,13), che si gloria nella sua superbia, che acceca gli occhi della mente per non vedere la città dell’eterno gaudio. Sempre Isaia: “Guarda Sion, la città delle nostre feste: i tuoi occhi vedranno Gerusalemme; dimora opulenta” (Is 33,20). Per vederla, bagna i tuoi occhi con il collirio dell’umiltà, e così sarai degno di sentire: Védici! La tua umiltà ti ha illuminato. “I ciechi dunque vedono”.

8. “Gli zoppi camminano”. Zoppo si dice in lat. claudus, che suona quasi come clausus, chiuso, impedito nel camminare. L’ipocrita nella sua vita e nella sua condotta procede chiuso. Chi agisce disonestamente odia la luce, perché non tollera che le sue opere siano esposte e giudicate alla luce del sole (cf. Gv 3,20). Dice infatti Isaia: “Guai a quanti si rintanano nel profondo del cuore”, che dissimulano cioè la loro iniquità; “per nascon­dere al Signore i loro disegni; costoro operano nelle tenebre e dicono: Chi ci vede? Chi ci conosce?” (Is 29,15). L’ipocrita zoppica da un piede: tiene un piede alzato, e l’altro lo appoggia in terra. Mentre mostra la miseria nelle vesti, l’umiltà nella voce e il pallore in volto, tiene il piede alzato; ma quando per queste cose brama la lode e cerca di sembrare santo, allora non c’è dubbio che mette l’altro piede in terra.
In altro senso. Si legge nel secondo libro dei Re che Mifìboset era zoppo (storpio) da tutti e due i piedi (cf. 2Re 4,4). Mifìboset s’interpreta “uomo della confusione”, e simboleggia coloro che sono zoppi da tutti e due i piedi, nelle intenzioni e nelle opere. E coloro che zoppicano in questo modo sono degni dell’eterna confusione.
Dice in proposito Isaia: “Il re degli Assiri condurrà i prigionieri dell’Egitto e i deportati dell’Etiopia, giovani e vecchi, nudi e scalzi, con le natiche scoperte, a vergo­gna dell’Egitto” (Is 20,4). “Il re degli Assiri”, cioè il diavolo, “condurrà” all’inferno “i prigionieri dell’Egit­to”, cioè coloro che aveva tenuti schiavi con il peccato, “e i deportati dell’Etiopia”, cioè quelli che passano dalle virtù ai vizi; “i giovani”, gli ostinati nella loro malizia; “i vecchi”, gli invecchiati nel male; “i nudi”, senza la veste nuziale (cf. Mt 22,11); “gli scalzi”, coloro che sono senza il “giacinto” del desiderio delle cose celesti, per quanto riguarda le intenzioni, come dice Ezechiele: “Io ti diedi calzari color giacinto” (Ez 16,10); e coloro che sono privi dei calzari della mortificazione, per quanto riguarda le opere, come si legge nel libro di Rut: “Tògliti il calzare. E subito se lo tolse dal piede” (Rt 4,8). E la casa di costui – come è scritto nel libro del Deuteronomio – sarà chiamata in Israele casa dello scalzo (cf. Dt 25,10).
“Con le natiche scoperte” perché a tutti sia manifesta la sua infamia, “li condurrà, ripeto, a vergogna dell’Egitto”, cioè degli innamorati di questo mondo. Coloro che vogliono evitare questa vergogna facciano con i loro piedi passi onesti, coltivino cioè con la buona volontà il desiderio di fare il bene e con l’umiltà realizzino questo desiderio nelle opere buone. Meriteranno così di sentirsi dire: “Gli zoppi camminano”.

9. “I lebbrosi sono mondati”. Si legge nel quarto libro dei Re che Naaman era uomo potente e ricco, ma lebbroso (cf. 4Re 5,1), perché dove c’è abbondanza di ricchezze e di piaceri c’è anche la lebbra della lussuria. Infatti Isaia, dopo aver premesso: “La terra è piena di argento e d’oro, e senza fine sono i suoi tesori”, subito soggiunge: “E la loro terra è piena di cavalli” (Is 2,7-8), cioè di lussuriosi. Si legge nell’Esodo che con l’oro fu fabbricato un vitello (cf. Es 32,4), perché con l’oro dell’abbondanza si fabbrica il vitello della lussuria più sfrontata.
Dice Isaia: “Lì pascerà il vitello e lì si sdraierà: e distruggerà ogni arbusto” (Is 27,10). È la stessa cosa che dice Giobbe della lussuria: “È un fuoco che tutto divora fino alla distruzione, e che sradica tutti i germogli” (Gb 31,12). “Lavatevi”, o lebbrosi, “e purificatevi; togliete dalla vista del Signore il male” della lussuria “dei vostri pensieri: cessate di agire viziosamente” (Is 1,16)con il vostro corpo, affinché anche a voi venga detto: “I lebbrosi sono mondati”.

10. “I sordi odono”. E ciò che dice anche Isaia: “In quel giorno i sordi udranno le parole del libro” (Is 29,18). Sordo suona quasi come sordido: infatti negli orecchi ha il sudi­ciume(lat. sordes), dal quale vengono ostruite le vie dell’udito. I sordi sono gli avari e gli usurai, i cui orecchi sono otturati dal sudiciume del denaro. Dice il salmo: “Il loro furore è come quello del serpente, simile a quello della vipera sorda, che si tura le orecchie” (Sal 57,5).
Si dice che il serpente, per non sentire la voce dell’incantatore, appoggia un’orec­chio alla terra e si tura l’altro con la coda. L’orecchio è così chiamato (auris) perché prende avidamente, o anche perché raccoglie (lat. haurit) il suono. L’infelice avaro, o l’usuraio, si priva di sì grande dono di natura e di grazia; egli per non prendere con avidità la parola della vita, o per non raccogliere il suono, la voce del predicatore, si tura gli orecchi del cuore: e fa ciò con la terra, cioè con l’amore del denaro già accumulato, e con la coda, vale a dire con la turpe bramosia di accumularne ancora. Questi sventurati, se vogliono sentire la parole del libro, cioè del vangelo nel quale è detto “beati i poveri” (Mt 5,3), devono prima asportare dagli orecchi del cuore la terra del denaro disonestamente accumulato, ed estirpare totalmente la coda, cioè la brama di accumularne ancora. Solo allora si potrà dire di loro: “I sordi odono”.

11. “I morti risorgono”. Isaia dice: “I tuoi morti vivran­no, i miei uccisi risorgeranno” (Is 26,19). I morti sono i golosi. “La loro gola è un sepolcro aperto” (Sal 5,11), nel quale giacciono sepolti come i morti. Dice ancora Isaia: “Anche costoro sono divenuti insensi­bili per il troppo vino e vanno barcollando per l’ubriachezza; il sacerdote e il profeta affogano nel vino e hanno perduto il senno per l’ubriachezza,” (Is 28,7).
Come il boccone di pane mentre assorbe il vino, viene dal vino assorbito e va in fondo al bicchiere, così costo­ro, mentre assorbono vengono assorbiti, e poi sepolti nel­l’in­ferno del loro ventre. Il ricco che banchettava ogni giorno sontuosamente, durante la sua vita era in qualche modo sepolto nell’inferno. Invece Lazzaro, il mendìco, giaceva fuori alla porta, e non dentro(cf. Lc 16,19-20); giaceva pieno di fame fuori della porta, cioè privo dei piaceri dei cinque sensi. E anche il Signore, come dice l’Apostolo, patì fuori della porta (cf. Eb 13,12).
Il ricco invece ogni giorno seppelliva se stesso entro la porta, nell’inferno. E nell’inferno del ventre, o Signore, chi canta le tue lodi? (cf. Sal 6,6). E neppure i morti, o Signore, ti loderanno (cf. Sal 113,17). Coloro che vogliono cantare le lodi del Signore, escano dal sepolcro della gola, e dalle tenebre e dal caos dell’inferno entrino nella luce dell’astinenza dalle bevande e dai cibi. Dice Isaia in proposito: “Svegliatevi e cantate inni di lode, voi che abitate nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada di luce” (Is 26,19). Come la rugiada tempera il calore del sole e la luce fuga le tenebre, così l’astinenza mitiga la bramosia della gola e dei vizi e fuga le tenebre della mente. E in questo modo “i morti risorgono”.

12. “I poveri vengono evangelizzati”. Dei poveri dice Isaia: “I primogeniti dei poveri saranno saziati e i miseri riposeranno con fiducia” (Is 14,30); e ancora: “I miti si rallegreranno nel Signore ogni giorno di più, e i poveri esulteranno nel Santo d’Israele” (Is 29,19). Soltanto i poveri, cioè gli umili, vengono evangelizzati, perché solo la concavità è in grado di ricevere ciò che vi si versa, mentre il rigonfiamento, la convessità, lo respinge. Chi ha sete, venga a me e beva (cf. Gv 7,37), dice il Signore; perché, come egli dice ancora per bocca di Isaia: “Farò scorrere l’acqua su colui che ha sete e torrenti sul terreno arido” (Is 44,3).
Oggi sono i poveri, i semplici, gli indotti, i rozzi e le vecchierelle che hanno sete della parola della vita, dell’acqua della sapienza salvatrice. Invece i cittadini di Babilonia, che si ubriacano al calice d’oro della grande meretrice, i sapienti consiglieri del faraone, i quali, come è detto in Giobbe, sono pieni di parole e sono spinti dalla loro morbosa sensualità, e il loro ventre è pieno di mosto che non trova sfogo, che squarcia gli otri nuovi (cf. Gb 32,18-19), – credete a me – non costoro, ma solo “i poveri saranno evangelizzati”.

13. “E beato colui che non si scadalizza di me” (Mt 11,6). Cristo è la verità. In Cristo ci fu la povertà, l’umiltà e l’obbedienza. Chi si scandalizza di queste cose, si scandalizza di Cristo. I veri poveri non si scandalizzano, perché solo essi vengono evangelizzati, vengono cioè nutriti con la parola del vangelo, perché essi sono il popolo del Signore e le pecore del suo pascolo (cf. Sal 94,7).
Di questo popolo, nell’introito della messa di oggi si canta: “Popolo di Sion, ecco che il Signore viene a salvare le nazioni”. È la stessa cosa che dice Isaia: “Per primo dirà a Sion: èccomi! E a Gerusalemme, cioè alla chiesa, darò un evangelista, un messaggero di liete notizie” (Is 41,27), affinché i poveri siano evangelizzati e le nazioni siano salvate mediante il vangelo; e il Signore farà sentire la gloria della sua lode per la gioia del vostro cuore (cf. Is 30,30).

14. Dice ancora Isaia: “Il Signore consolerà Sion e consolerà tutte le sue rovine; del suo deserto farà un luogo di delizie, della sua steppa quasi un giardino del Signore. Giubilo e gioia saranno in essa, azioni di grazie e inni di lode” (Is 51,3). Sion s’inter­preta “specola”, punto di osservazione. Il popolo di Sion sono i poveri nello spirito i quali, sollevati dalle cose terrene e posti sul più alto punto di osservazione della povertà, contemplano il Figlio di Dio, pellegrino qui in terra, ma glorioso nella patria celeste. Questa è la Sion che il Signore consola. Il Signore consola con i beni suoi coloro che sono privi dei beni temporali; infatti dice: “E consolerà tutte le sue rovine”. Quando crolla l’edificio della consolazione umana, subito il Signore innalza la casa della consolazione interiore.
“E farà del suo deserto un luogo di delizie”. Infatti il deserto della povertà esteriore crea le delizie della soavità interiore. Il Signore definisce spine le ricchezze di questo mondo (cf. Mt 13,22). Isaia chiama delizie il deserto della povertà. O spine del mondo! O delizie del deserto! Quanto è lontana la verità dalla menzogna, la luce dalle tenebre e la gloria dalla pena, altrettanta è tra voi la differenza. Le prime deliziano, le seconde feriscono. In quelle c’è la quiete e il riposo, in queste “la vanità e l’afflizione di spirito” (Eccle 1,14).
Delle delizie il Signore dice: “Le mie delizie consistono nello stare con i figli degli uomini” (Pro 8,31), che la natura ha generato poveri – “Nudo sono uscito dal grembo di mia madre e nudo vi ritornerò” (Gb 1,21)–, ma che la malizia ha fatto ricchi, perché “coloro che vogliono diventare ricchi, cadono nel laccio del diavolo” (1Tm 6,9). Le mie delizie dunque consistono nello stare con i figli degli uomini, non con i figli dei demoni. O povertà, bene ripugnante per i figli dei demoni, le tue delizie offrono a coloro che ti amano il diletto dell’eterna dolcezza!
“Farò della sua steppa quasi un giardino del Signore”. La povertà ama la solitudine perché, come dice Isaia: “Nella solitudine dimora il giudizio” (il diritto) (Is 32,16). E Geremia: Spinto dalla tua mano sedevo solitario, perché mi avevi riempito di amarezza (cf. Ger 15,17). Chi vuole istituire un giudizio su di sé, deve stare per lo meno nella solitudine della mente, della quale dice l’Ecclesiastico: Scrivi la sapienza nel tempo della quiete (lett. “La sapienza dello scriba è dovuta al suo tempo di quiete(Eccli 38,25).
Dove c’è il giudizio, lì c’è la sapienza; dove c’è la sapienza, lì c’è il giardino del Signore, cioè il paradiso. E poiché la vera povertà è sempre lieta, aggiunge: “Giubilo e gioia saranno in essa”. E commenta la Glossa: In Sion, che è paragonata al paradiso, ci devono essere soltanto gaudio e letizia, riconoscenza e canto di lode, affinché ci applichiamo già qui in terra alle occupazioni che avremo in cielo, insieme con gli angeli.

15. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte del brano dell’epistola: “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo ha accolto voi per la gloria di Dio” (Rm 15,7). Come Cristo ha accolto il ciechi per illuminarli, gli zoppi per farli camminare, i lebbrosi per mondarli, i sordi per restituire loro l’udito, i morti per risuscitarli e i poveri per evangelizzarli, così noi dobbiamo accoglierci vicendevolmente.
Se il tuo prossimo è cieco per la superbia, per quanto sta in te procura di illuminare i suoi occhi con l’esempio della tua umiltà; se è zoppo per l’ipocrisia, raddrizzalo con l’opera della verità; se è lebbroso per la lussuria, purificalo con la parola e l’esempio della castità; se è sordo per l’avarizia, proponigli l’esempio della povertà del Signore; se è morto per la golosità e per l’ubriachez­za, risuscitalo con l’esempio e con la virtù dell’astinen­za; ed evangelizza i poveri, esortandoli a imitare la vita di Cristo.
Fratelli carissimi, imploriamo Cristo perché si degni di curarci dalle infermità spirituali sulle quali abbiamo meditato e voglia accoglierci presso di sé: lui che è benedetto nei secoli. Amen.

III. l’elogio del beato giovanni

16. “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Chi siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re” (Mt 11,7-8). Vedremo quale significato morale abbiano il deserto, la canna e l’uomo avvolto in morbide vesti.
Il deserto simboleggia la religione, l’ordine religioso. E su questo concordano le parole di Isaia: “Si rallegrerà il deserto e la terra inaccessibile, esulterà la solitudine e fiorirà come giglio. Germoglierà e crescerà, esulterà di gioia e proromperà in canti di lode” (Is 35,1-2).
In ogni ordine religioso si devono osservare in modo assoluto tre virtù: la povertà, la castità e l’obbedienza; tre virtù che sono richiamate nella citazione di Isaia. La povertà quando dice: “Si rallegrerà il deserto”; la castità quando aggiunge: “Fiorirà come giglio”; l’obbedienza quando conclude: “Germoglierà e crescerà”.
La povertà: “Si rallegrerà il deserto”. Il religioso che vuole osservare veramente la povertà, deve fare tre atti: primo, rinunciare ad ogni bene terreno; secondo, non avere alcuna volontà di possederne in futuro; terzo, sopportare con pazienza le privazioni inerenti alla stessa povertà. Questi tre atti sono indicati nelle parole: deserto, terra inaccessibile, e solitudine.
La vita del religioso dev’essere deserta, nella rinuncia ad ogni bene terreno; inaccessibile(lat. inviasenza via), che cioè nella sua volontà non resti neanche l’ombra del desiderio di possedere qualcosa. Dice in proposito Isaia: “Il deserto diventerà un Carmelo e il Carmelo sarà considerato una valle” (Is 32,15). Carmelo s’interpreta “cono­scenza della circoncisione”. Quindi il deserto, cioè l’ordine religioso, diventerà un Carmelo, cioè una circoncisioneper quanto riguarda la rinuncia ai beni terreni; e la rinuncia ai beni sarà una valle, per ciò che riguarda la volontà di non possedere. Chi è sciolto da questi due legami, a buon diritto può rallegrarsi e cantare: L’anima mia è sciolta dal laccio dei cacciatori (cf. Sal 123,7). Si rallegrerà dunque il deserto e la terra inaccessibile.
A queste due qualità si deve aggiungere la terza: il religioso sappia patire la fame e la sete e sopportare le privazioni (cf. Fil 4,12). E così ci sarà la “solitudine che esulterà” quando sopporterà con pazienza questi disagi e altri simili.

17. La castità: “Fiorirà come giglio”. Il giglio (in lat. lilium, che suona quasi come lacteum, latteo) simboleggia il candore della castità. Dice Geremia: “I suoi nazirei erano più candidi della neve e più bianchi del latte” (Lam 4,7).
Ad essi il Signore promette per bocca di Isaia: Non dica l’eunuco, cioè colui che si è reso tale per il regno dei cieli, che ha promesso la continenza: Ecco io sono come albero secco, perché questo dice il Signore: Agli eunuchi che osservano i miei sabati,cioè la purezza del cuore che è il sabbato dello spirito, e hanno scelto ciò che io voglio, cioè la castità del corpo, della quale dice l’Apostolo: Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione, affinché ognuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto(1Ts 4,3-4)e hanno osservato il mio patto, il patto concluso con me nel battesimo, darò nella mia casa, nella quale ci sono molti posti, e dentro le mie mura,di cui è detto nell’Apocalisseche sono costruite con diaspro (Ap 21,18), pietra preziosa di color verde che raffigura l’esultanza dell’eterna viridità(giovinezza); a costorodarò un postodel quale dice Giovanni: Vado a prepararvi un posto(Gv 14,2), e un nome più bello, cioè più eccellente, che avrà più valore cheaver generato figli e figlieun nome eterno, del quale dice l’Apocalisse: Scriverò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme, e il mio nome nuovo(Ap 3,12). Avrà il nome di Dio perché sarà simile a Dio e lo vedrà come egli è (cf. 1Gv 3,2):Io dissi: Siete Dei (Sal 81,6); avrà il nome di Gerusalemme perché sarà nella pace; avrà il nome di Gesù perché è stato salvato. Avrà un nome eterno che mai sarà cancellato(Is 56,3-5), che mai cadrà in dimenticanza.

18. Obbedienza: “Germoglierà e crescerà, ed esulterà di gioia e proromperà in canti di lode”. Osserva che la vera obbedienza ha in se stessa cinque qualità, indicate proprio nelle cinque parole suddette. La vera obbedienza è umile, ossequiente, pronta, gioconda e perseverante.
Umile nel cuore: questo indica la parola “germoglierà”. Il germoglio è come l’inizio del fiore, e l’umiltà è l’inizio di ogni opera buona.
Ossequiente nella voce, indicato dalla parola “cresce­rà”. Dall’umiltà del cuore procede il rispetto, anche nel tono della voce.
Pronta al comando, e a questo si riferisce la parola “esulterà”. Dice il salmo: “Esulterà come un prode che percorre la via” (Sal 18,6).
Gioconda nella sofferenza, e questo è indicato dalla parola “con gioia”.
Perseverante nell’esecuzione degli ordini, e allora sarà anche “piena di lode”, perché ogni lode si canta alla fine.
O religiosi, così dev’essere il deserto del nostro ordine, nel quale siete venuti ad abitare uscendo dalla vanità del mondo. Perciò a voi ha detto il Signore: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto?”.

19. “Una canna sbattuta dal vento?”. La canna è detta in lat. arundo, che suona quasi come arida, o anche come auraducta, spinta dall’aria. Osserva che la canna ha le radici nel fango, simbolo della gola e della lussuria; è bella fuori ma vuota dentro, e in ciò sono indicate l’ipocrisia e la vanagloria; è agitata qua e là dal vento, e questo raffigura l’in­costanza della volontà.
Sventurato quel chiostro, maledetto il deserto di quell’ordine religioso nel quale viene posta a dimora e cresce tale pianta: “la scure sarà posta alla sua radice, per essere tagliata e gettata nel fuoco” (cf. Mt 3,10; Lc 3,9). Dice il Signore per bocca di Isaia: “Metterò nel deserto l’abete insieme con l’olmo e il bosso” (Is 41,19), ma non la canna agitata dal vento. Nell’abete è raffigurata la familiarità con le cose celesti; nell’olmo, che sostiene la vite, la partecipazione alle sofferenze del prossimo; nel bosso, che è di colore smorto, la mortificazione del corpo. Con queste piante dev’essere coltivato e ornato il deserto benedetto, il paradiso (il giardino) dell’ordine religioso, e non con la canna agitata dal vento, destinata ad essere bruciata nel fuoco.
“Ma che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti?”. Lo stesso evangelista Matteo ci racconta che “Giovanni portava una veste di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; suo cibo erano le locuste e il miele selvatico” (Mt 3,4). Guardate un po’, vi prego, se i religiosi del nostro tempo indossano queste vesti e se si nutrono con questi cibi. “Ecco, quelli che indossano morbide vesti stanno nelle case dei re”. Non dico religio, ma legio dæmonum(non religione, ma legionedi demoni) è quella che ha fatto del deserto un palazzo, del chiostro un castello, della solitudine una corte reale. Tanto il religio­so che l’uomo d’armi si fanno il vestito della stessa stoffa.
Invece l’amante del deserto, il più grande dei profeti, ebbe la sua veste di peli di cammello. Se il beato Giovanni, preannunciato dall’angelo, santificato nel seno materno, encomiato dal Signore – “Tra i nati di donna, non è sorto uno più grande di Giovanni” (Lc 7,28)–, visse in tanta austerità, che cosa non dobbiamo fare noi, concepiti nel peccato, carichi di peccati, degni di essere rigettati dal Signore, se non interviene la sua misericordia: con quante castighi, con quanta severità dobbiamo punirci!
Quindi nel deserto della penitenza ci sia la povertà del vestito, l’austerità del vitto, per poter essere chiamati con verità religiosi, “relegati”, cioè lontani da ogni piacere della carne.

20. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell’epistola: “Il Dio della speranza” (Rm 15,13). Dice Isaia: “ Quelli che sperano nel Signore riacqui­ste­ranno forza, metteranno ali come aquile, correranno e non si stancheranno, cammineranno e non verranno meno” (Is 40,31).
Quelli che sperano non in sé ma nel Signore, che è il Dio della speranza, riacquisteranno forza, per essere forti in lui, e deboli in questo mondo: “Questo è il cambiamento prodotto dalla destra dell’Altissimo” (Sal 76,11). Metteranno le ali della duplice carità, con le quali volare in cielo come aquile. L’aquila, a quanto dicono i naturalisti, sfre­gando contro una pietra il becco, smussaro per l’eccessiva vecchiaia, ringiovanisce. Così quelli che eliminano l’invec­chiamento del peccato per mezzo della pietra che è Cristo (cf. 1Cor 10,4), morendo al mondo si rinnovano in Dio. Si rinnoverà come aquila la tua giovinezza (cf. Sal 102,5).
“Correranno” per conquistare il premio dell’eterna felici­tà, “e non si stancheranno” perché per colui che ama nulla è difficile; “cammineranno” di virtù in virtù e “non verranno mai meno” perché vivranno in eterno.
“Vi riempia di ogni gioia…”. Dice Isaia: “Godete con lei”, cioè con Gerusalemme, “voi tutti che piangevate su di essa; così succhierete e vi sazierete all’abbondanza della sua consolazione” (Is 66,10-11); “… e di pace”; della quale dice Isaia: “Costituirò tuo sovrano la pace” (Is 60,17); “nella fede”: “Se non crederete, non avrete stabilità” (Is 7,9); “perché abbondiate nella speranza e la nella virtù dello Spirito Santo”(Rm 15,13); ed Isaia: “Sei stato sostegno al povero, sostegno al bisognoso nella sua sofferenza, riparo dalla tempesta”, cioè dalla suggestione diabolica, “ombra contro l’ardore del sole” (Is 25,4), cioè contro la tentazione della carne.
Ogni religioso sia ricolmo di questi tre doni, cioè della speranza, della gioia e della pace: della speranza per quanto riguarda la povertà, la quale spera solo in Dio; della gioia per ciò che concerne la castità, senza la quale non c’è gioia della coscienza; della pace, nei riguardi dell’obbedienza, fuori della quale non c’è pace per nes­suno: “Non c’è pace per gli empi, dice il Signore” (Is 57,21); se il religioso sarà ricolmo di questi doni, sia certo che abbonderà anche nella speranza e nella grazia dello Spirito Santo, per vivere fiducioso nel deserto dell’ordine religioso.
Fratelli carissimi, imploriamo il Signore nostro Gesù Cristo che ci preservi dall’essere canna sbattuta dal vento o uomini avvolti in morbide vesti; ci faccia invece abitare nel deserto della penitenza, poveri, casti e obbedienti.
Ce lo conceda colui che è degno di lode, soave e amabile, Dio benedetto e beato nei secoli eterni. E ogni religione, pura e senza macchia, dica: Amen. Alleluia!

 AMDG et BVM