giovedì 4 febbraio 2016

San Giuseppe da Leonessa

San Giuseppe da Leonessa, missionario, festa  4 febbraio.



Prigioniero dei Turchi a Costantinopoli, fra Giuseppe era restato per tre giorni appeso a una croce per un piede e per una mano. E non era morto. Dio solo sa come riuscisse a sopravvivere a quel supplizio, e come si rimarginassero le sue terribili ferite. Si parlò dell'intervento miracoloso di un Angelo, che avrebbe sostenuto il suo corpo e curato le sue piaghe.

Certo non era facile spiegare in altro modo quella resistenza che sfidava tutte le leggi naturali, comprese quelle - terribilmente logiche - della tortura. E quasi un miracolo fu il fatto che il Sultano, forse ammirato per l'accaduto, commutasse la pena di morte con l'esilio perpetuo.

A Costantinopoli, il cappuccino Fra Giuseppe aveva compiuto un gesto degno veramente da folle. Aveva tentato di entrare nel palazzo per predicare davanti al Sultano in persona, sperando di convertirlo. Catturato dalle guardie, era stato giudicato reo di lesa maestà.

Bisogna dire che fino allora i Turchi lo avevano lasciato libero di predicare in città, dopo aver assistito i cristiani prigionieri. L'estrema povertà del frate e dei suoi compagni, sotto il saio color tabacco, lasciava perplessi i rappresentanti del potere e della religione ufficiale. Era difficile vedere in quegli umilissimi stranieri, sprovvisti di tutto, altrettanti pericolosi cospiratori contro la sicurezza dello Stato.

Giuseppe era nato nel 1556, a Leonessa, e nella cittadina umbra dal fiero nome, presso Spoleto, era entrato sedicenne tra i cappuccini della riforma, mutando il nome di Eufrasio Desiderato in quello dell'umile sposo della Vergine. Aveva compiuto il proprio noviziato nel convento delle Carceri, sopra Assisi, e in quella piega boscosa del Subasio si era temprato alla più dura penitenza e alla più rigorosa astinenza.

Con una tipica espressione francescana, chiamava il proprio corpo « frate asino », e diceva che come tale non aveva bisogno di essere trattato come un corsiero, un purosangue. Bastava trattarlo come un asino, con poca paglia e molte frustate.

La paglia forse si, ma le frustate - come abbiamo visto - non gli erano mancate durante la sua avventura in Turchia, dove il generale dell'Ordine lo aveva inviato, trentenne, per assistervi i prigionieri cristiani.

Tornato in Italia, poté seguire quella vocazione missionaria che l'aveva spinto a predicare davanti al Sultano. Questa volta, però, fu predicatore sull'uscio di casa, nei villaggi e nella città reatina, sua patria. I risultati furono altrettanto consolanti, e il suo zelo di carità ancor più necessario, perché il più difficile terreno di missione è spesso quello stesso sul quale fiorisce la santità in mezzo alle ortiche del vizio e ai rovi dell'indifferenza.

Cinquantacinquenne, s'infermò, ritirandosi nel convento d'Amatrice. Gli venne diagnosticato un tumore, e si tentò di operarlo, Dio sa come. Fu quello il suo secondo supplizio, ma rifiutò di essere legato, come suggerivano i medici. E non si sollevò più dal lettuccio chirurgico. Come anestetico si era stretto al petto, lungamente, il Crocifisso.

AMDG et BVM

mercoledì 3 febbraio 2016

San Biagio


Nome: San Biagio
Titolo: Vescovo e martire
Ricorrenza: 03 febbraio
Protettore di:malattie della gola



S. Biagio nacque a Sebaste nell'Armenia. Passò la giovinezza fra gli studi, dedicandosi in modo particolare alla medicina. Al letto dei sofferenti curava le infermità del corpo, e con la buona parola e l'esempio cristiano cercava pure di risanare le infermità spirituali.

Geloso della sua purezza ed amantissimo della vita religiosa, pensava di entrare in un monastero, quando, morto il vescovo di Sebaste, venne eletto a succedergli. Da quell'istante la sua vita fu tutta spesa pel bene dei suoi fedeli.

In quel tempo la persecuzione scatenata da Diocleziano e continuata da Licinio infuriava nell'Armenia per opera dei presidi Lisia ed Agricola°. Quest'ultimo, appena prese possesso della sua sede, Sebaste, si pose con febbrile attività in cerca di Biagio, il vescovo di cui sentiva continuamente magnificare lo zelo. Ma il sagace pastore, per non lasciare i fedeli senza guida. ai primordi della procella, si era eclissato in una caverna del monte Argeo.

Per moltissimo tempo rimase celato in quella solitudine, vivendo in continua preghiera e continuando sempre il governo della Chiesa con messaggi segreti. Un giorno però un drappello di soldati mandati alla caccia delle belve per i giochi dell'anfiteatro, seguendo le orme delle fiere, giunsero alla sua grotta. Saputo che egli era precisamente il vescovo Biagio, lo arrestarono subito e lo condussero al preside.

Il tragitto dal monte alla città fu un vero trionfo, perchè il popolo, nonostante il pericolo che correva, venne in folla a salutare colui che aveva in somma venerazione. Fra tanta gente corse anche una povera donna che, tenendo il suo povero bambino moribondo sulle sue braccia, scongiurava con molte lacrime il Santo a chiedere a Dio la guarigione del figlio. Una spina di pesce gli si era fermata in gola e pareva lo volesse soffocare da un momento all'altro. Biagio, mosso a compassione di quel bambino, sollevò gli occhi al cielo e fece sul sofferente il segno della croce.

Mamma, sono guarito,
— gridò tosto il bambino
— sono guarito!... 


Giunto a Sebaste, il prigioniero venne condotto dal giudice Agricola°, che voleva convincerlo a sacrificare agli idoli; ma il Santo con gran calma gli dimostrò che quello era un atto indegno di una creatura ragionevole, perché la ragione dice all'uomo che vi è un Dio solo, eterno, e creatore di ogni cosa, e non molti &i. Per tutta risposta il giudice lo fece battere con verghe e poi gettare in carcere.

Dopo qualche tempo lo volle di nuovo al tribunale, per interrogarlo nuovamente, ma trovò sempre in lui la più grande fermezza. Gli furono allora lacerate le carni con pettini di ferro e così lacero com'era fu sospeso ad un tronco d'albero. Sperimentati ancora contro l'invitto martire tutti i supplizi più inumani, fu condannato ad essere sommerso in un lago. I carnefici condottolo sulla sponda lo lanciarono nell'acqua, e mentre tutti si aspettavano di vederlo annegare. Biagio tranquillamente si pose a camminare sull'acqua finché raggiunse la sponda opposta. Il giudice. fuori di sè, vedendo di non poter spegnere altrimenti quella vita prodigiosa, lo fece decapitare.

PRATICA. S. Biagio è invocato per il male di gola: un bellissimo ossequio in suo onore sarebbe il non contaminare mai la nostra bocca con bestemmie o con parole disoneste. 

PREGHIERA. Dio, che ci allieti con l'annua solennità del tuo beato martire e vescovo Biagio, concedi propizio, che come ne celebriamo la festa, così ci rallegriamo ancora della sua protezione. 

AMDG et BVM

“Siate uomini di Dio, siate uomini di reazione”.

Poveri della Tradizione, 

non borghesi della Tradizione

Editoriale di "Radicati nella fede
- Anno IX n° 2 - Febbraio 2016

Sapete bene quante volte, su questo foglio di collegamento, abbiamo messo in guardia contro i pericoli del modernismo. Quante volte abbiamo reagito contro la maldestra modernizzazione della Chiesa, che sta ormai compiendosi nella più acuta crisi che la Chiesa abbia mai conosciuto nella sua storia.

Abbiamo reagito, ne sentiamo tutto il dovere; abbiamo detto di “no”; abbiamo detto di non accettare questo stravolgimento della vita cristiana che si amplifica sotto i nostri occhi.

È bene, però, ricordare che non abbiamo fatto solo questo, e che non abbiamo fatto innanzitutto questo: ci siamo prima preoccupati di assicurare tra noi una vita stabilmente cristiana.

, perché “essere contro” non equivale a fare il cristianesimo. È un'illusione mortale quella di pensare che essere contro qualcosa equivalga automaticamente a costruirne l'alternativa.

Sarebbe per noi un gravissimo inganno quello di pensare che basti reagire al modernismo teologico, al pastoralismo ingannevole del post-concilio, alla mania di mettere al passo con le ultime mode del mondo la vita cristiana, per vedere sorgere un Cattolicesimo sano, secondo Tradizione.

Il père Emmanuel Andrè, di cui tanto riferiamo sul nostro bollettino e che costituisce certamente uno dei più fulgidi esempi sacerdotali nella Chiesa dei tempi moderni, disse ai suoi monaci, difronte al dilagante Naturalismo: “Siate uomini di Dio, siate uomini di reazione”.

Verissimo! Per essere di Dio, occorre reagire contro il male dilagante. Occorre dire di “no” all'errore che è in te, e al veleno che circola nel mondo.
Ma non basta dire di no, occorre essere di Dio: “Siate uomini di Dio...”. La reazione, quella sana, nasce solo dall' “essere di Dio”. 
Occorre preoccuparsi dunque di fare il cristianesimo; l'interesse dev'essere concentrato sul vivere una vita autenticamente cristiana, sul lavorare perché molti abbiano i mezzi e la possibilità di “essere di Dio”.

Ci sono alcuni, in certo mondo tradizionalista o conservatore, che sono permanentemente in reazione, in perenne accusa, rischiando di esaurire i propri sforzi nello scovare il male attorno a loro.
E quando reagiscono contro i cristiani ammodernati, sembrano attendere il cattolicesimo vero dai “modernisti” stessi, pretendendo da loro una conversione che forse attenderanno invano.

No! Occorre fare il cristianesimo, questo attende Dio da noi; per questo ci da la sua grazia.

Un grande benedettino, il Card. Schuster, difronte alla grave crisi di qualche monastero, consigliava di non perdere tempo nel tentare la sua riforma, ma di fondarne a fianco un altro, dove regnassero l'osservanza della Regola di San Benedetto e uno spirito autenticamente monastico: nel momento più forte della crisi, questi nuovi monasteri osservanti sarebbero stati l'anima della rinascita cristiana e monastica.

Così anche per noi: occorre impiantare una vita veramente cristiana dove viviamo, attorno alla Messa tradizionale, fonte di inaudite grazie. Occorre fare il cristianesimo senza perdere nemmeno un minuto, là dove sacerdoti di retta intenzione tornano ad assicurare la Tradizione, nei sacramenti e nella dottrina. I preti, almeno quelli che hanno capito, hanno il dovere di garantire la Tradizione, e i fedeli di riconoscerla e di muoversi!

Ci resta da ricordare però un fatto non secondario: per fare il cristianesimo occorre “dare la vita”.
Dare la vita, è questa l'obbedienza vera che Dio attende da noi.
Dare la vita, cioè tutto, perché se Dio non può chiederci tutto, vuol dire che per noi non è.

Questo dare tutto, va vissuto in una coscienza limpida, unita ad una concretezza estrema, operativa.
L'impiantare il cristianesimo inizia dalla grazia, cioè dall'altare del Signore: è dalla messa cattolica, dal sacrificio di Cristo, che tutto ha vita, dottrina, preghiera, opere, carità, cultura...
Per assicurare il culto e la vita cattolica, secondo tradizione, occorre dare la vita: siamo disposti a questo, o ci basta essere contro?
Se, improvvisamente, fosse data piena libertà all'esperienza della Tradizione, se nella Chiesa ci fosse data questa libertà totale, sorgerebbero questi luoghi di grazia intorno all'altare grazie a noi? Oppure, questo miracolo di libertà per la Tradizione ci troverebbe ancora impegnati ad assicurarci le nostre libertà, i nostri umori alterni? Un siffatto miracolo non ci coglierebbe forse preoccupati di garantirci ancora il nostro “tempo libero”, come fa il resto del mondo?

Solo perché ogni Domenica, e sottolineiamo ogni, ci sia la messa cantata, occorre che molti diano la vita! Il prete che la celebra, l'organista che accompagna il canto, la schola che sostiene la lode del popolo, i fedeli che stabilmente si riferiscono a quella chiesa.

Vedete, la nuova liturgia, miseramente ridotta, di fatto ha garantito, favorendole, le “libertà” e il disimpegno dei fedeli. Sembra nata per intrattenere e non per fare il cristianesimo.

Per fare il cristianesimo occorre non essere liberali, ma uomini impegnati con Dio, consegnanti tutto a Dio: solo i poveri, quelli veri, lo capiscono, non i “borghesi” della tradizione.

Poveri sono quelli che non sperano la salvezza da sé, dal proprio giudizio e azione. Poveri sono quelli che si consegnano a Dio, disposti a dare tutto perché la Chiesa Cattolica continui ad esserci.
Borghesi sono, invece, quelli impegnati a salvare i propri spazi di libertà. Sono liberali nell'anima; vogliono amare Dio, ma non consegnando tutto: loro si illudono e la Chiesa scompare.

Che questa Quaresima ci insegni la vera obbedienza al Signore.
AMDG et BVM

martedì 2 febbraio 2016

L'AFFASCINANTE STORIA DI MOSE'


STORIA DI MOSE'

Ritorno in Egitto (Es 4, 18‑27)

Decise allora di ritornare in Egitto conducendo con sé la moglie e il figlio. Nel viaggio, come dice la storia, gli andò incontro un angelo, che gli minac­ciò la morte, ma la donna riuscì a placarlo con il sangue della circoncisione del figlio.
Anche Aronne, suo fratello, venne a incontrarlo e a parlargli secondo l’ordine che aveva ricevuto da Dio.

Per la liberazione del popolo (Es 4, 28‑31; 5, 1‑19)

Il popolo che viveva disperso in mezzo agli Egi­ziani e oppresso sotto i lavori forzati, fu da loro convocato in assemblea, dove essi promisero a tut­ti la liberazione dalla schiavitù. Il proposito fu ma­nifestato al sovrano da Mosè stesso, ma quello si mise a opprimere ancor più gli Israeliti, mostran­dosi più esigente con i sovraintendenti ai lavori. Or­dini più severi imposero la raccolta di una quanti­tà maggiore di argilla, di paglia e di stoppa.

Gli indovini egiziani e i serpenti (Es 7, 8‑13)

Quando il Faraone, tale era il nome del tiranno degli egiziani, fu informato dei portenti che Mosè aveva compiuto in mezzo al suo popolo, escogitò dei raggiri servendosi degli indovini. Era convinto che le arti magiche di costoro avrebbero potuto ripro­durre lo stesso portento delle verghe trasformate da Mosè in serpente al cospetto di tutti gli Egiziani.
In realtà, anche le verghe degli indovini diven­nero serpenti, ma il serpente uscito dalla verga di Mosè si lanciò su di loro e li divorò.
Questo bastò a smascherare l’errore e mostrare che la magia aveva saputo procurare alle verghe sol­tanto una vita effimera, capace di destare l’ammi­razione di persone facili a lasciarsi ingannare.

Le piaghe d’Egitto (Es 7, 14‑11, 36)

Quando Mosè s’accorse che anche il popolo egi­ziano appoggiava pienamente il despota autore di quei raggiri, procurò di colpirli tutti indistintamen­te, con dei castighi.
Gli stessi elementi del mondo materiale, quasi un esercito agli ordini di Mosè, si schierarono con­tro gli Egiziani: la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco mu­tarono le loro qualità naturali, ma soltanto quan­do si trattava di castigare gli Egiziani maldisposti verso gli Ebrei. Quando qualcuno di questi elemen­ti causava la punizione dei primi, contemporanea­mente e nel medesimo luogo lasciava immuni gli altri, perché innocenti.

Le acque mutate in sangue (Es 7, 14‑25)

Così le acque d’Egitto si mutarono in sangue coagulato che, formando una massa compatta, fe­ce morire i pesci. Ma per gli Ebrei l’acqua restò quella che era, anche se, per il suo apparente colo­re, poteva essere scambiata per sangue.
Gli indovini presero a pretesto l’apparenza di sangue che aveva l’acqua usata dagli Ebrei, per or­dire nuovi inganni.

Le rane (Es 7, 26; 8, 11)

Una moltitudine di rane riempì in seguito tutto l’Egitto. Esse non venivano da una eccezionale pro­liferazione della natura, ma le fece accorrere in nu­mero straordinario un ordine di Mosè. Penetraro­no così in tutte le case degli Egiziani, causando gra­vi danni, ma non toccarono quelle degli Ebrei.

Le tenebre (Es 10, 21‑23)
Ill nuovo castigo degli Egiziani fu di non riuscire più a distinguere il giorno dalla notte. Restarono avvolti in una oscurità continua, mentre gli Ebrei non trovarono mutato il consueto alternarsi di luce e tenebre.

Altre calamità (Es 8,12‑10, 20)

Molte altre calamità vennero suscitate da Mosè contro gli Egiziani: la grandine, il fuoco, le mosche, le pustole, i topi, gli sciami di cavallette. Tutte que­ste cose procurarono danni di maggiore o minore entità in conformità con la loro specifica natura. Come sempre, gli Ebrei non subirono danno alcu­no, ma ne venivano a conoscenza dalle grida e dal­le informazioni dei loro vicini Egiziani.

La morte dei primogeniti (Es 12,29‑30)

Tuttavia il fatto che rese più evidente questa di­versità tra Ebrei ed Egiziani, fu la morte dei pri­mogeniti. Davanti ai loro figli più cari trovati mor­ti, gli Egiziani levarono grandi grida di dolore, men­tre tra gli Ebrei c’era piena tranquillità e sicurez­za. Essi infatti avevano segnato gli stipiti delle por­te di ogni loro casa con il sangue degli agnelli uc­cisi e questa fu la ragione della loro salvezza.

La partenza degli Ebrei (Es 12,37‑42)

Mosè non appena vide gli Egiziani colpiti indi­stintamente con la morte dei loro primogeniti e, per tanta disgrazia, immersi nel dolore e nel pian­to, diede agli Israeliti l’ordine della partenza, ren­dendoli docili con l’invito a chiedere agli Egiziani le loro suppellettili, a titolo di prestito.

L’inseguimento (Es 14,5‑9)

Per tre giorni gli Ebrei camminarono fuori dei confini dell’Egitto, ma l’Egiziano, ci dice la storia, dispiaciuto che Israele non fosse più sottoposto al­la sua schiavitù, decise di assalirli con la forza, mandando contro di loro un esercito di cavalieri. Alla vista dell’esercito con armi e cavalli gli Ebrei, poco pratici di guerra e non abituati a tali spetta­coli, si spaventarono e si ribellarono a Mosè. Ma qui la storia riferisce sul conto di questi un fatto quasi incredibile: mentre infatti egli moltiplicava le energie per incoraggiare i suoi, esortandoli a nu­trire buone speranze, nel suo intimo supplicava il Signore che li liberasse dalle angustie.
Riferiscono che Dio intese quel grido silenzioso, consigliando a Mosè come scampare dal pericolo.

La nube (Es 13,21‑22)

Intanto era apparsa una nube a far da guida al popolo. Essa non consisteva di vapori umidi, sog­getti a condensazione, come normalmente avviene. Era una nube dalla straordinaria composizione cui corrispondevano altrettanto straordinari effetti. In­fatti era guidata dal Signore e, se stiamo alle infor­mazioni del racconto, avveniva questo: quando i raggi del sole splendevano con forza, la nube face­va da riparo al popolo, mandando ombra a chi le stava sotto e insieme una sottile rugiada, che rin­frescava l’aria infuocata; di notte invece, si trasfor­mava in fuoco che, da sera fino all’alba, mandava luce sul cammino degli Israeliti[1].





[1] Questi elementi della scienza fisica antica relativi alla composizione delle nubi, sono trattati da Gregorio anche in al­tre sue opere come l’Explicatio in Exaemeron (PG 44, 97 D), e i Libri contra Eunomium (PG 45, 344 B ‑ 577 A).

SINAGOGA-VATICANO