lunedì 17 novembre 2014

Binomio inscindibile

Molto opportunamente offriamo ai lettori la sintesi della relazione del prof. De Mattei su Il latino,la lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità, tenuta a Roma in occasione del Convegno "Summorum Pontificum" del 14-15 maggio 2011 



De Mattei: latino e Chiesa cattolica, binomio inscindibile.

Il prof. de Mattei ha affrontato un argomento che, potremmo dire, è coessenziale al nome stesso del nostro blog [http://blog.messainlatino.it/]Il latino, lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità.

La tesi dello storico, sostenuta con dovizia di riferimenti documentali  che qui, ovviamente, non possiamo riportare, è che la lingua latina sia costitutiva della stessa liturgia cristiana: non, quindi, elemento accidentale che può essere tranquillamente abrogato o modificato.

E' vero che la prima liturgia cristiana fu espressa nel greco dellakoiné, ma fin dai primi secoli a Roma l'utilizzo del latino si diffonde, secondo quanto possiamo ricostruire dai resti epigrafici.

Papa San Damaso, nel IV secolo, benché spagnolo di nascita, rafforzò la romanità, nelle sue due articolazioni: da un lato lapetrinitas, cioè il primato del romano pontefice, dall'altro lalatinitas, ossia la romanità della Chiesa . A lui si deve l'adozione della lingua latina come lingua universale della Chiesa, che esprime una rinnovata Weltanschauung della Chiesa.

Quando Teodosio il Grande vinse la battaglia del Frigido contro i pagani barbari, si saldò definitivamente l'unione tra il romano impero e la Fede cristiana. Fino alla riforma liturgica, si continuò quindi a pregare per il romanus imperator, anche se il Sacro Romano Impero era stato dissolto nel 1806 e la stessa casa di Asburgo, che aveva per secoli cinto il serto imperiale, era decaduta nel 1918.

La liturgia della Chiesa non nasce nel IV-V secolo, ma in quel tempo essa fu codificata in stretta aderenza al traditum: in un rescritto del 416 Innocenzo I attesta come la Liturgia romana rappresentava l'antico costume fedelmente conservato. E' la tradizione di sempre, però romanamente sfrondata delle ampollosità che in Oriente ebbero tanto successo.

Il latino arrivò con la fede là dove le legioni romane non misero mai piede, come in Irlanda: ecco la risposta migliore contro chi crede che la Fede si sia inculturata nella latinità, e non viceversa. Le genti irlandesi non parlavano affatto il latino, e l'evangelizzazione avvenne in gaelico, ma accolsero la liturgia nella sua pura forma latina, la fecero propria e la difesero nei secoli contro le più dure persecuzioni.

Lungi dall'inculturarsi nella (inesistente) latinità irlandese, la Fede trapiantò la latinità nell'Irlanda e da là, grazie ai 40 benedettini irlandesi, si diffuse alla Scozia e pure in Inghilterra a sud del Vallo di Adriano, dove era quasi estinto perfino il ricordo dell'Impero romano. Da lì, ulteriormente, in Germania, altro territorio ove le legioni erano state fermate nella selva di Teutoburgo e la latinità romana non era prima pervenuta.

Il greco ambì a divenire come il latino lingua universale, a causa del nazionalismo del patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca ambiva a soppiantare il Papa, sul rilievo del primato politico della Seconda Roma (Costantinopoli) rispetto alla decaduta Roma che non aveva più imperatori. Ma in Oriente il Patriarca era soggetto al cesaropapismo imperiale e non valeva molto di un funzionario imperiale. Il greco scomparve gradualmente, poi, per effetto delle invasioni musulmane.

Quando l'Impero romano rinacque con Carlo Magno, la latinitasriassunse anche un ruolo politico di unificazione; e quando nel Basso Medioevo iniziarono a diffondersi le lingue nazionali, l'uso del latino non declinò, e restò la lingua internazionale fino al XVIII secolo, la lingua della Chiesa, della scienza, della diplomazia.

Vi è una necessità, sia pure storia e non metafisica, di relazione tra il cattolicesimo e la lingua latina. Quel binomio che il padre Chénu, alla vigilia del Concilio, si proponeva di spezzare eliminando il latino dalla vita della Chiesa. Il movimento liturgico pure auspicava un rinnovamento in tal senso in nome di una maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia. Ma a questi aneliti rispondeva Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia, promulgata con la massima solennità (il giorno della Cattedra di Pietro, in San Pietro, davanti a numerosi cardinali e vescovi), che alla vigilia del Concilio, e come ad orientarne gli esiti, chiedeva non solo di conservare l'uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l'utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria e volgare, e dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla fluttuazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

E' significativo che anche il codice canonico per le chiese orientali sia sempre stato in lingua latina.

Nessun'altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità e, al tempo stesso, di essere aliena ai nazionalismi. La massoneria internazionale da sempre ricerca una società perfetta che parli un'unica lingua ed ha escogitato l'esperanto, però miseramente fallito; mai ha pensato di utilizzare allo stesso fine il latino, per odio alla Chiesa.

L'uso della lingua volgare è una caratteristica di tutte le eresie di questo millennio, a cominciare da quella catara.


L'intervento del prof. de Mattei è stato interrotto a questo punto dall'arrivo dal card. Castrillòn Hoyos, che è stato accolto da un calorosissimo applauso.

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla compresione unitaria delle lingue: logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un'unica lingua per tutti. La lingua latina, ricordava Giovanni XXIII, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L'unità linguistica resta un modello e un ideale; e se nella predicazione è giocoforza utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono l'unica lingua sacra. Fu un grave errore del postconcilio che la Chiesa si facesse immanente al mondo rinunziando alla sua lingua, proprio quando l'incipiente mondializzazione avrebbe richiesto un gesto in senso esattamente contrario.

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas latinitas; e in esse trova pieno spazio il rito romano antico riportato alla Chiesa dal motu proprio Summorum Pontificum. Ricordando che Pio XII scriveva che il sacerdote che misconoscesse il latino era afflitto da una "deplorevole miseria intellettuale".

Lunga standing ovation finale.
Enrico

"San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia contro le insidie e la malvagità del demonio e sii nostro aiuto.

Te lo chiediamo supplici che il Signore lo comandi.

E tu, principe della milizia celeste, con la potenza che ti viene da Dio, ricaccia nell'inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che si aggirano per il mondo a perdizione della anime. Amen."

domenica 16 novembre 2014

Con Il Santo leggiamo la Sacra Scrittura



........16. “Come igigli lungo un corso d’acqua”. Osserva che il giglio nasce da terra non coltivata, germoglia nelle valli, è profumato e candido; chiuso, mantiene il profumo, aperto lo diffonde; ha sei petali, ha sei stami dorati e nel centro il pistillo; ha la proprietà di guarire le ustioni. È chiamato giglio perché è quasi latteo (lat. lilium,lacteum), e raffigura la beata Vergine, candida per lo splendore della verginità, che è nata da genitori casti e umili: Gioacchino, il cui nome significa “Dio rialza”, e Anna, che vuol dire “grazia”. Oggi Maria ha partorito il Figlio di Dio come il giglio effonde il suo profumo.

Questo giglio ha sei petali, ecc. Su questo leggi la spiegazione del brano evangelico “Mentre le folle facevano ressa intorno a Gesù” (Lc 5,1) della domenica V dopoPenteco­ste, II parte, dove si parla dei sei gradini del trono di Salomone.

Gli stami dorati del giglio sono la povertà e l’umiltà, virtù che in Maria furono l’ornamento della sua verginità. Il pistillo al centro del giglio raffigura la sublimità del divino amore che era nel cuore della beata Vergine. È lei la medicina dei peccatori, che sono stati ustionati dal fuoco dei vizi.

Di costoro dice Gioele: “Tutti i loro volti diverranno del colore della pentola” (Gl 2,6). La pentola è un vaso che serve per cuocere, ed è così chiamata (lat. olla) perché in essa l’acqua, con il fuoco sotto, bolle e produce vapore. Per questo è detta anche “bolla”, la quale si produce all’interno dell’acqua come per lo spirare del vento. La pentola è la mente del peccatore, nella quale sta l’acqua della concupiscenza, che produce le bolle dei pensieri perversi, quando sotto vi è posto il fuoco della suggestione diabolica. 
Da questa pentola procede il fumo del cattivo consenso che acceca gli occhi dell’anima: e così la mente del peccatore si copre di nero. Il volto è chiamato così perché da esso traspare la volontà dell’animo (vultus, voluntas), e sta ad indicare le opere, dalle quali si conosce l’uomo. Perciò i volti dei peccatori diverranno del colore della pentola, quando dalla nerezza della mente vengono contaminate le opere. 

La beata Vergine Maria, con il candore risanante della sua santità elimina questa nerezza, risana questa ustione e ridona la piena salute a coloro che sperano in lei.
 

“Come i gigli lungo un corso d’acqua”, quasi a dire: Come i gigli lungo un corso d’acqua permangono nella loro freschezza e bellezza e con il loro profumo, così la Vergine Maria, quando diede alla luce il Figlio, restò nella freschezza e nella bellezza della sua verginità.

Ti preghiamo quindi, o nostra Signora, alma Madre di Dio: in questa festa della natività del tuo Figlio, che hai generato restando vergine, che hai avvolto in panni, che hai deposto nella mangiatoia, ottienici da lui il perdono, risana le ustioni della nostra anima, che ci siamo procu­rati con il fuoco del peccato; risanale con il balsamo della tua misericordia, per mezzo della quale meritiamo di giungere al gaudio dell’eterna festa.




Ce lo conceda colui che oggi si è degnato di nascere da te, o Vergine gloriosa, e al quale è onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.




Santa Gertrude:"...Ebbi dunque l'assoluta certezza che se qualsiasi anima, desiderosa di riceverti nella S: Comunione, ma trattenuta da esitazioni di coscienza, a me, ultima fra le tue serve, si rivolgesse, per avere luce e consiglio, quest'anima, dico, sarebbe giudicata degna, in ricompensa della sua umiltà, di ricevere tanto Sacramento e di gustarne il frutto per la sua eterna salvezza; che se poi non fosse degna di accogliere nel suo cuore, non avresti neppure permesso che a me si rivolgesse per consiglio...."


CAPITOLO XX. - PRIVILEGI SPECIALI ACCORDATI DA DIO A GELTRUDE




Il mio cuore, l'anima mia, con tutta la sostanza della mia carne, con tutti i sensi e le forze del corpo e dello spirito, insieme alle creature del mondo intero, offrano lodi e ringraziamenti a Te, dolcissimo Dio, fedele amante degli uomini, per la misericordia infinita che mi hai usato. La tua bontà non solo ha chiuso gli occhi, per così dire, sulla insufficiente preparazione da me portata all'eccellentissimo convito del tuo Corpo e Sangue, ma nella tua generosa liberalità. verso la più vile e inutile delle creature, hai voluto aggiungere altra grazia di grande pregio.

Ebbi dunque l'assoluta certezza che se qualsiasi anima, desiderosa di riceverti nella S: Comunione, ma trattenuta da esitazioni di coscienza, a me, ultima fra le tue serve, si rivolgesse, per avere luce e consiglio, quest'anima, dico, sarebbe giudicata degna, in ricompensa della sua umiltà, di ricevere tanto Sacramento e di gustarne il frutto per la sua eterna salvezza; che se poi non fosse degna di accogliere nel suo cuore, non avresti neppure permesso che a me si rivolgesse per consiglio. O eccelso Dominatore che « abiti in alto, ma riguardi le cose basse » (Salmo II) quali erano i disegni della tua misericordia, quando vedevi me, così indegna, nutrirsi frequentemente del tuo Sacratissimo Corpo e meritarmi dalla divina giustizia, un severo giudizio?

Certo Tu volevi che gli altri fossero adorni della virtù dell'umiltà per accostarsi alla mensa angelica, e quantunque Tu non avessi certo bisogno del mio ausilio per questo, tuttavia piacque alla tua infinita bontà di servirsi della mia indigenza, perchè potessi partecipare ai meriti di coloro che, seguendo i miei consigli, verrebbero a gustare il frutto di vita eterna.

Ma siccome purtroppo la mia miseria profondissima aveva bisogno di un rimedio anche più efficace, Tu non ti sei accontentato, o Dio di bontà, d'accordarmi il privilegio suesposto. Mi hai anche assicurato che, se un'anima contrita e umiliata venisse gemendo ad espormi una colpa, sarebbe da Te tale colpa giudicata grave, o leggera, a seconda del mio giudizio. Di più l'abbondanza de' tuoi soccorsi rinforzerebbe quell'anima in modo tale che, da quel punto, più non cadrebbe nel medesimo difetto. Mi hai così offerto un aiuto efficace, facendo ricco delle vittorie altrui il mio povero cuore, sempre così negligente, che non seppe mai vincere un difetto, come avrei dovuto farlo; ti sei perciò servito, o Dio di bontà, del più vile strumento in modo che con le mie parole, i tuoi diletti amici ricevessero grazie di vittorie decisive.

La tua magnifica generosità si degnò arricchire la mia miseria in un terzo modo: Tu decretasti che se io, appoggiandomi alla tua misericordia, promettessi a qualche anima una grazia, od il perdono d'una colpa, Tu confermeresti in cielo la mia parola con pieno esaudimento, proprio come se Tu stesso l'avessi giurato con la tua bocca divina. Tu aggiungesti, che se la grazia tardasse ad avverarsi, dovrei rammentarti tale promessa. Anche questo beneficio collaborava alla salvezza dell'anima mia, secondo il detto evangelico: « Eadem mensura qua mensi fueritis remetietur vobis. Vi si misurerà con la misura da voi usata nel misurare » (Luc. VI, 38), perchè, se purtroppo mi accade di mancare spesso, anche gravemente, Tu troverai in questo privilegio che mi venne accordato, un motivo di giudicarmi con maggiore indulgenza.

Per beneficarmi mi hai concesso un quarto dono, e cioè che chiunque si raccomandasse, con umiltà e divozione alle mie preghiere, sarebbe senz'altro esaudito. Hai voluto così supplire alla trascuratezza con cui adempio a' miei doveri di pietà, sia nelle preghiere prescritte dalla Chiesa, sia In quelle di libera scelta, e hai trovato modo d'applicarmene il frutto, secondo la parola di Davide: « Oratio tua in sinum tuum convertetur - La tua preghiera ritornerà nel tuo seno » (Salmo XXXIV, 13): mi hai così permesso di partecipare ai meriti di coloro che si saranno serviti di me, indegnissima, per chiederti benefici.

Ed ecco un quinto favore affatto speciale; e cioè che tutti coloro che mi confidassero lo stato della loro anirna, non partirebbero da me senza ricevere particolari consolazioni, purchè abbiano buona volontà, intenzione retta ed umile confidenza. Con ciò Tu provvedesti al mio bisogno, perchè spesso, ohimè 1 invece di servirmi per la tua gloria della grazia di un facile eloquio, mi diffondo in parole inutili; in avvenire trarrò almeno qualche profitto dai consigli dati al prossimo.

La tua instancabile liberalità, o Dio infinitamente buono, mi accordò ancora un sesto beneficio, che io reputo maggiore e più necessario degli antecedenti: Tu mi hai dato l'assoluta certezza che l'anima caritatevole che pregherà con fede e divozione per me, che sono la più vile delle creature, ovvero che supplicherà Dio con preci, o con opere buone per Yemen_ da de' miei difetti, per il perdono delle ignoranze della mia gioventù e la correzione della mia malizia, quest'anima, dico; sarà ricompensata in modo che non uscirà da questo secolo senza aver prima gustato le dolcezze della tua familiarità. Con questa elargizione la tua paterna tenerezza volle soccorrere la mia estrema indigenza, perchè Tu ben sai quanto io abbia bisogno di espiare le mie colpe ed infedeltà. Il tuo amore misericordioso non poteva lasciarmi perire, e d'altronde la perfezione della tua giustizia non poteva salvarmi con tante mancanze; così hai provveduto che, per la partecipazione di molti, crescesse il guadagno dei singoli.

Infine, per un vero eccesso di generosità, Tu, o mio Dio, mi hai dato ancora. questa certezza: che cioè chi, dopo la mia morte, si raccomanderà alle mie indegne preghiere, ricordandomi la divina familiarità di cui mi hai onorata, sarà da Te esaudito purchè, in riparazione delle sue negligenze quest'anima ti ringrazi dei cinque benefici particolari di cui mi hai arricchita.



Il primo è quell'amore con cui la tua gratuita bontà mi prescelse ab eterno: il che, a dire il vero, è il più gratuito fra tutti i tuoi doni, poichè Tu avevi previsto la mia condotta perversa, la mia malizia nefanda, e l'eccesso della mia ingratitudine nell'usare de' tuoi favori, tanto che avresti potuto trattarmi come i pagani e privarmi, a buon diritto, dell'onere di essere, se così posso esprimermi, una creatura ragionevole. Ma la tua infinita tenerezza, che supera. di gran lunga la mia miseria, mi ha scelto, fra mille, per insignirmi, del carattere di Religiosa.

Il secondo beneficio è quello di avermi attirata tutta a Te; riconosco che la dolcezza e la bontà del tuo amore hanno saputo con tenere carezze, vincere questo mio cuore ribelle a cui si addicevano catene di ferro. Pareva quasi che Tu, o Gesù, avessi trovato in me una Sposa degna di Te, come se l'unirti a me fosse il tuo più grande diletto.

Il terzo beneficio consiste in quest'unione familiare che Tu hai meco contratta, e che giustamente devo attribuire alla sovrabbondanza della tua liberalità. Come se il numero dei giusti non fosse sufficiente a ricevere le tue divine tenerezze, ti degnasti di chiamare me, ultima nei meriti, perchè la tua meravigliosa accondiscendenza risplendesse maggiormente, investendo l'anima meno preparata.

Il quarto beneficio è che ti sei degnato abitare con gioia, e fare tua delizia nell'anima mia. Non devo forse attribuire tale degnazione alla follia del tuo amore, se così posso esprimermi? Ed in seguito hai confermato di trovare la felicità, unendo la tua onnipotente Sapienza a un essere così meschino, dissimile e affatto indegno di tale unione.

Il quinto beneficio consiste nel volermi consumare tutta in Te; quantunque ne sia indegnissima, spero, con umiltà e confidenza, che il tuo fedelissimo amore mi accorderà questa grazia. Ne godo fin da questo momento, con tenerezza e gratitudine, protestando che non la devo ai miei meriti, ma solo alla tua gratuita clemenza, o mio Bene Supremo, o mio unico, eterno Amore!


Questi singoli benefici sono frutti di stupenda degnazione, così sproporzionati alla mia bassezza, che in nessun modo posso ringraziartene come meriteresti. Perciò soccorresti anche in questo la mia indigenza, allettando altre anime, con dolci promesse, a ringraziartene per me, affinchè i loro meriti suppliscano a quello che mi manca.

Ne siano rese lodi e ringraziamenti a Te, o mio Dio, in cielo, sulla terra e nei luoghi inferiori!

Il tuo onnipotente amore si degnò infine di confermare tutte le suddette promesse, nel modo che ora esporrò. Un giorno, ripensando a' tuoi benefici, paragonavo la mia empietà alla. divina tenerezza con cui la tua infinita sovrabbondanza mi colma di gioia; giunsi a tal eccesso di presunzione di lagnarmi che Tu non avessi ratificato quei privilegi col darmi la mano, come fanno gli stipulatori. La tua bontà, sempre accondiscedente, volle esaudirmi. « Per tagliar corto a' tuoi lamenti, avvicinati » mi dicesti « e ricevi la conferma del nostro patto ». E tosto, dal fondo della mia bassezza vidi che Tu mi aprivi, per così dire, con ambo le mani il tuo sacratissimo Cuore, arca di divina fedeltà e d'infallibile verità, ordinandomi di porvi la mano, io, perversa creatura, che, come i Giudei, chiedevo segni e miracoli. Chiudendo allora la mia mano nel tuo Cuore, aggiungesti « Io ti prometto di serbarti sempre intatti i doni che ti ho conferito. Se la sapienza disposizione della mia Provvidenza ti privasse, per qualche tempo, dei loro effetti, mi obbligo in seguito, a renderti il triplo in nome della Onnipotenza, della Sapienza, della Bontà della SS. Trinità, nel seno della quale vivo ell regno; vero Dio, nei secoli dei secoli ».

Dopo queste tenere parole, ritraendo io la mano, apparvero in essa sette anelli d'oro, uno per dito e nell'anulare tre, per fedele testimonianza, che i predetti privilegi mi sarebbero confermati secondo le mie brame.

La tua inesauribile tenerezza aggiunse queste parole « Tutte le volte che ripensando alla tua indegnità, ti riconoscerai immeritevole de' miei favori, eppure confiderai nella mia misericordia, mi offrirai un adeguato tributo per i miei doni ».

Oh, quanto la tua paterna tenerezza è industriosa nel provvedere alle tue creature vili e degeneri! Non sono nata nell'innocenza, quindi non potevo offrirti divozione a Te gradita, pure ti sei degnato accettare, come omaggio a Te caro, la conoscenza convinta della mia bassezza, immeritevole de' tuoi doni, Ti prego di concedermi o generoso Dispensatore di ricchezze, Tu da cui ogni bene procede e senza cui nulla può essere reputato buono, la grazia di capire la mia miseria di fronte alle tue grazie, e di confidare incondizionatamente nella tua divina bontà.

 


CAPITOLO XXI. - EFFETTI DELLA VISIONE DIVINA


Mi parrebbe ingiusto e sconveniente passare sotto silenzio, una grazia che, per tua meravigliosa degnazione e amorosa accondiscendenza, ricevetti durante una Quaresima. Nella seconda domenica di tale tempo, mentre alla processione; che precede la S. Messa, si cantava il responsorio « Vidi Dominum fatte ad faciem » l'anima. mia si trovò investita da uno stupendo lampo di luce divina; vidi il tuo stesso sacro Volto vicino al mio, conforme a quanto scrive S. Bernardo « Esso non riceve la luce, ma la dà, non colpisce gli occhi del corpo, ma rallegra il cuore; è amabile, non tanto per lo splendore della tinta, quanto per i doni dell'amore ». In questa visione i tuoi occhi, lucenti come il sole sembravano fissarsi direttamente nei miei. Sentii compenetrata l'anima, il cuore, e tutte le potenze di tale soavità che può essere nota a Te solo. Possa io mostrarmene grata con l'ardente fedeltà di tutta, la vita!

Come la rosa è più apprezzata in primavera per la vaghezza de' suoi colori e la fragranza de' suoi profumi, ma anche d'inverno, benchè essicata, non manca di diffondere sbavi olezzi della sua grazia primaverile; così l'anima mia prova gioia ineffabile al ricordo dei benefici ricevuti.

Pertanto. desidero esprimere con un paragone, quello che la mia piccolezza ha gustato in quella deliziosa visione; perchè, se alcuno dei lettori ricevesse grazie consimili, ed anche maggiori, sia eccitato a sentimenti di gratitudine, e io stessa, rievocando ore di paradiso, dissipi la nebbia delle mie negligenze, ed attesti la mia frequente gratitudine a quel divino Sole, specchio di giustizia, che su me dardeggia i suoi fulgidissimi raggi.

Avendo Tu dunque accostato a me il tuo sacratissimo Volto, che diffonde l'abbondanza della beatitudine, sentii che da' tuoi divini occhi irradiava un'incomparabile soave luce. Essa, passando da' miei occhi e penetrando l'intimo del mio essere, sembrava produrre in tutte le membra un effetto oltremodo ammirabile; dapprima, quasi vuotando tutte le midolla delle ossa, poi annientando le ossa stesse con la carne, tanto che sentivo tutta la mia sostanza trasformata in un divino splendore che, cangiandomi in se stesso in modo delizioso, porgeva all'anima mia soavità incomparabile e serena letizia. Che dirò ancora riguardo a questa giocondissima visione? E posso davvero chiamarla visione, perchè mi pare che tutta, l'eloquenza del mondo non sarebbe sufficiente per esprimere questo modo sublime di contemplarti che non avrei mai creduto potesse esistere, neppure nella gloria celeste, se la tua degnazione, o mio Dio, unica salvezza dell'anima mia, non m'avesse indotto ad ammetterlo per mia dolcissima esperienza.

Aggiungo volentieri che, se nelle cose divine capita come nelle cose umane, e che se la dolcezza del tuo celeste bacio supera, come credo, il gaudio di tale visione, è necessario un aiuto speciale per sostenere la creatura terrena, giacché sarebbe impossibile ad un'anima godere tale favore, anche per un solo istante, e rimanere prigioniera del corpo. Non ignoro però che la tua onnipotenza si unisce alla tua sapienza infinita per regolare gradatamente le visioni, i baci, gli amplessi e le altre dimostrazioni d'amore; secondo le circostanze, i luoghi, i tempi e le persone.

O Signore, io ti ringrazio, unendomi a quel reciproco amore che regna nell'adorabile Trinità, per la dolce esperienza che mi hai dato del tuo bacio divino. Talvolta quando ero seduta in coro, pensando a Te nell'intimo dell'anima mia, o quando salmodiavo le ore canoniche, o l'ufficio per i defunti, sentivo sulle labbra l'impressione del tuo bacio d'amore, perfino dieci volte e più, durante un solo salmo, bacio sacratissimo la cui soavità supera i profumi più squisiti ed il miele più dolce. Spesso ho pure notato l'amore dello sguardo che Tu posavi su di me, e l'anima mia ha sentito l'amplesso del tuo divino abbraccio.

Sebbene tutte queste cose siano state colme d'ineffabili delizie, nessuna produsse in me così profonda impressione come la luce di quel tuo sublime sguardo, al quale più sopra ho accennato.

Con riconoscenza per questo e per tutti gli altri tuoi favori che solo Tu conosci, ti offro, o mio Dio, quell'eterno godimento che le Persone divine si comunicano nell'ineffabile soavità, che supera ogni sentimento.


“Maria Giglio della Trinità”: Domini Sacrarium, Nobile Triclinium et Complementum SS. Trinitatis!: L’Eucarestia e il velo della Veronica.

“Maria Giglio della Trinità”: Domini Sacrarium, Nobile Triclinium et Complementum SS. Trinitatis!: L’Eucarestia e il velo della Veronica.: << Che cosa è l’Eucarestia? È il mio Corpo e il mio Sangue uniti alla mia Anima e alla mia Divinità. Ebbene, quando Ella si inc...




sabato 15 novembre 2014

Domenica 16 novembre 2014, XXXIII Domenica, Anno A: Parabola dei 5 talenti; e del Buon Samaritano.


"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta

Domenica 16 novembre 2014, XXXIII Domenica 

del Tempo Ordinario - Anno A

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 25,14-30.

Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. 
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 

Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 

Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. 
Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. 
Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra; ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. 

Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.

Traduzione liturgica della Bibbia



Corrispondenza nel "l'Evangelo come mi è stato rivelato" 
di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 281 pagina 384.

1Gesù è diretto al Tempio. Lo precedono a gruppi i discepoli, lo seguono in gruppo le discepole, ossia la Madre, Maria Cleofe, Maria Salome, Susanna, Giovanna di Cusa, Elisa di Betsur, Annalia di Gerusalemme, Marta e Marcella. Non c’è la Maddalena. Intorno a Gesù, i dodici apostoli e Marziam.Gerusalemme è nella pompa dei suoi tempi di solennità. Gente in ogni via e di ogni terra. Canti, discorsi, mormorio di preghiere, imprecazioni di asinai, qualche pianto di bambino. E su tutto un cielo nitido che si mostra fra casa e casa, e un sole che scende allegro a ravvivare i colori delle vesti, ad accendere i morenti colori delle pergole e degli alberi che si intravvedono qua e là oltre i muri dei chiusi giardini o delle terrazze.Talora Gesù incrocia persone di conoscenza, e il saluto è più o meno deferente a seconda degli umori dell’incrociante. Così è profondo ma sussiegato quello di Gamaliele, il quale guarda fisso Stefano, che gli sorride dal gruppo dei discepoli e che Gamaliele, dopo essersi inchinato a Gesù, chiama in disparte e gli dice poche parole, dopo di che Stefano torna nel gruppo. Venerante è il saluto del vecchio sinagogo Cleofa di Emmaus, diretto insieme ai suoi concittadini al Tempio. Aspro come una maledizione è quello di risposta dei farisei di Cafarnao.


2Un gettarsi a terra baciando i piedi di Gesù nella polvere della via è quello dei contadini di Giocana, capitanati dall’intendente. La folla si ferma ad osservare stupita questo gruppo di uomini che ad un quadrivio si precipita con un grido ai piedi di un giovane uomo, che non è un fariseo né uno scriba famoso, che non è un satrapo né un potente cortigiano, e qualcuno domanda chi è, e un bisbiglio corre: «È il rabbi di Nazaret, quello che si dice sia il Messia».Proseliti e gentili si affollano allora curiosi, stringendo il gruppo contro al muro, facendo ingombro nella minuscola piazzetta, finché un gruppo di asinai li disperde vociando imprecazioni all’ostacolo. Ma la folla subito si riunisce di nuovo, separando le donne dagli uomini, esigente, brutale nella sua manifestazione che è anche di fede. Tutti vogliono toccare le vesti di Gesù, dirgli una parola, interrogarlo. Ed è sforzo inutile, perché la loro stessa fretta, la loro ansia, la loro irrequietezza per farsi avanti, respingendosi a vicenda, fa sì che nessuno ci riesce, e anche le domande e le risposte si confondono in un unico rumore incomprensibile. L’unico che si astrae dalla scena è il nonno di Marziam, il quale ha risposto con un grido al grido del nipotino e, subito dopo aver venerato il Maestro, si è stretto al cuore il nipote e stando così, ancora rilassato sui calcagni, i ginocchi a terra, se lo è seduto nel grembo e se lo ammira e carezza con lacrime e baci, beati, e lo interroga e lo ascolta. Il vecchio è già in Paradiso tanto è beato.Accorrono le milizie romane credendo che vi sia qualche rissa, e si fanno largo. Ma quando vedono Gesù hanno un sorriso e si ritirano tranquille, limitando a consigliare i presenti a lasciare libero l’importane quadrivio. 

E Gesù subito ubbidisce, approfittando dello spazio fatto dai romani che lo precedono di qualche passo come per fargli strada, in realtà per tornare al loro posto di picchetto perché la guardia romana è molto rinforzata, come se Pilato sapesse esservi malcontento nella folla e temesse sommosse in questi giorni in cui Gerusalemme è colma di ebrei di ogni parte. Ed è bello vederlo andare preceduto dal drappello romano, come un re al quale si fa largo mentre va ai suoi possessi. Ha detto, nel muoversi, al bambino e al vecchio: «State insieme e seguitemi»; e all’intendente: «Ti prego lasciarmi i tuoi uomini. Mi saranno ospiti fino a sera».L’intendente risponde ossequioso: «Tutto ciò che Tu vuoi sia fatto», e se ne va da solo da un profondo saluto.3È ormai prossimo il Tempio - e il formicaio della folla, proprio come di formiche presso la buca del formicaio, è ancor più forte - quando un contadino di Giocana grida: «Ecco il padrone!» e cade a ginocchi per salutare, imitato da altri.Gesù resta in piedi in mezzo ad un gruppo di prostrati, perché i contadini si erano stretti a Lui, e gira lo sguardo verso il luogo indicato, incontrando lo sguardo di un impaludato fariseo, che non mi è nuovo, ma che non so dove l’ho visto. 

Il fariseo Giocana è con altri della sua casta: un mucchio di stoffe preziose, di frange, di fibbie, di cinture, di filatterie, tutte più ampie delle comuni. Giocana guarda attento Gesù, uno sguardo di pura curiosità, ma però non irriverente. Anzi ha un saluto impettito, appena un inchino del capo. Ma è sempre un saluto, al quale Gesù risponde deferente. Anche due o tre altri farisei salutano, mentre altri guardano sprezzanti o fingono di guardare altrove, e uno solo lancia una offesa di certo, perché vedo che chi circonda Gesù sussulta e lo stesso Giocana si volta tutto d’un pezzo a fulminare con lo sguardo l’offensore, che è un uomo più giovane di lui, dai tratti marcati e duri.Quando sono sorpassati e i contadini osano parlare, uno di essi dice: «È Doras, Maestro, quello che ti ha maledetto».«Lascialo fare. Ho voi che mi benedite» dice calmo Gesù.Appoggiato ad un archivolto, insieme ad altri, è Mannaen, e come vede Gesù alza le braccia con una esclamazione di gioia: «Giornata gioconda è questa poiché io ti trovo!» e viene verso Gesù, seguito da chi è con lui. Lo venera sotto l’ombroso archivolto che fa rimbombare le voci come sotto una cupola.Proprio mentre lo venera, passano rasente al gruppo apostolico i cugini Simone e Giuseppe con altri nazareni… e non salutano… Gesù li guarda accorato ma non dice nulla. Giuda e Giacomo si parlano tra loro concitati, e Giuda avvampa di sdegno e poi parte di corsa, inutilmente trattenuto dal fratello. Ma Gesù lo richiama con un talmente imperioso: «Giuda, vieni qui!» che l’inquieto figlio di Alfeo torna indietro… «Lasciali fare. Sono semi che ancora non hanno sentito la primavera. Lasciali nel buio della zolla restia. Io penetrerò lo stesso anche se la zolla divenisse un diaspro chiuso intorno al seme. A suo tempo Io lo farò».Ma più forte della risposta di Giuda d’Alfeo suona il pianto di Maria d’Alfeo, desolata. Un pianto di persona avvilita… Ma Gesù non si volge a consolarla, benché sia ben netto quel lamento sotto l’archivolto pieno d’echi. 

Continua a parlare con Mannaen che gli dice: «Questi che con me sono, sono discepoli di Giovanni. Vogliono come me essere tuoi». «La pace sia ai buoni discepoli. Là avanti sono Mattia, Giovanni e Simeone, con Me per sempre. Accolgo voi come accolsi loro, perché caro mi è tutto ciò che a Me viene dal santo Precursore».4E raggiunta la cinta del Tempio. Gesù dà gli ordini all’Iscariota e a Simone Zelote per gli acquisti di rito e le offerte di rito. Poi chiama il sacerdote Giovanni e dice: «Tu che sei di questo luogo provvederai ad invitare qualche levita che sai degno di conoscere la Verità. Perché veramente quest’anno Io posso celebrare una festa di letizia. Mai più sarà così dolce il giorno…».«Perché, Signore?» chiede lo scriba Giovanni.«Perché ho voi intorno, tutti, o con la presenza visibile o col loro spirito».«Ma sempre vi saremo! E con noi molti altri» assicura veemente l’apostolo Giovanni. E tutti fanno coro.Gesù sorride e tace mentre il sacerdote Giovanni, insieme a Stefano, va avanti, nel Tempio, ad eseguire l’ordine. Gesù gli grida dietro: «Raggiungeteci al portico dei Pagani».Entrano e quasi subito incontrano Nicodemo, che fa un profondo saluto, ma non si avvicina a Gesù. Però ha con Gesù un sorriso di intensa intesa pieno di pace. Mentre le donne si fermano dove possono, Gesù con gli uomini va alla preghiera, nel luogo degli ebrei, e poi torna indietro, compito ogni rito, per riunirsi a chi lo attende nel portico dei Pagani.I porticati vastissimi e altissimi, sono pieni di popolo che ascolta le lezioni dei rabbi. Gesù si dirige al punto dove vede fermi i due apostoli e i due discepoli mandati avanti. Subito si fa cerchio intorno a Lui, e agli apostoli e discepoli si uniscono anche altre numerose persone che erano sparse nell’affollato cortile marmoreo. 

La curiosità è tale che anche alcuni allievi di rabbi, non so se spontaneamente o se perché mandati dai maestri, si accostano al cerchio stretto attorno a Gesù.5Gesù chiede a bruciapelo: «Perché intorno a Me vi pigiate? Ditelo. Avete rabbi noti e sapienti, benvisti da tutti. Io sono l’Ignoto e il Malvisto. Perché allora venite a Me?». «Perché ti amiamo» dicono alcuni, ed altri: «Perché hai parole diverse dagli altri», ed altri ancora: «Per vedere i tuoi miracoli», e: «Perché di Te abbiamo sentito parlare», e: «Perché Tu solo hai parole di vita eterna e opere corrispondenti alle parole», e infine: «Perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli».Gesù guarda la gente man mano che parla, quasi volesse trafiggerla con lo sguardo per leggere le più occulte sensazioni; e qualcuno, non resistendo a quello sguardo, si allontana o, quanto meno, si nasconde dietro a una colonna o a gente più alta di lui.Gesù riprende: «Ma sapete voi cosa vuol dire e vuole essere venire dietro a Me? Io rispondo a queste sole parole, perché non merita risposta la curiosità e perché chi ha fame delle mie parole è, di conseguenza, di Me amante e desideroso di unirsi a Me. Perciò, fra chi ha parlato, vi sono due gruppi: i curiosi che trascuro, i volenterosi che ammaestro senza inganno sulla severità di questa vocazione.

6Venire a me come discepolo vuol dire rinuncia di tutti gli amori a un solo amore: il mio. Amore egoista verso se stessi, amore colpevole verso le ricchezze o il senso o la potenza, amore onesto verso la sposa, santo verso la madre, il padre, amore amabile dei e ai figli e fratelli, tutto deve cedere al mio amore se si vuole essere miei. In verità vi dico che più liberi di uccelli spazianti nei cieli devono essere i miei discepoli, più liberi dei venti che scorrono i firmamenti senza che nessuno li trattenga, nessuno e nessuna cosa. Liberi, senza catene pesanti, senza lacci d’amore materiale, senza neppure le ragnatele sottili delle più lievi barriere. Lo spirito è come una delicata farfalla serrata dentro al bozzolo pesante della carne, e può appesantirne il volo, o arrestarlo del tutto, anche l’iridescente e impalpabile tela di un ragno: il ragno della sensibilità, della ingenerosità nel sacrificio. Io voglio tutto, senza riserve. Lo spirito abbisogna di questa libertà di dare, di questa generosità di dare, per poter essere certo di non essere impigliato nella ragnatela delle affezioni, consuetudini, riflessioni, paure, tese come tanti fili da quel ragno mostruoso che è Satana, rapinatore di anime.Se uno vuol venire a Me e non odia santamente suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle, e persino la sua vita, non può essere mio discepolo. 

Ho detto: “odia santamente”. Voi in cuor vostro dite: “L’odio, Egli lo insegna, non è mai santo. Perciò Egli si contraddice”. No. Non mi contraddico. Io dico di odiare la pesantezza dell’amore, la passionalità carnale dell’amore al padre e madre, e sposa e figli, e fratelli e sorelle, e alla stessa vita, ma anzi ordino di amare, con la libertà leggera che è propria degli spiriti, i parenti e la vita. Amateli in Dio e per Dio, non posponendo mai Dio a loro, occupandovi e preoccupandovi di portarli dove il discepolo è giunto, ossia a Dio Verità. Così amerete santamente i parenti e Dio, conciliando i due amori e facendo dei legami di sangue, non peso ma ala, non colpa ma giustizia. Anche la vostra vita dovete esser pronti a odiare per seguire Me. Odia la sua vita colui che, senza paura di perderla o di renderla umanamente triste, la fa servire a Me. Ma non è che una apparenza di odio. Un sentimento erroneamente detto “odio” dal pensiero dell’uomo che non sa elevarsi, dell’uomo tutto terrestre, di poco superiore al bruto. In realtà questo apparente odio, che è il negare le soddisfazioni sensuali alla esistenza per dare una sempre più vasta vita allo spirito, è amore. Amore è, e del più alto che esista, del più benedetto. 

Questo negarsi le basse soddisfazioni, questo interdirsi la sensualità degli affetti, questo procurarsi rimproveri e commenti ingiusti, questo rischiare punizioni, ripudi, maledizioni e forse anche persecuzioni, è una sequela di pene. Ma occorre abbracciarle e imporsele come una croce, un patibolo sul quale si espia ogni passata colpa per andare giustificati a Dio, e dal quale si ottiene ogni grazia, vera, potente, santa grazia di Dio per coloro che noi amiamo. Chi non porta la sua croce e non viene dietro a Me, chi non sa fare questo, non può essere mio discepolo.7Pensateci dunque molto, molto, voi che dite: “Siamo venuti perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli”. Non è vergogna ma sapienza pesarsi, giudicarsi e confessare, a se stessi e agli altri: “Io non ho stoffa di discepolo”. E che? I pagani hanno a base di un loro insegnamento la necessità di “conoscere se stessi”; e voi israeliti, per conquistare il Cielo, non lo sapreste fare? 

Perché, ricordatevelo sempre, beati quelli che verranno a Me. Ma piuttosto che venire per poi tradire Me e Colui che mi ha mandato, meglio è non venire affatto e rimanere i figli della Legge come fin qui foste. Guai a coloro che avendo detto: “Vengo”, portano poi danno al Cristo essendo i traditori dell’idea cristiana, gli scandalizzatori dei piccoli, dei buoni! Guai a loro! Eppure vi saranno, e sempre vi saranno!Imitate perciò colui che vuole edificare una torre. Prima calcola attentamente la spesa necessaria e fa i conti del suo denaro per vedere se ha di che portarla a termine, perché, terminate le fondamenta, non debba sospendere i lavori non avendo più denaro. In questo caso perderebbe anche quanto aveva prima, rimanendo senza torre e senza talenti, e in cambio si attirerebbe le beffe del popolo che direbbe: “Costui ha cominciato a fabbricare senza poter finire. Ora può empirsi lo stomaco delle rovine della sua incompiuta fabbrica”.Imitate ancora i re della terra, facendo servire i poveri avvenimenti del mondo a insegnamento soprannaturale. 

Costoro, quando vogliono muovere guerra ad un altro re, esaminano con calma e attenzione ogni cosa, il pro ed il contro, meditano se l’utile della conquista valga il sacrificio delle vite dei sudditi, studiano se è possibile conquistare quel luogo, se le loro milizie, inferiori della metà a quelle del rivale, anche se più combattive, possono vincere; e giustamente pensando che è improbabile che diecimila vincano ventimila, prima che avvenga lo scontro mandano incontro al rivale una ambasceria con ricchi doni e, ammansendo il rivale, già insospettito dalle mosse militari dell’altro, lo disarmano con prove di amicizia, ne annullano i sospetti e fanno con esso trattato di pace, in verità sempre più vantaggioso, tanto umanamente che spiritualmente, di una guerra.Così dovete fare voi prima di iniziare la nuova vita e di schierarvi contro il mondo. Perché questo è essere miei discepoli: andare contro la turbinosa e violenta corrente del mondo, della carne, di Satana. E, se non sentite in voi il coraggio di rinunciare a tutto per amor mio, non venite a Me perché non potete essere miei discepoli».8«Va bene. Ciò che Tu dici è vero» ammette uno scriba che si è mescolato al gruppo. «Ma se ci spogliamo di tutto, con che ti serviamo poi? La Legge ha dei comandi che sono come monete che Dio dà all’uomo perché usandole si compri la vita eterna. Tu dici: “Rinunciate a tutto” e accenni il padre, la madre, le ricchezze, gli onori. Dio ha pur dato queste cose e ci ha detto, per bocca di Mosè, di usarle con santità per apparire giusti agli occhi di Dio. Se Tu ci levi tutto, che ci dai?».«Il vero amore, l’ho detto, o rabbi. 


Vi do la mia dottrina che non leva un iota alla antica Legge, ma anzi la perfeziona».«Allora tutti siamo discepoli uguali, perché tutti abbiamo le stesse cose».«Tutti le abbiamo secondo la Legge mosaica. Non tutti secondo la Legge perfezionata da Me secondo l’Amore. Ma non tutti raggiungono, nella stessa, la stessa somma di meriti. Anche fra i miei stessi discepoli non tutti giungeranno ad avere somma di meriti in uguale misura, e alcuno fra essi non solo non avrà somma ma perderà anche l’unica sua moneta: la sua anima».«Come? A chi più è dato più resterà. I tuoi discepoli, meglio i tuoi apostoli, ti seguono nella tua missione e sono al corrente dei tuoi modi, hanno avuto moltissimo; molto hanno avuto i discepoli effettivi, meno i discepoli solo di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che moltissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che moltissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che sono come me».

«Umanamente è ovvio, e male anche umanamente. Perché non tutti sono capaci di far fruttare i beni avuti. Odi questa parabola e perdona se troppo a lungo qui insegno. Ma Io sono la rondine di passaggio, e non sosto che per poco nella Casa del Padre, essendo venuto per tutto il mondo e non volendo, questo piccolo mondo che è il Tempio di Gerusalemme, permettermi di raccogliere il volo e rimanere là dove la gloria del Signore mi chiama»,«Perché dici così?».«Perché è verità».Lo scriba si guarda attorno e poi china la testa. Che sia verità lo vede scritto su troppi volti di sinedristi, rabbi e farisei che sono andati sempre più ingrossando l’assembramento che è intorno a Gesù. Volti verdi di bile o purpurei d’ira, sguardi che equivalgono a parole di maledizione e a sputi di veleno, rancore che lievita da ogni parte, desiderio di malmenare il Cristo, che resta desiderio solo per paura dei molti che circondano il Maestro con devozione e che sono pronti a tutto per difenderlo, paura forse anche di punizioni da parte di Roma che ha benignità verso il mite Maestro galileo.

9Gesù riprende calmo ad esporre con la parabola il suo pensiero:«Un uomo, essendo in procinto di fare un lungo viaggio e una lunga assenza, chiamò tutti i suoi servi e consegnò a loro tutti i suoi beni. A chi diede cinque talenti d’argento, a chi due d’argento, a chi uno solo d’oro. A ciascuno a seconda del suo grado e della sua abilità. E poi partì.Ora, il servo che aveva avuto cinque talenti d’argento andò a negoziare con accortezza i suoi talenti, e dopo qualche tempo essi gliene procurarono altri cinque. Quello che aveva avuto due talenti d’argento fece lo stesso e raddoppiò la somma avuta. Ma quello al quale il padrone aveva più dato - un talento d’oro schietto - preso dalla paura di non saper fare, dei ladri, di mille cose chimeriche, e soprattutto dall’infingardia, fece una grande buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone.Passarono molti e molti mesi e tornò il padrone. 

Chiamò subito i suoi servi perché rendessero il denaro avuto in deposito. Venne quello che aveva avuto cinque talenti d’argento e disse: “Ecco, mio signore. Tu me ne desti cinque. Io, parendomi male di non far fruttare quanto mi avevi dato, mi sono industriato e ti ho guadagnato altri cinque talenti. Di più non ho potuto…”. “Bene, molto bene, servo buono e fedele. Sei stato fedele nel poco, volenteroso e onesto. Ti darò autorità su molto. Entra nella gioia del tuo signore”.Poi venne l’altro dei due talenti e disse: “Mi sono permesso di usare i tuoi beni per tuo utile. Ecco qui i conti che ti mostrano come ho usato il tuo denaro. Vedi? Erano due talenti d’argento. Ora sono quattro. Sei contento, mio signore?”. E il padrone dette al servo buono la stessa risposta data al primo servo.Venne per ultimo quello che, godendo della massima fiducia del padrone, aveva avuto dallo stesso il talento d’oro. Lo svolse dalla sua custodia e disse: “Tu mi hai affidato il maggior valore, perché mi sai prudente e fedele, così come io so che tu sei intransigente ed esigente e che non tolleri perdite nel tuo denaro, ma se disgrazia ti incoglie ti rifai su chi ti è prossimo, perché in verità mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, non condonando uno spicciolo al tuo banchiere o al tuo fattore, per nessuna ragione. Tanto deve essere il denaro quanto tu dici. Ora io, temendo di sminuire questo tesoro, l’ho preso e l’ho nascosto. Non mi sono fidato di nessuno, neppure di me stesso. Ora l’ho dissotterrato e te lo rendo. Eccoti il tuo talento”.“O servo iniquo ed infingardo! In verità tu non mi hai amato, poiché non mi hai conosciuto e non hai amato il mio benessere perché l’hai lasciato inerte. Hai tradito la stima che avevo posta in te, e da te stesso ti smentisci, ti accusi e condanni. Tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso. E perché allora non hai fatto che io potessi mietere e raccogliere Così rispondi alla mia fiducia? Così mi conosci? Perché non hai portato il denaro ai banchieri, che lo avrei al ritorno ritirato con gli interessi? A questo con particolare cura ti avevo istruito, e tu, stolto infingardo, non ne hai fatto conto. Ti sia dunque levato il talento e ogni altro bene e sia dato a quello che ha i dieci talenti”.“Ma colui ne ha già dieci, mentre questo ne resta privo…” gli obbiettarono.“Bene sta. A chi ha, e su quanto ha lavora, sarà dato più ancora e fino alla sovrabbondanza. Ma a chi non ha, perché non volle avere, sarà tolto anche quello che gli fu dato. Riguardo al servo disutile, che ha tradito la fiducia mia e lasciato inerti i doni datigli, gettatelo fuori dalla mia proprietà, e vada piangendo e rodendosi in cuor suo”.

Questa è la parabola. Come tu vedi, o rabbi, a chi più aveva meno restò, perché non seppe meritare di conservare il dono di Dio. E non è detto che uno di quelli che tu chiami discepoli solo di nome, aventi ben poco da negoziare perciò, e anche fra chi, ascoltandomi solo per accidente, come tu dici, e avendo per unica moneta l’anima, non giungano ad avere il talento d’oro, e i frutti dello stesso anche, che verrà levato ad uno dei più beneficati. Infinite sono le sorprese del Signore, perché infinite sono le reazioni dell’uomo. Vedrete gentili giungere alla Vita eterna e samaritani possedere il Cielo, e vedrete israeliti puri e seguaci miei perdere il Cielo e l’eterna Vita».

10Gesù tace e, come volesse troncare ogni discussione, si volge verso la cinta del Tempio. Ma un dottore della Legge, che si era seduto in serio ascolto sotto il porticato, si alza e gli si para davanti chiedendogli: «Maestro, che debbo fare per ottenere la Vita eterna? Hai risposto ad altri, rispondi a me pure».«Perché mi vuoi tentare? Perché vuoi mentire? Speri che Io dica cosa disforme alla Legge perché aggiungo concetti più luminosi e perfetti ad essa? Cosa c’è scritto nella Legge? Rispondi! Quale è il comandamento principale di essa?»«”Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua intelligenza. Amerai il tuo prossimo come te stesso”».«Ecco. Bene hai risposto. Fa’ questo e avrai la Vita eterna».«E chi è il mio prossimo ? Il mondo è pieno di gente buona e malvagia, nota ed ignota, amica e nemica di Israele. Quale è il mio prossimo?».


«Un uomo scendendo da Gerusalemme a Gerico per le gole delle montagne, incappò nei ladroni, i quali, dopo averlo ferito crudelmente, lo spogliarono di ogni suo avere e fin delle vesti, lasciandolo più morto che vivo sul bordo della strada.Per la stessa via passò un sacerdote che aveva cessato il suo turno al Tempio. Oh! era ancor profumato degli incensi del Santo! E avrebbe dovuto avere l’anima profumata di bontà soprannaturale e di amore, essendo stato nella Casa di Dio, quasi a contatto coll’Altissimo. Il sacerdote aveva fretta di tornare alla sua casa. Guardò dunque il ferito ma non si arrestò. Passò oltre sollecito, lasciando il disgraziato sulla proda.Passò un levita. Contaminarsi lui che deve servire nel Tempio? Ohibò! Raccolse la veste perché non si sporcasse di sangue, gettò uno sguardo sfuggente su colui che gemeva nel suo sangue e affrettò il passo verso Gerusalemme, verso il Tempio.
Terzo, venendo dalla Samaria, diretto al guado, venne un samaritano. Vide il sangue, si fermò, scoperse il ferito nel crepuscolo che si infittiva, scese dal giumento, si accostò al ferito, lo ristorò con un sorso di vino gagliardo, strappò il suo mantello farne fasce e, lavate e unte le ferite prima con aceto e poi con olio, gliele fasciò con amore, e caricato il ferito sul suo giumento, guidò con accortezza la bestia, sorreggendo nel contempo il ferito, confortandolo con buone parole, non preoccupandosi della fatica, né sdegnandosi per essere questo ferito di nazionalità giudea. Giunto in città, lo condusse all’albergo, lo vegliò per tutta la notte e all’alba, vedendolo migliorato, lo affidò all’oste, pagandolo in anticipo con dei denari e dicendo: “Abbine cura come fossi io stesso. Al mio ritorno, quanto avrai speso in più io te lo renderò e con buona misura, se bene avrai fatto”. E se ne andò.
Dottore della Legge, rispondimi. Quale fra questi tre fu “prossimo” per colui che incappò nei ladroni? Forse il sacerdote? Forse il levita? O non piuttosto il samaritano che non si chiese chi era il ferito, perché era ferito, se faceva male a soccorrerlo perdendo tempo, denaro e rischiando d’essere accusato d’essere il feritore?».Il dottore della Legge risponde: «Fu “prossimo” costui, perché ebbe misericordia».«Fa’ tu pure il simigliante e amerai il prossimo e Dio nel prossimo, meritando vita eterna».

11Nessuno osa più parlare e Gesù ne approfitta per raggiungere le donne, che erano in attesa presso la cinta, e con esse andare di nuovo in città. Ora ai discepoli si è aggiunta una coppia di sacerdoti, o meglio, un sacerdote e un levita, giovanissimo quest’ultimo, patriarcale l’altro.Ma Gesù ora parla con la Madre avendo in mezzo, fra Sé e Lei, Marziam. E le chiede: «Mi hai udito, Madre?».«Sì, Figlio mio, e alla tristezza di Maria di Cleofe si è aggiunta la mia. Ella ha pianto poco prima di entrare nel Tempio…».«Lo so, Madre. E ne so il motivo. Ma non deve piangere. Solo pregare».«Oh! prega tanto! In queste sere, sotto la sua capanna, fra i figli dormenti, ella pregava e piangeva. Io la sentivo piangere attraverso la parete sottile delle frasche vicine. Vedere a pochi passi Giuseppe e Simone, vicini ma divisi così!… E non è la sola a piangere. Con me ha pianto Giovanna che ti pare tanto serena…».
«Perché, Madre?».«Perché Cusa… Ha una condotta… inesplicabile. Un poco la seconda in tutto. Un poco la respinge in tutto. Se sono soli, dove nessuno li vede, è il marito esemplare di sempre. Ma se con lui sono altre persone, della Corte, è naturale, ecco allora che egli diviene autoritario e sprezzante per la mite sua sposa. Ella non capisce perché…».«Io te lo dico. Cusa è servo di Erode. Comprendimi, Madre. “Servo”. Io non lo dico a Giovanna per non darle dolore. Ma così è. Quando non teme biasimo e derisione sovrana, è il buon Cusa. Quando li può temere, non è più tale».«È perché Erode è molto irritato per Mannaen e…».«È perché Erode è folle del rimorso tardivo di aver ceduto ad Erodiade. Ma Giovanna ha già tanto bene nella vita. Deve, sotto il diadema, portare il suo cilizio». 
«Anche Annalia piange…».«Perché?».«Perché lo sposo devia contro di Te».«Non pianga. Diglielo. Ciò è una risoluzione. Una bontà di Dio. Il suo sacrificio porterà di nuovo Samuele al Bene. Per ora questo la lascerà libera da pressioni per il matrimonio. Le ho promesso di prenderla con Me. Mi precederà nella morte…».«Figlio!…». Maria stringe la mano di Gesù, col viso che si fa esangue.«Mamma cara! È per gli uomini. Lo sai. È per amore degli uomini. Beviamo il nostro calice con buona volontà. Non è vero?».«Maria inghiotte le lacrime e risponde: «Sì» Un «sì» straziato e straziante tanto.Marziam alza il visetto e dice a Gesù: «Perché dici queste brutte cose che fanno dolore alla Mamma? Io non ti lascerò morire. Come ho difeso gli agnelli così difenderò Te.»Gesù lo carezza e, per sollevare il morale dei due afflitti, chiede al bambino: «Che faranno, ora, le tue pecorelle? Non le rimpiangi?».«Oh! sono con Te! Però ci penso sempre e mi chiedo: “Porfirea le avrà portate al pascolo? e avrà fatto attenzione che Spuma non vada nel lago?”. È tanto vivace Spuma, sai? Sua madre lo chiama, lo chiama… Macché! Fa ciò che vuole. E Neve, così ghiotta che mangia fino a stare male? Sai, Maestro? Io capisco cosa è essere sacerdote in tuo Nome. Meglio degli altri lo capisco. Loro (e accenna con la mano gli apostoli che vengono dietro) dicono tanti paroloni, fanno tanti progetti... per dopo. Io dico: “Farò il pastore. Come per le pecorine, per gli uomini. E sarà sufficiente”. 
La Mamma mia e tua mi ha detto ieri un così bel punto dei profeti… e mi ha detto: “Proprio così è il nostro Gesù”. E io nel cuore ho detto: “E io pure sarò proprio così”. Poi ho detto alla Mamma nostra: “Per ora sono agnello, poi sarò pastore. Invece ora Gesù è Pastore e poi è anche Agnello. Ma tu sei sempre l’Agnella, solo l’Agnella nostra, bianca, bella, cara, dalle parole più dolci del latte. È per questo che Gesù è tanto Agnello: perché è nato da te, Agnellina del Signore”».Gesù si china e lo bacia, con slancio. Poi chiede: «Tu dunque vuoi proprio essere sacerdote?».«Certo, mio Signore! Per questo cerco di farmi buono e di sapere tanto. Vado sempre da Giovanni di Endor. Mi tratta sempre da uomo e con tanta bontà. Voglio essere un pastore delle pecore sviate e non sviate, e medico-pastore delle ferite e fratturate, come dice il Profeta, Oh! che bello!» e il bambino fa un salto, battendo le mani.
«Cosa ha questo capinero da essere tanto felice?» chiede Pietro venendo avanti.«Vede la sua via. Nettamente. Sino alla fine. Ed Io consacro questa sua visione col mio “sì”».13Si fermano davanti ad un’alta casa che, se non erro, è verso il sobborgo di Ofel, ma in luogo più signorile.«Qui ci fermiamo?».«Questa è la casa che Lazzaro mi ha offerta per il banchetto di letizia. Qui già vi è Maria».«Perché non è venuta con noi? Per paura degli scherni?».«Oh! no! Io solo gliel’ho ordinato».«Perché, Signore?». «Perché il Tempio è più suscettibile di una sposa gravida. Finché posso, e non per viltà, non voglio urtarlo».«Non ti servirà a niente, Maestro. Io, se fossi Tu, non solo lo urterei. Ma lo butterei giù dal Moria con tutti quelli che ci sono dentro».«Sei un peccatore, Simone. Occorre pregare per i propri simili, non ucciderli».
«Io sono peccatore. Ma Tu no... e… dovresti farlo».«Ci sarà chi lo fa. E dopo che la misura del peccato sarà raggiunta».«Quale misura?».«Una misura che empierà tutto il Tempio, traboccando per Gerusalemme. Non puoi capire… Oh! Marta! Apri dunque al Pellegrino la tua casa!».Marta si fa riconoscere e aprire. Entrano tutti in un lungo atrio che finisce in un cortile selciato, avente quattro alberi ai quattro angoli. Una vasta scala si apre sopra al terreno, e dalle finestre aperte si vede tutta la città nei suoi sali-scendi. Arguisco perciò che la casa sia sulle pendici meridionali, o sud orientali, della città. 

La sala è apparecchiata per molti, molti ospiti. Tavole e tavole sono messe le une parallele alle altre. Un centinaio di persone può comodamente prendervi ristoro. Accorre Maria Maddalena, che era altrove, intenta alle dispense, e si prostra davanti a Gesù. E viene Lazzaro con un sorriso beato sul volto malaticcio. Entrano man mano gli ospiti, un poco impacciati taluni, più sicuri gli altri. Ma la gentilezza delle donne li fa tutti presto a loro agio.
14Il sacerdote Giovanni conduce a Gesù i due presi nel Tempio. «Maestro, il mio buon amico Gionata e il mio giovane amico Zaccaria. Sono veri israeliti senza malizia e senz’astio».«La pace a voi. Sono lieto di avervi. Il rito deve essere osservato anche in queste dolci consuetudini. È bello che la Fede antica dia la mano di amica alla nuova Fede venuta dal suo stesso ceppo. Sedete al mio fianco mentre viene l’ora del pasto».Parla il patriarcale Gionata, mentre il giovine levita guarda qua e là curioso, stupito, e forse anche intimidito. Penso che si voglia dare un contegno spigliato, ma in realtà sia come un pesce fuor d’acqua. 
Per fortuna Stefano viene in suo soccorso e gli porta, uno dopo l’altro, gli apostoli e i discepoli principali.Il vecchio sacerdote, lisciandosi la barba di neve, dice: «Quando Giovanni venne a me, proprio a me, suo maestro, a mostrarmi la sua guarigione, io ebbi voglia di conoscerti. Ma, Maestro, io quasi più non esco dal mio recinto. Vecchio sono… Speravo vederti però prima di morire. E Jeovè mi ha esaudito. Lode sia a Lui! Oggi ti ho sentito al Tempio. Tu superi Hillele, il vecchio, il saggio. Io non voglio, anzi io non posso dubitare che Tu sia ciò che il mio cuore attende. Ma sai cosa è avere bevuto per quasi ottanta anni la fede d’Israele quale è divenuta in secoli di… lavorazione umana? Si è fatta sangue nostro. E io sono così vecchio! Sentire Te è come sentire l’acqua che esce da una fresca sorgente. Oh! sì! Un’acqua vergine! Ma io... ma io sono saturo dell’acqua stanca che viene da tanto lontano!… che si è appesantita di tante cose. 
Come farò per levarmi questa saturazione è gustare di Te?».
«Credermi e amarmi. Non necessita altro per il giusto Gionata».
«Ma presto io morirò! Farò in tempo a credere tutto quello che dici? Non riuscirò più neppure a seguire tutte le tue parole, o a conoscerle dalla bocca altrui. E allora?».
«Le imparerai in Cielo. Non muore alla Sapienza che il dannato. Mentre chi muore in grazia di Dio attinge la Vita e vive nella Sapienza. Cosa credi tu che Io sia?».
«Non puoi essere che l’Atteso che ha precorso il figlio del mio amico Zaccaria. Lo hai conosciuto?».
«Mi era parente».
«Allora Tu sei parente del Battista?».
«Sì, sacerdote».
«Egli è morto… e non posso dire: “Infelice!”. Perché è morto fedele alla giustizia, dopo aver compiuto la sua missione, e perché… Oh! tempi atroci che viviamo! Non è meglio tornare ad Abramo?».
«Sì. Ma più atroci verranno, sacerdote».
«Tu dici? Roma, eh?».
«Non Roma sola. Israele colpevole ne sarà la causa prima».
«È vero. Dio ci colpisce. Lo meritiamo. Ma però anche Roma… 15Hai sentito parlare dei galilei uccisi da Pilato mentre consumavano un sacrificio? Il loro sangue si fuse con quello della vittima. Fin presso l’altare! Fin presso l’altare!».
«Ho sentito».
Tutti i galieli tumultuano per questo sopruso. Gridano: «È vero che egli era un falso Messia. Ma perché uccidere i suoi seguaci dopo aver già percosso lui? E perché in quell’ora? Erano più peccatori forse?».
Gesù impone pace e poi dice: «Vi chiedete se erano più peccatori quelli di tanti altri galilei e se è per questo che furono uccisi? No, che no lo erano. In verità vi dico che essi hanno pagato e che molti altri pagheranno se non vi convertite al Signore. Se non farete tutti penitenza, perirete tutti in ugual misura, in Galilea e altrove. Dio è sdegnato del suo popolo. Io ve lo dico. Non bisogna credere che i colpiti siano sempre i peggiori. Ognuno esamini se stesso, sé giudichi e non altro. Anche quei diciotto su cui cadde la torre di Siloe e li uccise non erano i più colpevoli in Gerusalemme. Io ve lo dico. Fate, fate penitenza se non volete essere stritolati come essi, e anche nello spirito. 

16Vieni, sacerdote d’Israele. La mensa è pronta. Tocca a te, perché il sacerdote è sempre colui che va onorato per l’Idea che rappresenta e richiama, tocca a te, patriarca fra noi, tutti più giovani, offrire e benedire». 
«No, Maestro! No! Non posso davanti a Te! Tu sei il Figlio di Dio!».
«Offri pure l’incenso davanti all’altare! E non credi forse che là è Dio?».
«Sì che lo credo! Con tutte le mie forze!». 
E allora? Se non tremi di offrire davanti alla Gloria Ss. dell’Altissimo, perché vuoi tremare davanti alla Misericordia che si è vestita di carne per portare anche a te la benedizione di Dio prima che venga a te la notte? Oh! che non sapete voi di Israele che, proprio perché l’uomo possa avvicinare Dio e non morirne, ho messo sulla mia Divinità insostenibile il velo della carne. Vieni e credi e sii felice. In te Io venero tutti i sacerdoti santi, da Aronne all’ultimo che sarà sacerdote d’Israele con giustizia, a te forse, perché in verità la santità sacerdotale langue fra noi come pianta senza soccorso».

Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/