lunedì 21 luglio 2014

I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Peccato mortale (I) - I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Peccato mortale (II)






I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: 

Peccato mortale (I)


   1. Che cosa è il peccato.
   2. Famiglia del peccato.
   3. Il primo uomo ha commesso otto peccati.
   4. Il peccato sta nella volontà.
   5. Il peccato è cosa orrenda e turpe.
   6. Il peccato è una febbre.
   7. Il peccato è una paralisi.
   8. Il peccato è un fuoco.
   9. Il peccato mortale è un adulterio.
 10. Il peccato mortale è un'idolatria.
 11. Il peccato mortale è il sommo male.
 12. Il peccato mortale allontana da Dio.
 13. Il peccato mortale è grave disobbedienza a Dio.
 14. Il peccato mortale è ingratitudine e disprezzo di Dio.
 15. Il peccato mortale assale direttamente Iddio.
 16. Di sua natura il peccato mortale è irreparabile.
 17. Il peccato mortale è peggiore dell'inferno.
 18. Similitudini del peccato mortale.
 19. Il peccato mortale è la più terribile delle cadute.
 20. Il peccatore è il più crudele nemico di se stesso. 

1. CHE COSA È IL PECCATO.

Il peccato è una disobbedienza alla legge di Dio... Che cosa è il peccato? domanda il Crisostomo, e risponde: è l'abbandono spontaneo della nostra volontà al demonio, è una volontaria follia. - Che cosa è il peccato? è la completa degradazione dell'uomo, la somma sua miseria, il suo male supremo; perché pienamente opposto al bene supremo... Il peccato non è una sostanza, non è un essere, perché ogni essere è buono. Il peccato è la privazione dell'essere, è un non ente, come si esprime S. Agostino, un niente (Sentent.). Da ciò si comprende perché il profeta Amos dice ai peccatori, che essi si rallegrano nel niente (VI, 14).
Il peccato è chiamato la negazione dell'essere, il niente: 1° perché in se stesso è un non so che di spregevole, di vile; 2° perché il diletto del peccato passa in un baleno e scompare; 3° perché conduce chi lo commette ad una specie di niente, cioè alla morte presente ed all'eterna; 4° perché è la negazione dell'essere per riguardo alla virtù, ossia al bene morale; 5° perché è una privazione di bene; ora una privazione non è cosa reale e positiva, ma nominale e negativa, cioè un niente; 6° il peccato mortale separa l'uomo da Dio che è l'essere per eccellenza, il creatore di tutto, senza il quale niente fu fatto e niente vivrebbe; quindi ne risulta che il peccato mena al niente.
Signore, dice S. Agostino, siccome nessuna cosa è stata fatta senza di voi, facendo noi il peccato, che è il nulla; siamo divenuti un niente; fuori di voi pel quale fu fatta ogni cosa e senza il .quale niente fu fatto, noi siamo nulla. Misero me, divenuto così spesso un vero niente per causa del peccato! Io sono divenuto miserabile, sono stato ridotto al niente, e non l'ho saputo! Le mie iniquità mi hanno condotto al nulla. Non vi è niente di buono fuori del sommo bene; come la cecità non consiste che nella privazione della luce. Quindi il peccato è niente perché non è stato fatto. Ma se non è stato fatto, come mai può essere male? Perché il male è la privazione del Bene per il quale è stato fatto il bene. Essere senza il Verbo è male; è un non essere; senza il Verbo non c'è niente. Essere separato dal Verbo vuol dire essere senza via, senza verità, senza vita. Ecco perché senza di lui è il niente, e questo niente è il male, perché è separato dal Verbo, per il quale tutto ciò che è stato fatto è ottimo. Ma essere separato dal Verbo, per il quale ogni cosa fu fatta, non è altro che mancare, e dal fatto passare al non-fatto, poiché senza il Verbo non vi è niente (In Evang. S. Ioann.).
In se stesso e di natura sua il peccato è niente, perché commettendolo, l'uomo si attacca alle creature, e mette in loro la sua felicità, opponendole al Creatore e preferendole a Lui; ma paragonate al Creatore, le creature non sono che l'ombra dell'essere, e per conseguenza il nulla. Ecco infatti l'essenza e il nome di Dio: «Io sono
colui che sono» (Exod. III, 14). Io sono colui che solo posseggo l'essere vero; intero, immenso, infinito, eterno; le creature partecipano di me come un'ombra, perché così povero, così mal fermo, così rapido è il loro essere, che paragonato al mio si deve chiamare un niente anziché un essere. Ora posto che le creature non hanno il vero essere, non hanno nemmeno il vero bene, ma solamente l'ombra del bene; perché l'essere reale ed il bene vanno insieme uniti, e secondo l'essere e il grado di essere, si trova il bene e il grado del bene; infatti, il bene è l'intima proprietà dell'essere. Il vero bene, come il vero essere, appartiene a Dio solo e non all'uomo; perciò Dio è chiamato, nella Scrittura, solo saggio, solo potente, solo Signore, solo immortale, solo buono, solo grande, solo giusto, solo pio, solo glorioso, perché egli solo ha la sapienza, la potenza, l'immortalità, il dominio, la bontà, la grandezza, la giustizia, la santità, la gloria vera, infinita, increata.
Quando pertanto il peccatore mette la sua felicità nelle creature, e non nel Creatore, gode di un'ombra, si rallegra del niente. - Ma quanto sembrano grandi all'uomo le ombre delle creature nelle tenebre di questa vita! Al tramontare del sole le ombre proiettate dai monti si allungano e coprono tutta la terra; così pure quando Iddio tramonta per un'anima, le ombre delle cose terrene si estendono sopra di essa e la involgono tutta; il mondano le ammira e loro tiene dietro, ma la sua voglia rimane digiuna. Deh! sorga, o Signore, il vostro giorno, il giorno della vostra eterna chiarezza, e si dileguino le ombre del giorno caliginoso di questo secolo, di questo giorno di vanità e di morte. Dissipate la nebbia che ci avvolge, affinché abbandoniamo le creature ed il peccato, e ci apprendiamo a voi che siete l'essere infinito ed il vero bene...
Che cosa è il peccato? è un dolce veleno che uccide di morte angosciosissima il peccatore...; è una goccia di miele appestato che si cangia in un mare di fiele...; è una ferita alla quale non si può sopravvivere...; è una febbre accompagnata da delirio, che reca subitanea morte...; è il più formidabile nemico dell'uomo, che lo separa da Dio e lo fa schiavo di Satana... «Il peccato, dice S. Agostino, è la cagione di tutti i nostri mali» (De Morib.). «Il morto, dice S. Ambrogio, è da preferirsi al vivo, perché ha cessato di peccare; e chi non è nato si deve preferire a chi è morto, perché non ha mai saputo peccare (Serm.)».


2. FAMIGLIA DEL PECCATO. - Il libero arbitrio si può chiamare il padre del peccato, e la concupiscenza abituale la sua madre; riuniti dànno origine ad ogni misfatto. Quando il peccato non è che in embrione o mezzo composto, si chiama peccato veniale: quando è interamente formato, cioè commesso con pieno consenso e perfetta avvertenza, allora si chiama peccato mortale. Il primogenito del peccato è la morte, sia presente, che futura ed eterna; perché il peccato ha generato quella che doveva punirlo; ha partorito la sua pena... Sotto un altro aspetto, il primo padre del peccato è stato Lucifero nel cielo, ed il serpente nel paradiso terrestre. I suoi primogeniti sono il peccato degli Angeli e il peccato originale.


3. IL PRIMO UOMO HA COMMESSO OTTO PECCATI. - Adamo commise otto peccati in uno solo: 1° peccato di orgoglio, volendo essere padrone di se stesso anziché restare soggetto alla potenza divina; 2° peccato di troppa condiscendenza verso la sua donna che non ebbe il coraggio di contrariare, quando gli offrì il fruttò vietato; 3° peccato di curiosità; 4° peccato d'incredulità, non prestando fede alle minacce del Creatore; 5° peccato di presunzione, facendo poco conto del precetto fatto gli di non toccare il frutto vietato; 6° peccato di gola; 7° peccato di disobbedienza; 8° peccato d'insolenza, cercando scuse invece di confessare umilmente la propria colpa... Ecco l'origine di tutti i mali che inondano la terra da circa seimila anni.


4. IL PECCATO STA NELLA VOLONTÀ. - «Talmente necessario è al peccato il concorso della volontà che, se questa manca, non vi è più peccato», dice S. Agostino (Retract. 1. I, c. XV). Tutto dipende dalla volontà, così il bene come il male. Senza la volontà non si dà né peccato né virtù..., senza la volontà, non merito; non salute, non cielo... Quindi quella sentenza di S. Bernardo: «Cessi la volontà propria, e non vi sarà più inferno (Sermde Resurrect.)».

5. IL PECCATO È COSA ORRENDA E TURPE. - «Noi rinunziamo ai nascondigli della turpitudine» - scriveva S. Paolo ai Corinzi (II, IV, 2). La turpitudine ama le tenebre... Perciò la medicina del peccato sta nel peccato medesimo, cioè nella considerazione della sua laidezza, della macchia che imprime nell'anima e delle sue funeste conseguenze... Molte onte e molti mali contiene infatti il peccato; anzi può dirsi che li comprende tutti; cinque però gli sono tutti propri: 1° Esso va contro alla sana ragione, che ne è disonorata. 2° Ogni peccato si oppone a qualche virtù particolare, l'orgoglio, per esempio, assale l'umiltà; la lussuria distrugge, la continenza, e via dicendo; sotto un altro aspetto, ogni peccato assale tutte le virtù a un tempo. Ora nelle virtù sta il bene e la perfezione degli uomini e degli angeli... 3° Anche quaggiù il peccato attira sopra colui che lo commette, una miriade di mali: il disonore, le malattie, i castighi, ecc... 4° E’ un'offesa fatta a Dio, è il male supremo della divinità la quale esso oltraggia e provoca. Infatti col peccato l'uomo aderisce alle creature, ai piaceri, all'oro, ecc.; le preferisce al Creatore, e in esse pone, coll'intenzione, il sommo suo bene; nega, per conseguenza, quanto è in sé, la somma bontà ed eccellenza di Dio... 5° Il peccato ci priva della vita eterna. I teologi dimostrano che, compiuto l'atto del peccato, vi rimane nell'anima una macchia
schifosa ed abituale, la quale la rende infame ed abominevole agli occhi di Dio.
Oh! se avessero i cristiani quell'idea del peccato, che ne aveva il pagano Seneca, il quale così scrive: «Ancorché sapessi che gli uomini fossero per ignorare, e Dio per perdonarmi il peccato, non lo commetterei tuttavia, avuto riguardo alla sola turpitudine di esso (In Prov.)».


6. IL PECCATO È UNA FEBBRE. - In molte cose il peccato somiglia alla febbre: 1° la febbre indebolisce il corpo; il peccato indebolisce l'anima; 2° la febbre agita il sangue e gli umori; il peccato conturba i pensieri e gli affetti; 3° la febbre si conosce allo sregolamento del polso; lo stato del peccato si manifesta dalle sollecitudini e dalle preoccupazioni che s'impossessano dell'uomo...; 4°1a febbre cagiona una sete ardente; l'anima peccatrice brucia di desideri della concupiscenza, ed è consumata dal fuoco delle passioni...; 5° la febbre comincia da brividi e finisce in un intenso calore; la febbre dell'anima comincia con la tepidezza, la negligenza, l'accidia, l'inerzia, e va a terminare nello sviluppo e nell'ardore delle passioni: superbia, gola, lussuria, collera, ecc...; 6° la febbre deprava il gusto; il peccato dà la nausea della preghiera, della mortificazione, dei sacramenti, ecc...; 7° la febbre toglie all'uomo la forza, la bellezza, la ragione, ecc...; i medesimi effetti produce in senso spirituale il peccato; 8° la febbre cagiona pene, dolori e malessere in tutto il corpo; non altrimenti fa il peccato dell'anima; 9° nella febbre un accesso succede a un altro accesso; l'anima tra vagliata dalla febbre del peccato va di caduta in caduta, di colpa in colpa.


7. IL PECCATO È UNA PARALISI. - Il peccato può anche paragonarsi alla paralisi. Infatti: 1° la paralisìa lega, per così dire, il membro che ne è colpito; il peccato incatena l'anima... 2° La paralisi impedisce ogni movimento dei nervi e dei muscoli; il peccato mette ostacolo ai movimenti della grazia e della volontà... 3° La paralisi è conseguenza dell'apoplessia; l'immobilità dell'anima nel male è conseguenza della caduta nel peccato, che si può chiamare l'apoplessia dell'anima... 4° Per la paralisìa, il corpo diventa un peso inerte: per il peccato, l'anima sottostà ad un carico che l'opprime... 5° La paralisìa è malattia quasi incurabile: spesso anche avviene che lo stato in cui il peccato riduce l'anima diventa come incurabile a cagione della cattiva volontà, del peccatore, dell'ostinazione sua nel non correggersi, della privazione delle grazie.


8. IL PECCATO È UN FUOCO. - Anche al fuoco si può paragonare il peccato per questi due effetti: 1° Il fuoco indurisce certi corpi, e scotta, liquefà, consuma altri; così il peccato scotta, indura, consuma l'anima: il peccato mortale è come un ferro rovente che, dove tocca, lascia profonda piaga... 2° Il fuoco produce fiamme; il peccato sviluppa le fiamme della lussuria, della collera, dell'odio, ecc.; accende
le vampe dell'ira e della vendetta divina; dà esca al fuoco dell'inferno: «Avete acceso il fuoco, esclama Isaia, ed eccovi cinti da fiamme; camminate al chiarore dell'incendio da voi suscitato, in mezzo alle vampe da voi mantenute» (ISAI. L, 11).


9. IL PECCATO MORTALE È UN ADULTERIO. - Commettendo il peccato, l'anima che era e doveva rimanere sposa di Gesù Cristo, lo rigetta, cede alle suggestioni del demonio, diventa adultera e si prostituisce al nemica capitale di Dio e degli uomini, adultero egli medesimo fin dal principio. O cielo, che abominazione! rapire l'anima propria a Gesù Cristo, quell'anima che egli l'i comprò a prezzo di tutto il suo sangue, e darla in braccio al diavolo! prometterla all'inferno! che demenza! che frenesia!

10. IL PECCATO MORTALE È UN'IDOLATRIA. - L'uomo che vive in peccato mortale abbandona il vero Dio e si sceglie un'altra divinità; e questa divinità è egli medesimo, è la sua volontà, sono le creature. L'avaro a.dora l'oro e l'argento; l'impudico adora la carne; il crapulone le vivande, ecc... Il peccatore si fa schiavo delle più ignobili e degradanti passioni... E non è questa una idolatria? 
«Avete contaminato la mia terra, dice Iddio per bocca di Geremia ai peccatori, avete convertito la mia eredità in un luogo di abominazione» (II, 7); avete cambiato in un idolo quello che formava la vostra gloria. Stupite, o cieli, rattristatevi, o porte del cielo! Due mali ha commesso il mio popolo: ha lasciato me sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne ghiaiose che non possono tenere l'acqua» (Ib. 11-13).
Abbandonando Dio, sorgente di vita, ogni peccatore cerca acque limacciose e corrotte; infatti in ogni peccato mortale vi è: 1° allontanamento da Dio, bene increato ed infinito, e avvicinamento ai beni perituri e vili...; 2° disprezzo per Iddio e amore per le creature...; 3° rinunzia a Dio come fine ultimo e sostituzione delle creature al Creatore, perché siano nostro fine e sommo bene. E non è questa la più insolente, la più colpevole delle idolatrie?.. «Israele si è avvilito fino a Baal, dice Osea, ed è morto» (XIII, 1).

11. IL PECCATO MORTALE È IL SOMMO MALE. - Il peccato mortale è il sommo male di Dio, dell'angelo, dell'uomo, di tutte le creature, e perfino dell'inferno e dei dannati, dice il Bellarmino; perché ogni nuovo dannato aumenta i patimenti e il castigo di quelli che lo hanno preceduto nelle fiamme eterne, essendo l'uno all'altro di reciproco tormento (In Psalm.). «Peccando mortalmente, dice S. Anselmo, non solamente noi meritiamo di incorrere nella collera di Dio; ma oltraggiamo tutte le creature e le solleviamo contro di noi. La terra può dire: Invece dì sostenervi, io vi dovrei inghiottire, perché voi mi macchiate. Gli alimenti e le bevande possono dire: Invece di mantenervi la vita, noi dovremmo convertirci per voi in veleno; perché ci profanate peccando contro colui che vi ha creato. Il sole può dire: Io non devo illuminarvi per formare la vostra felicità, ma piuttosto per chiamare sopra di voi la vendetta del mio Dio che è la luce delle luci, e obbligato a punirvi» (Lib. de Simil. c. VI). Perciò dice la Scrittura, che nel gran giorno delle vendette l'universo combatterà con Dio contro gli insensati (Sap. V, 21).


12. IL PECCATO MORTALE ALLONTANA DA DIO. - «Finché noi non pecchiamo, dice il Savio, sappiamo, o Signore, che siamo numerati tra i vostri» (Sap. XV, 2). Ma se peccate, dice Isaia, le vostre colpe innalzano una barriera tra Dio e voi, vi nascondono la sua faccia e impediscono che siate esauditi (ISAI. LIX, 2). I peccatori si allontanano da Dio, e Dio si allontana da loro. E quelli che si allontanano. da Dio periranno, dice il Salmista (Psalm. LXXII, 26). La mano del Signore li scaglia da sé come quei feriti che dormono nei sepolcri, di cui ha cancellato ogni memoria dalla sua mente (Psalm. LXXXVII, 5). Geremia, parlando del popolo d'Israele che aveva peccato, diceva: «Poveri noi! l'ira tua, o Signore, ci ha investiti e rigettati e scagliati lungi da te» (Lament. V, 22).
Come la luce è opposta alle tenebre, il bello al brutto, la purezza all'immondizia, la verità alla menzogna, la sincerità alla doppiezza, la vita alla morte, la bontà alla malvagità; così la santità è opposta al peccato e Dio, santità per essenza, l'ha in orrore. Egli ama la santità di amore infinito e detesta per conseguenza di odio infinito il peccato mortale. Dice il Crisostomo che grande supplizio è il peccato anche se non ne fossimo puniti; perché il peccato ci separa da Dio. Chi pecca è il più infelice degli uomini; ma allora principalmente è più infelice, quando non è punito e non ha nulla da soffrire di penoso (Homil. ad pop.).


13. IL PECCATO MORTALE È GRAVE DISOBBEDIENZA A DIO. - Il carattere della ribellione del peccatore a Dio si rileva dalle seguenti parole di Geremia: «Udite quello che dice il Signore: Fermatevi nel vostro cammino, osservate e interrogate le strade antiche per conoscere quale sia la buona, e camminate per essa e troverete riposo alle anime vostre. Ma voi avete risposto: Non cammineremo. Ho stabilito sopra di voi delle scolte e vi ho detto: ascoltate il suono della tromba, e voi: Non ascolteremo... Già fin dal principio avete spezzato il mio giogo, rotto i miei legami, e detto: Non serviremo» (VI, 16-17), (Ib. II, 20).
La legge vi proibisce questa o quella azione, e voi, peccando, dite: Io la farò; vi ordina questa o quell'opera, e voi rispondete: Non voglio farla: Non serviamo il vostro Creatore vi comanda di vivere secondo i suoi precetti e voi rispondete: Non voglio: Non serviamo Egli insiste ancora: Udite la mia voce, e voi rispondete: Non l'ascolto: Non audiemus.
Il Signore dice: Adorerai un solo Dio e lo amerai di tutto cuore; il peccatore ostinato risponde: Non voglio né adorarlo, né amarlo, ma dare il cuore e i pensieri miei alle creature. Non nominerai il nome di Dio invano: A me piace bestemmiare: Non serviam. Osserverai le feste: La mia libertà sarebbe inceppata per l'assistenza ai divini uffizi: Non serviam. Onorerai il padre e la madre, li obbedirai e aiuterai: Non sono più un ragazzo; la mia ragione reclama i suoi diritti; ognuno provveda a se stesso: Non serviam. Genitori, allevate i vostri figliuoli nel timor di Dio, custoditeli, correggeteli, edificateli: Oh questo è troppo grave; e i nostri affari, e i nostri piaceri? N ai pagheremo estranei e li metteremo nelle loro mani: Non serviamo Rispettate il corpo e l'anima del vostro prossimo: non risse, non odi, non vendette, non scandali: Oh! il mio onore vuole una riparazione; tanto peggio per quelli che si scandalizzano: Non serviamo Mantenetevi casti di corpo e di mente: Ah! questo supera le forze
della natura. La passione è troppo gagliarda perché io tenti anche solo di reprimerla: Non serviam. Rispettate quello che non vi appartiene: Ognuno provvede al suo meglio; la vita è una guerra dove solo i timidi e gli scrupolosi hanno torto: Non serviamo 
Peccatori, Gesù Cristo vuole regnare sopra di voi con la sua legge, la sua grazia, la sua gloria; ma voi, simili ai Giudei, rispondete: «Non vogliamo che costui regni sopra di noi» (Luc. XIX, 14). 


14. IL PECCATO MORTALE È INGRATITUDINE E DISPREZZO DI DIO. - Dio è nostro creatore, nostro redentore, nostra provvidenza, nostro padre; ci colma di beni temporali e spirituali; ci promette una gloria e una felicità che non avranno mai fine. Ora, non è la peggiore ingratitudine servirsi dei doni di Dio per oltraggiarlo, e invece di testimoniargli riconoscenza, volgergli le spalle?
Che cosa fa l'uomo peccando? Prende la legge di Dio, risponde Abacuc, e la fa in brandelli (HABAC. I, 4); la disconosce, la disprezza, la deride, la conculca; si burla delle minacce e delle promesse di Dio. E non è questo un enorme sfregio alla divinità, un disprezzo formale di Dio medesimo?
Con la preferenza che il peccatore dà alle creature, mostra a Dio un sommo disprezzo, e rinnova il delitto di cui si resero colpevoli i Giudei preferendo Barabba a Gesù Cristo (IOANN. XVIII, 40). Preporre il male al bene, il vizio alla virtù, la terra al cielo, una turpe voluttà alle pure delizie della grazia, il niente a Dio, è tale traviamento e tale insulto di cui non può immaginarsi il più grande. Se ne lamenta amaramente Iddio: «A chi mi avete paragonato, e assomigliato?» (ISAI. XL, 25). «Udite, o cieli, e tu, o terra, ascolta: Io ho nutrito ed allevato dei figli ed essi mi hanno volto le spalle. Il bue conosce il suo padrone, e l'asino discerne la stalla del suo padrone; ma Israele non ha conosciuto me» (Ib. I, 2-3).
«Quando noi, scrive S. Agostino, commettiamo peccato o di pensieri, o di parole, o di opere, noi dirocchiamo il tempio di Dio, e facciamo ingiuria a colui che abita in noi (Lib. I Retract., c. XV)». Ma guai, egli dice, «guai a voi che mi disprezzate. Non sarete anche voi disprezzati alla vostra volta?» (ISAI. XXXIII, 1). «Chi disprezza, porta con sé chi lo giudicherà» (IOANN. XII, 48).


15. IL PECCATO MORTALE ASSALE DIRETTAMENTE IDDIO. - Ma non solamente contro la legge divina, ma contro Dio medesimo si scaglia il peccatore; egli aguzza la spada, tende l'arco, scocca le saette sue contro l'Onnipotente... Insensato! colpevole soldato di Satana, anche il tuo capo volle combattere contro Dio. Or quale fu la sua sorte? Vinto, prostrato, maledetto, fu gettato per sempre nell'inferno! Deh! non imitate il demonio, se non volete dividerne l'irreparabile rovina...
Il peccato mortale è una specie di deicidio; se Dio potesse essere ucciso lo sarebbe dalla freccia avvelenata del peccato. Il Crisostomo asserisce che, almeno col desiderio, il peccatore uccide Dio (Homil. ad pop.). e S. Tommaso vede nel peccato mortale l'annichilimento di Dio (De Peccat.).
Sì, quando la potenza del peccatore corrispondesse alla sua volontà perversa, egli distruggerebbe Iddio... Ma non potendo annientarlo né nella sua essenza, né nel cielo, né nelle sue opere, lo annienta almeno nel suo proprio cuore. E l'uomo che così opera, non sopporterebbe Dio in nessun luogo... Se avesse qualche potere su di lui, desidererebbe che non vi fosse Dio, perché non vorrebbe che ci fosse né legge che l'obbligasse ad obbedire, né giustizia che lo punisse; ora questo desiderio porta con sé il desiderio dell'annientamento di Dio...
Quando il Figlio di Dio venne su la terra, non lo hanno forse crocefisso? Se venisse un'altra volta in mezzo a noi, i peccatori gli farebbero soffrire di nuovo tutti i dolori della passione; e se Gesù potesse ancora morire, il peccato mortale gli darebbe la morte... Ci pensate voi, miseri peccatori? dal punto in cui voi giacete in colpa grave, il vostro cuore è un patibolo sul quale immolate il vostro Salvatore.
Sì, il peccato mortale è stato la vera ed unica causa della morte di Gesù Cristo. Deh! riconoscete, o peccatori, quanto sono gravi le ferite del peccato, se Gesù per guarirle dovette essere crivellato di ferite e versare tutto il suo sangue! Ah! se non fosse mortale la piaga che fa all'anima il peccato, il Figlio di Dio non sarebbe morto per rimarginarla. Riconosci, o uomo, dice S. Agostino, quello che tu vali e quello che devi. Considerando l'alta dignità che ti ha conferito la redenzione, impara a temere ed a fuggire il peccato. Vedi come la Pietà è flagellata invece dell'empio; la Sapienza è derisa invece dell'insensato; la Verità è immolata invece del mentitore; la Giustizia è condannata in luogo del colpevole; la Misericordia è tormentata invece dell'insensibile; la Purità è abbeverata di aceto, e la dolcezza satollata di fiele, invece del malvagio e dell'iracondo; l'Innocenza prende il luogo del vero colpevole; la Vita muore per risuscitare colui ch'era morto (De Passione).


16. DI SUA NATURA IL PECCATO MORTALE È IRREPARABILE. - Così enorme è la malizia di un solo peccato mortale, tanto oltraggio fa alla Maestà divina, che tutte le preghiere; le umiliazioni, le austerità, le lodi, le adorazioni dei Santi e degli angeli non basterebbero per espiare un solo peccato mortale. Tutto ciò ch'essi potrebbero fare di bello e di meraviglioso, non potrebbe menomamente velare quello che vi è di brutto e di abominevole in una sola colpa grave. Insomma, di natura sua il peccato mortale è un male irreparabile. Un esempio ce lo farà comprendere: - Quando Nabucodonosor fece gettare nella fornace accesa i tre giovanetti ebrei, esso, per quanto dipendeva da lui li bruciò, sebbene Iddio li abbia salvati, Così, allorché noi pecchiamo gravemente, uccidiamo l'anima nostra; e benché Dio possa risuscitarci, noi spegniamo, per quanto dipende da noi, fin l'ultima scintilla di vita che vi è in noi e ci assicuriamo la dannazione eterna. Bisogna guardare quello che produce il peccato, non quello che può l'onnipotenza di Dio. Chi rinunzia una volta a Dio, vi rinunzia per sempre, perché sta nella natura del peccato il rendere eterna, per quanto è in sé, la nostra separazione da Dio.
Inoltre, nessuno desidera di vedere la fine della propria felicità; ora, siccome il peccatore mette nel peccato la sua felicità, non vorrebbe mai separarsene, e quindi non porvi mai riparo, ma affondarvisi sempre di più, come osserva S. Gregorio: «Vorrebbero i peccatori, se potessero, vivere sempre per peccare sempre. Mostrano infatti che vogliono vivere sempre nel peccato, non cessando mai di peccare, mentre vivono. Non dicano adunque costoro: Perché un inferno eterno? Appartiene alla giustizia del Giudice supremo, il non porre mai termine al supplizio di coloro i quali, finché poterono, non vollero mai cessare dal peccato (De Poenit. cap. LX)».
Caduto nel peccato mortale, non poteva l'uomo aspettare né da sé né dagli angeli nessun rimedio che lo rimettesse nello stato d'innocenza e gli restituisse i beni che aveva perduto. Allora, nella sua misericordia, il Figlio di Dio, la sapienza increata, per cui tutto è stato fatto, prese una determinazione mirabile, ineffabile, incomprensibile agli Angeli e agli uomini; egli si unì alla nostra natura, e in essa e per essa ha riparato il genere umano, caduto tutto quanto nella degradazione.


17. IL PECCATO MORTALE È PEGGIORE DELL'INFERNO. - Osservato nel suo vero aspetto, il peccato è peggiore della morte, della riprovazione, dell'inferno; perché il peccato è in se stesso una macchia, un male; mentre la morte, la riprovazione, l'inferno non sono che la pena del peccato. L'inferno non è un male, ma ne è il giusto castigo: quello che è un male, è ciò che conduce all'inferno, cioè il peccato: «Se io vedessi, dice S. Anselmo, di qua il peccato mortale, di là l'inferno, e dovessi scegliere tra i due, preferirei lanciarmi nell'inferno, piuttosto che commettere il peccato (De Similit. , c. CXC)».


18. SIMILITUDINI DEL PECCATO MORTALE. - «Fuggi, figliuol mio, dal peccato, dice il Savio, come fuggiresti alla vista di un serpente; perché se tu lo avvicini, esso ti prenderà. Le sue zanne sono come denti di leone, che stritolano le anime» (Eccli. XXI, 1-3). Lo Spirito Santo paragona il peccato al serpente armato di veleno, i cui morsi sono nascosti e mortiferi; per indicarne i terribili effetti, ricorre alla similitudine dei denti del leone, i quali sbranano e stritolano la vittima...
Di un uomo caduto in peccato grave si può dire quello che esclamò il patriarca Giacobbe alla vista della tunica insanguinata di Giuseppe: «Una ferocissima belva l'ha divorato» (Gen. XXXVII, 33); oppure col Salmista: «Un cinghiale della foresta ha devastato la vostra vigna, o Signore, una fiera selvaggia l'ha desolata» (LXXIX, 14).
«Ogni iniquità è una spada a due tagli, alle cui ferite non c'è rimedio» (Eccli XXI, 4). Lo Spirito Santo, dopo di avere paragonato il peccato al serpente, al leone, al cinghiale, lo assomiglia ad una spada a due fendenti... Impariamo da questo, quanto grave e funesto sia il peccato mortale; perché egli nuoce infinitamente di più all'anima, che al corpo un serpente, un leone, una spada: o ad una vigna il cinghiale. Il peccato mortale uccide per sempre l'anima e talvolta anche il corpo.


19. IL PECCATO MORTALE È LA PIÙ TERRIBILE DELLE CADUTE. - Appena che l'anima, compagna dei santi e degli Angeli, sposa di Gesù Cristo, ha commesso un peccato mortale, già é discesa dalle altezze del cielo, e precipitando in una fogna, vive tra le bestie immonde e i rettili velenosi; si avvoltola nel fango e se ne ciba. Al contrario, l'anima esente da colpa grave è un cielo in cui l'intelligenza è il sole; la fede e la continenza, la luna; le altre virtù, sono le stelle. Tutte le virtù brillano in mezzo alle avversità di questo secolo, come gli astri nel firmamento durante la notte, dice S. Bernardo (Serm. in Psalm.).


20. IL PECCATORE È IL PIÙ CRUDELE NEMICO DI SE STESSO. - Il peccato è il sommo male della natura, dell'uomo, della società. Né l'uomo, né il demonio, né Dio medesimo possono, fare ad un uomo tanto male, quanto se ne fa egli medesimo allorché pecca mortalmente. Qui è veramente il caso di dire col Crisostomo: «Nessuno si ferisce se non da se stesso» (Hom. ad pop.); avendo la sapienza di Dio, come osserva S. Agostino, così ordinato le cose riguardo al peccato, che quello che ha formato il diletto del peccatore diventi nelle mani del Signore strumento di punizione (Lib. Confess).
«Ognuno è tormentato in quello in cui ha peccato» (Sap. XI, 17), dice il Savio; ossia ogni vizio porta con sé una pena tutta sua propria; e donde viene il peccato, deriva il supplizio che l'aspetta (CRYSOST. Homil ad pop.). Ah! voi, o Signore, avete stabilito che ogni anima sregolata sia di supplizio a se stessa, e così è (Lib. Confess). Le cose di cui abusiamo peccando, si cambiano d'ordinario in verghe che ci frustano, dice Ruperto Abate, e S. Paolino da Nola con espressiva immagine, raffigura la vita di colui che pecca, ad un molino dov'egli macina il grano del suo nemico, il demonio, il quale se ne mangia l'anima come pane (Epist. IX).
«Le iniquità dell'empio, leggiamo nei Proverbi, sono tranelli tesi ai suoi piedi, i suoi peccati sono corde che lo legano» (V, 22). «Quelli che si abbandonano al male, sono nemici della loro anima», dice Tobia (XII, 10). Quando si vive nel peccato, la vita piena della nobiltà della virtù, che è la vera vita, scompare; la specie di vita che rimane, non è altro che una vera morte con apparenza di vita. Infatti, dice il Damasceno, il peccato è la morte dell'anima 
immortale: - Peccatum est immortalis animae mors (SURIUS. In Vita). Il peccatore porta continuamente con sé il pesante fardello del suo peccato; e dove trovare giogo più opprimente? Perciò avverte S. Gregorio, che il peccatore perde la felicità sia a cagione del vizio, sia per le pene che vanno congiunte al vizio (Moral.).
«Il peccato, scrive S. Tommaso, è chiamato vanità: 1° perché chi lo commette si elegge un bene immaginario; 2° chiedere la durata a questo bene, è un chiederla a qualche cosa essenzialmente transitoria e fantastica; 3° aspettarne qualche felice esito, è un illudersi; 4° attaccarvisi è cosa infruttuosa; di modo che sta bene in bocca al peccatore quel detto d'Isaia: «Invano e senza scopo ho lavorato; mi sono logorato le forze per correre dietro ad un fantasma (De peccat.)». Chiunque commette l'iniquità può ripetere con Geremia: «Il peccato mi ha condotto per un deserto, in mezzo ad una landa inospita e selvaggia, su cui non è stampata orma di piede umano, né scorre filo d'acqua» (IEREM. II, 6). Il peccatore che abbandona Dio e vive nel peccato, l°vedrà dileguarsi ogni sua speranza di benessere; 2° non produrrà frutto; 3° sarà privo della celeste rugiada della grazia e della sapienza; 4° sarà abbandonato da Dio e dagli uomini; 5° sarà esposto in vendita come uno schiavo e comprato dai demoni e dalle passioni tiranniche.
«Il peccatore, dice Geremia, avrà la sorte della felce del deserto; non vedrà mai stilla che lo rinfreschi, ma abiterà nella siccità del deserto, in un suolo seminato di sale e inabitabile» (IEREM. XVII, 6). Notate i tre effetti del peccato qui accennati dal Profeta: 1° il deserto, cioè l'allontanamento di Dio e della sua grazia; degli Angeli e dei Santi; 2° la siccità, cioè la mancanza di grazie, di virtù, di forza; 3° la sterilità, perché il peccatore non produce più buone opere.
«Gerusalemme, dice il medesimo Profeta, si è tuffata nel peccato, perciò divenne instabile; tutti quelli che la lodavano l'hanno disprezzata, perché ne videro L'ignominia» (Lament. I, 8). La prima causa dell'instabilità del peccatore viene dal suo allontanamento da Dio... La seconda sta nell'incostanza naturale al cuore dell'uomo che, essendo vastissimo e capace di molti oggetti, nutrisce una folla sterminata di desideri. Ma, per ciò appunto, nessuna creatura, né passione, né piacere, cose tutte finite e limitate, possono riempirlo o saziarlo; gli bisogna Dio, e il peccatore non l'ha... «L'anima ragionevole, dice S. Bernardo, può ben essere occupata di ogni altra cosa che non sia Dio, ma non può essere riempita di altra fuorché di Dio (Serm. in Cant.)». La terza causa deriva da ciò, che tutti i piaceri creati che l'uomo cerca seno ondeggianti, fuggitivi, e misti con molta amarezza e finiscono in tormento, essendo il disgusto e le lagrime il termine di ogni gioia. Perciò il peccatore cerca, dopo una soddisfazione fallace, una nuova gioia, e passando anche questa e volgendoglisi a nausea, va cercandone un'altra di cui si stanca quasi subito. Ecco in qual modo andando di desiderio in sazietà, e di sazietà in desiderio, egli erra infelice e vagabondo in cerca della felicità o almeno del riposo, senza che trovi né l'una né l'altro. La quarta causa è, che siccome una virtù ne porta con sé un'altra, così un vizio conduce un altro vizio. La quinta viene dai rimorsi della coscienza, che non dànno tregua all'anima. Lacerato dai rimorsi della coscienza, Caino va errante e vagabondo su la terra. La settima ha origine da una moltitudine di pensieri perversi che travagliano il peccatore; cosicché il peccato, dice S. Ambrogio, si può considerare come un ardore disordinato ed una febbre ardente dell'anima (Serm. XIV). La settima causa è che col peccato l'anima giusta perde la sua innocenza e diventa una prostituta; e perciò va in cerca di amanti tanto vani e ingannatori quanto essa. Per conseguenza il più mortale nemico del peccatore è il peccatore medesimo.





Questo Articolo proviene da Pagine cattoliche





I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: Peccato mortale (II)



21. Il peccato mortale ruba all'uomo ogni bene: 1° Gli toglie la grazia; 2° Deturpa la bellezza dell'anima; 3° Spoglia l'anima della sapienza e della vita; 4° Priva di tutti i meriti. 

 22. Il peccato mortale attira sull'uomo tutti i mali: 1° Lo rende vile e spregevole; 2° Lo acceca; 3° Lo rende schiavo; 4° Uccide il corpo e l'anima; 5° Attira la maledizione di Dio; 6° Conduce ad una cattiva morte e all'inferno; 7° Fà dell'uomo un demonio; 8° Produce di per se stesso tutti i mali. 

 23. Il peccato mortale è un mistero d'inferno.
 24. Stato spaventoso di chi si trova in peccato. 
 25. Sorgenti del peccato. 
 26. Diverse maniere di peccare. 
 27. Difficoltà e miracolo della giustificazione.
 28. Il peccato dev'essere punito. 
 29. Che cosa si richiede perché un peccato sia mortale? 
 30. Bisogna evitare il peccato.





21. IL PECCATO MORTALE RUBA ALL'UOMO OGNI BENE: 

1° Gli toglie la grazia . - Il peccato mortale fa perdere all'anima la grazia santificante che è il più prezioso dei tesori...
La grazia è il principio della gloria... Dice Gesù Cristo: «Chi berrà dell'acqua, che gli darò io, non avrà mai più sete in eterno; ma l'acqua che io gli darò, si farà per lui fonte di acqua viva che sale alla vita eterna» (IOANN. IV, 13-14). Gesù dà alla sua grazia il nome di acqua zampillante, di acqua viva, perché ella viene dal cielo che è la vita e vi conduce. Sia di natura sua, sia per la sua destinazione, per la promessa di Dio, la grazia è il seme che produce la gloria. Dio si comunica all'anima per mezzo della grazia e mediante questa comunicazione innalza l'anima fino a se stesso, la trasforma in sé, la divinizza..
Gesù Cristo cammina su le onde, sostiene Pietro, calma la tempesta, e in un, istante fa approdare la barca alla spiaggia. Con la sua grazia, il Salvatore opera in noi simili prodigi: ci aiuta a rinunziare al secolo, calma le tempeste della concupiscenza e delle tentazioni, ci guida al porto dell'eterna salute. Quando Iddio scende in un'.anima con la luce della sua grazia, quest'anima si scioglie come neve al sole, piange i suoi traviamenti, s'infiamma di zelo, diventa dolce e si abbandona interamente nelle braccia del celeste sposo. Allora in lei si appianano i monti dell'orgoglio, scompaiono i colli dell'ambizione e della vanità, e non vi rimane traccia delle scure valli della viltà, del timore, della tepidezza, dell'accidia... La grazia rende meritorie le opere buone.

Ah se conoscessimo il prezzo della grazia e tutti i suoi vantaggi! con quale ardore la brameremmo e come, invece di esporci a perderla, lavoreremmo a procurarla, a conservarla e aumentarla! Come ogni altra cosa e grandezza, e ricchezza ci sembrerebbe vile e spregevole, in confronto di essa!... 
La grazia 1) scaccia ogni peccato mortale; 2) rende l'uomo accetto a Dio; 3) gli conferisce la rettitudine e la santità; la sua mente, la sua volontà, tutte le facoltà stanno soggette a Dio e alla sua legge, in una parola essa rende l'uomo somigliante a Dio e quale era Adamo prima della sua caduta; 4) fa di noi altrettanti figli di Dio, suoi eredi, coeredi e membri di Gesù Cristo; 5) porta con sé tutte le virtù e i doni dello Spirito Santo; 6) assicura il possesso della gloria; 7) è il principio e la causa della soddisfazione per le colpe commesse e ci premunisce contro le cadute...

La grazia ha per frutto, la pace..., la speranza della gloria..., la grandezza d'animo e la gioia nelle contrarietà... Paragonati alla grazia, tutti i diamanti dell'Oriente, tutte le corone dei re, tutti i tesori dei ricchi, tutto il denaro del mondo, non valgono nulla, dice il Savio (Sap. VII, 9)... Ora, un solo peccato mortale basta a sciupare, a distruggere, ad annientare questa grazia di così inestimabile valore!... O Dio, che perdita!... Che disgrazia!...

2° Deturpa la bellezza dell'anima. - Che cosa ha fatto in cielo, il peccato mortale, del più felice, del più splendido, del più riccamente dotato degli Angeli? Ne ha fatto il più misero, il più schifoso, il più povero dei demoni. Quale sarà dunque lo stato in cui riduce l'anima dell'uomo! Bisogna esclamare piangendo con Geremia: «Ogni bellezza scomparve dalla figlia di Sion» (Lament. I, 6).
Che cosa vi è di più bello che l'anima creata a immagine di Dio, capace di conoscere, amare, servire il suo Creatore e di possedere la gloria eterna? Finché si mantiene nello stato di grazia abituale, è più splendida del sole. Se potessimo vedere la sua incomparabile bellezza, ne saremmo rapiti e la crederemmo una divinità, perché vestita della bellezza medesima di Dio. Ma quando ha la disgrazia di cadere in un peccato mortale, che spaventoso cambiamento avviene in lei!... Ogni sua beltà scompare in un battere d'occhio; ella diventa agli occhi di Dio più laida e più stomachevole di quanto può essere agli occhi dell'uomo civile, il più schifoso e barbaro selvaggio. Ma che dico? E mille volte più orribile a vedersi che un cadavere corroso dai vermi. Se si potesse vedere, farebbe morire di spavento.

3° Spoglia l'anima della sapienza e della vita. - Lo Spirito Santo ci avverte che la sapienza non entra in un'anima dedita al male, non abita in un corpo schiavo del peccato, e lo Spirito del Signore si allontana al giungere dell'iniquità (Sap. I, 4-5)... Se la sapienza regna in un'anima esente da peccato mortale, bisogna dire che la follia, l'insensatezza domina colui che vi si abbandona.
Che cosa è il corpo privo dell'anima e ridotto a cadavere? E’ la più vile e ributtante cosa del mondo. Tale è l'anima che ha perduto, per il peccato mortale, la vita... Dio è per l'anima quello che l'anima è per il corpo; come l'anima è la vita del corpo, così la grazia è la vita dell'anima. Quando l'anima si separa dal corpo, la vita cessa; quando Dio si separa dall'anima, questa muore e non ha più calore di vita. Ora, soltanto il peccato mortale produce questa funesta separazione... O peccato mortale, quanto. sei dannoso!

4° Priva di tutti i meriti. - Supponete che una persona sia adorna di tutte le virtù; che da venti, trenta, cinquant'anni sia cresciuta in perfezione; che insomma abbia toccato l'apice della santità; un solo peccato mortale le rapisce il merito di tutte le preghiere, elemosine, mortificazioni, confessioni e comunioni, in una parola, di tutti gli atti di virtù; di modo che se morisse in tale stato, nulla di tutto ciò le gioverebbe punto; sarebbe esclusa dal cielo e condannata all'inferno. E questa una verità chiaramente esposta nei Libri santi: «Se il giusto si ritirerà dalla via della giustizia e commetterà il peccato, dice Iddio per bocca di Ezechiele, io scaverò dinanzi a lui una fossa; egli morrà nel suo peccato, e di tutte le opere sante che avrà fatto non rimarrà memoria» (EZECH. III, 20).
Di più; tutto il bene che fa l'uomo in istato di colpa grave va interamente perduto e non gli sarà computato per il cielo. Rimanga il peccatore dieci, venti, cinquant'anni in tale stato, tutte le sue preghiere ed ogni altra opera santa che faccia, non gli sono punto di merito per la vita eterna. Per meritare la gloria e un accrescimento di gloria, bisogna avere la grazia santificante. Odi, peccatore che non ti arresti in faccia al peccato mortale ed osi vantarti che sei ricco e che non manchi di nulla, odi quello che ti risponde il Signore: «Tu non ti accorgi che sei misero, infelice, povero, cieco e nudo» (Apoc. III, 17).

Se è così, dirà forse taluno, tanto vale, dopo commesso un peccato mortale, lasciare affatto la preghiera, la mortificazione, la elemosina, la confessione, e darsi alla disperazione. Anzi conviene applicarvisi più di proposito; perché sebbene tali opere fatte in peccato mortale non ricevano ricompensa nel cielo, avranno tuttavia l'insigne vantaggio di disporre il peccatore a convertirsi, e ottenergli misericordia; beni immensi ch'egli non otterrà certamente se rimane nel peccato e non fa nulla per uscirne, tanto peggio poi se dispera. 

Riguardo ai meriti acquistati in istato di grazia e perduti in conseguenza di un peccato mortale, essi ci saranno resi interamente quando saremo ritornati nella grazia e nell'amicizia di Dio. Importa dunque sommamente al giusto che è caduto, il rialzarsi presto, e non cessare dalle opere buone anche in istato di peccato, per tenersi aperta la porta alla riconciliazione con Dio, e rientrare al possesso di tanti tesori da lui accumulati, e che altrimenti andrebbero per esso eternamente perduti.

A tutto ciò se si aggiunge che un solo peccato mortale basta a dare il crollo alle virtù ed alle ricchezze spirituali; a recidere l'amor di Dio, a togliere la felicità, l'innocenza, a impedire una buona morte; a chiudere la porta del cielo; a privare del trono, della corona, della gloria celeste, della vista, del possesso, del godimento di Dio in eterno, tu vedi che ladro e assassino sia il peccato mortale, che dopo di averti rubato ogni più invidiabile ricchezza, ti opprime di mali e ti sprofonda in un abisso di sciagura.

22. IL PECCATO MORTALE ATTIRA SULL'UOMO TUTTI I MALI

1° Lo rende vile e spregevole. - Il peccato è il sommo della degradazione dell'uomo, come la prostituzione è la più profonda degradazione della vergine, togliendole il pudore, la verginità, l'onore: cosicché al peccatore si può applicare il detto di Geremia: «O quanto vile e spregevole sei divenuta, Gerusalemme!» (IEREM. II, 36). A questo proposito scrive S. Agostino: «L'eccellenza e il bene della natura principalmente si manifesta in ciò che le è dato di potersi appigliare alla natura del sommo ed inamovibile bene. Ma se essa vi si rifiuta, si priva del bene assoluto, ed è questa la somma sua disgrazia; perché, per la giustizia di Dio, essa cade rapidamente nell'ignominia e nei patimenti. Che cosa vi può essere di più orrendo, e degno di disprezzo, che il voler trovare il bene nell'abbandono del vero bene? Accade talvolta che non si sente il male della perdita di un bene superiore, quando si possiede il bene inferiore che si ama. Ma è proprio della giustizia divina il disporre che colui il quale perde di suo volere quel che avrebbe dovuto amare, cioè Dio, perda anche con dolore quello che ha amato» (De Civit. Dei). Il peccatore, tutto terra e materia, non sente quanto sia degradante il peccato e quanto avvilisca l'uomo; e Dio, affinché lo senta, gli manda i dolori del castigo.

2° Lo acceca. - San Paolo dice nella persona del peccatore: «Non intendo quello che fo» (Rom. VII, 15). Infatti il peccatore non intende, in primo luogo, tutta la malizia del peccato; ché se la comprendesse non lo commetterebbe giammai... In secondo luogo non comprende bene quello che fa quando pecca, perché opera contro il giudizio della sua coscienza e della sua ragione.
«Non partecipate, dice il medesimo Apostolo, alle opere sterili delle tenebre, ma biasimatele; perché quello ch'essi fanno in segreto, sono cose vergognose a dirsi» (Eph. V, 11-12). Il peccato è chiamato opera delle tenebre: 1° perché essendo opera vergognosa, il peccatore odia la luce e cerca le tenebre...; 2° perché acceca l'intelligenza e la ragione... Il peccato ha sempre origine o dall'errore, o dall'imprudenza, o dal difetto di esame e di riflessione. E un errore pratico, l'errore della vita e dei costumi, come si legge nei Proverbi: «Quelli che fanno il male sono nell'errore» (XIV, 22). A chi lo commette fa misconoscere la legge che è la guida sicura della coscienza e della saviezza. Dopo che è conosciuto, addensa più ancora le tenebre in cui già l'anima si trova affondata.
O peccatore cieco che dormi nel tuo stato, continua l'Apostolo, sorgi ed esci di mezzo ai morti, e Gesù Cristo t'illuminerà (Eph. V, 14). «Il peccatore sta oziando, dice il Crisostomo, e non fa azione degna di lode; non può presentarne nessuna e non comprende le cose della salute; si direbbe un uomo che dorme. Anzi, un uomo che sogna piaceri fantastici; egli è veramente un uomo addormentato (Hom. ad popul.)». Essi dormirono, dice il Salmista, e tutti questi peccatori che reputavansi ricchi, non trovarono nulla nelle loro mani (Psalm. LXXV, 5). «Non cadete in peccato, dice S. Agostino, e il sole di giustizia non andrà per voi al tramonto; ma se voi cadete, scomparirà come il sole nell'occaso. Se volete essere illuminati, siate voi medesimi luce: perché se amate le tenebre e le tenebrose passioni, ne resterete accecati (In Psalm.)».
Molta analogia vi è tra le tenebre ed il peccato: Come le tenebre privano l'uomo della luce, così il peccato lo priva della grazia, che è la luce celeste... Chi va al buio non vede nulla e spesso inciampa; il peccatore non vede nulla di ciò che dovrebbe vedere, e dà in frequenti cadute... Gli uccelli notturni non possono soffrire il chiarore del giorno; i peccatori fuggono la luce della ragione e della grazia; essa li irrita e stanca, secondo quelle parole di Cristo: «Chiunque fa male, odia la luce, e non vi si espone, affinché non gli vengano rimproverate le opere sue » (IOANN. III, 20)... I peccati sono opere del demonio principe delle tenebre... La maggior parte delle colpe si commettono nelle ombre... I peccati hanno per cagione le tenebre; derivano dall'accecamento volontario che porta il peccatore ad abbandonarsi ad una passione fugace a scapito del suo riposo, della pace di sua coscienza, della felicità eterna, del possesso di Dio: il che è certamente la più grande, la più nocevole delle follie; e più che follia, è rabbia e furore... Il peccato acceca lo spirito in modo portentoso... Conduce alle tenebre dell'inferno.
I grandi peccatori sono così ciechi, che non trovano nulla in sé da rimproverare; più colpe hanno e meno ci pensano. O ciechi che sono! dovrebbero ricordare quelle parole di S. Giovanni: «Se diciamo di non avere peccato, noi c'illudiamo, e la verità non è in noi» (I IOANN. I, 8), e queste altre di S. Giacomo: «Tutti noi manchiamo in molte cose» (IAC. III, 2). Ricordino ancora quelle sentenze del Profeta: «Chi sa pesare i traviamenti dell'uomo? Ah, Signore! mondatemi dalle colpe occulte» (Psalm. XVIII, 12). «I miei peccati mi hanno trascinato in un baratro profondo, in un luogo di tenebre, tra le ombre di morte» (LXXXVII, 6). «Il peccato, mio nemico, mi ha cacciato nel più orrido buio, come i morti» (CXLII, 3). Se è vero che chi dimora in Dio, non pecca, è anche vero, che chiunque pecca non vide né mai conobbe Dio (I 10ANN. III, 6).

L'uomo che vuole peccare è talmente cieco, che ripete a se stesso il linguaggio tenuto già dal serpente ad Eva. Perché tale proibizione? Perché non sarà permesso prendersi questo diletto? Quella cosa non è poi così brutto male come la gente dice; nel giudicarne così strettamente si esagera... E chi potrà mai credere sul serio che per il godimento di un istante, vi sia un inferno eterno! questo non può essere (Gen. III, 1, 4). Ad esempio di Eva, egli pensa che questo o quell'altro frutto dev'essere buono al gusto, bello alla vista; lo coglie e se ne ciba; e in quel punto gli si aprono gli occhi, si trova nudo, spogliato della grazia e dell'amicizia di Dio. Il frutto dell'orgoglio, della voluttà, della gola, dell'amore del mondo, sembra buono e bello al peccatore, perché ha la vista torbida, il gustoso depravato, il cuore infermo; se ne pasce e gli tocca la sorte di Adamo e d'Eva... «Il castigo apre gli occhi chiusi dal peccato », dice S. Gregorio (In Gen.); ma è troppo tardi; bisognava aprirli prima della caduta...
Che cosa fa l'uomo peccando? Abbandona Dio fonte di acqua viva, risponde Geremia (II, 13), per seguire le creature, cisterne areno se che non possono contenere l'acqua. Ora che cecità, che accecamento inaudito, non è mai quello di abbandonare Dio, solo e sommo bene, per un nulla, per cosa che è meno di nulla? «Quanto e quale bene sia Dio, evidentemente si rileva anche da ciò, dice S. Agostino, che nessuno di coloro che da lui si allontanano è felice; infatti quegli stessi che si abbandonano al piacere non possono schermirsi dal timore di qualche patimento. E anche quelli che non sentono il male di aver abbandonato Dio non possono nascondere internamente la loro miseria (In Genes.)». E infatti, siccome in Dio solo è la vera felicità, il peccatore che lo scaccia da sé, si espone per questo solo ad ogni amarezza. Dopo di aver abbandonata la sorgente della vita, egli si attacca, voglia o non voglia, alla sorgente della morte, dell'infelicità, della miseria. Non è questo il sommo dell'accecamento?..

«Una densa nube tu hai posto tra te e Dio, la quale intercetta la tua preghiera», dice Geremia (Lament. III, 44). I peccati sono chiamati nuvole: 1° perché sono densi e neri vapori che esalano da un Cuore corrotto come da limacciosa pozzanghera; 2° perché privano l'anima della luce e del calore del sole eterno che l'avrebbe resa bella e feconda; 3° perché se
la folgore e la grandine ci vengono dalle nubi, la collera ed i castighi di Dio ci derivano dal peccato; 4° perché come le nubi separano la terra dal cielo e impediscono all'occhio di penetrare fino all'azzurro firmamento, così i peccati dividono l'uomo dai Santi, dagli Angeli, da Dio, e non gli lasciano vedere né il giudizio che l'attende, né l'inferno che si spalanca per inghiottirlo.

3° Lo rende schiavo. - Il peccatore è gittato dal suo peccato in oscura prigione, o per meglio dire, il peccato si fa esso medesimo prigione al peccatore; di maniera che questi può applicare a se stesso quelle parole di Geremia: «Ha edificato intorno a me, perché più non esca; ha appesantito le mie catene» (Lament. III, 7).
«Il peccato mortale, dice S. Agostino, mette in prigione chi lo commette; la ricaduta chiude la porta del carcere; l'abitudine la mura» (De Morib. Ecclesiae). E che diremo poi della prigione dell'inferno in cui il peccato mortale precipita chi lo commette? Ma non c'è da meravigliare, perché non è forse effetto del peccato cambiare l'anima da tempio di Dio in dimora di Satana? Il demonio, come ci assicura il grande Apostolo, tiene nei suoi lacci i peccatori, a suo talento (II Tim. II, 26). Essi somigliano ad un uccello che un ragazzo tiene legato per un filo; vola, ma non è libero.

«I peccatori, scrive Bossuet, sono schiavi di colui che si è dichiarato l'antagonista di Dio; schiavi di Satana, di quello spirito nero, tenebroso, furioso e disperato, il quale non respira che odio, dissensione, invidia; schiavi di quello spirito superbo, ingannatore, geloso, che sprofondatosi nell'abisso senza speranza di uscita, di altro non è più capace che di quella sinistra gioia che prova un furfante nell'avere dei complici, un invidioso nell'avere compagni d'infortunio, un orgoglioso abbattuto nel trascinare altri nella sua rovina; schiavi del demonio, il cui odio è implacabile. E notate che quest'odio del diavolo contro. i peccatori è tale, che si diletta non solamente di crucciarli, ma di macchiarne e degradarne l'anima. Più gode di corrompere che di tormentare; di togliere l'innocenza, che il riposo; più di rendere malvagio, che infelice. Quando questo vincitore crudele si è insignorito di un'anima, vi entra furibondo, la saccheggia, la malmena, la diserta, la viola; e la viola non tanto per soddisfare a se stesso, quanto per disonorarla ed avvilirla. Egli la porta ad abbandonarsi a lui, la insozza, e poi se ne prende giuoco; la tratta come si trattano quelle donne che divengono lo scherno di coloro ai quali si sono indegnamente e vilmente prostituite».
«Ecco, dice Isaia, che voi siete stati venduti in mezzo alle vostre iniquità, e venduti per un nulla» (L, 1), (LII, 3). Dio vende i peccatori, cioè li abbandona al demonio; perché di per sé il demonio non ha nessun diritto su l'uomo, anche peccatore: ma Dio gliela abbandona come un essere vile, dispregevole, reo di lesa maestà; gliela consegna come la giustizia umana consegna un condannato al carnefice, perché lo torturi.
Il peccatore è schiavo del demonio, ma anche della concupiscenza, delle passioni, del peccato: «Sbarazziamoci, dice S. Paolo, di ogni peso, e del peccato che ci avviluppa» (Hebr. XII, 1). 1) La concupiscenza ci avviluppa, movendo ci guerra continua ed accanita e ponendoci ostacoli a fare il bene. 2) Il peccato ci avviluppa cioè c'incatena e impedisce la libertà dei nostri movimenti. 3) Ci avviluppa, cioè si stringe a noi fortissimamente. 
Il peccatore, secondo la frase di S. Paolo, è venduto sotto il peccato (Rom. VII, 14). La forza di questa espressione si comprende se si ricorda come gli antichi Romani usassero coronare di fiori i prigionieri di guerra, che mettevano in vendita, il che si chiamava vendere, venundare sub corona. Perciò venundari sub peccato significa letteralmente essere venduto o abbandonato da Dio al demonio, con in capo, quasi terribile corona, il peso dei peccati commessi.
S. Bernardo, commentando quel passo dell'Esodo, dove si narra che gli Ebrei oppressi da Faraone venivano impiegati alla fabbricazione di mattoni con fango, per la cottura dei quali il re forniva loro una data misura di paglia (Exod. I e V), dice: «Sotto il giogo, di Faraone si fanno opere di fango; Faraone, il demonio, ci somministra la paglia, cioè i pensieri dissipati e colpevoli. La paglia presto si accende ed è consumata in un istante; i cattivi pensieri suggeriti dal demonio producono rapidamente nello spirito un fuoco che è nutrito dalla carne corrotta. Con la paglia accesa si fa cuocere il fango, o terra stemprata, per fabbricarne mattoni; con la paglia della compiacenza, i cattivi pensieri, raffigurati dal fango, si scaldano, si cambiano in fatti e in abitudini, che poi s'induriscono e diventano solidi come l'argilla cotta nella fornace (In Exod.).
«Guai a voi, dice Isaia, che vi trascinate dietro l'iniquità con i suoi legami di vanità, ed il peccato come le sbarre di un carro» (ISAI. V, 18). « Il Profeta, commenta qui S. Gerolamo, dà al peccato il nome di laccio di vanità, perché in brevissimo tempo è ordito, non ha più consistenza che una tela di ragno; ma quando tentiamo di liberarcene, ci troviamo stretti da fortissimi lacci (In Isaia)».
Sansone è accalappiato dalle moine di Dalila; perde la sua forza, diventa fiacco, è vinto, consegnato ai Filistei che gli cavano gli occhi e lo costringono a girare, come giumento, una macina. Che cosa è Dalila, se non la concupiscenza? E che cosa sono i Filistei, se non le passioni sfrenate dell'anima? Quando pertanto l'uomo si abbandona al peccato, perde le sue forze e tosto il demonio, la carne, il mondo lo afferrano; lo legano, gli cavano gli occhi dell'intelligenza e lo rendono schiavo al pari di un giumento attaccato alla macina di un molino... Il peccatore diventa schiavo delle sue passioni; e diventa soggetto a tanti tiranni, quante sono le passioni a cui cede... L'Evangelo dice del figliuol prodigo, che si fece schiavo di un padrone avaro e crudele;
più infelice del prodigo, il peccatore si fa schiavo di una truppa di padroni crudeli e fieri oltre ogni credere.

4° Uccide il corpo e l'anima. - «Lo stipendio del peccato è la morte» - dice S. Paolo (Rom. VI, 23). Stipendio malaugurato! «Il pungolo del peccato, scrive il medesimo Apostolo, è il peccato» (I Cor XV, 56). Stimolo terribile, pungolo atroce!... Dio aveva creato l'uomo immortale di anima e di corpo, ma il peccato gli fece perdere questa immortalità e il Signore gliene diede annunzio con quelle tremende parole: «Tu sei polvere, ed in polvere ritornerai» (Gen. III, 19). Chi mai, considerando le stragi orribili che mena la morte, non comprenderà l'enormità del peccato mortale?... Egli entra nel mondo, e la morte lo segue!...
«Chi non ama Dio e i suoi fratelli, rimane nella morte» - dice S. Giovanni (I, III, 14). Ora chi pecca mortalmente, cessa di amare Dio, cessa adunque di vivere. La morte dell'anima avviene per la privazione della grazia santificante e l'abbandono di Dio. Quando l'anima è separata da Dio, incontra la sorte che tocca al corpo quando è separato dall'anima... Dio è la vita dell'anima; quando si allontana da lei, essa muore. «L'anima che pecca, dice Ezechiele, morrà» (XVIII, 20). «Il peccato, consumato che è, genera la morte», soggiunge S. Giacomo (IAC. I, 15); quindi il Signore nell'Apocalisse dice al peccatore: «Io conosco i fatti tuoi; sembri vivo, ma in realtà sei morto» (Apoc. III, 1), e S. Agostino scrive: «Si sa che molti portano anime morte in corpi viventi» (De Verb. Domin.). Ah sì! il peccato è la morte dell'anima immortale, morte che lascia vivere l'uomo, morte alla quale non mettono fine né la morte del corpo né l'eternità.
5° Attira la maledizione di Dio. - Geremia proclama a nome del Signore che maledetto è colui il quale si affida alla creatura, ed il cuore del quale si allontanò da Dio (XVII, 5). Davide poi esprime con energiche frasi il modo e la forza con cui questa maledizione divina si attacca al peccatore ostinato. Egli ha amato la maledizione e verrà sopra di lui, non ha voluto la benedizione e si allontanerà da lui. Si è vestito della maledizione come di un mantello; è entrata come acqua nelle sue viscere, penetrò come olio nelle sue midolle. Diventi essa il suo abito per sempre, e sia il cingolo delle sue reni. Questa è la paga che Dio riserva ai suoi nemici (Psalm. CVIII, 18-19). Se terribile è la maledizione di un padre sui figli, che sarà la maledizione di Dio?..
6° Conduce ad una cattiva morte e all'inferno. - «La morte dei peccatori è pessima» - dice il Salmista, e «spaventosissima», soggiunge il Savio (Eccli. XXVIII, 24); perché «a quel punto egli vedrà e infurierà, digrignerà i denti e si consumerà di rabbia; il desiderio degli empi andrà in fumo» (Psalm. CXI, 9).
La morte nel peccato e nell'impenitenza finale è una morte disperata, una morte irreparabilmente infelice, è la morte dei reprobi, che dall'inferno del rimorso li trascina nell'inferno del fuoco; infatti il peccatore quando pecca mortalmente, accende in se medesimo il fuoco eterno. Chi pecca, dice S. Ambrogio, lavora per la seconda morte, cioè per l'inferno (Serm. III). «Il peccatore, leggiamo nell'Apocalisse, berrà del vino della collera di Dio, e sarà tormentato dal fuoco e dallo zolfo. Il fumo dei loro tormenti salirà nei secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte» (Apoc. XIV, 10-11).
Perciò S. Agostino dice: «Se non temete il peccato, temete almeno la morte eterna. O infelicità dei peccatori! lasciano morendo l'oggetto che li ha spinti al peccato, e portano con sé i loro peccati, principio di un'eterna dannazione. Non vi è morte peggiore di quella che conduce dove la morte non muore. Disgraziati peccatori! quello che essi vogliono non c'è, e quello che non vogliono esiste, vorrebbero per sempre il piacere del peccato, e questo subito passa; non vorrebbero la pena del peccato, e questa non solamente c'è, ma se non si convertono a tempo, durerà eterna (Homil XLII, in L)».

7° Fa dell'uomo un demonio. - Se resistiamo al peccato mortale, sconfiggiamo la potenza di Satana; ma se cediamo al peccato, esso chiamerà su di noi il demonio, o piuttosto ci trasformerà in demoni. Chi possiede Dio è in certo qual modo trasformato in Dio; chi porta in cuore il demonio, diventa interiormente egli medesimo un demonio e porta su di sé impresso il marchio del dragone infernale: «Quando l'uomo vive a suo capriccio dice S. Agostino, e non secondo la legge di Dio, diventa simile al demonio: poiché perfino. l'Angelo, se volle dimorare nella verità, dovette vivere non secondo l'Angelo, ma secondo Iddio (Lib. I Retract.)».
A cagione del peccato, l'Angelo divenne diavolo; per il peccato l'uomo incorre nella medesima sorte... «Chi pecca, dice apertamente S. Giovanni, appartiene al demonio, perché il demonio pecca fin da principio... e i peccatori sono figli del demonio» (I IOANN. III, 8-10). E ammaestrato da lui, S. Ignazio martire scrive che il peccato mortale è un germe di Satana, che trasnatura l'uomo in demonio (Epist.).
8° Produce di per se stesso tutti i mali. - S. Cirillo chiama il demonio principe del peccato, e padre di tutti i mali (Hom.). Infatti donde vennero tutti quegli infiniti mali di cui l'uomo è la preda in questo e nell'altro mondo.? Non forse dall'invidia di Satana, e dal peccato di Adamo?... Per conoscere che cosa è il peccato, gettate l'occhio. su la disobbedienza del primo uomo e considerate quante malattie, quanti patimenti, quante angosce e miserie essa ha portato a milioni di uomini che da circa seimila anni passano lacerandosi tra le spine della terra; e quanti tra questa folla sono discesi per tutta l'eternità negli abissi dell'inferno? Considerate che per espiare questa disobbedienza, il Figlio di Dio ha dovuto morire crocifisso tra due ladroni, e voi comprenderete che male sia un solo peccato! Allora se la passione vi solletica, voi le risponderete: Non voglio per cosa così da poco, far nascere in me dei rimorsi che potrebbero essere inutili ed eterni.
Ecco le infermità principali che genera in noi il peccato mortale, e contro le quali lo Spirito Santo ci dà forza...; 1° Le malattie, le avversità e vari generi di mali inflitti al corpo ed all'anima... 2° L'ignoranza nell'intelletto... 3° La debolezza nella volontà... 4° L'oblio della memoria... 5° La poca fermezza e durata dei nostri desideri i quali sovente non resistono allo stimolo della carne... 6° Il fuoco della concupiscenza... 7° La pena che sentiamo nell'intraprendere opere eroiche... 8° La difficoltà che proviamo nel perseverare nel fervore e nel servizio di Dio... 9° Gli sforzi che dobbiamo fare per pregare Dio.
Quante volte un'anima pecca, dice Origene, tante ferite riceve; se il peccato è mortale, anche la ferita è mortale. Oh! se potessimo vedere come l'uomo interiore è continuamente ferito in noi da ogni maniera di peccati! Le opere che costituiscono il peccato mortale, lacerano, sbranano e mettono a pezzi l'anima. Se potessimo vedere lo stato in cui allora si trova l'anima, noi resisteremmo al peccato, ce ne dovesse costare la vita; ma traviati dalle cupidigie del secolo, inebriati dai vizi, noi non possiamo né risentirci né accorgerci della gravità e della moltitudine dei colpi che all'anima nostra portiamo peccando (Hom. VIII, in Num.).
Un emblema delle sciagure che semina nel mondo il peccato mortale lo abbiamo in quel cavallo bianco, veduto da S. Giovanni nell'Apocalisse, sul quale sedeva un cavaliere chiamato La morte, e dietro al quale veniva l'inferno: e a lui fu data potestà su le quattro parti della terra: potestà di uccidere con la fame, con la peste, col ferro e con le belve (Apoc. V, 8).
Dieci piaghe travagliarono successivamente l'Egitto: il cambiamento dell'acqua in sangue; le rane; i moscerini; le mosche; la strage degli animali; le ulceri; la grandine; le cavallette; le tenebre; la morte dei primogeniti. Ora queste piaghe sono la figura di quelle che attirano sopra di loro i peccatori; cioè, la discordia, i litigi e i tumulti, gli affanni che li pungono; la collera e gli odi che li infiammano, la perdita dei beni temporali o l’invidia di quelli di cui mancano, i rimorsi della coscienza, l'ostinazione nel male, la tirannia delle passioni che li divorano, l'accecamento nel quale dormono, la morte e la dannazione della loro anima. Su le loro labbra stanno benissimo quei gemiti del Salmista: «L'anima mia è abbeverata di mali; e la mia vita già presso la soglia della morte. La vostra collera, o Signore, si è aggravata su le mie spalle, le onde del vostro furore si accavalcarono sul mio capo» (Psalm. LXXXVII, 3, 7).
Adamo ed Eva cadono, ed ecco venire la concupiscenza, la vergogna, la cognizione della loro nudità, il timore, la cura di nascondersi, la scusa, la cacciata dal paradiso, i dolori del parto, l'assoggettamento della donna all'uomo, la maledizione della terra e del lavoro, i sudori, le spine, la sterilità, la morte, la corruzione, la perdita di Dio e della felicità eterna, l'inferno, ecc... In Adamo ed Eva colpevoli, notate ancora cinque funesti effetti del peccato: 1° la scienza del male...; 2° la perdita dei. beni che possedevano...; 3° la confusione...; 4° i rimorsi della coscienza. ..; 5° la loro fuga da Dio di cui temono i rimproveri e la sentenza che sta per pronunziare... In loro cominciò la sentenza di S. Bernardo: «Col peccato passa la gioia che più non ritorna, e rimane il rimorso che più non parte» (In Psalm.).
Sei castighi furono decretati da Dio contro Adamo e la sua schiatta; castighi che corrispondono ai diversi peccati da lui commessi. Il primo. peccato fu la disobbedienza, in pena della quale egli sentì nascere in sé la ribellione della carne e dei sensi. Il secondo fu la gola, e in punizione di questo, fu condannato alla fatica ed al lavoro. Il terzo fu il furto del frutto vietato, e per questo fu assoggettato alla fame, alla sete, al freddo, al caldo, alle malattie, ecc. Il quarto fu l'infedeltà che lo trasse a non prestar fede alla parola del Signore, per credere a quella del serpe, e questa fu castigata con la morte. Il quinto fu l'ingratitudine, e per castigo ebbe la privazione delle cose necessarie all'esistenza e il decreto di doversene ritornare in polvere. Il sesto fu l'orgoglio, e in punizione di questo gli fu tolto il paradiso, la società degli angeli, il possesso di Dio, e si vide condannato all’inferno.
«Iddio pose un marchio su Caino», leggiamo nella Scrittura (IV, 15). Ecco i castighi del secondo peccato commesso nel mondo: 1° tremito delle membra; 2° fuga ed esilio; 3° timore e costernazione; 4° rivolta delle creature contro Caino» 5° vagabondaggio... In punizione di nuovi e più universali peccati, Dio seppellisce il mondo intero in un diluvio di acque; annienta Sodoma e Gomorra sotto una pioggia di fuoco e zolfo, ecc...
«La giustizia fa prospere le nazioni, aveva detto il Savio, e il peccato le rende misere» (Prov. XIV, 34); e la verità di questa sentenza è provata dalla storia di tutti i popoli: «La sterilità e la vedovanza sopra di te in un punto», disse Iddio al colpevole popolo di Giuda (XLVII, 9); ed ecco questo popolo gridare con Tobia: «Perché non abbiamo obbedito ai tuoi ordini, o Signore, siamo stati abbandonati al saccheggio, alla cattività, alla morte, e divenuti il ludibrio delle nazioni» (TOB. III, 4).
Ammaestrati a questa scuola, tutti i santi padri vedono nelle calamità pubbliche la giustizia di Dio che punisce i peccati dei popoli, delle città, dei regni; S. Gerolamo tra gli altri, toccando dello sfacelo in cui cadeva l'impero romano devastato da orde barbariche, dice: «I peccati nostri sono quelli che dànno forza ai barbari» (Epl. ad Heliod.). Terribili e numerose sono le disgrazie e le miserie che il peccato attira sul capo delle nazioni: ribellioni, ingiustizie, fame, peste, guerre, sedizioni, anarchia, vergogne, disfatte... I peccati fanno scomparire la dignità, la carità, la fede, il culto divino, la religione, le virtù, i re, i regni, i popoli, le famiglie.


Raccogliete e ponderate i seguenti assiomi, e potrete comprendere la malizia e la gravità del peccato mortale.
1° Il peccato è il peggiore di tutti i mali che sono, furono e saranno sotto il sole. Chi ha mutato un angelo in demonio? Il peccato. Chi ha cacciato Adamo e i suoi posteri dal paradiso terrestre, e li ha dispersi in questa terra di miserie? Il peccato.
2° Un solo peccato, anche veniale, è più gran male che tutti gli altri mali presi insieme, perché solo il peccato assale Iddio. Il peccato è l'unico male, l'unico disordine; tutti gli altri mali, castighi del peccato, sono un atto di giustizia ed il ristabilimento dell'ordine distrutto dal peccato.
3° Paragonati al peccato, .gli altri mali non solamente non sono più mali, ma si meritano il nome di beni, come effetto della giustizia vendicativa che rimedia al peccato con la pena, e riconduce per tal modo il disordine all'ordine.
4° Il peccato è un deicida; è la sola spada che potrebbe dare morte a Dio se potesse morire.
5° Il Figlio di Dio ha consentito ad incarnarsi, a patire, a morire, anziché lasciare il peccato senza espiazione. Chi ha crocifisso Gesù, se non il peccato?
6° Se tutti gli Angeli buoni e cattivi, tutte le creature ed il Creatore medesimo insieme convenissero ai danni di un uomo, e a tutto loro potere lo tormentassero, l'opprimessero, non potrebbero fargli tanto male quanto se ne fa egli, commettendo un solo peccato veniale.
7° La malvagità del peccato non trova compenso in nessun bene creato; di maniera che non sarebbe permesso commettere un solo peccato veniale per convertire il mondo intero, ovvero per liberare dall'inferno tutti i dannati. Si può dire in tutta verità che la malizia del peccato è infinita. A ragione pertanto i martiri e i santi resistettero al peccato fino al punto di preferire la morte ad una colpa...O colpevole figlia di Sion! o anima macchiata di peccato mortale, a chi ti paragonerò io? chi mai somigli? (Lament. II, 13).
Ecco una sentenza di Sant'Agostino, degna di essere sempre ricordata: «Vi, è un sommo bene, Dio; e un sommo male, il peccato. Quello, in ragione del quale dobbiamo desiderare tutti gli altri beni, ma lui per se stesso; questo, per cagione del quale dobbiamo schivare tutti gli altri mali, ma lui per se stesso (Sentent.)».
I peccatori possono dire con Geremia: «Ricordati, o Signore, di quello che ci è accaduto: guarda e osserva l'obbrobrio nostro. La nostra eredità passò in mani straniere; le nostre case furono occupate da estranei, e noi siamo divenuti come orfani, senza padre... La gioia del nostro cuore si è spenta, i canti si sono cambiati in singhiozzi; cadde la corona dal nostro capo; guai a noi perché abbiamo peccato» (Lament. V, 1-2, 15-16).


23. IL PECCATO MORTALE È UN MISTERO D'INFERNO. - Si può dire del peccato mortale: «Il mistero d'iniquità si compie» (II Thess. II, 7); su la sua fronte porta scolpita quell'iscrizione, che S. Giovanni Evangelista vide su la fronte della prostituta dell'Apocalisse: Mistero (Apoc. XVII, 5). E infatti che l'uomo non si sottometta a qualunque patimento piuttosto che abbandonarsi al peccato, così abominevole in se stesso, così detestato da Dio, così fortemente condannato dalla legge divina, dalla coscienza, dalla ragione; al peccato che ruba ogni bene, e genera ogni male; è tale accecamento che sa del prodigio; è veramente. un mistero infernale: - Mysterium.
«Per me non posso comprendere, diceva S. Tommaso, come un uomo il quale giaccia in peccato mortale, possa ancora ridere e divertirsi» (De Peccat.). Una vergine di Gesù Cristo confessava in punto di morte, di non aver mai potuto intendere come mai una creatura fatta ad immagine di Dio, capace di conoscerlo, amarlo, servirlo e vederlo nella beata eternità, possa commettere avvertitamente un solo peccato mortale contro il suo Creatore e Redentore.


24. STATO SPAVENTOSO DI CHI SI TROVA IN PECCATO.

A farvi un'idea dello stato in cui si trova un'anima macchiata di peccato mortale, figuratevi: 

1° Una città presa d'assalto e messa a ruba, a ferro e fuoco. 
2° Un vasto incendio; con questa differenza che in un incendio si chiama soccorso, e il vicinato si affretta a portarlo, invece l'anima cui si è appreso il fuoco infernale del peccato, sta muta, e si lascia investire e divorare senza gridare a Dio e implorarne aiuto e protezione. 3° Un formidabile e spaventoso naufragio. 
4° I saccheggi, le stragi che accompagnano una guerra implacabile. 
5° I tormenti cagionati dalla fame e dalla peste. 
6° Immaginatevi anche una persona, la quale in luogo solitario, in fondo a cupa, sterminata foresta, tra le tenebre di caliginosa notte, incappa nei ladri e negli assassini; 
7° ovvero un infelice alle prese con una bestia feroce; 
8° o un prigioniero chiuso in tenebrosa prigione formicolante di vipere e di scorpioni; 
9° o un paziente tra le mani di arrabbiati carnefici; 
10° o finalmente un cadavere steso in un sepolcro e abbandonato alla corruzione ed ai vermi.


25. SORGENTI DEL PECCATO.

Il peccato nasce da noi medesimi; dall'intelletto, dalla volontà, dall'immaginazione, dall'ignoranza, dagli abiti cattivi, dalla concupiscenza.
1° La volontà è la causa immediata dell'atto colpevole, ossia del peccato mortale: essa lo vuole... 
2° L'intelletto lo propone alla volontà, le consiglia di assicurarsi un preteso bene sensibile, abbandonando il bene reale e disobbedendo alla legge divina che vieta di. amare quel bene... 3° L'immaginazione rappresenta vivamente alla volontà le dolcezze di questi falsi beni e si sforza di ottenerne il consenso... 
4° L'ignoranza va alla stessa meta alla quale tende l'immaginazione, celando alla volontà la bruttezza e la malizia del peccato... 
5° L'abito cattivo, poggiando su la frequenza stessa del consenso che la volontà ha dato al peccato, la trascina a volerlo ancora... 
6° Finalmente la concupiscenza è la causa propria e potente della tentazione, e per conseguenza del peccato. Essa muove l'intelligenza, l'immaginazione, la volontà, e la sollecita a peccare. Essa dà origine all'irriflessione, all'ignoranza, alla passione; cagiona le ricadute e l'abito cattivo; nasconde la malizia del peccato prodigando promesse di una felicità la quale di felicità non ha che l'apparenza. Perciò a buon diritto si chiama principio, arsenale, focolare del peccato e, secondo la frase di S. Paolo, la legge delle membra che combatte la legge dello Spirito e soggioga l'uomo alla legge del peccato che è nelle membra (Rom. VII, 23). «La concupiscenza, dice S. Giacomo, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, consumato che è, genera la morte» (IAC. I, 15). Quindi S. Agostino scrive: «La concupiscenza alza il capo? e tu non darle retta; t'invita? tu non seguirla: essa è illegittima, licenziosa, infame, rende l'uomo nemico di Dio (Confess.)».

26. DIVERSE MANIERE DI PECCARE.
La prima maniera con cui si pecca, è, secondo S. Gerolamo, di pensare a ciò che è cattivo; 
la seconda è di fermarsi in tale pensiero; 
la terza è di passare dal pensiero all'azione; 
la quarta è di non fare penitenza dopo il peccato e compiacersene (Epl. VIII). 

Il primo passo al peccato si fa, dice Ruperto Abate, aprendogli l'adito alla volontà: allora il peccatore è morto nella propria casa; 

il secondo si fa passando dal volere al fatto: e qui il peccatore già morto è portato a seppellire; 

il terzo si compie contraendo l'abito del male e per questo il peccatore è sepolto; 

il quarto è di compiacersi nel peccato e resistere a Dio che chiama a penitenza; è lottare per orgoglio contro la legge divina la quale fa dei rimproveri, e questo grado si può paragonare alla putrefazione. Chi fa così, si abbandona in piena balia del demonio, mostra che è risoluto di restarsene impenitente e ribelle; difende il suo delitto. Quindi una tal colpa diventa assolutamente indegna di perdono e quasi irremissibile (In Evang.).


27. DIFFICOLTÀ E MIRACOLO DELLA GIUSTIFICAZIONE.

I Santi Giovanni Crisostomo, Agostino e Tommaso insegnano che è più difficile e si richiede più grande potenza per rendere giusto un peccatore, che non per creare il cielo e la terra... Infatti ben più lontani, opposti e ripugnanti sono tra di loro il peccato e la grazia, il peccatore e Dio, che non il niente e l'esistenza. Dio e il peccato sono due estremi, due contrari a un grado infinito. Inoltre niente resiste a Dio, se non la volontà del peccatore. Finalmente, la grazia e la giustificazione sono di un ordine soprannaturale e divino; ci vuole un sommo sforzo di potenza acciocché il peccatore degradato e caduto, a cagione del suo peccato, al di sotto delle creature e perfino del nulla, venga innalzato al di sopra delle creature tutte fino alla giustizia, e divenga l'amico di Dio, il suo figlio adottivo e partecipe in qualche modo alla natura divina.

«I perversi difficilmente si correggono», leggiamo nell'Ecclesiaste (I, 15). La ragione è questa: 1° perché essi peccano; ora il peccato è la più dissennata delle follie; poiché peccare equivale a preferire i sensi alla ragione, la passione alla virtù, la creatura al Creatore, cioè un centesimo ad un milione, un grano di frumento ad una copiosissima messe, una goccia d'acqua all'Oceano, un granello di sabbia all'universo, la morte alla vita, l'inferno al cielo, la somma ed eterna infelicità alla somma ed eterna beatitudine: ora chi si regola di questa guisa, non sembra incorreggibile?... 2° I perversi raramente si, correggono, perché la durano protervi nel peccato, se ne dilettano, nulla vi trovano di condannevole, e sovente lodano se medesimi, biasimando i buoni... 3° Difficilmente si correggono, perché non soffrono che altri li riprenda o corregga, ma scherniscono quelli che loro insegnano il bene e li invitano a praticarlo: perciò la Sacra Scrittura dice che il cuore degli empi è vile piombo e che costoro morranno in una grande indigenza di cuore; cioè in una grande privazione d'intelligenza e di ragione (Prov. X, 20-21)... 4° Difficilmente si correggono, perché fuggono la luce, e loro mette i brividi il pensare a diventare migliori.


28. IL PECCATO DEVE ESSERE PUNITO. - «Iddio deve punire il peccato, scrive S. Agostino, perché lo scettro del suo impero è scettro di giustizia. Il peccato dev'essere punito, altrimenti non sarebbe più peccato. Prevenite Dio col punirvi voi medesimi, se non volete che egli vi castighi; perché o da voi o da lui, bisogna che il peccato abbia il suo castigo. Riconoscete e confessate la vostra colpa, affinché esso ve la perdoni. Voi perdonate, o Signore, a colui che confessa le sue 
iniquità; voi perdonate, ma solamente a colui che si punisce. Così restano soddisfatti i diritti della misericordia e della giustizia; la misericordia trionfa, perché l'uomo è liberato dal giogo che l'opprime, la giustizia è salva, perché il peccato è punito (In Psalm. XLIX)». «Ogni peccato, come osserva altrove il medesimo Padre, è un disordine. Sotto un Dio giusto, ogni disordine va represso; ma per fare ciò, bisogna punire l'autore: ora l'autore del peccato è il peccatore medesimo» (In psalm. XLIV).

29. CHE COSA SI RICHIEDE PERCHÈ UN PECCATO SIA MORTALE? - Per tre gradi cammina la tentazione. Primo, la suggestione e il pensiero della cosa malvagia che ordinariamente non costituisce un peccato, perché spesso è suscitata dal demonio senza che vi sia colpa, o v'intervenga consenso per parte nostra. Secondo, la compiacenza che ha luogo quando l'anima, trascurando di respingere la suggestione, le apre così un po' l'adito nel cuore con un piacere imperfetto, e allora non c'è che peccato veniale. Terzo, il consenso volontario e deliberato; e in questo caso, se al consenso va congiunta la gravità della materia, vi è peccato mortale... Perciò disse S. Isidoro: «Per questi fomenti, come per altrettanti gradini, il peccato tocca alla sua mèta; la suggestione produce il diletto; il diletto genera il consenso; il consenso partorisce l'azione, da questa l'abito; dall'abito la necessità (Lib. Sentent.)».

30. BISOGNA EVITARE IL PECCATO. - «Come mai, dice l'Apostolo, potremo vivere ancora nel peccato, noi che al peccato siamo morti?» (Rom. VI, 2). Noi siamo morti al peccato per mezzo del battesimo, della nostra vocazione alla vita cristiana, ecc. Dobbiamo dunque fare il possibile per evitare ogni peccato e cercare di uscirne se per disgrazia ci siamo caduti... Eppure che cosa fanno quasi tutti i peccatori? Quando bisognerebbe tenersi in piedi, cadono, e quando bisogna rialzarsi, giacciono e marciscono...
Per non cadere in peccato mortale, o per uscirne, bisogna:
In primo luogo temere il peccato. Avendo l'imperatrice Eudossia minacciato il Crisostomo, i cortigiani medesimi le dissero: «Invano vi studiate, o principessa, d'intimidire il Crisostomo; egli nulla teme eccetto il peccato» (Stor. eccles.). «Già ho imparato a conoscere la fermezza di Ambrogio, diceva l'imperatore Teodosio; il timore della maestà imperiale non lo piegherà mai a trasgredire la legge divina» (Stor. eccles.). «Qualora mi vedessi da un lato il peccato, dall'altro l'inferno e dovessi scegliere tra i due, preferirei l'inferno. Amerei meglio gittarmi tutto puro nelle fiamme infernali, anziché entrare in cielo macchiato di colpa (De Similit. c. CXC)». Queste parole di S. Anselmo dovrebbero essere su le labbra di ogni uomo alle prese con la tentazione.
In secondo luogo bisogna guardarsi da tutto ciò che sa di peccato: «Fuggi, dice lo Spirito Santo, dal peccato come fuggiresti alla vista di un serpente; perché se lo avvicini, ti prende. Ha denti come di leone; essi uccidono le anime» (Eccli. XXI, 2-3). «Astenetevi, dice l'Apostolo, non solamente dal male, ma anche da ciò che ha sembianza di male (I Thess. V, 22). Ricordiamo l'avviso di S. Bernardo: «Se noi non calpestiamo i peccati, essi ci calpesteranno; se non li freniamo, ci opprimeranno» (Serm. in Psalm.).
In terzo luogo è necessaria la preghiera. Dobbiamo esclamare col Salmista: «Venite, o Dio, in mio soccorso; affrettatevi, o Signore, a portarmi aiuto» (Psalm. LXIX, 1).
In quarto luogo, dobbiamo preferire la morte piuttosto che commettere un solo peccato mortale. Se l'ermellino inseguito dai cacciatori, non vede innanzi a sé altra via di scampo che quella di traversare una palude fangosa, si lascia prima prendere ed uccidere, che imbrattarsi, come se dicesse: - Preferisco di essere ucciso, piuttosto che macchiarmi. - Questa dovrebbe essere la divisa del cristiano.
Fin dai suoi più verdi anni, S. Luigi, re di Francia, imparò da Bianca, sua piissima madre, ad anteporre la morte al peccato mortale. S. Edmondo, arcivescovo di Cantorbery, diceva: «Amerei meglio essere gittato in una fornace ardente, che commettere di proposito un solo peccato» (In Vita). Osservate Giuseppe, Susanna, Daniele, il santo vecchio Eleazaro ed infiniti altri... I pagani medesimi ci lasciarono in ciò memorabili detti: Diogene Laerzio, per esempio, attribuisce ad Aristotele quelle parole: «È meglio morire, prima che violare le leggi delle virtù in qualche cosa (LAERT. In Arist.)». Quand'io sapessi, lasciò scritto Seneca, che gli uomini sarebbero per ignorare e Dio per perdonarmi qualche colpa, non la commetterei tuttavia a cagione dell'intrinseca turpitudine che è nel peccato». Che cosa è il peccato? Non è forse un'ulcera, una lebbra, una cloaca avvelenata, un mostro delle intelligenze, un delitto di lesa maestà divina, il focolare del fuoco infernale, la bava di Satana, il padre della morte?
In quinto luogo, giova assai ricordare la presenza di Dio: «Signore, esclamava il Salmista, voi avete messo le nostre iniquità innanzi al vostro cospetto, e la vita nostra fu rischiarata dallo splendore del vostro volto» (Psalm. LXXXIX, 8). «Dove andrò io per sottrarmi al vostro sguardo? dove fuggirò e mi nasconderò che non mi vediate?» (Psalm. CXXXVIII, 6). Il casto Giuseppe disse per tutta risposta all'infame donna che lo sollecitava al male: «Come potrò io fare questo male e peccare alla presenza di Dio?» (Gen. XXXIX, 9).






Questo Articolo proviene da Pagine cattoliche

L'URL per questa storia è:

S. Alfonso Maria de Liguori: Avvertimenti ai predicatori






S. Alfonso Maria de Liguori
Avvertimenti ai predicatori
IntraText CT - Lettura del testo

  • Testo


Testo

- 337 -

1. Prima di tutto il predicatore, se vuole che le sue prediche partoriscano abbondante frutto, bisogna che si prefigga il fine, cioè di voler predicare, non già per ritrarne onori e lodi o altro interesse temporale, ma solo per acquistare anime a Dio; e perciò fa d'uopo che il predicatore, impiegandosi a questo grande officio di ambasciatore di Dio, lo preghi con fervore ad infiammarlo del suo santo amore, perché così le sue prediche riusciranno di gran profitto. Il venerabile p. Giovanni d'Avila interrogato una volta che cosa fosse più utile per ben predicare, rispose con queste brevi parole: L'amare assai Gesù Cristo. Perciò si è veduto spesso che i predicatori che amavano assai Gesù Cristo han fatto talvolta più bene con una sola predica, che altri con molte.


2. Diceva s. Tommaso da Villanova che le parole della predica hanno ad essere come tante saette di fuoco che feriscano ed infiammino gli ascoltanti di divino amore. Ma come, soggiungea, possono infiammare cuori quelle prediche, per lunghe e faticate che sieno, le quali escono da un monte di neve? Scrive s. Francesco di Sales che la lingua parla all'orecchio, il cuore parla ai cuori: viene a dire che quando i sentimenti non escono dal cuore del predicatore, difficilmente tireranno i cuori degli altri al divino amore: bisogna esserne prima acceso. Lampades eius, lampades ignis, atque flammarum 1: bisogna prima esser fuoco per ardere, e poi fiamma per accendere gli altri. S. Bernardo spiegava ciò con altra frase, dicendo che bisogna prima esser conca e poi canale: prima conca, cioè pieno di spirito e zelo, che si raccoglie nell'orazione mentale, e poi canale per comunicarlo agli altri.


3. Veniamo alla materia delle prediche. Si procuri di scegliere quelle materie che maggiormente muovono ad abborrire il peccato e ad amare Dio. Onde spesso si parli de' novissimi, della morte, del giudizio, dell'inferno, del paradiso e dell'eternità, secondo l'avviso dello Spirito santo: Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis 2. Specialmente giova spesso far memoria della morte, facendone più sermoni fra l'anno, con parlare ora dell'incertezza della morte, colla quale finiscono così tutti i piaceri, come tutti i travagli di questo mondo: ora dell'incertezza del tempo in cui la morte ha da venire: ora della morte infelice del peccatore: ora della morte felice de' santi.


4. Si procuri ancora di parlare spesso dell'amore che ci porta Gesù Cristo, e dell'amore che noi dobbiamo portare a Gesù Cristo, e della confidenza che dobbiamo avere nella sua misericordia, sempre che vogliamo emendarci. Alcuni predicatori pare che non sappiano parlare d'altro che della giustizia di Dio, di terrori, di minaccie e di castighi. Non ha dubbio che le prediche di spavento giovano sì bene a svegliare i peccatori dal sonno del peccato; ma bisogna persuadersi insieme che la vita di chi si astiene da' peccati solamente per timore

- 338 -

dei castighi, difficilmente avrà lunga perseveranza. L'amore è quel laccio d'oro che stringe le anime con Dio, e le rende costanti a discacciar le tentazioni ed a praticar le virtù. Dicea s. Agostino: Ama, et fac quod vis. Chi veramente ama Dio, fugge di dargli disgusto, e cerca di compiacerlo per quanto può. E qui si noti ancora quel gran detto di s. Francesco di Sales: L'amore che non nasce dalla passione di Gesù Cristo, è debole. Con ciò il santo ci fa sapere che la passione di Gesù Cristo è quella che più ci muove ad amarlo.

5. Così anche giova assai e conduce insieme ad amare Dio, il parlare a' peccatori della confidenza che dobbiamo avere in Gesù Cristo, se vogliamo lasciare il peccato. Viam mandatorum tuorum cucurri, cum dilatasti cor meum 1: quando il cuore vien dilatato dalla confidenza, corre facilmente nella via del Signore. Così parimente parli spesso della confidenza che dobbiamo avere nell'intercessione della Madre di Dio; oltre de' sermoni che si faranno tra l'anno nelle feste principali della Madonna, come dell'annunziazione, dell'assunzione, del di lei patrocinio, de' suoi dolori ec., spesso tra le prediche si procuri di inserire negli animi degli uditori la divozione alla b. Vergine. Alcuni predicatori hanno il bel costume di non lasciar mai in ogni loro sermone di dire qualche cosa di Maria santissima, o narrando qualche esempio di grazie fatte a' suoi servi, o di qualche ossequio praticato da' suoi divoti, o di qualche preghiera che dobbiamo farle.

6. Inoltre si procuri di parlare spesso dei mezzi per conservarsi in grazia di Dio, come di fuggire le cattive occasioni e i mali compagni, di frequentare i sacramenti, e specialmente di spesso raccomandarsi a Dio ed alla Madonna per ottenere le grazie necessarie alla salute, e principalmente le grazie della perseveranza e dell'amore a Gesù Cristo, senza le quali non possiamo salvarci.

7. Di più procuri il predicatore di parlare più volte ne' suoi sermoni contro le male confessioni che si fanno, tacendo i peccati per rossore. Questo è un male non raro, ma frequente, specialmente ne' paesi piccioli, che ne manda innumerabili anime all'inferno. Quindi giova molto che da quando in quando si narri qualche esempio di anime dannate per aver taciuti i peccati in confessione.

8. Parliamo ora brevemente delle parti della predica, le quali sono nove, esordio, proposizione, divisione, introduzione, prova, confutazione, amplificazione, perorazione, o sia conchiusione, epilogo e mozione degli affetti: del resto queste nove parti si riducono a tre principali, cioè per 1. all'esordio: per 2. alla prova, alla quale vanno unite l'introduzione che la precede e la confutazione delle opposizioni contrarie che la siegue: e per 3. alla perorazione o sia conchiusione, alla quale va unito l'epilogo, la moralità e la mozione degli affetti.

9. All'esordio i rettorici assegnano sette parti, introduzione, proposizione generale, confermazione, reddizione, complessione, proposizione particolare e divisione; ma comunemente parlando, le parti sostanziali dell'esordio sono tre: 1. la proposizione generale o sia di assunto: 2. la complessione o sia l'attacco per ricavarne la proposizione particolare: 3. la proposizione

- 339 -


particolare o sia principale della predica, a cui va unita la divisione de' punti. 

Per esempio: 1. È necessario salvarsi, perché non vi è via di mezzo: chi non si salva, è dannato: ecco la proposizione generale.
2. Ma per salvarsi bisogna far buona morte: ecco la complessione o sia l'attacco. 3. Ma troppo è difficile far buona morte dopo una mala vita: ed ecco la proposizione particolare o sia principale del sermone, la quale dee esser chiara, breve e facile, ed insieme unica, altrimenti se nella proposizione non si osservasse l'unità, non sarebbe una predica, ma più prediche. E perciò i punti, nei quali la predica si divide, debbono collimare a provare una sola proposizione. Per esempio: Il male abituato difficilmente si salva, perché il mal abito, 1. accieca la mente, 2. indurisce il cuore. E questi saranno i due punti della predica. Questi punti poi sieno brevi e pochi, non passando il numero di due o al più di tre; e talvolta basterà un solo punto o sia assunto della predica: v.g. Il peccato mortale è un gran male, perché è un'ingiuria che si fa a Dio. Oppure: Chi troppo si abusa della misericordia di Dio, resterà abbandonato da Dio.

10. Parlando poi del corpo della predica, e per 1. della prova, la prova della predica dee essere un perfetto sillogismo, ma senza farlo comparir sillogismo, provando la maggiore prima di passare alla minore, e la minore prima di passare alla conseguenza. Ciò nondimeno corre quando la maggiore o la minore ha bisogno di prova; altrimenti, quando son cose per sé note e certe, basta ampliarle senza provarle.


11. In quanto poi spetta all'ordine delle prove, ordinariamente parlando, prima si portano le autorità delle scritture e de' santi padri, poi le ragioni e poi le similitudini e gli esempi. I testi delle scritture debbono proferirsi con molta gravità. È meglio poi attendere a spiegar bene e ponderare uno o due testi di scrittura, che a riferirne molti insieme senza ponderarli. Le sentenze dei padri debbono esser poche e brevi, e che contengano qualche sentimento spiritoso e non triviale. Dopo le sentenze si adducano le ragioni: circa le quali alcuni dicono che prima debbono portarsi le ragioni men forti, di poi le più possenti; ma io stimo con altri esser meglio che in ultimo luogo si adducano le ragioni più forti, ma in primo luogo si esponga qualche ragione forte, ed in mezzo le meno forti; perché l'addurre a principio qualche motivo men forte può far cattiva impressione nella mente degli uditori. Dopo le ragioni adducano gli esempi e le similitudini. Si è detto che un tal ordine dee osservarsi ordinariamente parlando; ma talvolta gioverà addurre qualche prova delle mentovate prima delle altre; il che si rimette alla prudenza del predicatore.



12. Si avverta che i passaggi da un punto all'altro debbono farsi con naturalezza, senza passare da una cosa all'altra disparata dalla prima. I modi più usuali e facili sono questi: Veniamo all'altro punto ec., oppure: Or dopo aver veduto ec. E passando da una ragione ad un'altra può dirsi: Aggiungete ec., oppure: Inoltre dee considerarsi ec., procurando quanto si può che l'ultima cosa del punto o della ragione antecedente abbia qualche connessione con quella del punto o della ragione susseguente.

- 340 -

13. Si è parlato delle prove: in quanto poi all'amplificazione delle prove, altra è la verbale, che consiste nelle parole; altra è la reale, la quale può aversi o dall'incremento, v.gr. È virtù soffrire le tribolazioni con pazienza; maggior virtù è il desiderarle; maggiore è poi il rallegrarsi nel soffrirle: oppure può aversi dalle circostanze del soggetto, o dalla comparazione con altro soggetto di eguale o minor considerazione. Le morali hanno il loro luogo proprio, come si dirà, nella perorazione; nondimeno ben si permette alle volte, dopo che si è addotta qualche prova sufficiente, di fare qualche moralità. E ciò specialmente corre nelle prediche di missione, nelle quali ordinariamente l'uditorio si compone di gente rozza, a cui le moralità fanno più impressione; ma non mai queste moralità accidentali siano troppo lunghe, né troppo frequenti, sicché rendano tedioso e languido il discorso.


14. In quanto finalmente alla perorazione, questa contiene tre parti, l'epilogo, la moralità e la mozione degli affetti. L'epilogo è una ricapitolazione della predica, riassumendo i motivi più convincenti prima già dichiarati, ma che siano ordinati alla mozione degli affetti che dee seguitare, onde il predicatore nella stessa ricapitolazione dee procurare di cominciare a muovere gli affetti.


15. In quanto alla moralità avvertasi che spesso il maggior frutto della predica consiste, specialmente quando si predica al popolo, nell'esporre le moralità convenienti al sermone con proprietà e calore. Si procuri perciò di parlare contro i vizj più comuni, v.g. contro l'odio, contro l'impudicizia, contro la bestemmia, contro le male occasioni e i mali compagni, contro i padri, i quali permettono che i figli conversino con persone di diverso sesso, e specialmente contro le madri che fanno entrare i giovani nelle loro case a conversare colle figlie. Esorti ancora i capi di famiglia a togliere di casa i libri cattivi, e particolarmente i romanzi, i quali insinuano un veleno segreto, che corrompe la gioventù. Parli ancora contro i giuochi di fortuna, che sono la rovina delle famiglie e delle anime.

16. Procuri in somma il predicatore nei suoi sermoni d'insinuar sempre che può cose di pratica, cioè i rimedj per astenersi da' vizj, ed i mezzi per perseverare nella buona vita, come sono il fuggir le occasioni cattive, i mali compagni, il farsi forza nei moti di sdegno per non prorompere in atti o parole ingiuriose, mettendo in bocca agli ascoltanti qualche detto per evitar le bestemmie o le imprecazioni, v.g. Signore, datemi pazienza; Madonna aiutatemi; Dio ti faccia santo e simili. Insinui l'entrare in qualche congregazione: il sentir la messa ogni mattina: leggere ogni giorno qualche libretto spirituale: ogni mattina rinnovare il proposito di non offendere Dio, cercandogli l'aiuto per la perseveranza: fare ogni giorno la visita al ss. sacramento ed alla b. Vergine in qualche sua immagine: ogni sera far l'esame di coscienza coll'atto di dolore: dopo aver commesso qualche peccato far subito un atto di contrizione, e poi confessarsene quanto più presto si può. Sopra tutto insinui di ricorrere a Dio ed alla b. Vergine in tempo di tentazioni, replicando più volte i santi nomi di Gesù e di Maria, con seguire ad invocarli in aiuto, finché non cessa

- 341 -

la tentazione. Questi rimedj e mezzi dal predicatore debbon ripetersi ed insinuarsi più volte nel decorso delle prediche, e non dee egli atterrirsi dal timore di esser criticato da qualche letterato, il quale dicesse che il predicatore replica le stesse cose. Non si han da cercare le lodi dei letterati nel predicare, ma il gusto di Dio e il profitto delle anime, e particolarmente dei poveri rozzi, i quali non tanto cavan profitto dalle sentenze e ragioni, quanto da queste facili pratiche, che loro saranno insinuate e ripetute: dico ripetute, poiché le menti di legno di questi rozzi facilmente si dimenticano di ciò che sentono predicare, se non è loro ripetuto più volte.


17. Si avverte poi ai giovani che le prediche prima di recitarle sul pulpito le stendano, e se le mandino a memoria. Il voler predicare a braccio è per altro cosa utile, perché così il discorso riesce più naturale e più famigliare; ciò non però non è cosa de' giovani, ma di coloro che han predicato già per lo spazio di più anni; altrimenti i giovani si avvezzeranno ad improvvisare ed a predicare a caso, dicendo quel che viene in bocca e senza ordine. Procurino nondimeno i giovani di stendere le prediche, non già con istile fiorito di parole gonfie, pensieri alti e periodi sonanti. Si legga il libretto d'oro,Eloquenza Popolare del celebre letterato Lodovico Muratori, ove egli prova che tutte le prediche che si fanno ad un uditorio composto di dotti e di rozzi, debbono essere non solo famigliari, ma anche popolari con istile facile e semplice, quale usa il popolo, sfuggendo non però le frasi e le parole goffe e troppo dozzinali, che non convengono al pulpito. Il popolo, scrive il Muratori, è composto per lo più d'ignoranti: se voi gittate a questo popolo dottrine e riflessioni astruse, e vi valete di parole e frasi lontane dal comune intendimento, che profitto sperate da gente che non arriva ad intendervi? Perciò non sarà mai secondo le regole e secondo la vera eloquenza il costume di coloro che invece di confarsi col fievole intelletto di tanti loro uditori, sembra che studino di farsi capire da' soli dotti, quasi che si vergognino di farsi intendere anche dalla povera gente, la quale non ha minor diritto alla parola di Dio, che i sapienti. Tanto più che il predicator cristiano è obbligato di parlare a ciascuno del suo uditorio in particolare, come non vi fosse altri che l'ascoltasse. Chi coll'altura de' ragionamenti suoi non cura di esser inteso da tutti, egli tradisce l'intenzione di Dio e l'obbligo suo, ed il bisogno d'una gran parte degli uditori. Quindi il concilio di Trento ordina a tutti i parrochi che facciano le loro prediche secondo la capacità degli ascoltanti che le sentono: Archipresbyteri et parochi per se vel alios idoneos plebes sibi commissas pro earum capacitate pascant salutaribus verbis 1.


18. Dicea s. Francesco di Sales che le parole scelte ed i periodi sonanti sono la peste delle prediche; e la ragione principale di ciò è, perché con tali sorte di prediche fiorite Iddio non vi concorre. Elle potranno giovare solamente ai dotti, ma non ai rozzi, de' quali per lo più vien composta la massima parte degli uditori che concorrono alle prediche. Le prediche all'incontro fatte con istile

- 342 -

familiare giovano così ai rozzi, come ai dotti. Aggiunge il Muratori che quando si parla poi alla sola plebe o a gente di campagna, dee usarsi lo stile più popolare e più infimo che si può, per uniformarsi al grosso intendimento di tali ignoranti. Dice che il predicatore, parlando a questi rozzi, dee figurarsi di essere come uno di loro, che voglia persuadere qualche cosa ad un suo compagno; che per ciò anche i periodi delle prediche fatte al popolo basso debbono esser concisi e spezzati, in modo che chi non avesse capito il primo senso, capisca il secondo che si sta dicendo dal predicatore; il che non può ottenersi quando si predica ligato, poiché allora chi non ha inteso il primo periodo, non intenderà né il secondo né il terzo.



19. Avverte di più il Muratori che quando si predica al popolo, giova molto usar la figura chiamata antiphora, colla quale dallo stesso dicitore si fa insieme la dimanda e la risposta, per esempio: Ditemi, perché tanti peccatori dopo la confessione ricadono negli stessi peccati? Ve lo dirò io, perché non tolgono l'occasione. Giova ancora raccomandare più volte all'uditorio l'attenzione a quel che si sta dicendo, e specialmente a certe cose più importanti, dicendo per esempio: State attenti a questo che ora vi dico. Giova ancora il fare dentro la predica qualche esclamazione divota, per esempio: O Dio buono, voi ci venite appresso per salvarci, e noi fuggiamo da voi per dannarci! Giova ancora il replicare con serietà qualche massima forte di salute, v.gr.: Non vi è rimedio, o presto o tardi si ha da morire: o presto o tardi si ha da morire. Oppure: Fratello mio, è certo che dopo questa vita hai da essere o eternamente felice o eternamente infelice. Senti bene, o eternamente felice o eternamente infelice.


20. Io non mi diffondo più su questo punto, secondo me importantissimo, perché di questa materia mi ha bisognato di scrivere più a lungo in una mia lettera apologetica, che ho data alle stampe in risposta ad un religioso, che mi rimproverava il mio applaudire alle prediche fatte con maniera semplice e popolare. Ivi ho premesso succintamente quel che di ciò ne scrive il lodato Muratori, e poi vi aggiunsi ciò che ne scrivono i santi Padri, come ho trovato. Questa lettera l'ho posta nel presente libro, e prego il mio lettore a non lasciare di leggerla, poiché ella è un'operetta singolare, non fatta prima da altro autore.

21. Non voglio inoltre lasciar di dire qualche cosa sulla modulazione della voce e del gesto da usarsi nelle prediche. In quanto alla voce il predicatore dee sfuggire di predicare in tuono gonfio, con voce unisona, o sempre alta. Ciò che muove e concilia l'attenzione degli ascoltanti, è il parlare ora con voce forte, ora mediocre, ora bassa, secondo conviene al sentimento che si espone, ma senza fare sbalzi eccedenti e subitanei: ora il fare un'esclamazione, ora una fermata, e poi ripigliare con un sospiro. Questa varietà di voci e di modi mantiene l'uditorio sempre attento.


22. In quanto poi al gesto, dee sfuggirsi il gesto affettato, o replicato nello stesso modo, o troppo impetuoso con molta agitazione di corpo. Le braccia debbono muoversi con molta moderazione. Ordinariamente ha da

- 343 -

gestire la mano destra e poco la sinistra. Non debbono le mani alzarsi più della testa, né troppo stendersi dai lati, né tenersi troppo a corto, cioè solo davanti al petto. Nel dire il proemio conviene che il predicatore stia in piedi, e non si muova dal sito di mezzo: nel primo periodo non dee gestire: nel secondo solamente comincerà a muovere la destra, tenendo la sinistra appoggiata al petto o sopra del pulpito. Si astenga di tener le braccia a' fianchi, o d'alzarle ambedue a modo di croce, o voltarle dietro le spalle: lo sbatterle poi insieme o sopra del pulpito, non si faccia se non di rado. 

Lo sbattere i piedi o alzar la cotta, è cosa che molto disdice. Il moto della testa corrisponda a quello della mano, rivolgendola dove la mano indirizza l'azione. È difetto poi il torcere la testa o troppo agitarla, o tenerla sempre alzata o sempre bassa piegata sul petto. Gli occhi debbono accompagnare il moto della testa; onde è difetto il tenerli chiusi o sempre bassi, o fissi per lo più ad una parte, specialmente se colà vi sono donne. Si permette di quando in quando il sedere, ma poche volte. Lo stesso dicesi del passeggiare, ma non mai si corra da un lato del pulpito all'altro. Del resto il predicatore per lo più dee parlare dal luogo di mezzo, per farsi vedere ugualmente dall'una e dall'altra parte; ma giova che di quando in quando si volti ora alla destra ed ora alla sinistra, senza però volgere le spalle alla parte opposta. In quanto finalmente al tempo che dee durare la predica, le prediche quaresimali non debbono oltrepassare lo spazio d'un'ora, e le annuali o sieno domenicali non passino lo spazio di tre quarti d'ora; ma le parrocchiali non sieno più lunghe di mezz'ora, includendovi ancora l'atto di pentimento, che ordinariamente giova farsi praticare dal popolo, facendolo in fine della predica ricorrere alla divina Madre, con domandarle qualche grazia particolare, come la santa perseveranza, la buona morte, l'amore a Gesù Cristo e simili. Né importa che per dar luogo a questi atti abbia ad abbreviarsi il tempo della predica, perché questi atti sono il maggior frutto che dalla predica può ricavarsi.

È bene che il predicatore qualche volta esorti gli uditori che riferiscano agli altri, loro parenti o amici, quel che hanno inteso nella predica perché in tal modo può la predica giovare anche a coloro che non l'hanno udita.



1 Cant. 8. 6.



2 Eccl. 7. 40.1 Psal. 118. 32.1 Sess. 5. c. 1. de Reform.



Santa Prassede di Roma, Vergine



Santa Prassede di Roma, Vergine 
II sec.
Fu vittima con la sorella Pudenziana (festeggiata il 19 maggio) delle persecuzioni. Riposa nella basilica romana che porta il suo nome insieme ad altri martiri. (Avvenire)
Etimologia: Prassede = colei che agisce, dal greco
Emblema: Giglio, Palma
Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Prassede, sotto il cui nome fu dedicata a Dio una chiesa sul colle Esquilino.

Il suo nome abbinato a quello di s. Pudenziana martire romana sua sorella, figura negli itinerari del sec. VII dai quali risulta che esse erano venerate dai pellegrini nel cimitero di Priscilla sulla via Salaria. 

Inoltre sono menzionate nel ‘Kalendarium Vaticanum’ della basilica di s. Pietro del XII secolo, Pudenziana al 19 maggio e Prassede sua sorella il 21 luglio. 

La loro vita è raccontata nei ‘Leggendari’ o ‘Passionari’ romani, essi furono composti intorno al V-VI sec. ad uso dei chierici e dei monaci per fornire loro le preghiere per gli Uffici religiosi, sia per edificanti e pie letture; i ‘Passionari’ racconti delle vite e delle sofferenze dei santi martiri, si diffusero largamente negli ambienti religiosi dell’Alto e Basso Medioevo. 

Le ‘Gesta’ delle due sante martiri, raccontano, che Pastore, prete di Roma, scrive a Timoteo discepolo di s. Paolo, che Pudente ‘amico degli Apostoli’, dopo la morte dei suoi genitori e della moglie Savinella, aveva trasformato la sua casa in una chiesa con l’aiuto dello stesso Pastore. 

Poi Pudente muore lasciando quattro figli, due maschi Timoteo e Novato e due femmine Pudenziana e Prassede. Le due donne con l’accordo del prete Pastore e del papa Pio I (140-155), costruiscono un battistero nella chiesa fondata dal padre, convertendo e amministrando il battesimo ai numerosi domestici e a molti pagani, il papa visita spesso la chiesa (titulus) e i fedeli, celebrando la Messa per le loro intenzioni. 

Pudenziana (Potentiana) muore all’età di sedici anni, forse martire e viene sepolta presso il padre Pudente, nel cimitero di Priscilla, sulla via Salaria. Dopo un certo tempo, anche il fratello Novato si ammala e prima di morire dona i suoi beni a Prassede, a Pastore e al papa Pio I. 

Il racconto prosegue con una lettera inviata dai tre suddetti all’altro fratello Timoteo, per chiedergli di approvare la donazione ricevuta. Timoteo, che evidentemente era lontano, risponde affermativamente, lasciandoli liberi di usare i beni di famiglia. 

Allora Prassede chiede al papa Pio I, di edificare una chiesa nelle terme di Novato (evidentemente di sua proprietà) ‘in vico Patricius’, il papa acconsente intitolandola alla beata vergine Pudenziana (Potentiana), inoltre erige un’altra chiesa ‘in vico Lateranus’ intitolandola alla beata vergine Prassede, probabilmente una santa omonima.
Due anni dopo scoppia un’altra persecuzione e Prassede nasconde nella sua chiesa (titulus) molti cristiani; l’imperatore Antonino Pio (138-161) informato, ne arresta e condanna a morte molti di loro, compreso il prete Semetrius; Prassede durante la notte provvede alla loro sepoltura nel cimitero di Priscilla, ma molto addolorata per questi eventi, ottiene di morire martire anche lei qualche giorno dopo. 

Il prete Pastore seppellisce anche lei vicino al padre Pudente e alla sorella Pudenziana. Il racconto delle ‘Gesta’ delle due sante è fantasioso, opera senz’altro di un monaco o pio chierico del V-VI secolo. La loro esistenza comunque è certa, perché esse sono menzionate in molti antichi codici.
Il 20 gennaio 817 il papa Pasquale I fece trasferire i corpi di 2300 martiri dalle catacombe o cimiteri, all’interno della città, per preservarli dalle devastazioni e sacrilegi già verificatesi durante le invasioni dei Longobardi; le reliquie furono distribuite nelle varie chiese di Roma. 

Quelle di s. Pudenziana nella chiesa di s. Pudente suo padre e quelle di Prassede nella chiesa di s. Prassede che secondo alcuni studiosi non erano la stessa persona.
Il corpo di s. Pudenziana (Potentiana) venne traslato sia nel 1586, che nel 1710, quando fu restaurata la chiesa poi a lei intitolata, sotto l’altare maggiore; dal IV secolo fino a tutto il VI secolo la chiesa portava il nome del fondatore Pudente (Ecclesiae Pudentiana); dal VII secolo la chiesa cambiò prima il nome in “Ecclesiae S. Potentianae” e poi dal 1600 ad oggi esclusivamente in chiesa di S. Pudenziana, trasferendo così l’intitolazione dal nome del padre a quella della figlia. 

Per quanto riguarda le reliquie di s. Prassede, anch’esse riposano nella chiesa che porta il suo nome, insieme ad alcune della sorella e di altri martiri, raccolte in quattro antichi sarcofagi nella cripta. La celebrazione liturgica è rimasta divisa: s. Prassede al 21 luglio e s. Pudenziana il 19 maggio.

Una delle più antiche rappresentazioni delle due sante sorelle è un affresco del IX secolo ritrovato nel 1891 nella chiesa Pudenziana, che le raffigura insieme a s. Pietro, inoltre le si vede insieme alla Madonna in una pittura murale in fondo alla cripta della chiesa di santa Prassede, come pure nel grandioso mosaico della conca absidale della stessa chiesa, donato da papa Pasquale I. 

Ad ogni modo le due chiese sono un concentrato di opere d’arte a cui si sono dedicati artisti di ogni tempo, per rendere omaggio alle due sante sorelle romane, testimoni dell’eroicità dei cristiani dei primi secoli.

Autore: Antonio Borrelli

PADRE PIO E LA MADONNA

TORNA ALLA HOME PAGE

PADRE PIO E LA MADONNA


Le tappe della Vita di Padre Pio da Pietrelcina