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lunedì 21 luglio 2014

S. Alfonso Maria de Liguori: Avvertimenti ai predicatori






S. Alfonso Maria de Liguori
Avvertimenti ai predicatori
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Testo

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1. Prima di tutto il predicatore, se vuole che le sue prediche partoriscano abbondante frutto, bisogna che si prefigga il fine, cioè di voler predicare, non già per ritrarne onori e lodi o altro interesse temporale, ma solo per acquistare anime a Dio; e perciò fa d'uopo che il predicatore, impiegandosi a questo grande officio di ambasciatore di Dio, lo preghi con fervore ad infiammarlo del suo santo amore, perché così le sue prediche riusciranno di gran profitto. Il venerabile p. Giovanni d'Avila interrogato una volta che cosa fosse più utile per ben predicare, rispose con queste brevi parole: L'amare assai Gesù Cristo. Perciò si è veduto spesso che i predicatori che amavano assai Gesù Cristo han fatto talvolta più bene con una sola predica, che altri con molte.


2. Diceva s. Tommaso da Villanova che le parole della predica hanno ad essere come tante saette di fuoco che feriscano ed infiammino gli ascoltanti di divino amore. Ma come, soggiungea, possono infiammare cuori quelle prediche, per lunghe e faticate che sieno, le quali escono da un monte di neve? Scrive s. Francesco di Sales che la lingua parla all'orecchio, il cuore parla ai cuori: viene a dire che quando i sentimenti non escono dal cuore del predicatore, difficilmente tireranno i cuori degli altri al divino amore: bisogna esserne prima acceso. Lampades eius, lampades ignis, atque flammarum 1: bisogna prima esser fuoco per ardere, e poi fiamma per accendere gli altri. S. Bernardo spiegava ciò con altra frase, dicendo che bisogna prima esser conca e poi canale: prima conca, cioè pieno di spirito e zelo, che si raccoglie nell'orazione mentale, e poi canale per comunicarlo agli altri.


3. Veniamo alla materia delle prediche. Si procuri di scegliere quelle materie che maggiormente muovono ad abborrire il peccato e ad amare Dio. Onde spesso si parli de' novissimi, della morte, del giudizio, dell'inferno, del paradiso e dell'eternità, secondo l'avviso dello Spirito santo: Memorare novissima tua, et in aeternum non peccabis 2. Specialmente giova spesso far memoria della morte, facendone più sermoni fra l'anno, con parlare ora dell'incertezza della morte, colla quale finiscono così tutti i piaceri, come tutti i travagli di questo mondo: ora dell'incertezza del tempo in cui la morte ha da venire: ora della morte infelice del peccatore: ora della morte felice de' santi.


4. Si procuri ancora di parlare spesso dell'amore che ci porta Gesù Cristo, e dell'amore che noi dobbiamo portare a Gesù Cristo, e della confidenza che dobbiamo avere nella sua misericordia, sempre che vogliamo emendarci. Alcuni predicatori pare che non sappiano parlare d'altro che della giustizia di Dio, di terrori, di minaccie e di castighi. Non ha dubbio che le prediche di spavento giovano sì bene a svegliare i peccatori dal sonno del peccato; ma bisogna persuadersi insieme che la vita di chi si astiene da' peccati solamente per timore

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dei castighi, difficilmente avrà lunga perseveranza. L'amore è quel laccio d'oro che stringe le anime con Dio, e le rende costanti a discacciar le tentazioni ed a praticar le virtù. Dicea s. Agostino: Ama, et fac quod vis. Chi veramente ama Dio, fugge di dargli disgusto, e cerca di compiacerlo per quanto può. E qui si noti ancora quel gran detto di s. Francesco di Sales: L'amore che non nasce dalla passione di Gesù Cristo, è debole. Con ciò il santo ci fa sapere che la passione di Gesù Cristo è quella che più ci muove ad amarlo.

5. Così anche giova assai e conduce insieme ad amare Dio, il parlare a' peccatori della confidenza che dobbiamo avere in Gesù Cristo, se vogliamo lasciare il peccato. Viam mandatorum tuorum cucurri, cum dilatasti cor meum 1: quando il cuore vien dilatato dalla confidenza, corre facilmente nella via del Signore. Così parimente parli spesso della confidenza che dobbiamo avere nell'intercessione della Madre di Dio; oltre de' sermoni che si faranno tra l'anno nelle feste principali della Madonna, come dell'annunziazione, dell'assunzione, del di lei patrocinio, de' suoi dolori ec., spesso tra le prediche si procuri di inserire negli animi degli uditori la divozione alla b. Vergine. Alcuni predicatori hanno il bel costume di non lasciar mai in ogni loro sermone di dire qualche cosa di Maria santissima, o narrando qualche esempio di grazie fatte a' suoi servi, o di qualche ossequio praticato da' suoi divoti, o di qualche preghiera che dobbiamo farle.

6. Inoltre si procuri di parlare spesso dei mezzi per conservarsi in grazia di Dio, come di fuggire le cattive occasioni e i mali compagni, di frequentare i sacramenti, e specialmente di spesso raccomandarsi a Dio ed alla Madonna per ottenere le grazie necessarie alla salute, e principalmente le grazie della perseveranza e dell'amore a Gesù Cristo, senza le quali non possiamo salvarci.

7. Di più procuri il predicatore di parlare più volte ne' suoi sermoni contro le male confessioni che si fanno, tacendo i peccati per rossore. Questo è un male non raro, ma frequente, specialmente ne' paesi piccioli, che ne manda innumerabili anime all'inferno. Quindi giova molto che da quando in quando si narri qualche esempio di anime dannate per aver taciuti i peccati in confessione.

8. Parliamo ora brevemente delle parti della predica, le quali sono nove, esordio, proposizione, divisione, introduzione, prova, confutazione, amplificazione, perorazione, o sia conchiusione, epilogo e mozione degli affetti: del resto queste nove parti si riducono a tre principali, cioè per 1. all'esordio: per 2. alla prova, alla quale vanno unite l'introduzione che la precede e la confutazione delle opposizioni contrarie che la siegue: e per 3. alla perorazione o sia conchiusione, alla quale va unito l'epilogo, la moralità e la mozione degli affetti.

9. All'esordio i rettorici assegnano sette parti, introduzione, proposizione generale, confermazione, reddizione, complessione, proposizione particolare e divisione; ma comunemente parlando, le parti sostanziali dell'esordio sono tre: 1. la proposizione generale o sia di assunto: 2. la complessione o sia l'attacco per ricavarne la proposizione particolare: 3. la proposizione

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particolare o sia principale della predica, a cui va unita la divisione de' punti. 

Per esempio: 1. È necessario salvarsi, perché non vi è via di mezzo: chi non si salva, è dannato: ecco la proposizione generale.
2. Ma per salvarsi bisogna far buona morte: ecco la complessione o sia l'attacco. 3. Ma troppo è difficile far buona morte dopo una mala vita: ed ecco la proposizione particolare o sia principale del sermone, la quale dee esser chiara, breve e facile, ed insieme unica, altrimenti se nella proposizione non si osservasse l'unità, non sarebbe una predica, ma più prediche. E perciò i punti, nei quali la predica si divide, debbono collimare a provare una sola proposizione. Per esempio: Il male abituato difficilmente si salva, perché il mal abito, 1. accieca la mente, 2. indurisce il cuore. E questi saranno i due punti della predica. Questi punti poi sieno brevi e pochi, non passando il numero di due o al più di tre; e talvolta basterà un solo punto o sia assunto della predica: v.g. Il peccato mortale è un gran male, perché è un'ingiuria che si fa a Dio. Oppure: Chi troppo si abusa della misericordia di Dio, resterà abbandonato da Dio.

10. Parlando poi del corpo della predica, e per 1. della prova, la prova della predica dee essere un perfetto sillogismo, ma senza farlo comparir sillogismo, provando la maggiore prima di passare alla minore, e la minore prima di passare alla conseguenza. Ciò nondimeno corre quando la maggiore o la minore ha bisogno di prova; altrimenti, quando son cose per sé note e certe, basta ampliarle senza provarle.


11. In quanto poi spetta all'ordine delle prove, ordinariamente parlando, prima si portano le autorità delle scritture e de' santi padri, poi le ragioni e poi le similitudini e gli esempi. I testi delle scritture debbono proferirsi con molta gravità. È meglio poi attendere a spiegar bene e ponderare uno o due testi di scrittura, che a riferirne molti insieme senza ponderarli. Le sentenze dei padri debbono esser poche e brevi, e che contengano qualche sentimento spiritoso e non triviale. Dopo le sentenze si adducano le ragioni: circa le quali alcuni dicono che prima debbono portarsi le ragioni men forti, di poi le più possenti; ma io stimo con altri esser meglio che in ultimo luogo si adducano le ragioni più forti, ma in primo luogo si esponga qualche ragione forte, ed in mezzo le meno forti; perché l'addurre a principio qualche motivo men forte può far cattiva impressione nella mente degli uditori. Dopo le ragioni adducano gli esempi e le similitudini. Si è detto che un tal ordine dee osservarsi ordinariamente parlando; ma talvolta gioverà addurre qualche prova delle mentovate prima delle altre; il che si rimette alla prudenza del predicatore.



12. Si avverta che i passaggi da un punto all'altro debbono farsi con naturalezza, senza passare da una cosa all'altra disparata dalla prima. I modi più usuali e facili sono questi: Veniamo all'altro punto ec., oppure: Or dopo aver veduto ec. E passando da una ragione ad un'altra può dirsi: Aggiungete ec., oppure: Inoltre dee considerarsi ec., procurando quanto si può che l'ultima cosa del punto o della ragione antecedente abbia qualche connessione con quella del punto o della ragione susseguente.

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13. Si è parlato delle prove: in quanto poi all'amplificazione delle prove, altra è la verbale, che consiste nelle parole; altra è la reale, la quale può aversi o dall'incremento, v.gr. È virtù soffrire le tribolazioni con pazienza; maggior virtù è il desiderarle; maggiore è poi il rallegrarsi nel soffrirle: oppure può aversi dalle circostanze del soggetto, o dalla comparazione con altro soggetto di eguale o minor considerazione. Le morali hanno il loro luogo proprio, come si dirà, nella perorazione; nondimeno ben si permette alle volte, dopo che si è addotta qualche prova sufficiente, di fare qualche moralità. E ciò specialmente corre nelle prediche di missione, nelle quali ordinariamente l'uditorio si compone di gente rozza, a cui le moralità fanno più impressione; ma non mai queste moralità accidentali siano troppo lunghe, né troppo frequenti, sicché rendano tedioso e languido il discorso.


14. In quanto finalmente alla perorazione, questa contiene tre parti, l'epilogo, la moralità e la mozione degli affetti. L'epilogo è una ricapitolazione della predica, riassumendo i motivi più convincenti prima già dichiarati, ma che siano ordinati alla mozione degli affetti che dee seguitare, onde il predicatore nella stessa ricapitolazione dee procurare di cominciare a muovere gli affetti.


15. In quanto alla moralità avvertasi che spesso il maggior frutto della predica consiste, specialmente quando si predica al popolo, nell'esporre le moralità convenienti al sermone con proprietà e calore. Si procuri perciò di parlare contro i vizj più comuni, v.g. contro l'odio, contro l'impudicizia, contro la bestemmia, contro le male occasioni e i mali compagni, contro i padri, i quali permettono che i figli conversino con persone di diverso sesso, e specialmente contro le madri che fanno entrare i giovani nelle loro case a conversare colle figlie. Esorti ancora i capi di famiglia a togliere di casa i libri cattivi, e particolarmente i romanzi, i quali insinuano un veleno segreto, che corrompe la gioventù. Parli ancora contro i giuochi di fortuna, che sono la rovina delle famiglie e delle anime.

16. Procuri in somma il predicatore nei suoi sermoni d'insinuar sempre che può cose di pratica, cioè i rimedj per astenersi da' vizj, ed i mezzi per perseverare nella buona vita, come sono il fuggir le occasioni cattive, i mali compagni, il farsi forza nei moti di sdegno per non prorompere in atti o parole ingiuriose, mettendo in bocca agli ascoltanti qualche detto per evitar le bestemmie o le imprecazioni, v.g. Signore, datemi pazienza; Madonna aiutatemi; Dio ti faccia santo e simili. Insinui l'entrare in qualche congregazione: il sentir la messa ogni mattina: leggere ogni giorno qualche libretto spirituale: ogni mattina rinnovare il proposito di non offendere Dio, cercandogli l'aiuto per la perseveranza: fare ogni giorno la visita al ss. sacramento ed alla b. Vergine in qualche sua immagine: ogni sera far l'esame di coscienza coll'atto di dolore: dopo aver commesso qualche peccato far subito un atto di contrizione, e poi confessarsene quanto più presto si può. Sopra tutto insinui di ricorrere a Dio ed alla b. Vergine in tempo di tentazioni, replicando più volte i santi nomi di Gesù e di Maria, con seguire ad invocarli in aiuto, finché non cessa

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la tentazione. Questi rimedj e mezzi dal predicatore debbon ripetersi ed insinuarsi più volte nel decorso delle prediche, e non dee egli atterrirsi dal timore di esser criticato da qualche letterato, il quale dicesse che il predicatore replica le stesse cose. Non si han da cercare le lodi dei letterati nel predicare, ma il gusto di Dio e il profitto delle anime, e particolarmente dei poveri rozzi, i quali non tanto cavan profitto dalle sentenze e ragioni, quanto da queste facili pratiche, che loro saranno insinuate e ripetute: dico ripetute, poiché le menti di legno di questi rozzi facilmente si dimenticano di ciò che sentono predicare, se non è loro ripetuto più volte.


17. Si avverte poi ai giovani che le prediche prima di recitarle sul pulpito le stendano, e se le mandino a memoria. Il voler predicare a braccio è per altro cosa utile, perché così il discorso riesce più naturale e più famigliare; ciò non però non è cosa de' giovani, ma di coloro che han predicato già per lo spazio di più anni; altrimenti i giovani si avvezzeranno ad improvvisare ed a predicare a caso, dicendo quel che viene in bocca e senza ordine. Procurino nondimeno i giovani di stendere le prediche, non già con istile fiorito di parole gonfie, pensieri alti e periodi sonanti. Si legga il libretto d'oro,Eloquenza Popolare del celebre letterato Lodovico Muratori, ove egli prova che tutte le prediche che si fanno ad un uditorio composto di dotti e di rozzi, debbono essere non solo famigliari, ma anche popolari con istile facile e semplice, quale usa il popolo, sfuggendo non però le frasi e le parole goffe e troppo dozzinali, che non convengono al pulpito. Il popolo, scrive il Muratori, è composto per lo più d'ignoranti: se voi gittate a questo popolo dottrine e riflessioni astruse, e vi valete di parole e frasi lontane dal comune intendimento, che profitto sperate da gente che non arriva ad intendervi? Perciò non sarà mai secondo le regole e secondo la vera eloquenza il costume di coloro che invece di confarsi col fievole intelletto di tanti loro uditori, sembra che studino di farsi capire da' soli dotti, quasi che si vergognino di farsi intendere anche dalla povera gente, la quale non ha minor diritto alla parola di Dio, che i sapienti. Tanto più che il predicator cristiano è obbligato di parlare a ciascuno del suo uditorio in particolare, come non vi fosse altri che l'ascoltasse. Chi coll'altura de' ragionamenti suoi non cura di esser inteso da tutti, egli tradisce l'intenzione di Dio e l'obbligo suo, ed il bisogno d'una gran parte degli uditori. Quindi il concilio di Trento ordina a tutti i parrochi che facciano le loro prediche secondo la capacità degli ascoltanti che le sentono: Archipresbyteri et parochi per se vel alios idoneos plebes sibi commissas pro earum capacitate pascant salutaribus verbis 1.


18. Dicea s. Francesco di Sales che le parole scelte ed i periodi sonanti sono la peste delle prediche; e la ragione principale di ciò è, perché con tali sorte di prediche fiorite Iddio non vi concorre. Elle potranno giovare solamente ai dotti, ma non ai rozzi, de' quali per lo più vien composta la massima parte degli uditori che concorrono alle prediche. Le prediche all'incontro fatte con istile

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familiare giovano così ai rozzi, come ai dotti. Aggiunge il Muratori che quando si parla poi alla sola plebe o a gente di campagna, dee usarsi lo stile più popolare e più infimo che si può, per uniformarsi al grosso intendimento di tali ignoranti. Dice che il predicatore, parlando a questi rozzi, dee figurarsi di essere come uno di loro, che voglia persuadere qualche cosa ad un suo compagno; che per ciò anche i periodi delle prediche fatte al popolo basso debbono esser concisi e spezzati, in modo che chi non avesse capito il primo senso, capisca il secondo che si sta dicendo dal predicatore; il che non può ottenersi quando si predica ligato, poiché allora chi non ha inteso il primo periodo, non intenderà né il secondo né il terzo.



19. Avverte di più il Muratori che quando si predica al popolo, giova molto usar la figura chiamata antiphora, colla quale dallo stesso dicitore si fa insieme la dimanda e la risposta, per esempio: Ditemi, perché tanti peccatori dopo la confessione ricadono negli stessi peccati? Ve lo dirò io, perché non tolgono l'occasione. Giova ancora raccomandare più volte all'uditorio l'attenzione a quel che si sta dicendo, e specialmente a certe cose più importanti, dicendo per esempio: State attenti a questo che ora vi dico. Giova ancora il fare dentro la predica qualche esclamazione divota, per esempio: O Dio buono, voi ci venite appresso per salvarci, e noi fuggiamo da voi per dannarci! Giova ancora il replicare con serietà qualche massima forte di salute, v.gr.: Non vi è rimedio, o presto o tardi si ha da morire: o presto o tardi si ha da morire. Oppure: Fratello mio, è certo che dopo questa vita hai da essere o eternamente felice o eternamente infelice. Senti bene, o eternamente felice o eternamente infelice.


20. Io non mi diffondo più su questo punto, secondo me importantissimo, perché di questa materia mi ha bisognato di scrivere più a lungo in una mia lettera apologetica, che ho data alle stampe in risposta ad un religioso, che mi rimproverava il mio applaudire alle prediche fatte con maniera semplice e popolare. Ivi ho premesso succintamente quel che di ciò ne scrive il lodato Muratori, e poi vi aggiunsi ciò che ne scrivono i santi Padri, come ho trovato. Questa lettera l'ho posta nel presente libro, e prego il mio lettore a non lasciare di leggerla, poiché ella è un'operetta singolare, non fatta prima da altro autore.

21. Non voglio inoltre lasciar di dire qualche cosa sulla modulazione della voce e del gesto da usarsi nelle prediche. In quanto alla voce il predicatore dee sfuggire di predicare in tuono gonfio, con voce unisona, o sempre alta. Ciò che muove e concilia l'attenzione degli ascoltanti, è il parlare ora con voce forte, ora mediocre, ora bassa, secondo conviene al sentimento che si espone, ma senza fare sbalzi eccedenti e subitanei: ora il fare un'esclamazione, ora una fermata, e poi ripigliare con un sospiro. Questa varietà di voci e di modi mantiene l'uditorio sempre attento.


22. In quanto poi al gesto, dee sfuggirsi il gesto affettato, o replicato nello stesso modo, o troppo impetuoso con molta agitazione di corpo. Le braccia debbono muoversi con molta moderazione. Ordinariamente ha da

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gestire la mano destra e poco la sinistra. Non debbono le mani alzarsi più della testa, né troppo stendersi dai lati, né tenersi troppo a corto, cioè solo davanti al petto. Nel dire il proemio conviene che il predicatore stia in piedi, e non si muova dal sito di mezzo: nel primo periodo non dee gestire: nel secondo solamente comincerà a muovere la destra, tenendo la sinistra appoggiata al petto o sopra del pulpito. Si astenga di tener le braccia a' fianchi, o d'alzarle ambedue a modo di croce, o voltarle dietro le spalle: lo sbatterle poi insieme o sopra del pulpito, non si faccia se non di rado. 

Lo sbattere i piedi o alzar la cotta, è cosa che molto disdice. Il moto della testa corrisponda a quello della mano, rivolgendola dove la mano indirizza l'azione. È difetto poi il torcere la testa o troppo agitarla, o tenerla sempre alzata o sempre bassa piegata sul petto. Gli occhi debbono accompagnare il moto della testa; onde è difetto il tenerli chiusi o sempre bassi, o fissi per lo più ad una parte, specialmente se colà vi sono donne. Si permette di quando in quando il sedere, ma poche volte. Lo stesso dicesi del passeggiare, ma non mai si corra da un lato del pulpito all'altro. Del resto il predicatore per lo più dee parlare dal luogo di mezzo, per farsi vedere ugualmente dall'una e dall'altra parte; ma giova che di quando in quando si volti ora alla destra ed ora alla sinistra, senza però volgere le spalle alla parte opposta. In quanto finalmente al tempo che dee durare la predica, le prediche quaresimali non debbono oltrepassare lo spazio d'un'ora, e le annuali o sieno domenicali non passino lo spazio di tre quarti d'ora; ma le parrocchiali non sieno più lunghe di mezz'ora, includendovi ancora l'atto di pentimento, che ordinariamente giova farsi praticare dal popolo, facendolo in fine della predica ricorrere alla divina Madre, con domandarle qualche grazia particolare, come la santa perseveranza, la buona morte, l'amore a Gesù Cristo e simili. Né importa che per dar luogo a questi atti abbia ad abbreviarsi il tempo della predica, perché questi atti sono il maggior frutto che dalla predica può ricavarsi.

È bene che il predicatore qualche volta esorti gli uditori che riferiscano agli altri, loro parenti o amici, quel che hanno inteso nella predica perché in tal modo può la predica giovare anche a coloro che non l'hanno udita.



1 Cant. 8. 6.



2 Eccl. 7. 40.1 Psal. 118. 32.1 Sess. 5. c. 1. de Reform.



domenica 24 marzo 2013

Oblatus est, quia ipse voluit (Is. LIII, 7). Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Eph. V, 2). Et in caritate perpetua dilexi te (Ier. XXXI, 3).





S. Alfonso Maria de Liguori

Forza che ha la Passione di Gesù Cristo
per accendere il divino amore in ogni cuore


Dicit discipulo: "Ecce mater tua" (Io. XIX, 27)


Diceva il P. Baldassarre Alvarez, gran servo di Dio, che non pensiamo di aver fatto alcun cammino nella via di Dio, finché non arriviamo a tener sempre Gesù crocifisso nel cuore.1 E S. Francesco di Sales scrisse che l'amore che non nasce dalla Passione é debole.2 Sì, perché non può esservi motivo che più ci stringa ad amare il nostro Dio che la Passione di Gesù Cristo, in sapere che l'Eterno Padre, per dichiararci l'eccesso dell'amor che ci porta, ha voluto mandar il suo Figlio Unigenito in terra a morire per noi peccatori; onde scrisse l'Apostolo che Dio per il troppo amore con cui ci amò volle che la morte del Figlio recasse a noi la vita: Propter nimiam caritatem suam, qua dilexit nos... cum essemus mortui peccatis, convivificavit nos in Christo (Eph. II, 4, 5). E ciò appunto espressero Mosè ed Elia sul monte Taborre parlando della Passione di Gesù Cristo, non sapendo chiamarla con altro nome che un eccesso d'amore: Et dicebant excessum eius, quem completurus erat in Ierusalem (Luc. IX, 31).

Quando venne al mondo il nostro Salvatore a morire per gli uomini, furono uditi da' pastori gli angeli che cantavano: Gloria in altissimis Deo (Luc. II, 14). Ma l'essersi umiliato il Figlio di Dio a farsi uomo per amor dell'uomo sembrava che così più presto si fosse oscurata che manifestata la divina gloria; ma no, che la gloria di Dio non poteva in miglior modo






palesarsi al mondo che morendo Gesù Cristo per la salute degli uomini; poiché la Passione di Gesù Cristo ci ha fatto conoscere la perfezione degli attributi divini. Ci ha fatto conoscere quanto sia stata grande la divina Misericordia, in voler morire un Dio per salvare i peccatori, e morir poi con una morte sì dolorosa ed obbrobriosa. Dice S. Giovan Grisostomo che il patire di Gesù Cristo non fu un patire comune, e la sua morte non fu una morte semplice e simile a quella degli altri uomini: Non Passio communis, non mors simplex, morti similis (S. Io. Chrysost. serm. de Pass.).3

Di più ci ha fatta conoscere la divina Sapienza. Se il nostro Redentore era solamente Dio, non potea soddisfare per l'uomo, perché non poteva Iddio soddisfare egli a se stesso in vece dell'uomo; né Dio potea soddisfare col patire essendo egli impassibile. All'incontro se fosse stato solo uomo, non poteva l'uomo soddisfare la grave ingiuria da lui fatta alla divina Maestà. Onde che fece Iddio? Mandò il suo medesimo Figlio, vero Dio com'era esso Padre, a prender carne umana, affinché così come uomo pagasse colla sua morte la divina giustizia e come Dio gli rendesse una piena soddisfazione.

Inoltre fe' conoscere quanto sia grande la divina Giustizia. Dicea S. Giovan Grisostomo che non tanto l'inferno, con cui castiga





Dio i peccatori, dimostra quanto sia grande la sua giustizia, quanto la fa intendere Gesù in croce4, poiché nell'inferno son punite le creature per li loro propri peccati, ma nella croce si vede un Dio maltrattato per soddisfare i peccati degli uomini. Quale obbligo avea Gesù Cristo di morire per noi?Oblatus est, quia ipse voluit (Is. LIII, 7). Egli poteva giustamente abbandonare l'uomo nella sua perdizione, ma l'amore che ci portava non gli permise di vederci perduti; onde elesse di abbandonare se stesso ad una morte così penosa, affin di ottenerci la salute: Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Eph. V, 2). Egli aveva amato l'uomo sin dall'eternità: Et in caritate perpetua dilexi te (Ier. XXXI, 3). Ma poi vedendosi obbligato dalla sua giustizia a condannarlo e tenerlo sempre da sé lontano e separato nell'inferno, perciò la sua misericordia lo spinse a trovare il modo da poterlo salvare, ma comecon soddisfare esso medesimo la divina giustizia colla sua morte. E perciò volle che nella stessa croce, ove morì, fosse appeso il decreto della condanna della morte eterna meritata dall'uomo, acciocché restasse cancellato col suo sangue: Delens quod adversus nos erat chyrographum decreti, quod erat contrarium nobis, et ipsum tulit de medio, affigens illud cruci (Coloss. II, 14). E così per li meriti del suo sangue ci condonò tutti i nostri delittiDonans vobis omnia delicta (Ibid. II, 13). Ed insieme spogliò i demoni de' dritti sopra di noi acquistati, conducendo seco in trionfo così i nemici come noi che eravamo la loro predaEt exspolians principatus et potestates, traduxit confidenter palam triumphans illos in semetipso (Ibid. II, 15). Commenta Teofilatto: Quasi victor ac triumphator circumvehens secum praedam et hostes in triumphum.5

Quindi Gesù Cristo soddisfacendo così la divina giustizia, nel morir sulla croce non parlò che di misericordia; egli pregò




il Padre ad aver misericordia degli stessi Giudei che gli avean tramata la morte, e de' carnefici che lo stavano uccidendoPater, dimitte illis: non enim sciunt quid faciunt (Luc. XXIII, 34). Egli stando in croce, in vece di punire ambedue i ladroni che poco prima l'aveano ingiuriato: Et qui cum eo crucifixi erant, conviciabantur ei (Marc. XV, 32): udendo però uno di loro che gli domandava pietà: Domine, memento mei, cum veneris in regnum tuum (Luc. XXIII, 42): egli abbondando di misericordia gli promise per quello stesso giorno il paradiso: Hodie mecum eris in paradiso (Ibid. XXIII, 43). Ivi prima di morire, in persona di Giovanni ci donò per madre la sua stessa MadreDicit discipulo: Ecce mater tua(Io. XIX, 27). Ivi in croce si dichiara contento di aver fatto tutto per ottenerci la salute, e perfeziona il sagrificio colla sua mortePostea sciens Iesus quia omnia consummata sunt... dixit: Consummatum est. Et inclinato capite tradidit spiritum (Ibid. XIX, 28 et 30).

Ed ecco colla morte di Gesù Cristo liberato l'uomo dal peccato e dalla potestà di Lucifero, e di più sollevato alla grazia e ad una grazia maggiore di quella che perdé AdamoUbi autem abundavit delictum, scrive S. Paolo, superabundavit gratia(Rom. V, 20). Resta a noi dunque, scrive l'Apostolo, di spesso ricorrere con confidenza a questo trono della grazia, quale appunto è Gesù crocifisso, acciocché riceviamo dalla sua misericordia la grazia della salute coll'aiuto opportuno per superare le tentazioni del mondo e dell'inferno: Adeamus ergo cum fiducia ad thronum gratiae, ut misericordiam consequamur, et gratiam inveniamus in auxilio opportuno (Hebr. IV, 16).

Ah Gesù mio, io vi amo sopra ogni cosa; e chi voglio amare se non amo voi che siete una bontà infinita e siete morto per me? Vorrei morir di dolore ogni volta che penso di avervi discacciato dall'anima mia col mio peccato, e di essermi separato da voi che siete l'unico mio bene e mi avete tanto amato. Quis me separabit a caritate Christi?6

Solo il peccato mi può separare da voi. Ma io spero dal sangue che avete sparso per me, che non mai permetterete ch'io mi separi dal vostro amore e perda la grazia vostra, ch'io stimo più di ogni altro bene. Io vi dono tutto me stesso; accettatemi






voi e tiratevi tutti gli affetti miei, acciocch'io non ami altri che voi.

Forse Gesù Cristo pretende troppo, volendo che ci diamo tutti a lui, dopo ch'egli ci ha dato tutto il sangue e la vita morendo per noi in croce? Caritas enim Christi urget nos (II Cor. V, 14). Udiamo quel che dice S. Francesco di Sales sulle citate parole: «Il saper noi che Gesù ci ha amati sino alla morte e morte di croce, non è questo un sentire i nostri cuori stringere per una violenza che tanto è più forte, quanto è più amabile?»7 E poi soggiunge: «Il mio Gesù si dà tutto a me, ed io mi do tutto a lui; io viverò e morirò sopra il suo petto, né la morte né la vita da lui mai mi divideranno».8

A questo fine è morto Gesù Cristo, scrive S. Paolo, acciocché ognuno di noi non viva più al mondo né a se stesso, ma solo a lui che tutto si è dato a noiEtpro omnibus mortuus est Christus, ut et qui vivunt, iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est(II Cor. V, 15). Chi vive al mondo cerca di piacere al mondo: chi vive a se stesso cerca a sé piacere: ma chi vive a Gesù Cristo non cerca che di piacere a Gesù Cristo, e non teme che di dargli disgusto: non gode che in vederlo amato e non si affligge che in vederlo disprezzato. Questo è vivere a Gesù Cristo e questo egli pretende da ciascuno di noi. Replico, forse pretende troppo dopo che per ognuno di noi ha dato il sangue e la vita?

Oh Dio, e perché abbiamo da impiegare i nostri affetti in amar le creature, i parenti, gli amici, i potenti del mondo, che per noi non han sofferti né flagelli, né spine, né chiodi, ne han data una goccia di sangue per noi, e non un Dio che per nostro amore è sceso dal cielo in terra, si è fatt'uomo, ha sparso tutto il sangue per noi a forza di tormenti, e finalmente è morto di dolore sovra d'un legno per tirarsi i nostri cuori? ed inoltre





per unirsi maggiormente con noi si è lasciato, dopo la sua morte, sugli altari dove si fa una cosa con noi per farc'intendere l'ardente amor che ci porta?Semetipsum nobis immiscuit, esclama S. Grisostomo, ut quid unum simus; ardenter enim amantium hoc est.9 E S. Francesco di Sales soggiunge, parlando della santa comunione: “In niun'altra azione può considerarsi il Salvatore né più tenero né più amoroso che in questa in cui si annichila, per così dire, e si riduce in cibo per unirsi al cuore de' suoi fedeli.»10

Ma come va, Signore, ch'io dopo essere stato amato da voi con tante speciali finezze, ho avuto l'animo di disprezzarvi, come giustamente mi rimproverate? Filios enutrivi et exaltavi: ipsi autem spreverunt me (Is. I, 2). Ho avuto l'animo di voltarvi le spalle per soddisfare il mio senso?Proiecisti me post corpus tuum (Ezech. XXIII, 35). Ho avuto l'animo di discacciarvi dall'anima mia?Impii dixerunt Deo, recede a nobis (Iob, XXI, 14).11Ho avuto l'animo di affliggere il vostro Cuor che miha tanto amato? Ma che perciò? debbo diffidarmi della vostra misericordia? Maledico quei giorni in cui vi disonorai. Oh fossi morto mille volte prima, o mio Salvatore, e non vi avessi mai offeso! O Agnello di Dio, voi vi siete fatto svenar sulla croce per lavare i nostri peccati col vostro sangue! O Peccatori, quanto paghereste voi una goccia di sangue di questo Agnello nel giorno del giudizio! o Gesù mio, abbiate pietà di me e perdonatemi. Mavoi sapete la mia debolezza; prendetevi tutta la mia volontà, acciocch'ella non si ribelli più da voi. Discacciate da me ogni amore che non è per voi. Voi solo mi eleggo



per mio tesoro e per unico mio bene; voi mi bastate e non desidero altro bene fuori di voi. Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum.

O Pecorella diletta di Dio, che siete la madre dell'Agnello divino (così la chiamava S. Teresa Maria SS. la Pecorella)12, raccomandatemi al vostro Figlio; voi dopo Gesù siete la speranza mia; giacché siete la speranza de' peccatori, in manovostra confido la mia eterna salute. Spes nostra, salve.

GESU' MARIA GIUSEPPE!