mercoledì 1 agosto 2012

"Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, Egli penserà a manifestare l'opera sua; io non ho bisogno di alcun documento, questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni"


SAN FRANCESCO 
CHIESE ED OTTENNE 
L'INDULGENZA DEL PERDONO


Una notte dell'anno del Signore 1216, Francesco era immerso nella preghiera e nella contemplazione nella chiesetta della Porziuncola, quando improvvisamente dilagò nella chiesina una vivissima luce e Francesco vide sopra l'altare il Cristo rivestito di luce e alla sua destra la sua Madre Santissima, circondati da una moltitudine di Angeli. Francesco adorò in silenzio con la faccia a terra il suo Signore!
Gli chiesero allora che cosa desiderasse per la salvezza delle anime. La risposta di Francesco fu immediata: "Santissimo Padre, benché io sia misero e peccato-re, ti prego che a tutti quanti, pentiti e confessati, verranno a visitare questa chiesa, conceda ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe".
"Quello che tu chiedi, o frate Francesco, è grande - gli disse il Signore -, ma di maggiori cose sei degno e di maggiori ne avrai. Accolgo quindi la tua preghiera, ma a patto che tu domandi al mio vicario in terra, da parte mia, questa indulgenza".


E Francesco si presentò subito al Pontefice Onorio III che in quei giorni si trovava a Perugia e con candore gli raccontò la visone avuta.
Il Papa lo ascoltò con attenzione e dopo qualche difficoltà dette la sua approvazione. Poi disse: "Per quanti anni vuoi questa indulgenza?".
Francesco scattando rispose: "Padre Santo, non domando anni, ma anime". E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chiamò: "Come, non vuoi nessun documento?". E Francesco:"Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, Egli penserà a manifestare l'opera sua; io non ho bisogno di alcun documento, questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni". E qualche giorno più tardi insieme ai Vescovi dell'Umbria, al popolo convenuto alla Porziuncola, disse tra le lacrime: "Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso!".


L'INDULGENZA SECONDO IL CATECHISMO

I peccati non solo distruggono o feriscono la comunione con Dio, ma
compromettono anche l'equilibrio interiore della persona e il suo ordinato rapporto con le creature. Per un risanamento totale, non occorrono solo il pentimento e la remissione delle colpe, ma anche ma riparazione del disordine provocato, che di solito continua a sussistere. In questo impegno di purificazione il penitente non è isolato. Si trova inserito in un mistero di solidarietà, per cui la santità di Cristo e dei santi giova anche a lui. Dio gli comunica le grazie da altri meritate con l'immenso valore della loro esistenza, per rendere più rapida ed efficace la sua riparazione. 

La Chiesa ha sempre esortato i fedeli a offrire preghiere, opere buone e sofferenze come intercessione per i peccatori e suffragio per i defunti. 
Nei primi secoli i vescovi riducevano ai penitenti la durata e il rigore della penitenza pubblica per intercessione dei testimoni della fede sopravvissuti ai supplizi. Progressivamente è cresciuta la consapevolezza che il potere di legare e sciogliere, ricevuto dal Signore, include la facoltà di liberare i penitenti anche dei residui lasciati dai peccati già perdonati, applicando loro i meriti di Cristo e dei santi, in modo da ottenere la grazia di una fervente carità. I pastori concedono tale beneficio a chi ha le dovute disposizioni interiori e compie alcuni atti prescritti. Questo loro intervento nel cammino penitenziale è la concessione dell'indulgenza.
(C.E.I., Catechismo degli adulti, n. 710)

"AVE MARIA PURISSIMA!"

SANT'ALFONSO MARIA DE' LIGUORI: Sintesi delle virtù dichiarate nell'Opera che dee praticare chi ama Gesù Cristo.



Catecismo para niños

RISTRETTO [Sintesi]

Ristretto delle virtù dichiarate nell'Opera
che dee praticare chi ama Gesù Cristo.



1. Bisogna soffrir con pazienza tutte le tribulazioni di questa vita, le infermità, i dolori, la povertà, la perdita delle robe, la morte de' parenti, gli affronti, le persecuzioni e tutte le cose contrarie. Ed intendiamo che i travagli di questa vita son segni che Dio ci ama e ci vuol salvi nell'altra. E di più intendiamo che gradiscono più a Dio le mortificazioni involontarie ch'esso ci manda, che le volontarie che ci prendiamo noi.

2. Nelle infermità procuriamo di rassegnarci totalmente alla volontà di Dio, il che piace a Dio più di ogni altra divozione. Se allora non possiamo applicar la mente a meditare, guardiamo il Crocifisso, offerendogli i nostri patimenti ed unendoli a quelli ch'esso patì per noi sulla croce. E quando ci sarà data la nuova della morte, accettiamola con pace e con ispirito di sagrificio, cioè con volontà di voler morire per dar gusto a Gesù Cristo: questa volontà diè tutto il merito alla morte de' martiri. Bisogna allora dire: «Signore, eccomi, voglio tutto quel che volete voi, voglio patire quanto volete voi, voglio morire quando volete voi». Nè stiamo allora a cercar la vita a fine di far penitenza de' peccati; l'accettar la morte con piena rassegnazione vale più di ogni penitenza.
3. In oltre bisogna uniformarci al divino volere nel soffrire la povertà e tutti gl'incomodi che porta seco la povertà, il freddo, la fame, le fatiche, i disonori e le derisioni.
4. Così anche rassegnarci nella perdita delle robe e nella perdita de' parenti e degli amici che poteano farci bene vivendo. Avvezziamoci in tutte le cose contrarie a replicare: Così ha voluto Dio, così vogl'io. E nella morte de' congiunti, in vece di perdere il tempo a piangere senza profitto, impieghiamolo a pregare per le loro anime, offerendo allora a Gesù Cristo la pena che sentiamo di averli perduti.
5. Di più attendiamo a farci forza di soffrir con pazienza e pace i disprezzi e gli affronti. Ad alcuno che ci parla con ingiurie rispondiamo con parole dolci; ma quando ci sentiamo disturbati allora è meglio il soffrire e tacere, finchè non si tranquilli la mente; e procuriamo frattanto di non lamentarci con altri dell'affronto ricevuto, offerendolo in silenzio a Gesù Cristo che tanti ne patì per noi.
6. Usar dolcezza con tutti, superiori ed inferiori, nobili e plebei, parenti ed estranei; ma più specialmente co' poveri e cogli infermi; e più specialmente poi con coloro che ci mirano di mal occhio.
7. Nel riprendere i difetti altrui, giova più la dolcezza che tutti gli altri mezzi e ragioni; perciò guardiamoci di far la correzione quando stiamo adirati, perchè allora la riprensione sempre riuscirà amara, o per le parole o per lo modo. Guardiamoci ancora di correggere il delinquente quando egli sta adirato, perchè allora la correzione più presto l'inasprirà, che lo farà ravvedere.
8. Non invidiare i grandi del mondo delle loro ricchezze, onori, dignità ed applausi che ricevono dagli uomini; ma invidiare coloro che più amano Gesù Cristo, che certamente vivono più contenti de' primi re della terra; e ringraziare il Signore della luce con cui ci fa conoscere la vanità di tutti questi beni mondani, per cui tanti miseri si perdono.
9. In tutte le nostre azioni e pensieri non cercare la propria soddisfazione, ma solamente il gusto di Dio; e perciò non disturbarci quando non ci riesce l'intento di qualche nostro disegno; e quando ci riesce, non cercarne applausi e ringraziamenti dagli uomini; e se ne siamo mormorati, non farne conto, consolandoci di aver operato per piacere a Dio e non agli uomini.
10. I mezzi principali per la perfezione sono: per 1º Fuggire ogni peccato deliberato, benchè leggiero; ma se per disgrazia commettiamo qualche mancanza, guardiamoci di adirarcene con noi stessi con impazienza; bisogna allora pentircene con pace, e, facendo un atto d'amore a Gesù Cristo, promettergli di più non commetterla, cercandogli aiuto.
11. Per 2º Desiderare di giungere alla perfezione de' santi e di patire ogni cosa per dar gusto a Gesù Cristo; e se non abbiamo questo desiderio, pregare Gesù Cristo che per sua bontà ce lo conceda, perchè altrimenti, se non desideriamo con vero desiderio di farci santi, non daremo mai un passo per avanzarci nella perfezione.
12. Per 3º Avere una vera risoluzione di giungere alla perfezione. Chi non ha questa ferma risoluzione, opera con debolezza, e nelle occasioni non supera le ripugnanze; all'incontro un'anima risoluta, coll'aiuto di Dio che non manca mai, vince tutto.
13. Per 4º Fare due ore o almeno un'ora di orazione mentale ogni giorno; e senza precisa necessità non lasciarla mai per qualunque tedio, aridità o agitazione in cui ci troviamo.
14. Per 5º Frequentar la comunione più volte la settimana, secondo l'ubbidienza del direttore, poichè contra il consenso del medesimo non dee farsi la comunione frequente. E lo stesso corre per le mortificazioni esterne di digiuni, cilizi, discipline e simili; tali mortificazioni fatte senza l'ubbidienza del padre spirituale o guasteranno la sanità o apporteranno vanagloria. E perciò è necessario avere il direttore particolare per regolar il tutto colla di lui ubbidienza.
15. Per 6º Usar continuamente la preghiera, col raccomandarci a Gesù Cristo per tutti i bisogni che ci occorrono; col ricorrere ancora all'intercessione dell'Angelo custode, de' santi avvocati e singolarmente della divina Madre, per le mani di cui Iddio concede a noi tutte le grazie. — Già si è dimostrato verso la fine del capo VIII, che dalla preghiera dipende ogni nostro bene. — Bisogna specialmente cercare a Dio ogni giorno la perseveranza nella sua grazia, la quale perseveranza chi la cerca l'ottiene, e chi non la cerca non l'ottiene e si danna; cercare a Gesù Cristo il suo santo amore e l'uniformità perfetta alla sua volontà. E bisogna cercar le grazie sempre per li meriti di Gesù Cristo. Queste preghiere bisogna farle da che ci leviamo la mattina, e poi replicarle nell'orazione mentale, nella comunione, nella visita al SS. Sagramento e la sera nell'esame di coscienza. Principalmente in tempo di tentazioni bisogna che cerchiamo a Dio l'aiuto per resistere, e particolarmente se sono tentazioni contro la castità, invocando allora più volte in aiuto i SS. Nomi di Gesù e di Maria. Chi prega vince: chi non prega è vinto.
16. In quanto all'umiltà, non invanirsi delle ricchezze, degli onori, della nobiltà, del talento e di ogni altro pregio naturale; e tanto meno de' pregi spirituali, pensando che tutti sono doni di Dio. Tenerci per li peggiori di tutti, e perciò aver contento di vederci disprezzati dagli altri; e non fare come fanno alcuni, che dicono essere i peggiori di tutti e poi vogliono esser trattati meglio di tutti. Quindi accettare con umiltà le riprensioni senza scusarci, neppur quando siamo incolpati a torto, purchè non fosse necessaria la difesa per evitare lo scandalo degli altri.
17. Tanto più guardarsi di voler comparire nel mondo, e cercare onori dagli uomini. Perciò tenere avanti gli occhi la gran massima di S. Francesco che tanto siamo noi, quanto siamo avanti a Dio. Peggio sarebbe poi ad un religioso il cercare offici di onore e di superiorità nella religione: l'onore d'un religioso è l'essere il più umile di tutti; e quegli è il più umile, che abbraccia con maggiore allegrezza le umiliazioni.
18. Distaccar il cuore da tutte le creature. Chi sta attaccato a qualche cosa di terra, benchè minima, non potrà mai volare ed unirsi tutto con Dio.
19. Distaccarci specialmente dall'affetto de' parenti. Diceva S. Filippo Neri: «Quanto noi mettiamo d'affetto alle creature, tanto ne togliamo a Dio». E trattandosi dell'elezione dello stato, bisogna che specialmente ci guardiamo da' parenti che cercano più i loro interessi che il nostro profitto. — Distaccarci da' rispetti umani e dalla vana stima degli uomini; e sopra tutto distaccarci dalla propria volontà. Bisogna lasciar tutto per acquistar il tutto. Totum pro toto, scrive il da Kempis.
20. Non adirarci mai per qualunque accidente; e se mai qualche volta ci vediamo sorpresi dall'ira, subito allora raccomandiamoci a Dio, ed allora asteniamoci di operare e di parlare, finchè non ci assicuriamo che l'ira è già sedata. Perciò è spediente che nell'orazione ci prepariamo a tutti gl'incontri che possono avvenirci, acciocchè allora non ce ne risentiamo con colpa; ricordandoci di quel che confessava di se stesso S. Francesco di Sales: «Io non mi sono mai risentito, che appresso non me ne sia pentito».
21. Tutta la santità consiste nell'amare Dio, e tutto l'amore a Dio consiste nel far la sua volontà. Bisogna dunque rassegnarsi senza riserba a tutto quel che Dio dispone di noi; e perciò abbracciar con pace tutti gli eventi prosperi ed avversi che vuole Dio, quello stato che vuole Dio, quella sanità che vuole Dio. Ed a ciò dirigere tutte le nostre preghiere, acciocchè Dio ci faccia adempire la sua santa volontà. E per accertare la divina volontà, dipendere dall'ubbidienza del superiore per chi è religioso, e del confessore per chi è secolare; tenendo per certo quel che diceva S. Filippo Neri: «Di quello che si fa per ubbidienza non se ne ha da render conto a Dio». S'intende, purchè la cosa non sia evidente peccato.
22. Contra le tentazioni due sono i rimedi, la rassegnazione e la preghiera. La rassegnazione, perchè sebbene le tentazioni di peccare non vengono da Dio, nondimeno Iddio le permette per nostro bene; e però guardiamoci di adirarci, per moleste che sieno le tentazioni; rassegniamoci allora nel volere di Dio che le permette, ed armiamoci a superarle colla preghiera che fra tutte è l'arma più forte e più sicura per vincere i nemici. — I mali pensieri non son peccati, sieno laidissimi ed empi quanto si voglia: solo i mali consensi sono peccati. Invocando i Nomi SS. di Gesù e di Maria, non mai resteremo vinti. — Quando la tentazione assalta, giova allora rinnovare il proposito di voler prima morire che offendere Dio; giova ancora segnarci più volte col segno della croce e coll'acqua santa, e giova anche molto lo scovrire la tentazione al confessore; ma il rimedio più necessario è la preghiera, cercando l'aiuto a resistere a Gesù ed a Maria.
23. Nella desolazione poi di spirito due sono gli atti in cui dobbiamo principalmente esercitarci: 1. umiliarci confessando di meritare di essere così trattati; 2. rassegnarci nella volontà di Dio, abbandonandoci in braccio alla divina bontà. Quando Dio ci consola, apparecchiamoci alle tribulazioni che per lo più succedono alle consolazioni. Quando poi ci fa star desolati, umiliamoci e rassegniamoci nella divina volontà, e trarremo assai maggior profitto dalla desolazione che dalla consolazione.
24. Per viver sempre bene bisogna che c'imprimiamo nella mente certe massime generali di vita eterna:
Ogni cosa di questa vita finisce, il godere e 'l patire; e l'eternità non finisce mai.
A che servono in punto di morte tutte le grandezze di questo mondo?
Quel che viene da Dio, o di prospero o di avverso, tutto è buono, ed è per nostro bene.
Bisogna lasciar tutto per acquistare il tutto.
Senza Dio non può aversi mai vera pace.
Solo l'amare Dio e salvarsi l'anima è necessario.
Solo del peccato si dee temere.
Perduto Dio è perduto tutto.
Chi non desidera niente di questo mondo è padrone di tutto il mondo.
Chi prega si salva, chi non prega si perde.
Si muoia, e si dia gusto a Dio.
Costi Dio quanto vuol, non fu mai caro.
A chi si ha meritato l'inferno ogni pena è leggiera.
Tutto soffre chi mira Gesù in croce.
Ciò che non si fa per Dio tutto diventa pena.
Chi vuol solo Dio è ricco d'ogni bene.
Beato chi può dire di cuore: Gesù mio, te solo voglio e niente più.
Chi ama Dio, in ogni cosa troverà piacere; chi non ama Dio, in niuna cosa troverà vero piacere.

AVE MARIA!

CAPITOLO XVII Caritas omnia sustinet. Chi ama Gesù Cristo con amor forte non lascia di amarlo in mezzo a tutte le tentazioni ed a tutte le desolazioni.

Catecismo para niños

CAPITOLO XVII

Caritas omnia sustinet.

Chi ama Gesù Cristo con amor forte
non lascia di amarlo in mezzo a tutte le tentazioni
ed a tutte le desolazioni.



1. Le pene che maggiormente affliggono in questa vita le anime amanti di Dio non sono la povertà, le infermità, i disonori e le persecuzioni, ma le tentazioni e le desolazioni di spirito. Quando un'anima gode l'amorosa presenza di Dio, allora tutti i dolori, le ignominie ed i maltrattamenti degli uomini, in vece di affliggerla, più la consolano, dandole motivo di offerire a Dio qualche pegno del suo amore: sono in somma legna che più accendono il fuoco. Ma il vedersi dalle tentazioni spinta a perdere la grazia divina, o il temere nella desolazione di averla già perduta, queste son pene troppo amare a chi ama di cuore Gesù Cristo. Ma lo stesso amore dà loro forza di soffrirle con pazienza e di seguire il preso cammino della perfezione. Ed oh quanto si avanzano le anime con tali pruove che suole far Dio del loro amore!

Delle tentazioni.
2. Per le anime che amano Gesù Cristo non vi è pena più tormentosa delle tentazioni. Tutti gli altri mali le spingono a più unirsi con Dio, accettandoli con rassegnazione; ma le tentazioni a peccare le spingono, come di sovra si è detto, a separarsi da Gesù Cristo, e perciò si rendono loro troppo amare più che tutti gli altri tormenti. Bisogna però intendere che, sebbene tutte le tentazioni che inducono al male non vengono mai da Dio, ma dal demonio o dalle nostre male inclinazioni: Deus enim intentator malorum est, ipse autem neminem tentat (Iac. I, 13): nondimeno il Signore permette alle volte che l'anime sue più dilette sieno più fortemente tentate.
Per prima, acciocchè colle tentazioni conoscano maggiormente la loro debolezza e 'l bisogno che hanno del divino aiuto per non cadere. — Quando un'anima trovasi favorita da Dio colle divine consolazioni, le pare di esser abile a superare ogni assalto de' nemici e ad eseguire ogn'impresa di gloria di Dio. Ma quando si trova gagliardamente tentata, e si vede all'orlo del precipizio e vicina a cadere, allora meglio conosce la sua miseria e la sua impotenza a resistere, se Dio non la soccorresse. Questo appunto avvenne a S. Paolo, il quale scrisse che il Signore avea permesso ch'egli fosse molto molestato da una tentazione sensuale, acciocchè non s'invanisse per le rivelazioni di cui l'avea Dio favorito: Et ne magnitudo revelationum extollat me, datus est mihi stimulus carnis meae, angelus satanae, qui me colaphizet (II Cor. XII, 7).
3. In oltre permette Iddio le tentazioni, acciocchè viviamo più distaccati da questa terra, e desideriamo con più ardore di andarlo a vedere in paradiso. Quindi è che le anime buone, in vedersi così combattute in questa vita di giorno e di notte da tanti nemici, hanno in tedio la vita, ed esclamano: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est (Ps. CXIX, 5). E sospirano l'ora in cui potranno dire: Laqueus contritus est et nos liberati sumus (Ps. CXXIII, 7). L'anima vorrebbe volare a Dio, ma, mentre vive in questa terra, sta ligata da un laccio che la trattiene quaggiù, ove di continuo è combattuta dalle tentazioni. Questo laccio non si spezza se non colla morte; e perciò le anime amanti sospirano la morte che le libera dal pericolo di perdere Dio.
4. In oltre Iddio permette che siamo tentati, per renderci più ricchi di meriti, come fu detto a Tobia: Et quia acceptus eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te (Tob. XII, 13). Dunque un'anima non perchè è tentata dee temere che sta in disgrazia di Dio; anzi allora dee più sperare di essere amata da Dio. È inganno del demonio il far credere a certi spiriti pusillanimi che le tentazioni son peccati che imbrattano l'anima. Non sono i mali pensieri che ci fanno perdere Dio, ma i mali consensi. Sieno veementi quanto si voglia le suggestioni del demonio, sieno vivi quanto si voglia quei fantasmi impudici che c'ingombrano la mente, quando noi non li vogliamo, niente macchiano l'anima, anzi la rendono più pura, più forte e più cara a Dio. — Dice S. Bernardo che ogni volta che superiamo le tentazioni acquistiamo una nuova corona: Quoties vincimus, toties coronamur. Ad un certo monaco cisterciense apparve un angelo che gli diede in mano una corona, con ordine che la portasse ad un altro religioso, e gli dicesse che tal corona se l'avea meritata per quella tentazione che poco dinanzi avea superata. Nè ci spaventi il vedere che quel cattivo pensiero non si parte dalla mente e seguita a tormentarci; basta che noi l'abborriamo e cerchiamo di discacciarlo.
5. Dio è fedele, dice l'Apostolo: non soffre che noi siamo tentati oltre le nostre forze: Fidelis autem Deus est qui non patietur vos tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam cum tentatione proventum (I Cor. X, 13). Chi dunque resiste alla tentazione, non solo non vi perde, ma vi fa gran guadagno, sed faciet cum tentatione proventum. E perciò il Signore spesso permette che l'anime sue dilette siano più tentate dalle tentazioni, acciocchè facciano più acquisti di meriti in questa terra e di gloria nel cielo. L'acqua morta che non si muove, presto s'imputridisce. E così l'anima, stando in ozio senza tentazioni e senza combattimenti, sta in pericolo di perdersi con qualche vana compiacenza del proprio merito, pensando forse che già sia giunta alla perfezione; e così allora poco teme, e perciò poco si raccomanda a Dio, e poco si affatica per assicurare la sua salute. Ma quando ella è agitata dalle tentazioni e si vede in pericolo di precipitare in peccato, allora ricorre a Dio, ricorre alla divina Madre, rinnova i propositi di morir prima che peccare, si umilia e si abbandona in braccio alla divina misericordia: e così acquista più forza, e più si stringe con Dio, come dimostra l'esperienza.
6. Non dobbiamo già noi desiderare perciò le tentazioni, anzi dobbiamo pregar sempre Iddio che dalle tentazioni ci liberi, e specialmente da quelle dalle quali vede Dio che saressimo vinti — ciò significa appunto quella preghiera del Pater noster: Et ne nos inducas in tentationem; — ma quando Dio permette che ci assaltino, bisogna che allora, senza inquietarci per quei brutti pensieri e senza avvilirci, confidiamo in Gesù Cristo e gli cerchiamo aiuto; ed egli certamente non mancherà di darci forza a resistere. Dice S. Agostino: Proiice te in eum, noli metuere; non se subtrahet ut cadas (Conf. lib. 8, c. 11). Abbandonati in Dio e non temere, poichè se egli ti mette nel combattimento, certamente non ti lascerà solo acciocchè cadi.
7. Veniamo ora a' mezzi che abbiamo da usare per vincere le tentazioni.
I maestri di spirito ne assegnano molti, ma il più necessario e più sicuro — di questo solo qui voglio parlare — è il ricorrere subito a Dio con umiltà e confidenza, dicendo: Deus, in adiutorium meum intende; Domine, ad adiuvandum me festina (Ps. LXIX, 2): Signore aiutami, ed aiutami presto. Questa sola preghiera basterà a farci superare gli assalti di tutti i demoni dell'inferno che venissero a combatterci, perchè Iddio è infinitamente più forte di tutti i demoni. Iddio già sa che non abbiamo noi forza di resistere alle tentazioni delle podestà infernali; onde dice il dottissimo cardinal Gotti che quando noi siamo combattuti e siamo nel pericolo di esser vinti, egli è obbligato a darci l'aiuto bastante a resistere, semprechè ce lo domandiamo: Tenetur Deus cum tentamur, nobis ad eum confugientibus, vires praebere qua possimus resistere et actu resistamus (Card. Gotti, Theol. Schol., t. 2. tr. 6. q. 2. § 3. n. 30).
8. E come possiamo temere che Gesù Cristo non ci aiuti, dopo che n'abbiamo tante sue promesse fatteci nelle sacre Scritture? Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth. XI, 28). Venite voi che vi affaticate nel combattere colle tentazioni, ed io vi ristorerò le forze. Et invoca me in die tribulationis, eruam te, et honorificabis me (Ps. XLIX, 15). Quando ti vedi tribolato da' nemici, chiamami, ed io ti caverò dal pericolo, e tu me ne loderai. Tunc invocabis et Dominus exaudiet. Clamabis, et dicet: Ecce adsum (Is. LVIII, 9). Allora chiamerai il Signore in aiuto, ed egli ti esaudirà. Griderai: Presto, Signore, soccorrimi; ed egli ti dirà: Eccomi, son presente per aiutarti. Quis invocavit eum et despexit illum? (Eccli. II, 12). E chi mai, dice il profeta, ha invocato Dio, e Dio l'ha disprezzato senza dargli soccorso? Davide per questo mezzo della preghiera tenea per certo di non esser mai vinto da' nemici, dicendo: Io chiamerò il Signore lodandolo, e sarò salvo da' miei nemici: Laudans invocabo Dominum et ab inimicis meis salvus ero (Ps. XVII, 4). Poich'egli già sapea che Dio si fa vicino ad ognuno che lo chiama in aiuto: Prope est Dominus omnibus invocantibus eum (Ps. CXLIV, 18). E S. Paolo aggiunge che il Signore non è già avaro, ma ricco di grazie, per tutti coloro che l'invocano: Dives in omnes qui invocant illum (Rom. X, 12).
9. Oh volesse Iddio che tutti gli uomini ricorressero a lui quando son tentati ad offenderlo, che niuno certamente l'offenderebbe! Cadono i miseri, perchè, allettati da' loro pravi appetiti, per non perdere quei brevi diletti, si contentano di perdere il sommo bene ch'è Dio. Troppo lo dimostra la sperienza, che chi ricorre a Dio nelle tentazioni, non cade, e chi non ricorre, cade: e specialmente nelle tentazioni d'incontinenza. Dicea Salomone ch'egli ben sapea di non poter essere continente se Iddio non ce 'l concedeva; e perciò nelle tentazioni era a lui ricorso colle preghiere: Et ut scivi quoniam aliter non possem esse continens, nisi Deus det... adii Dominum et deprecatus sum illum etc. (Sap. VIII, 21). In tali tentazioni d'impurità — e lo stesso corre nelle tentazioni contra la fede — non è regola di mettersi a combattere colla tentazione da petto a petto, ma bisogna procurare al principio di quella discacciarla indirettamente con fare un atto buono di amore a Dio o di dolore de' peccati, o pure con applicarsi a qualche azione indifferente distrattiva. Subito che ci accorgiamo di qualche pensiero che tiene viso maligno, subito bisogna licenziarlo, chiudergli, per così dire, la porta in faccia e negargli l'entrata nella mente, senza stare a discifrare che cosa dica e pretenda. Tali suggestioni malvagie bisogna scuoterle subito, come si scuotono le scintille di fuoco che ci saltano addosso.
10. Se poi la tentazione impura è già entrata nella mente ed ha spiegato quel che vorrebbe e già muove il senso, allora, dice S. Girolamo: Statim ut libido titillaverit sensum, erumpamus in vocem: Domine, auxiliator meus (Ep. XXII ad Eustoch.). Subito, dice il santo, che il senso è mosso dal fomite, bisogna ricorrere a Dio e dire: Signore aiutatemi, invocando i santissimi nomi di Gesù e di Maria che hanno una virtù particolare di sopprimere tal sorta di tentazioni. — Dice S. Francesco di Sales che i bambini vedendo il lupo corrono subito fra le braccia del padre e della madre, ed ivi si tengono sicuri. Così dobbiamo fare ancor noi: ricorrere subito a Gesù ed a Maria, invocandoli. Replico, subito ricorrere, senza dare udienza e discorrere colla tentazione. Si narra nel libro delle Sentenze de' Padri al § 4 che S. Pacomio un giorno intese che un demonio vantavasi di aver fatto spesso cadere un certo monaco, perchè colui, quando esso lo tentava, gli dava udienza e non si voltava a Dio. All'incontro intese un altro demonio che si lamentava dicendo: «Ed io col monaco mio niente posso, perchè egli subito ricorre a Dio, e sempre vince».
11. Se poi la tentazione persiste a molestarci, guardiamoci allora d'inquietarci e di adirarci con quella, perchè da un tal disturbamento potrebbe il demonio prender forza a farci cadere. Allora dobbiamo con umiltà rassegnarci alla volontà di Dio, il quale vuol permettere che allora siamo così tormentati da quel laido pensiero, con dire: «Signore, così merito io, di esser molestato da tali schifezze in castigo delle offese che vi ho fatte; ma voi mi avete da soccorrere e liberare». E perciò, se la tentazione seguita a molestarci, seguitiamo noi ad invocare Gesù e Maria. Giova molto allora, quando la tentazione seguita a tormentarci, rinnovar la promessa a Dio di patire ogni tormento e morir mille volte prima che offenderlo: e nello stesso tempo non si lasci di cercargli aiuto. E quando la tentazione fosse così forte che ci vedessimo in gran pericolo di consentirvi, allora bisogna incalzar le preghiere, ricorrere al SS. Sagramento, buttarsi a' piedi di un Crocifisso o di qualche immagine della B. Vergine, e pregare con maggior calore, gemere, piangere, cercando soccorso. È vero che Dio è pronto ad esaudir chi lo prega, ed egli è quello, non già la nostra diligenza, che ha da darci la forza di resistere; ma talvolta vuole il Signore da noi questi sforzi, ed egli poi supplisce alla nostra debolezza e ci fa ottenere la vittoria.
12. Giova ancora, in tempo che siamo tentati, il segnarci più volte la fronte ed il petto col segno della santa croce. Giova molto ancora scovrir la tentazione al padre spirituale. Dicea S. Filippo Neri che la tentazione scoperta è mezzo vinta. Ma qui è bene avvertire, esser dottrina comunemente approvata da' teologi, anche del rigido sistema, che le persone le quali per molto tempo han fatta vita spirituale e son molto timorate di Dio, semprechè stanno in dubbio e non sono certe di aver dato il consenso a qualche colpa grave, debbono tener per certo di non aver perduta la divina grazia; essendo moralmente impossibile che la volontà confermata per molto tempo ne' buoni propositi, in un subito poi si muti e consenta ad un peccato mortale, senza chiaramente conoscerlo. La ragione si è perchè il peccato mortale è un mostro così orribile, che non può entrare in un'anima, la quale per lungo tempo l'ha abborrito, senza farsi chiaramente conoscere. — Ciò l'abbiamo appieno provato nella nostra opera morale (al lib. VI, n. 476, vers. Item). — Dicea S. Teresa: «Niuno si perde senza conoscerlo; e niuno resta ingannato senza voler esser ingannato».
13. Quindi è che per alcune anime di coscienza delicata e ben assodate nella virtù, ma timide e molestate dalle tentazioni — specialmente se sono contra la fede o la castità — sarà spediente talvolta che il direttore vieti loro di svelarle e di parlarne, poichè nel doverle scovrire dovranno riflettere come quei pensieri sieno entrati, e se poi vi è stata dilettazione in discorrervi, se compiacenza o consenso; e così, col maggiormente riflettervi, più s'imprimono quelle fantasie maligne, e più s'inquietano. Quando il confessore sta moralmente certo che a tali suggestioni la persona non vi consente, meglio è che dia loro l'ubbidienza di non parlarne. E trovo che così appunto faceva la madre S. Giovanna di Chantal. Ella narra di sè ch'essendo stata più anni agitata in orrende tempeste di tentazioni e non avendo mai avuta cognizione di consenso a quelle, non mai se n'era confessata, ma aveva seguito a dirigersi colla regola datale dal suo direttore. Dice così: «Non ho avuta mai chiara cognizione di consenso»: dunque, dicendo così, dà ad intendere esserle rimasta qualche agitazione di scrupolo per quelle tentazioni, ma ciò non ostante si quietava coll'ubbidienza datale dal direttore di non confessarsi di tali dubbi. Del resto, comunemente parlando, molto giova per sedar le tentazioni lo scovrirle al confessore, come abbiamo detto di sopra.
14. Ma torno a dire, fra tutti i rimedi contra le tentazioni il più efficace e più necessario, il rimedio de' rimedi, è il pregare Dio per aiuto, e 'l seguitare a pregare, finchè la tentazione persiste. Spesso il Signore avrà destinata la vittoria non alla prima preghiera, ma alla seconda, alla terza, alla quarta. In somma bisogna persuaderci che dal pregare dipende tutto il nostro bene, dal pregare dipende la mutazione della vita, dal pregare dipende il vincere le tentazioni, dal pregare dipende l'ottenere l'amor divino, la perfezione, la perseveranza e la salute eterna.
15. Ad alcuno che avrà lette le mie opere spirituali io mi sarò forse renduto tedioso in raccomandar troppo spesso l'importanza e la necessità di ricorrere a Dio continuamente colla preghiera. Ma a me pare di averne detto non troppo, ma molto poco. Io so che tutti, giorno e notte, siamo combattuti dalle tentazioni dell'inferno, e che il demonio non lascia occasione per farci cadere. So che noi senza l'aiuto divino non abbiamo forza di resistere agli assalti de' demoni, e che perciò l'Apostolo ci esorta a vestirci delle armature di Dio: Induite vos armaturam Dei, ut possitis stare adversus insidias diaboli; quoniam non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates, adversus mundi rectores tenebrarum harum (Eph. VI, 11 et 12). E quali sono queste armi di cui c'insegna S. Paolo ad armarci per resistere a' demoni? Eccole: Per omnem orationem et obsecrationem, orantes omni tempore in spiritu, et in ipso vigilantes in omni instantia (Ibid. 18). Queste armi sono le preghiere continue e fervide a Dio affinchè ci soccorra e non restiamo vinti. So di più che tutte le Scritture, così del Vecchio come del Nuovo Testamento, non fanno altro che ammonirci a pregare: Invoca me... eruam te (Ps. XLIX, 15). Clama ad me, et exaudiam te (Ier. XXXIII, 3). Oportet semper orare et non deficere (Luc. XVIII, 1). Petite et dabitur vobis (Matth. VII, 7). Vigilate et orate (Matth. XXVI, 41). Sine intermissione orate (I Thes. V, 17). Onde non mi pare di averne parlato troppo della preghiera, ma molto poco.
16. Io desidererei che tutti i predicatori niuna cosa raccomandassero tanto a' loro ascoltanti, che la preghiera: che i confessori niuna cosa esortassero tanto con maggior calore a' loro penitenti, che la preghiera: gli scrittori spirituali di niuna cosa parlassero più abbondantemente, che della preghiera. Ma di questo mi lamento, e penso che sia castigo de' nostri peccati, che tanti predicatori, confessori e scrittori, della preghiera poco ne parlano. Non ha dubbio che giovano molto alla vita spirituale le prediche, le meditazioni, le comunioni, le mortificazioni; ma se quando vengono le tentazioni noi non ci raccomandiamo a Dio, noi caderemo con tutte le prediche, con tutte le meditazioni, con tutte le comunioni, con tutte le penitenze, e tutti i buoni propositi fatti. Dunque se vogliamo salvarci, preghiamo sempre e raccomandiamoci al nostro Redentore Gesù Cristo, e specialmente in atto che siamo tentati; e non solo cerchiamogli la santa perseveranza, ma insieme la grazia di sempre pregarlo. E raccomandiamoci sempre ancora alla divina Madre ch'è la dispensiera delle grazie, come dice S. Bernardo: Quaeramus gratiam et per Mariam quaeramus. Mentre lo stesso santo ci fa sapere esser volere di Dio che noi non riceviamo alcuna grazia che non passi per le mani di Maria: Nihil Deus habere nos voluit quod per manus Mariae non transiret.
Affetti e preghiere.
O Gesù mio Redentore, spero al vostro sangue che mi abbiate perdonate le offese che vi ho fatte; e spero di venire a ringraziarvene per sempre in paradiso: Misericordias Domini in aeternum cantabo (Ps. LXXXVIII, 2). Vedo che per lo passato io miseramente son caduto e ricaduto, perchè sono stato trascurato in domandarvi la santa perseveranza. Questa perseveranza ora vi cerco: Ne permittas me separari a te. E propongo di cercarvela sempre, e specialmente quando mi vedrò tentato ad offendervi. Così propongo e prometto; ma a che mi servirà questo mio proposito e promessa, se voi non mi darete la grazia di ricorrere a' piedi vostri? Deh per li meriti della vostra Passione concedetemi questa grazia, di sempre raccomandarmi a voi in tutti i miei bisogni.
Regina e madre mia Maria, vi prego, per quanto amate Gesù Cristo; ad ottenermi questa grazia, di ricorrere sempre al vostro Figlio ed a voi in tutta la mia vita.
Delle desolazioni.
17. «È un inganno, dice S. Francesco di Sales, il voler misurare la divozione colle consolazioni che proviamo. La vera divozione nella via di Dio consiste in avere una volontà risoluta di eseguir tutto ciò che piace a Dio». Iddio colle aridità stringe a sè le anime più dilette. Quel che c'impedisce la vera unione con Dio è l'attacco alle nostre disordinate inclinazioni; onde il Signore quando vuol tirare un'anima al suo perfetto amore, cerca di staccarla da tutti gli affetti de' beni creati. E così prima le va togliendo i beni temporali, i piaceri mondani, le robe, gli onori, gli amici, i parenti, la sanità del corpo; e con tali mezzi di perdite, di disgusti, dispregi, morti e infermità, la va distaccando da tutto il creato, acciocchè ella riponga in lui tutti gli affetti suoi.
18. Indi per affezionarla ai beni spirituali, a principio le fa assaggiare molte consolazioni con abbondanza di lagrime e tenerezze; onde l'anima procura allora di staccarsi da' piaceri sensuali, anzi cerca di macerarsi con penitenze, digiuni, cilizi e discipline. Ma allora bisogna che il direttore la tenga a freno e le neghi di fare mortificazioni, almeno tutte quelle che domanda, perchè la persona spinta da quel fervore sensibile facilmente potrebbe coll'indiscrezione guastarsi la sanità. Questa è arte del demonio, che quando vede alcuno che si dà a Dio, e scorge che Dio lo consola colle carezze solite darsi a' principianti, il nemico cerca di fargli perdere la salute colle penitenze indiscrete, acciocchè poi, sopravvenendo le infermità, lasci non solamente le penitenze, ma l'orazione, le comunioni e tutti gli esercizi divoti, e ritorni alla vita antica. Per tanto il direttore con queste anime che cominciano la vita spirituale e cercano penitenze, dee esser molto avaro in concederle, ma procuri di esortar loro a mortificarsi internamente con soffrire con pazienza i disprezzi e le cose contrarie, ubbidire a' superiori, astenersi dalla curiosità di vedere o di sentire, e cose simili; e dica loro che poi, quando avranno acquistato il buon abito di esercitare tali mortificazioni interne, allora potranno rendersi degne di praticare l'esterne.
Del resto è marcio errore il dire, come dicono alcuni, che le mortificazioni esterne non servono o poco servono. Non ha dubbio che per la perfezione son più necessarie le interne, ma non perciò non son necessarie anche l'esterne. Dicea S. Vincenzo de Paoli che chi non pratica le mortificazioni esterne non sarà mortificato nè esternamente nè internamente. Ed aggiungea S. Giovanni della Croce che ad un direttore che disprezza le macerazioni della carne, ancorchè facesse egli miracoli, non gli si dee dar credenza.
19. Ma ritorniamo al punto. — L'anima dunque ne' principî che si dà a Dio ed assaggia la dolcezza di quelle consolazioni sensibili colle quali cerca il Signore di allettarla e così distaccarla da' piaceri terreni, ella si va staccando dalle creature e si attacca a Dio; ma si attacca con difetto, spinta più dalla sensibilità di quelle consolazioni spirituali che da una vera volontà di dar gusto a Dio; e s'inganna col credere che quanto più trova gusto in quelle sue divozioni tanto più ama Dio. E da ciò nasce che quando vien disturbata da quegli esercizi ove trovava pascolo, e viene impiegata in altre opere di ubbidienza o di carità o di obbligazione del suo stato, s'inquieta e se ne accora: — questo è difetto universale della nostra misera umanità, di cercare in ogni azione la propria soddisfazione — o pure quando in quegli esercizi divoti non vi trova i gusti assaggiati, o gli lascia o almeno gli diminuisce, e, diminuendoli poi da giorno in giorno, finalmente gli lascia tutti. E questa disgrazia succede a molte anime che, chiamate da Dio al suo amore, cominciano a camminare nella via della perfezione, e fanno qualche cammino mentre durano le dolcezze spirituali, ma quando poi cessano quelle, lasciano tutto e ritornano alla vita antica. Ma bisogna persuadersi che l'amore a Dio e la perfezione non consiste nel sentire le tenerezze e le consolazioni, ma nel vincere l'amor proprio e nel seguire la divina volontà. Dice S. Francesco di Sales: «Iddio tanto è amabile quando ci consola, che quando ci tribola».
20. In quello stato di consolazioni non è gran virtù lasciare i gusti sensuali e sopportare gli affronti e le cose contrarie. In mezzo a quelle dolcezze l'anima sopporta tutto, ma tal sofferenza proviene spesso più da quelle dolcezze assaggiate che dalla forza del vero amore a Dio. E perciò il Signore, affin di assodarla nella virtù, si ritira e le toglie quei gusti sensibili, per toglierle ogni attacco all'amor proprio che di tali gusti si pasceva. E quindi avviene che dove prima sentiva gaudio in fare atti di offerte, di confidenza e di amore, dipoi, quando è seccata la vena, fa questi atti con freddezza e pena, e sente tedio negli esercizi più divoti, nell'orazione, nella lezione spirituale e nella comunione; anzi non vi trova altro che tenebre e timori, e le pare che tutto sia perduto. Prega, torna a pregare, e si affligge, parendole che Dio non voglia esaudirla.
21. Veniamo alla pratica di quello che dobbiamo far noi dal canto nostro.
Quando il Signore per sua misericordia ci consola con visite amorose, e ci fa sentire la presenza della sua grazia, non è bene ributtar quelle divine consolazioni, come voleano alcuni falsi mistici; accettiamole con ringraziamento, ma stiamo attenti a non fermarci a gustare e compiacerci del senso di quelle tenerezze di spirito: questa si chiama da S. Giovanni della Croce gola spirituale, la quale è difettosa e non piace a Dio. Attendiamo allora a discacciare dalla mente la compiacenza sensibile di quelle dolcezze; e specialmente guardiamoci di credere che Iddio ci usi quelle finezze perchè meglio degli altri ci portiamo con esso, perchè un tal pensiero di vanità costringerebbe il Signore a ritirarsi in tutto da noi e lasciarci nelle nostre miserie. Bisogna allora sì bene che lo ringraziamo con fervore, perchè tali consolazioni di spirito son doni grandi che fa Dio alle anime, assai più grandi di tutte le ricchezze e degli onori temporali; ma in quel tempo non ci affatichiamo già a prenderci diletto di quei gusti sensibili, ma umiliamoci con metterci avanti gli occhi i peccati della vita passata. Bisogna allora credere che quei tratti amorosi son puri effetti della bontà di Dio, e che forse il Signore anticipa a confortarci con quelle consolazioni, acciocchè soffriamo poi con pazienza qualche gran tribulazione che vuole mandarci. E perciò offeriamoci allora a patire ogni pena esterna o interna che ci avverrà, ogni infermità, ogni persecuzione, ogni desolazione di spirito, dicendo: «Signor mio, eccomi, fatene di me e delle cose mie quel che vi piace; datemi la grazia di amarvi e di adempire perfettamente la vostra volontà, e non altro vi domando».
22. Quando l'anima poi sta moralmente certa di stare in grazia di Dio, benchè sia priva così de' piaceri del mondo come di quelli di Dio, nondimeno sta pur contenta del suo stato sapendo che ama Dio ed è amata da Dio. Ma Dio che vuole vederla più purificata e spogliata di ogni soddisfazione sensibile per unirla tutta a sè per mezzo del puro amore, che fa? La mette nel crogiuolo della desolazione, ch'è una pena più amara di tutte le pene interne ed esterne che può patire una persona; la priva della cognizione di stare in grazia; e la lascia fra dense tenebre, in mezzo alle quali par che l'anima non trovi più Dio. Anzi talvolta Iddio permette ch'ella sia assalita da forti tentazioni di senso accompagnate da moti cattivi della parte inferiore, o pure da pensieri di miscredenza o di disperazione, ed anche di odio a Dio, parendole che il Signore l'abbia discacciata da sè e che più non senta le sue preghiere. E perchè da una parte le suggestioni del demonio son veementi e la concupiscenza della persona sta mossa; ed all'incontro, trovandosi l'anima in quella grande oscurità, quantunque resista colla volontà, non sa però discernere abbastanza, se a quelle tentazioni resiste come dee o vi consente; con ciò maggiormente le cresce il timore di aver perduto Dio, e che Dio giustamente, per le sue infedeltà usate in questi combattimenti, l'abbia in tutto abbandonata. Onde le pare di essere già arrivata all'estrema rovina, di non amare più Dio, e di esser odiata da Dio. Questa pena ben la provò S. Teresa, e confessa la santa che in tale stato la solitudine non più la consolava, ma l'era di tormento, e che quando andava all'orazione le parea di trovare un inferno.
23. Avvenendo ciò ad un'anima che ama Dio, ella non si sgomenti, nè si atterrisca il direttore che la guida. Quei moti sensuali, quelle tentazioni contra la fede, quelle diffidanze e quegli insulti che la spingono ad odiare Dio, sono timori, son tormenti dell'anima, sforzi del nemico, ma non sono atti volontari e perciò non sono peccati. L'anima che veramente ama Gesù Cristo ben resiste allora, e dissente a tali suggestioni; ma, per le tenebre che l'ingombrano, no 'l sa distinguere, resta ella confusa, e, perchè si vede lasciata dalla presenza della grazia, teme e si affligge. Ma ben si scorge poi che in queste anime così provate da Dio tutto è spavento ed apprensione, ma non verità: dimandate loro, anche nel mentre che si trovano così derelitte, se mai commetterebbero un sol peccato veniale ad occhi aperti, che risolutamente risponderebbero di esser pronte a patire non una, ma mille morti, prima che deliberatamente dar quel disgusto a Dio.
24. Bisogna perciò distinguere, altro è fare un atto buono, come di respinger la tentazione, di confidare in Dio, di amare e volere quel che vuole Dio: altro è conoscere che in effetto facciamo quest'atto buono. Questo secondo, di conoscere che facciamo l'atto buono, serve a noi di godimento; ma il profitto sta nel primo, cioè nel far veramente quel buon atto. Iddio si contenta del primo, e priva l'anima del secondo, cioè della cognizione di aver fatto quell'atto buono, affin di toglierle ogni propria soddisfazione che niente in verità aggiunge all'atto fatto, poichè il Signore più cerca il profitto nostro, che la nostra soddisfazione. S. Giovanni della Croce scrisse ad un'anima desolata per consolarla, così: «Non mai voi siete stata in migliore stato del presente, perchè non mai così umiliata e distaccata dal mondo, e non mai riconosciuta così cattiva come ora vi conoscete. Nè siete stata mai così spropriata e lontana dal cercar voi stessa». Non crediamo in somma che allorchè sentiamo più tenerezze di spirito siamo più amati da Dio; poichè non consiste in esse la perfezione, ma nel mortificare la nostra volontà ed unirla alla divina.
25. Nello stato dunque di desolazione, dee l'anima non dare udienza al demonio che le suggerisce averla Dio abbandonata, nè dee lasciar l'orazione. Questo è quel che pretende il demonio per farla poi cadere in qualche precipizio. Scrive S. Teresa: «Con aridità e tentazioni fa prova il Signore de' suoi amanti. Benchè tutta la vita duri l'aridità, non lasci l'anima l'orazione; tempo verrà che tutto le sarà pagato molto bene». In tale stato di pena, dee la persona umiliarsi, pensando che così merita di esser trattata per le offese fatte a Dio: umiliarsi e rassegnarsi tutta nel divino volere, dicendo: «Eccomi, Signore, se volete farmi star così desolata e afflitta per tutta la mia vita, e se volete anche per tutta l'eternità, datemi la grazia vostra, fate ch'io vi ami, e poi fate di me quel che vi piace».
26. E vi sarà inutile allora, e forse di maggior inquietudine, il voler accertarvi che stiate in grazia di Dio e che quella sia pruova non già abbandono di Dio, perchè Dio allora non vuole che lo conosciate; e non vuole per vostro maggior profitto, acciocchè più vi umiliate, ed accresciate le preghiere e gli atti di confidenza nella sua misericordia. Voi volete vedere, e Dio non vuole che vedete. Per altro dice S. Francesco di Sales: «La risoluzione di non consentire a niun peccato, anche minimo, ci assicura che stiamo in grazia di Dio». — Ma quando l'anima si ritrova in una profonda desolazione, ciò neppure lo conosce chiaramente; ma non dee ella pretendere in tale stato di sentire quel che vuole, basta che lo voglia colla punta della sua volontà. E così dee abbandonarsi tutta nelle braccia della divina bontà. Oh quanto innamorano Dio questi atti di confidenza e di rassegnazione in mezzo alle tenebre della desolazione! Ah fidiamoci pure di un Dio che, come dice S. Teresa, ci ama più che noi amiamo noi stessi.
27. Si consolino pertanto queste anime care a Dio che stanno risolute di esser tutte sue e si vedono prive nello stesso tempo di ogni consolazione. La loro desolazione è segno che sono molto amate da Dio, e ch'egli lor tiene apparecchiato il luogo in paradiso ove le consolazioni son piene ed eterne. E tengano per certo che quanto più saranno state afflitte in questa terra, tanto più saran consolate nel regno de' beati: Secundum multitudinem dolorum meorum in corde meo, consolationes tuae laetificaverunt animam meam (Ps. XCIII, 19).
Per consolazione delle anime desolate voglio qui soggiungere quel che si narra nella vita della madre S. Giovanna di Chantal, la quale per lo spazio di 41 anni fu afflitta da terribili pene interne, di tentazioni, di timori di stare in disgrazia di Dio, ed anche di essere abbandonata da Dio. Erano sì continue e sì grandi le sue afflizioni che giungeva a dire che il solo pensiero della morte le dava qualche sollievo. Dicea di più: «Son tanto furiosi gli assalti, che non so dove ricoverare il povero mio spirito. Mi sembra talvolta che già se ne fugga la pazienza, ed io stia in atto di perdere e lasciare ogni cosa». Dicea di più: «Il tiranno della tentazione è sì crudele, che ogni ora del giorno io la cangerei colla perdita della vita. E talvolta perdo l'uso del mangiare e del dormire».
28. Negli ultimi otto o nove anni di sua vita le sue tentazioni furono assai più fiere. La madre di Scatel dicea che la sua santa madre di Chantal pativa giorno e notte un continuo martirio interno, quando faceva orazione, quando lavorava ed anche quando riposava; ond'ella ne avea un'estrema compassione. Era la santa combattuta contra tutte le virtù, eccettuata la castità, con sollevamenti di dubbi, di tenebre e di ripugnanze. Talvolta Iddio la privava de' suoi lumi, e le compariva sdegnato, come in atto di scacciarla da sè: in modo ch'ella per lo spavento volgeva lo sguardo altrove per trovar sollievo; ma, non trovandolo, era astretta di ritornare a guardare Iddio e ad abbandonarsi nella sua misericordia. Le parea che all'empito delle tentazioni stesse per cadere ogni momento. L'assistenza divina non già l'abbandonava, ma a lei sembrava che Dio già abbandonata l'avesse, non sentendo più alcuna soddisfazione, ma solo tedi ed angosce, nell'orazione, nella lettura de' libri divoti, nella comunione ed in tutti gli altri esercizi spirituali. La sua guida in tale stato di derelizione non era altro che mirar il suo Dio e lasciarlo fare.
29. Diceva la santa: «In tutti i miei abbandonamenti la mia via semplice mi è una nuova croce, e la mia impotenza di operare mi è un nuovo accrescimento di croce». E perciò dicea parerle esser ella come un infermo oppresso da' dolori, impotente a voltarsi da un lato all'altro, muto che non può spiegare i suoi mali, e cieco che non vede se quelli che gli vengono davanti gli rechino medicina o veleno. Indi piangendo dirottamente soggiungeva: «Mi pare di esser senza fede, senza speranza e senza amore verso il mio Dio». Frattanto non però la santa conservava il volto sereno, era dolce nel conversare, e continuamente tenea lo sguardo fisso in Dio, riposando nel seno della divina volontà. Onde scrisse di lei S. Francesco di Sales suo direttore e che ben conoscea quanto fosse diletta a Dio la di lei bell'anima: «Era il di lei cuore come un musico sordo, che sebbene eccellentemente cantasse, non potea ritrarne alcun piacere». Ed a lei stessa poi scrisse: «Voi dovete servire il vostro Salvatore solo per amore della sua volontà, colla privazione d'ogni consolazione, e con questi diluvi di tristezza e di spaventi». Così si fanno i santi:
Scalpri salubris ictibus,
Et tunsione plurima,
Fabri polita malleo
Hanc saxa molem construunt,
Aptisque iuncta nexibus,
Locantur in fastigio.
I santi già sono queste pietre elette, come canta la Chiesa, che lavorate a colpi di scalpello, cioè colle tentazioni, co' timori, colle tenebre, e con altre pene interne ed esterne, si rendono atte ad esser poi collocate ne' troni del regno beato del paradiso.
Affetti e preghiere.
Gesù, speranza mia, amor mio ed unico amore dell'anima mia, io non merito le vostre consolazioni e dolcezze: riserbatele queste alle anime innocenti che sempre vi hanno amato. Io peccatore non le merito nè ve le domando; quel che solo vi cerco: fate ch'io v'ami, fate ch'io adempia la vostra volontà in tutta la mia vita, e poi disponete di me come vi piace.
Povero me! altre tenebre, altri spaventi, altri abbandoni a me toccherebbero per le ingiurie che vi ho fatte: mi toccherebbe l'inferno, ove, stando per sempre separato da voi e da voi affatto abbandonato, dovrei piangere eternamente senza potervi più amare. No, Gesù mio, ogni pena accetto, ma non questa. Voi meritate un amore infinito; voi troppo mi avete obbligato ad amarvi; no, non mi fido di vivere e non amarvi.
Io v'amo, sommo mio bene, v'amo con tutto il mio cuore, v'amo più di me stesso, v'amo e non voglio altro che amarvi.
Vedo già che questa mia buona volontà è tutto dono della vostra grazia; ma, Signor mio, compite l'opera, assistetemi sempre sino alla morte, non mi lasciate in mano mia, datemi forza di superar le tentazioni e di vincer me stesso, e perciò fate che sempre a voi mi raccomandi.
Io voglio esser tutto vostro, vi dono il mio corpo, l'anima mia, la mia volontà, la mia libertà; non voglio vivere più a me, ma solo a voi, mio Creatore, mio Redentore, mio amore, mio tutto: Deus meus et omnia. Io voglio farmi santo e da voi lo spero.
Affliggetemi come volete, privatemi di tutto, basta che non mi private della vostra grazia e del vostro amore.
O speranza dei peccatori Maria, voi siete così potente con Dio, io molto confido nella vostra intercessione; vi prego per l'amore che portate a Gesù Cristo, aiutatemi e fatemi santo.
Addio, creature, contento vi lascio:
Più vostro non sono, nè sono più mio:
Da tutto già sciolto, io son del mio Dio.
Sì, tutto son tuo, mio caro Gesù;
Amato mio bene, accettami tu.
Amabil Signore, deh prenda il possesso
Di tutto me stesso il santo tuo amore:
Ei regni e governi in questo mio core
Che un tempo infelice ribelle a te fu.
Amabil Signore, possedimi tu.
O amore divino che rendi beate
Con fiamme celesti quell'alme che accendi,
Tu vieni al mio core, e degno tu 'l rendi
Del tuo puro ardore infiammami su,
O amore divino, consumami tu.

CAPITOLO XVI: Caritas omnia sperat. Chi ama Gesù Cristo spera tutto da Gesù Cristo.



CAPITOLO XVI
Caritas omnia sperat.
Chi ama Gesù Cristo
spera tutto da Gesù Cristo.


1. La speranza fa crescere la carità, e la carità fa crescere la speranza. Certamente la speranza nella divina bontà fa crescere l'amore verso Gesù Cristo. Scrive S. Tommaso che nello stesso tempo che noi speriamo qualche bene da alcuno, cominciamo ancora ad amarlo: Ex hoc enim quod per aliquem speravimus nobis posse provenire bona, movemur in ipsum sicut bonum nostrum et sic incipimus ipsum amare (S. Thom. 2. 2. q. 40. a. 7). Perciò il Signore non vuole che mettiamo confidenza nelle creature: Nolite confidere in principibus (Ps. CXLV, 2); e maledice chi confida nell'uomo: Maledictus homo qui confidit in homine (Ier. XVII, 5). Non vuole Dio che confidiamo nelle creature, perchè non vuole che noi mettiamo in esse il nostro amore. Quindi S. Vincenzo de' Paoli dicea: «Avvertiamo di non molto fondarci sulla protezione degli uomini, perchè il Signore quando ci vede appoggiati ad essi si ritira da noi. All'incontro quanto più noi confidiamo in Dio, tanto più ci avanziamo in amarlo». Viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum (Ps. CXVIII, 32).
Oh come corre nella via della perfezione colui che ha il cuor dilatato dalla confidenza in Dio! Non solo corre, ma vola, perchè, avendo riposta tutta la sua speranza nel Signore, lascierà di esser debole qual era e diventerà forte colla fortezza di Dio che vien comunicata a tutti coloro che in Dio confidano. Qui confidunt in Domino mutabunt fortitudinem, assument pennas ut aquilae, current et non laborabunt, ambulabunt et non deficient (Is. XL, 31). L'aquila volando in alto più si avvicina al sole; e così l'anima, confortata dalla confidenza, si stacca dalla terra e più si unisce a Dio coll'amore.

2. Or siccome la speranza giova ad aumentar l'amore verso Dio, così l'amore aumenta la speranza; poichè la carità ci rende figli di Dio adottivi. Nell'ordine naturale noi siamo fatture delle sue mani, ma nell'ordine sovrannaturale, per li meriti di Gesù Cristo, noi siam fatti figliuoli di Dio e partecipi della natura divina, come scrive S. Pietro: Ut... efficiamini divinae consortes naturae (II Pet. I, 4). E se la carità ci rende figliuoli di Dio, per conseguenza ci rende ancora eredi del paradiso, come parla S. Paolo: Si autem filii, et heredes (Rom. VIII, 17). Or a' figliuoli tocca l'abitare in casa del padre, agli eredi tocca l'eredità, e perciò la carità fa crescere la speranza del paradiso; onde l'anime amanti non lasciano di continuamente esclamare a Dio: Adveniat, adveniat regnum tuum.


3. In oltre Dio ama chi l'ama: Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17); e colma di grazie chi con amore lo cerca: Bonus est Dominus... animae quaerenti illum (Theren. III, 25). Onde per conseguenza chi più ama Dio, più spera nella sua bontà. E da tal confidenza nasce ne' santi quella inalterabile tranquillità che gli fa stare sempre lieti ed in pace anche in mezzo alle avversità; perchè, amando essi Gesù Cristo e sapendo quanto egli è liberale de' suoi doni con chi l'ama, in lui solo confidano e trovano riposo. Questa è la ragione per cui la sagra sposa abbondava di delizie, perchè, non amando ella altri che il suo diletto, solo a lui si appoggiava; e sapendo quanto egli è grato con chi l'ama, stava tutta contenta: onde di lei fu scritto: Quae est ista quae ascendit de deserto deliciis affluens, innixa super dilectum suum? (Cant. VIII, 5). Troppo è vero quel che diceva il Savio: Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa (Sap. VII, 11): insieme colla carità viene all'anima ogni bene.


4. L'oggetto primario della speranza cristiana è Dio che dall'anime si gode nel regno beato. Ma non crediamo che la speranza di godere Dio nel paradiso sia di ostacolo alla carità; poichè la speranza del paradiso è inseparabilmente annessa alla carità, la quale nel paradiso si perfeziona e trova il suo pieno compimento. La carità è quel tesoro infinito, come dice il Savio, che ci rende amici di Dio: Infinitus enim thesaurus est hominibus quo qui usi sunt participes facti sunt amicitiae Dei (Sap. VII, 14). — Scrive S. Tommaso l'Angelico (2. 2. q. 65, a. 5) che l'amicizia ha per fondamento la comunicazione de' beni, perchè non essendo altro l'amicizia che un amor reciproco tra gli amici, è necessario ch'essi reciprocamente si faccian del bene quanto a ciascuno conviene. Onde dice il santo: Si nulla esset communicatio, nulla esset amicitia. Che perciò disse Gesù Cristo a' suoi discepoli: Vos autem dixi amicos, quia omnia quaecumque audivi a Patre meo nota feci vobis (Io. XV, 15). Perchè gli avea fatti suoi amici, avea lor comunicati tutti i suoi segreti.


5. Dice S. Francesco di Sales: «Che se per impossibile vi fosse una bontà infinita, cioè un Dio, a cui non appartenessimo in alcun modo e con cui non potessimo avere alcuna unione e comunicazione, noi certamente la stimeremmo più di noi stessi; onde potremmo aver desideri di poterla amare, ma non l'ameremmo, perchè l'amore riguarda l'unione; mentre la carità è un'amicizia, e l'amicizia ha per fondamento la comunicazione e per fine l'unione». Per tanto insegna S. Tommaso che la carità non esclude il desiderio della mercede che Iddio ci prepara nel cielo, ma anzi ce la fa riguardare come principale oggetto del nostro amore, quale è Dio che da' beati si fa godere; poichè l'amicizia importa che l'amico goda scambievolmente dell'altro: Amicorum est, quod quaerant invicem perfrui; sed nihil aliud est merces nostra quam perfrui Deo videndo ipsum: ergo caritas non solum non excludit, sed etiam facit habere oculum ad mercedem (S. Thom. in III Sen. Dist. 29. q. 1. a. 4).


6. E questa è quella scambievol comunicazione di doni della quale parlava la sposa de' Cantici: Dilectus meus mihi et ego illi (Cant. II, 16). L'anima in cielo si dà tutta a Dio, e Dio si dà tutto all'anima per quanto ella n'è capace, secondo la misura dei suoi meriti. Ma conoscendo l'anima il suo niente a rispetto dell'infinita amabilità di Dio, e per conseguenza vedendo che Iddio ha un merito infinitamente maggiore di essere amato che non è il merito suo di essere amata da Dio, desidera ella più il gusto di Dio che il suo godimento; e perciò più gioisce in darsi ella tutta a Dio per compiacerlo, che in darsi Dio tutto a lei; ed in tanto si compiace che Dio tutto a lei si dona, in quanto ciò l'infiamma a darsi tutta a Dio con amore più intenso. Gode già della gloria che Dio le comunica, ma ne gode per riferirla allo stesso Dio e così accrescergli gloria per quanto ella può. In cielo l'anima, in veder Dio, non può non amarlo con tutte le forze: all'incontro Iddio non può odiare chi l'ama; ma se per impossibile potesse Dio odiare un'anima che l'ama, e l'anima beata potesse vivere senza amare Dio, più presto ella si contenterebbe di patire tutte le pene dell'inferno, purchè le fosse concesso di amare Dio quantunque Dio l'odiasse, che vivere senza amare Dio, ancorchè potesse godere tutte le altre delizie del paradiso. Sì, perchè l'anima, conoscendo che Dio merita d'essere amato infinitamente più di lei, desidera molto più di amare Dio che di essere amata da Dio.


7. Caritas omnia sperat. La speranza cristiana, come insegna S. Tommaso col Maestro delle sentenze, si definisce un'aspettazione certa della felicità eterna: Spes est expectatio certa beatitudinis. E la certezza nasce dall'infallibil promessa di Dio di dar la vita eterna a' servi fedeli. Or la carità, siccome toglie il peccato, così toglie insieme l'impedimento a conseguir la beatitudine; e perciò la carità quanto è più grande, ella rende più grande e ferma la nostra speranza; la quale all'incontro certamente non può esser di ostacolo alla purità dell'amore, perchè l'amore, come dice S. Dionigi l'Areopagita, naturalmente tende all'unione dell'oggetto amato. Anzi, come dice S. Agostino, lo stesso amore è come un laccio d'oro che unisce insieme i cuori dell'amante e dell'amato: Amor est quasi iunctura quaedam duo copulans. E perchè quest'unione non può farsi da lontano, perciò chi ama desidera sempre la presenza dell'amato. La sagra sposa stando lontana dal suo diletto languiva, e pregava le sue compagne che gli facessero intendere la sua pena, acciocch'egli venisse a consolarla colla sua presenza: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis dilectum meum, ut nuncietis ei quia amore langueo (Cant. V, 8). Un'anima che ama assai Gesù Cristo non può, vivendo in questa terra, non desiderare e sperare di presto andar al cielo ad unirsi col suo amato Signore.


8. Sicchè il desiderare di andare a veder Dio nel cielo, non tanto per lo contento nostro che ivi proveremo in amare Dio, quanto per lo contento che daremo a Dio in amarlo, è puro e perfetto amore. Nè il gaudio che si prova da' beati in cielo in amare Dio osta alla purità del loro amore; un tal gaudio è inseparabile dall'amore; ma i beati si compiacciono principalmente assai più dell'amore ch'essi portano a Dio, che del gaudio che provano in amarlo. — Dirà taluno: Ma il desiderar la mercede è amor di concupiscenza, non già d'amicizia. Ma bisogna distinguere le mercedi temporali promesse dagli uomini, dalla mercede del paradiso promessa da Dio a chi l'ama. Le mercedi che danno gli uomini son distinte dalle loro persone, poichè gli uomini, nel rimunerare gli altri, non danno già se stessi, ma solamente i loro beni; la principal mercede all'incontro che Dio dà a' beati è il dar loro se stesso: Ego... merces tua magna nimis (Gen. XV, 1); onde è lo stesso desiderar il paradiso che desiderar Dio, il quale è l'ultimo nostro fine.


9. Voglio qui proponere un dubbio che facilmente può venire in mente di un'anima che ama Dio e che cerca di uniformarsi in tutto a' suoi santi voleri. Se mai a costei fosse rivelata la sua dannazione eterna, è obbligata ella ad accettarla per uniformarsi alla volontà di Dio? No, insegna S. Tommaso: anzi dice che pecca se vi acconsente, perchè acconsentirebbe a vivere in uno stato che va unito col peccato ed è contrario al suo ultimo fine datogli da Dio, il quale non crea l'anime per l'inferno, ove l'odiano, ma per lo paradiso ove l'amano: e perciò egli non vuole la morte neppure del peccatore, ma vuol che tutti si convertano e si salvino. Dice il S. Dottore che il Signore non vuole alcuno dannato se non per lo peccato; e per tanto se uno acconsentisse alla sua dannazione, non già si uniformerebbe alla volontà di Dio, ma alla volontà del peccato. Unde velle suam damnationem absolute non esset conformare suam voluntatem voluntati divinae, sed voluntati peccati (S. Thom., De verit. q. 3. a. 8). — Ma se Dio, prevedendo già il peccato di alcuno, avesse fatto il decreto della sua dannazione, ed un tal decreto fosse a lui rivelato, è tenuto egli ad acconsentirvi? Neppure, dice l'Angelico nel luogo citato; poichè dovrebbe intender quella rivelazione non come decreto irrevocabile, ma fatto per modum comminationis, come minaccia se egli persiste nel peccato.



10. Ma ognuno procuri di scacciar dalla mente pensieri così funesti che non servono ad altro che a raffreddare la confidenza e l'amore. Amiamo Gesù Cristo quanto possiamo quaggiù, sospiriamo ogni momento di andarlo a vedere in paradiso per amarlo ivi perfettamente; e questo sia il principale oggetto di tutte le nostre speranze, l'andare ivi ad amarlo con tutte le nostre forze. Abbiamo sì bene anche in questa vita il precetto di amare Dio con tutte le forze: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex omnibus viribus tuis etc. (Luc. X, 27), ma dice l'Angelico che questo precetto non può dagli uomini perfettamente adempirsi in questa terra. Solamente Gesù Cristo che fu uomo e Dio, e Maria SS. che fu piena di grazia e libera dalla colpa originale, perfettamente l'adempirono; ma noi, miseri figli di Adamo infetti dalla colpa, non possiamo amar Dio senza qualche imperfezione, e solo in cielo, allorchè vedremo Dio da faccia a faccia, l'ameremo, anzi saremo necessitati ad amarlo con tutte le forze.



11. Ecco dunque lo scopo ove han da tendere i nostri desideri, tutti i sospiri, tutti i pensieri e tutte le nostre speranze, di andare a goder Dio in paradiso per amarlo con tutte le forze e godere del godimento di Dio. Godono sì i beati della loro felicità in quel regno di delizie, ma il lor godimento principale, che assorbisce tutti gli altri diletti, sarà quello di conoscere la felicità infinita che gode il loro amato Signore, mentre essi amano Dio immensamente più che se stessi. Ogni beato, per l'amore che porta a Dio, si contenterebbe di perdere tutti i suoi godimenti e di patire ogni pena, purchè non mancasse a Dio, se mai potesse mancare, una minima particella della felicità che gode. Onde, vedendo che Dio è infinitamente felice nè mai la sua felicità può mancare in eterno, questo è tutto il suo paradiso. Così s'intende quel che dice il Signore ad ogni anima nel possesso che le dà della gloria: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Non già il gaudio entra nel beato, ma il beato entra nel gaudio di Dio, mentre il gaudio di Dio è l'oggetto del gaudio del beato. Sicchè il bene di Dio sarà il bene del beato, la ricchezza di Dio sarà la ricchezza del beato, e la felicità di Dio sarà la felicità del beato.



12. Subito che un'anima entra in cielo e vede alla scoperta col lume della gloria l'infinita bellezza di Dio, si troverà tutta presa e consumata dall'amore. Allora avviene che il beato resta felicemente perduto e sommerso in quel mare infinito della divina bontà. Allora si dimentica di se stesso, ed inebriato dell'amore di Dio, non pensa ad altro che ad amare il suo Dio: Inebriabuntur ab ubertate domus tuae (Ps. XXXV, 9). Gli ubbriachi non pensano più a sè, e così l'anima beata non pensa che ad amare ed a compiacere l'amato: desidera di possederlo tutto, e già tutto lo possiede senza timore di poterlo più perdere; desidera di darsegli tutta per amore ogni momento, e già l'ottiene poichè in ogni momento si dà tutta a Dio senza riserba: e Dio con amore l'abbraccia, e così abbracciata la tiene e la terrà per tutta l'eternità.


13. Sicchè in cielo l'anima sta unita tutta a Dio e l'ama con tutte le sue forze, con un amor consumato e compito, il quale sebbene è finito, perchè la creatura non è capace di amore infinito, nondimeno è tale che la rende appieno contenta e sazia, sì ch'ella niente più desidera. Iddio all'incontro si comunica e si unisce tutto all'anima, riempiendola di se stesso, per quanto ella n'è capace secondo i suoi meriti; e si unisce a lei, non già per mezzo de' soli suoi doni, lumi ed attratti amorosi, come fa con noi in questa vita, ma colla sua medesima essenza. Siccome il fuoco penetra un ferro e par che tutto in sè lo converta, così Dio penetra l'anima e di sè la riempie; ond'ella benchè non perda il suo essere, non però viene ad essere talmente ripiena ed assorbita in quel mare immenso della sostanza divina, che resta come annientata e più non fosse. Questa era la sorte felice che implorava l'Apostolo a' suoi discepoli: Ut impleamini in omnem plenitudinem Dei (Eph. III, 19).


14. E questo è l'ultimo fine che il Signore per sua bontà ci ha dato a conseguire nell'altra vita. Onde finchè l'anima non giunge ad unirsi con Dio in cielo ove si fa l'unione perfetta, non può avere qui in terra il suo pieno riposo. È vero che gli amanti di Gesù Cristo nell'uniformarsi alla divina volontà trovano la loro pace; ma non possono trovare in questa vita il lor pieno riposo, perchè questo si ottiene coll'ottenere l'ultimo fine, qual è di vedere Dio da faccia a faccia ed esser consumati dall'amor divino; e fintanto che l'anima non conseguisce tal fine, sta inquieta e geme, e sospirando dice: Ecce in pace amaritudo mea amarissima (Is. XXXVIII, 17).


15. Sì, mio Dio, io vivo in pace in questa valle di lagrime, perchè questa è la vostra volontà, ma non posso non provare un'inesplicabile amarezza vedendomi da voi lontano e non ancor perfettamente unito con voi che siete il mio centro, il mio tutto e 'l pieno mio riposo.
E perciò i santi benchè ardessero d'amore verso Dio in questa terra pure non faceano che sospirare il paradiso. Davide esclamava: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est! (Ps. CXIX, 5). Satiabor cum apparuerit gloria tua (Ps. XVI, 15). S. Paolo dicea di sè: Desiderium habens... esse cum Christo (Phil. I, 23). S. Francesco d'Assisi dicea: «Tanto è grande il ben che aspetto, che ogni pena mi è diletto». Questi erano tutti atti di carità perfetta. — Insegna l'Angelico che il grado più alto di carità a cui può ascendere un'anima in questa vita è il desiderare intensamente di andare ad unirsi con Dio ed a goderlo in cielo: Tertium autem studium est, ut homo ad hoc principaliter intendat, ut Deo inhaereat et eo fruatur, et hoc pertinet ad perfectos qui cupiunt dissolvi et esse cum Christo (S. Thom. 2. 2. q. 24. a. 9). Ma questo godere di Dio in cielo, come abbiam detto, non tanto consiste nel ricevere l'anima il godimento che ivi Iddio le dona, quanto nel godere del godimento di Dio, amato dall'anima assai più che se stessa.


16. La maggior pena delle anime sante del purgatorio è il desiderio che hanno di possedere Dio che non ancora possedono. E questa pena specialmente affliggerà quelle anime che poco in vita han desiderato il paradiso. Anzi dice il cardinal Bellarmino (Lib. II. De Purgat. c. 7) che nel purgatorio vi è un certo carcere detto carcer honoratus, ove alcune anime non patiscono alcuna pena di senso, ma solamente la privazione della vista di Dio. Di ciò ne riferiscono più esempi S. Gregorio, il Ven. Beda, S. Vincenzo Ferrerio e S. Brigida. E questa pena si dà non per li peccati commessi, ma per la freddezza nel desiderare il paradiso. Molte anime aspirano alla perfezione, e poi sono troppo indifferenti all'andare a veder Dio o al seguire a vivere in questa terra. Ma la vita eterna è un bene troppo grande che Gesù Cristo ci ha meritato colla sua morte, ond'egli castiga poi quelle anime che poco l'han desiderato nella lor vita.


Affetti e preghiere.

O Dio, mio Creatore e mio Redentore, voi mi avete creato per lo paradiso, mi avete redento dall'inferno per condurmi in paradiso, ed io tante volte con offendervi vi ho rinunziato in faccia il paradiso, e mi son contentato di vedermi condannato all'inferno! Ma sia sempre benedetta la vostra misericordia infinita che perdonandomi, come spero, tante volte mi ha cacciato dall'inferno. Ah, Gesù mio, non vi avessi mai offeso! oh vi avessi sempre amato! Mi consolo che ancora mi resta tempo di farlo.
V'amo, o amore dell'anima mia, v'amo con tutto il mio cuore, v'amo più di me stesso.
Vedo che voi mi volete salvo, acciocch'io v'ami per tutta l'eternità in quel regno di amore. Vi ringrazio, e vi prego ad assistermi nella vita che mi resta, nella quale voglio amarvi assai per amarvi assai poi in eterno.
Ah Gesù mio, quando sarà quel giorno ch'io mi vedrò libero dal pericolo di potervi più perdere, e consumato dall'amore verso di voi in vedere alla scoverta la vostra infinita bellezza, sì ch'io sarò necessitato ad amarvi? Oh dolce necessità! oh felice, oh amata, oh desiderata necessità, che mi esimerà da ogni timore di darvi disgusto e mi costringerà ad amarvi con tutte le mie forze!
La mia coscienza mi spaventa, e mi dice: Come tu puoi pretendere il paradiso? Ma i meriti vostri, caro mio Redentore, sono la speranza mia.
O regina del paradiso Maria, la vostra intercessione è onnipotente appresso Dio, in voi confido.

CAPITOLO XV Caritas omnia credit. Chi ama Gesù Cristo crede a tutte le sue parole.




CAPITOLO XV

Caritas omnia credit.
Chi ama Gesù Cristo
crede a tutte le sue parole.


1. Una persona che ama dà fede a tutto quel che dice l'amato; e perciò quanto è più grande l'amore di un'anima verso Gesù Cristo, tanto è più ferma e viva la sua fede. Il buon ladrone vedendo il nostro Redentore che stava sulla croce morendo senza aver fatto male, e pativa con tanta pazienza, cominciò ad amarlo; onde preso da questo amore ed illuminato poi dalla divina luce, credè esser egli veramente il Figlio di Dio, e quindi lo pregò a ricordarsi di lui quando fosse giunto al suo regno.
2. La fede è il fondamento della carità, sovra cui la carità sta fondata, ma la carità poi è quella che perfeziona la fede. Chi più perfettamente ama Dio più perfettamente crede. La carità fa che l'uomo creda non solo coll'intelletto, ma ancora colla volontà. Quei che credono col solo intelletto, ma non colla volontà, come sono i peccatori i quali conoscono esser troppo vere le verità della fede ma poi non vogliono vivere secondo i divini precetti, essi hanno una fede molto debole; poichè se avessero una fede viva, credendo che la divina grazia è un bene maggior d'ogni bene e che il peccato è un male maggior d'ogni male, mentre ci priva della grazia divina, certamente muterebbero vita. Se dunque preferiscono a Dio i miseri beni di questa terra è perchè o non credono o molto debolmente credono. Chi all'incontro crede non solo coll'intelletto, ma ancora colla volontà, in modo che non solo crede ma vuol credere a Dio rivelante per l'amore che gli porta, e gode nel credere, costui perfettamente crede, e quindi cerca di conformar la sua vita alle verità che crede.
3. La mancanza nonperò della fede in coloro che vivono in peccato non nasce già dall'oscurità della fede, poichè sebbene le cose della fede ha voluto Dio che fossero a noi oscure e nascoste, acciocchè acquistassimo merito nel crederle, nondimeno la verità della fede si è renduta a noi così evidente da' contrassegni che ce la manifestano, che il non crederla non solo sarebbe imprudenza, ma empietà e pazzia. Nasce dunque la debolezza della fede di molti da' loro mali costumi. Chi disprezza la divina amicizia per non privarsi de' piaceri proibiti vorrebbe che non ci fosse legge che gli proibisse nè castigo per chi pecca, e perciò procura di sfuggire la vista delle verità eterne, della morte, del giudizio, dell'inferno, della divina giustizia; e perchè questi oggetti troppo lo spaventano ed amareggiano i suoi diletti, giunge perciò ad assottigliarsi il cervello per trovar ragioni almeno verisimili, con cui possa persuadersi o lusingarsi che non vi sia nè anima nè Dio nè inferno, affin di vivere e morire come le bestie che non hanno nè legge nè ragione.
4. E questa è la fonte, cioè la rilassatezza de' costumi, dalla quale poi son nati e tutto dì escono tanti libri e sistemi di materialisti, indifferentisti, politichisti, deisti e naturalisti; altri de' quali negano la divina esistenza, altri negano la divina provvidenza, dicendo che Dio dopo aver creati gli uomini non si prende più alcuna cura di loro, se l'amano o l'offendono, se si salvano o si perdono; altri negano la divina bontà, dicendo che Dio molte anime l'ha create per l'inferno inducendole egli stesso a peccare, affinchè si dannino e vadano a maledirlo per sempre nel fuoco eterno.
5. Oh ingratitudine e malvagità degli uomini! Un Dio gli ha creati per sua misericordia affin di renderli eternamente beati nel cielo; gli ha colmati di tanti lumi, di benefici e grazie, acciocchè si acquistassero la vita eterna; per lo stesso fine gli ha redenti con tanti dolori e con tanto amore; ed eglino si affaticano di non credere a niente per vivere ne' vizi a loro voglia! Ma no, che per quante fatiche faranno non potranno mai i miseri liberarsi dal rimorso della mala coscienza e dal timore della divina vendetta.
Di questa materia ultimamente diedi alle stampe un'opera intitolata La verità della Fede, nella quale dimostrai con chiarezza l'insussistenza di tutti i sistemi di quest'increduli moderni. — Oh, se essi lasciassero i vizi e si applicassero ad amar Gesù Cristo, certamente che non metterebbero più in dubbio le cose della fede e crederebbero fermamente a tutte le verità da Dio rivelate!
6. Chi ama Gesù Cristo di cuore tiene sempre avanti gli occhi le massime eterne, e secondo quelle dirige le sue operazioni. Chi ama Gesù Cristo, oh come bene intende quel detto del Savio: Vanitas vanitatum et omnia vanitas (Eccl. I, 2), che ogni grandezza terrena è fumo, loto ed inganno; che l'unico bene e felicità di un'anima consiste in amare il suo creatore e adempir la di lui volontà; che tanto noi siamo quanto siamo avanti a Dio; che non serve guadagnar tutto il mondo se l'anima si perde; che tutti i beni della terra non possono contentare il cuore dell'uomo, ma solo Dio lo contenta; in somma che bisogna lasciar tutto per acquistare il tutto.
7. Caritas omnia credit. Alcuni altri cristiani poi non sono così perversi, come quelli che abbiam nominati, i quali vorrebbero non credere a niente per vivere ne' vizi con maggior libertà e senza rimorso; alcuni altri, dico, credono, ma hanno una fede languida; credono i sagrosanti misteri, credono le verità rivelate negli Evangeli, la Trinità, la Redenzione, i sagramenti, ed altre; ma non le credono tutte. — Gesù Cristo ha detto: Beati i poveri; Beati i tribulati; Beati quei che si mortificano; Beati quei che sono perseguitati, mormorati e maledetti dagli uomini: Beati pauperes (Luc. VI, 20); Beati qui lugent (Matth. V, 5); Beati qui esuriunt (Ibid. 6); Beati qui persecutionem patiuntur (Ibid. 10); Beati estis cum maledixerint vobis,... et dixerint omne malum adversum vos (Ibid. 11). Così parla Gesù Cristo negli Evangeli. Ma come può dirsi poi che credono agli Evangeli coloro che dicono: Beato chi ha denari? Beato chi non patisce? Beato chi si piglia spasso? Povero chi è perseguitato e maltrattato dagli altri? Di costoro si ha da dire che o non credono agli Evangeli o che vi credono in parte. — Chi vi crede in tutto, stima sua fortuna e favore divino in questo mondo l'esser povero, l'essere infermo, l'esser mortificato, l'esser disprezzato e maltrattato dagli uomini. Così crede, e così dice chi crede tutto quel che si dice negli Evangeli, ed ha vero amore a Gesù Cristo.
Affetti e preghiere.
Amato mio Redentore, o vita dell'anima mia, io credo che voi siete l'unico bene degno d'essere amato. Credo che voi siete il più grande amante dell'anima mia, mentre sol per amore siete giunto a morire consumato da' dolori per amor mio. Credo che in questa vita e nell'altra non vi è maggior fortuna che l'amarvi e far la vostra volontà. Tutto io lo credo fermamente, e perciò rinunzio a tutto per esser tutto vostro e possedere non altro che voi. Per li meriti della vostra Passione aiutatemi e rendetemi qual voi mi volete.
Verità infallibile, in voi credo: misericordia infinita, in voi confido: infinita bontà, io v'amo: amore infinito che tutto a me vi siete donato nella vostra Passione e nel Sagramento dell'altare, tutto a voi mi dono.
E mi raccomando a voi, o rifugio de' peccatori e madre di Dio Maria.