sabato 31 dicembre 2011

I vescovi che disobbediscono al papa non pretendano d’essere poi obbediti da clero e fedeli.

MESSA ANTICA: MASSA DI GIOVANI
Don Nicola Bux, una chiacchierata nella sua Puglia




I vescovi che disobbediscono al papa non pretendano d’essere poi obbediti da clero e fedeli. Negli episcopati: un gallicanesimo strisciante che si crede autosufficiente. La riforma litugica: non era una delle impellenze volute dal concilio. L’esclusivismo di chi si professa ecumenico.

a cura di Francesco Mastromatteo

Una inarrestabile crescita di consensi, specie presso i giovani. Non ha dubbi don Nicola Bux circa l’avanzata della Tradizione cattolica soprattutto tra le giovani generazioni in seguito al Motu Proprio con cui Benedetto XVI ha “liberalizzato” il rito antico ormai quattro anni fa. Abbiamo chiesto a don Nicola, professore dell’università Lateranense, insigne teologo e studioso di liturgia molto vicino a Papa Ratzinger, un bilancio della situazione, dal punto di vista privilegiato di uno dei massimi cultori della materia liturgica. Lo abbiamo incontrato nel corso di un dibattito politico a margine del quale non ha lesinato critiche apertis verbis a un sottosegretario dell’attuale governo, la cui dichiarata fede cattolica e vicinanza ai movimenti pro-vita non ha impedito di votare un finanziamento a Radio Radicale, come del resto hanno fatto altri parlamentari cattolici.

Don Bux, persino l’inserto di un quotidiano non certo filo cattolico come Repubblica ha dovuto riservare un servizio alla diffusione della messa in latino secondo il Messale del 1962. Qualcosa sta cambiando?
Il bilancio è senz’altro positivo: c’è un crescendo di tale opportunità data dal Papa a tutta la Chiesa. Essa si è diffusa senza imposizioni, dopo che il Motu Proprio del 2007 ha aperto una breccia. Si è ormai fatta strada l’idea che il rito antico non è mai stato abolito, e che la riforma liturgica non era una delle necessità impellenti volute dal Concilio. L’ostilità verso la messa in latino era sostenuta attraverso tesi infondate, come quella per cui nei primi secoli il sacerdote celebrasse rivolto verso il popolo, mentre dopo avrebbe dato le spalle al popolo: espressione fasulla, visto che il sacerdote era rivolto verso il Signore.
Una Messa antica ma amata dai giovani: non è un paradosso?
Basta andare in giro come faccio io per celebrazioni e conferenze: non solo in Italia ma all’estero il rito antico si diffonde sempre più proprio tra i più giovani. A mio parere ciò è dovuto al fatto che i ragazzi si approcciano alla fede ricercando il senso del Mistero, e lo trovano in maniera evidente nella Messa celebrata in forma straordinaria. Il ritorno al rito tradizionale non è secondario per la fede: esso favorisce in una dimensione verticale l’incontro con Dio in un mondo contemporaneo in cui lo sguardo dell’uomo è ripiegato su se stesso e sulla dimensione materiale dell’esistenza. In questo senso ha favorito una sorta di “contagio” spirituale benefico.
Qualche mese fa la Pontificia Commissione Ecclesia Dei ha emanato un documento, l’istruzione sull’applicazione del Motu Proprio. C’è chi ha parlato di una sorta di richiamo ai vescovi a venire incontro alle richieste dei fedeli…
È una traduzione in indicazioni concrete del Motu Proprio. La media dei vescovi, che all’inizio erano perplessi, ora può cominciare a muoversi nella direzione giusta. Questa istruzione incoraggia i vescovi ad esaudire le richieste dei fedeli sensibili alla messa antica, che deve essere considerata da tutti una ricchezza della liturgia romana.
Non è un mistero che parecchi episcopati non abbiano apprezzato questa scelta, e cerchino in tutti i modi di ostacolarla, comportandosi da veri e propri ribelli verso il Papa…
Esiste senz’altro una forma di neogallicanesimo strisciante, per cui alcuni settori della Chiesa pensano di essere autosufficienti da Roma. Ma chi ragiona in questi termini non è cattolico. I vescovi che disobbediscono al Papa si mettono nelle condizioni di non essere a loro volta obbediti da parroci e fedeli.
Nella Chiesa si è sempre detto: lex orandi lex credendi. La liturgia è saldamente legata alla teologia. Papa Benedetto XVI ha fissato come bussola del suo Magistero la continuità con la Tradizione e un gesto forte è stato quello di togliere la scomunica ai lefebvriani. Cosa ne pensa?
Penso sia stato un gesto di grande carità. Rompere la comunione è facile, il difficile è ricucire, ma Cristo ha voluto che fossimo tutti una sola cosa e questo per noi deve essere un imperativo. L’opera meritoria del Papa evidenzia la sua grande pazienza, ma d’altronde se così non fosse assisteremmo ad un paradosso: mentre si postula tanto il dialogo con i non cattolici e addirittura con i non cristiani, come si può essere pregiudizialmente ostili all’idea di riunirsi con chi ha la stessa fede? Lo stesso Benedetto XVI in quell’occasione citò opportunamente la lettera di San Paolo ai Galati: “Se vi mordete e divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri”. Il dramma attuale della Chiesa è l’esclusivismo da parte di chi si professa ecumenico.
In questa occasione si parlava di politica e valori. “Questione morale” è un’espressione di cui molti esponenti di partito si riempiono la bocca…
Sento parlare molto in giro della necessità di “codici etici” per i partiti, ma di un’etica non meglio precisata. Può mai derivare dall’uomo la fonte di ciò che è bene o male? Bisognerebbe tornare ai Dieci Comandamenti, le uniche vere tavole etiche che derivano da Dio.

(foto del blog cattolico Portodimarebis di Taranto)

AVE MARIA!
AMDG

SANTA ELISABETTA CANORI MORA. Come visse quel Natale


Elisabetta Canori Mora nasce a Roma il 21 novembre 1774 da Tommaso e Teresa Primoli. La sua è una famiglia benestante, profondamente cristiana e attenta all’educazione dei figli. Il padre era importante proprietario terriero e gestiva molte tenute agricole, un gentiluomo vecchio stampo, amministrava senza avidità disdegnando il sopruso e la sopraffazione. I coniugi Canori hanno dodici figli, sei dei quali muoiono nei primi anni di vita. Quando nasce Elisabetta trova cinque fratelli maschi ed una sorella, Maria; dopo due anni arriva un’altra sorella, Benedetta. Nel giro di pochi anni, i cattivi raccolti, la moria di bestiame e l’insolvenza dei creditori, cambia la situazione economica e Tommaso Canori si trova costretto a ricorrere all’aiuto di un fratello che abita a Spoleto che si fa carico delle nipoti Elisabetta e Benedetta. Lo zio decide di affidare le nipoti alle Suore Agostiniane del monastero di S. Rita da Cascia, qui Elisabetta si distingue per ...
... intelligenza, profonda vita interiore e spirito di penitenza. Rientrata a Roma, conduce per alcuni anni vita brillante e mondana, facendosi notare per raffinatezza di tratto e bellezza. Elisabetta giudicherà questo periodo della sua vita un “tradimento”, anche se la sua coerenza morale non viene meno e la sua sensibilità religiosa è in qualche modo salvaguardata. Un alto prelato che conosce bene i problemi economici e le qualità spirituali della famiglia Canori, propone di far entrare Elisabetta e Benedetta nel monastero delle Oblate di S. Filippo, facendosi carico di tutte le spese. Benedetta accetta e si fa suora nel 1795, Elisabetta no, non se la sente di lasciare la famiglia in difficoltà.
Il 10 gennaio 1796 nella chiesa di Santa Maria in Campo Corleo, si celebra il matrimonio con Cristoforo Mora, ottimo giovane, colto, educato, religioso, ben avviato nella carriere di avvocato. Il matrimonio è una scelta maturata attentamente ma, dopo alcuni mesi, la fragilità psicologica di Cristoforo Mora compromette tutto. Allettato da una donna di modeste condizioni, tradisce la moglie e si estranea dalla famiglia, riducendola sul lastrico. Elisabetta alle violenze fisiche e psicologiche del marito risponde con una totale fedeltà.

La nascita delle figlie Marianna nel 1799 e Maria Lucina nel 1801 non migliora le cose. Costretta a guadagnarsi da vivere col lavoro delle proprie mani, segue con la massima attenzione le figlie e la cura quotidiana della casa, dedicando nello stesso tempo molto spazio alla preghiera, al servizio dei poveri e all’assistenza degli ammalati. La sua casa diventa punto di riferimento per molte persone che a lei si rivolgono per necessità materiali e spirituali. Svolge un’azione particolarmente attenta alle famiglie in difficoltà. Conosce ed approfondisce la spiritualità dei Trinitari e ne abbraccia l’ordine secolare, rispondendo con dedizione alla vocazione familiare e di consacrazione secolare. La fama della sua “santità”, l’eco delle sue esperienze mistiche e dei suoi “poteri taumaturgici” hanno grande risonanza particolarmente a Roma e nelle sue vicinanze.
Niente, però, incide sul suo stile di vita povero, improntato ad una grande umiltà e ad un generoso spirito di servizio ai poveri e ai lontani da Dio. Dona se stessa per la conversione del marito, per il Papa, la Chiesa e la sua città di Roma, dove muore il 5 febbraio 1825.
E’ sepolta nella Chiesa di San Carlino. Subito dopo la sua morte, il marito si converte, entra nell’Ordine dei Trinitari e diviene, poi frate Minore Conventuale e sacerdote, come gli aveva predetto la consorte. Elisabetta Canori Mora viene beatificata il 24 aprile 1994.
Riguardo al Natale la Beata scrive nel suo diario: “Mi distaccai dalle vanità, vinsi molti ostacoli che m’impedivano d’andare a Dio… Propongo di non desiderare niente che sia di mio profitto, ma di compiere in ogni istante della mia vita la santa volontà di Dio. Figlia mia diletta, offriti al mio celeste Padre a pro della Chiesa: ti prometto il mio aiuto…” (dall’autobiografia). “Una simile madre non si trova al mondo, e io sono indegno di esserle consorte” (il marito Cristoforo alle figlie).
Dal giorno 18 al giorno 24 dicembre 1814 il mio spirito l’ha passata in piangere i propri e gli altrui peccati; ma tratto tratto ero sopraffatta dalla carità di Gesù Cristo, che mi faceva languire di amore. La notte del santissimo Natale, circa le ore sette e mezza italiane, mi portai alla chiesa del santissimo Bambino Gesù, per assistere alle sacre funzioni di quella benedetta notte. Stetti in orazione circa sei ore e mezza, mi parve questo tempo molto breve.
Ecco come passai questo tempo. Mi prostrai dinanzi al mio Dio, protestando di riconoscermi affatto indegna di trattenermi in compagnia di tante anime a lui fedeli, per poterlo in quella santa notte lodare, benedire, ringraziare in compagnia dei santi Angeli, confessando di essere la creatura più vile, che abita la terra, piangendo, parte per la mia ingratitudine, parte per la gioia che sentivo nel mio cuore, alla considerazione del grande amore che ci dimostra Dio in donarci il suo Santissimo Figliolo.
Andava ogni momento più crescendo la gioia del mio cuore, l’intelletto veniva rischiarato da interna luce e lo spirito si andava ingolfando nella penetrazione di questo divino mistero, quando sopraffatto dall’immensità dell’infinito amore di Dio amante di noi miserabilissime sue creature, si perdeva il mio povero intelletto in questo vasto oceano dell’infinita carità di Dio. Pensi in questo tempo ogni idea sensibile, quando da mano invisibile fui condotta al sacro presepio.
Fui condotta sopra un monte, e in certa lontananza vedevo quel piccolo paradiso. Nel vedere il chiarissimo splendore che tramandava quel beato tugurio da ogni intorno, che ai piedi del monte restava. Ah già il mio cuore era impaziente di potermi là approssimare. Ah. Non avrei voluto camminare, ma volare, tanto era il trasporto dell’amore che sentivo verso il nato Signore. Io andavo dicendo tra me: “Voglio morire ai suoi piedi, per il dolore di averlo offeso”.
Intanto l’amore disponeva il mio cuore a fare ogni qualunque sacrifico per compiacere il divino infante. Non so ridire di qual grado fosse la fede, la speranza, la carità, l’umiltà, l’obbedienza, la purità, la povertà che mi fu somministrata dallo Spirito del Signore in quei preziosi momenti. Fui trasmutata in guisa tale che io più non conoscevo me stessa, senza esagerazione, il mio povero spirito apprese una idea angelica, che io stessa, senza ammirata, e nell’ammirazione conoscevo il mio nulla, lodavo e benedicevo l’infinita bontà di Dio, dando tutto a lui l’onore e la gloria; e intanto mi andavo avvicinando al beato presepio; vidi quel beato tugurio ripieno di splendidissima luce, molti erano gli adoratori di quel grazioso infante, vedevo nella suddetta valle, contigua al beato presepio, come già dissi, ripiena di luce che tramandava dappertutto l’alta magnificenza del nato Re del cielo, che per amore dell’uomo si degnò nascere in estrema povertà”.
Don Marcello Stanzione
AVE MARIA!
AMDG

S. MIGUEL ARCANJO, PROTEGEI-NOS NO COMBATE




AVE MARIA!
AMDG

venerdì 30 dicembre 2011

LA GRANDEZZA DELLA GIOIA









Il Serafico Padre San Francesco non voleva vedere sul volto dei suoi frati la tristezza.
Perché la tristezza toglie vigore alla volontà e nel corpo rafforza solo la pigrizia nell'operare il bene. 









  Quando invece uno è allegro sembra voglia dire che quel  che fa è niente in paragone a ciò che desidera e vuole fare. Come diceva san Bernardo: "Signore, ciò che faccio per Voi non è altro che un lavoro di un'ora; e se è di più, con l'amore non sento la fatica". 


Questo dà gioia al Signore che nel Vangelo dice: "Quando digiunate ungetevi il capo e lavatevi la faccia" (Matteo 6, 16-18) ossia: fate festa e siate allegri in modo che non traspaia né il vostro digiuno né la vostra attività.


Dice san Leone Papa:
"La modestia del cristiano -e più ancora del religioso- non deve esser triste ma santa. Ogni religioso abbia sempre una modestia gioiosa e un gioia modesta. Saper unire queste due cose , è un grande decoro e un grande ornamento del religioso".


BUON ANNO 2012 
e sante bene+dizioni a tutti.
AVE MARIA!
AMDG 

giovedì 29 dicembre 2011

Sante Messe tradizionali in India


Ancora Ss. Messe tradizionali in India




Solo qualche giorno fa avevamo dato notizia delle celebrazioni in rito antico a Mombay.
Ecco qui un'altra notizia di S. Messe in India, officiate secondo il Messale del Beato Giovanni XXIII, secondo il Motu proprio Summorum Pontificum.
Si tratta delle Messe celebrate ogni domenica nella cappella di S. Antonio, a Chennai (già Madras) nello stato di Tamil Nadu nella parte sud est dell'India.
Come già si era notato nel nostro post precedente, è particolare e interessante vedere come la sensibilità e la cultura degli indiani cattolici siano entrate in punta di piedi nel "rito", e ora ne facciano parte a piedo titolo, in maniera discreta e ben amalgamata.
Le persone entrano nella cappella senza le scarpe (come in tutti i luoghi di culto indiani), per rispetto del luogo, il Sancta Sanctorum, in cui Gesù Cristo è presente con il Suo Corpo e il Suo Sangue.
Le signore son vestite con il tipico e tradizionale abito indiano, il Sari, con il quale, quando entrano nella cappella, si coprono anche la testa.
I fedeli, possono scegliere se usare le panche disposte nella cappella o, alla moda "indiana" accomodarsi e/o inginocchiarsi sulle stuoie disposte sul pavimento.
Spontaneamente i fedeli si dividono: le signore, dal lato del Vangelo, i signori dal lato dell'epistola.
Ma se nella navata si riscontrano usi e abitudini locali (per rispetto del luogo e di N.S.G.C.), nel presbiterio si riconosce lo stile assoluto, universale (cattolico, appunto) e unificatore del Rito Romano Antico.
L'umiltà e la serietà dei fedeli e del sacerdote sono tali da non far indulgere assolutamente alla creatività e al relativismo: l'altare, i paramenti, le suppellettili sono "romani", in spirito di obbedienza e di rispetto nei confronti della Tradizione e la Sacra Liturgia Antica della Chiesa.

fonte: Te Igitur

AVE MARIA!
AMDG