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mercoledì 8 ottobre 2014

Il celibato nella Chiesa antica


di Alfredo Marranzini,
pubblicato in L'OSSERVATORE ROMANO, 16 Gennaio 1998
 
La questione del celibato è stata non poche volte sollevata da alcuni con argomentazioni pro e contro, in circostanze certamente diverse ma sempre in connessione con altri fattori, esterni o anche interni alla comunità ecclesiale. Tra gli studi storici editi di recente mi sembra di particolare importanza quello del patrologo tedesco Stefan Heid dal titolo: “Il celibato nella Chiesa antica. Gli inizi di un obbligo di continenza per chierici in Oriente e in Occidente” La questione del celibato è stata non poche volte sollevata da alcuni con argomentazioni pro e contro, in circostanze certamente diverse ma sempre in connessione con altri fattori, esterni o anche interni alla comunità ecclesiale. 




Tra gli studi storici editi di recente mi sembra di particolare importanza quello del patrologo tedesco Stefan Heid dal titolo: Il celibato nella Chiesa antica. Gli inizi di un obbligo di continenza per chierici in Oriente e in Occidente (1). L'autore intende offrire, in base ad una documentazione accuratamente ponderata sotto ogni aspetto, qualche chiarimento circa il modo di porsi dei chierici maggiori, Vescovi presbiteri diaconi, di fronte al matrimonio nei primi secoli cristiani. Oggi, impostando talvolta questo problema in modo unilaterale, gli si danno risposte parimenti unilaterali. Partendo dal celibato quale è attualmente praticato nella Chiesa latina, lo si cerca nei primi secoli e non lo si trova presso tutti i chierici. Si dovrebbe invece distinguere tra celibato in senso stretto, che riguardava chierici maggiori vedovi o non sposati, e obbligo della continenza che vincolava dopo l'ordinazione Vescovi, presbiteri e diaconi celibi o anche sposati, e si rifletteva in qualche modo sulle stesse spose di coloro che avevano contratto precedentemente matrimonio. Siccome contro la tesi di un obbligo della continenza nella Chiesa primitiva si è spesso fatto notare che il Vescovo dell'Alta-Tebaide, Pafnuzio, nel Concilio di Nicea del 325 avrebbe scongiurato i Padri a non proibire a Vescovi, presbiteri e diaconi di avere rapporti con la propria moglie, Heid dimostra questo preteso intervento privo di ogni valore documentario. Esso infatti è citato solo da Socrate, che terminò la sua Storia Ecclesiastica un secolo dopo verso l'anno 440, e che, mentre di solito è preciso nei suoi riferimenti, non menziona alcuna fonte circa questo intervento che, se fosse vero, sarebbe stato di grande rilievo. Personalità bene informate sul Concilio di Nicea e sulla vita della Chiesa di quel tempo, specie Ambrogio, Epifanio, Girolamo, Siricio e Innocenzo I, dei quali non si può mettere in dubbio la sincerità, ignorano del tutto l'episodio e attestano l'antichità dell'obbligo della continenza. L'episcopato africano contemporaneo di Agostino, in piena conformità al primo Concilio ecumenico, ha rinnovato in più sinodi l'obbligo della continenza perfetta dei chierici, dichiarata tradizione risalente ai tempi apostolici. Inoltre Friedhelm Winkelmann, partendo dalla constatazione che Pafnuzio non figura tra i Vescovi firmatari del Concilio di Nicea negli elenchi a noi pervenuti, ha dimostrato già nel 1968, con argomenti di critica esterna, che il racconto di Socrate è “il prodotto di un'affabulazione agiografica progressiva”. Per di più, contrariamente a quanto a volte si è sostenuto, esso non concorda affatto con la prassi della Chiesa Orientale circa il matrimonio dei chierici maggiori. Infatti nessun Concilio anteriore a Nicea ha mai autorizzato Vescovi, presbiteri e diaconi a contrarre matrimonio o ad usare del matrimonio eventualmente contratto prima dell'ordinazione. Lo stesso Concilio Quinisesto del 691, che fissò in maniera definitiva la legislazione bizantina in proposito, mantenne l'obbligo della continenza perfetta per i Vescovi e, pur autorizzando i presbiteri e i diaconi a vivere con le loro mogli, li sottopose alla continenza nei giorni della Celebrazione Eucaristica. Nessuna menzione, né in questo Concilio né nelle varie discussioni dei secoli seguenti sul celibato, dell'intervento di Pafnuzio a Nicea ritenuto quasi all'unanimità dai critici, nella forma in cui lo conosciamo, un falso. Anche se è esistito un uomo con tale nome, è del tutto discutibile se sia stato Vescovo e non ha preso parte al Concilio di Nicea. “Tutto il testo è quindi inutilizzabile per la disciplina dei chierici dei primi quattro secoli” (p. 16).

Posizioni attuali contrastanti

Sbarazzato il campo da una leggenda, a cui nel passato da qualcuno si ricorreva per provare che l'obbligo della continenza sarebbe stato introdotto tardi nella Chiesa, Eid delinea brevemente le due concezioni del celibato che, in base all'analisi delle stesse fonti, giungono a risultati del tutto differenti. La prima, rappresentata da Gryson (2), Franzen (3) e Denzler (4), sostiene che l'obbligo attuale del celibato deriverebbe dalla libertà che avevano i chierici nei primi tre secoli di abbracciarlo o meno. Allora la maggior parte di loro era sposata e disponeva liberamente dell'uso del matrimonio, anche se in diversi luoghi alcuni se ne astenevano di propria iniziativa. Però già nel secondo secolo si sarebbero infiltrate nella vita della Chiesa correnti misogenistiche per motivazioni estranee al Vangelo, mentre fiorivano anche la verginità carismatica e il monachesimo. Nel secolo seguente subentrò pure la socializzazione del ministero sacerdotale, per cui anche per purità rituale, secondo le prescrizioni del Concilio di Elvira verso il 306 o addirittura verso il 380, nella Chiesa greca e in quella latina chierici e laici si astenevano dai rapporti sessuali nei giorni della Celebrazione Eucaristica. Intanto, mentre in Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto si celebrava piuttosto raramente l'Eucaristia e i chierici sposati potevano, sia pure con una certa limitazione, usare del matrimonio, s'introdusse in Africa settentrionale, Spagna, Gallia e Italia la celebrazione quotidiana. Ciò avrebbe portato alla totale continenza del clero e alla graduale repressione del clero sposato da parte dei colleghi celibi. Si sostiene quindi che all'uso “naturale” del matrimonio nei primi secoli senza particolari prescrizioni limitative si sarebbe sostituita per motivi estranei al cristianesimo la continenza “innaturale”, che trovò la sua prima normativa nel Concilio di Elvira, nella cui prospettiva rientrano le decretali pontificie sul celibato. “La durezza romana soppiantò quindi la prassi originariamente più umana, quale è ancora in vigore nella Chiesa orientale. La legge, che impose ai chierici maggiori della Chiesa latina la totale continenza coniugale, è sorta in Roma solo verso la fine del quarto secolo” (p. 19).

 Ben diverse sono le conclusioni a cui sono giunti con i loro studi Christian Cochini (5), Roman Choly (6), e Alfonso M. Stickler (7). Nei primi secoli della Chiesa nessuna legge poneva il celibato come condizione pregiudiziale per l'ammissione agli ordini maggiori. Se non si era sposati prima, si doveva conservare il celibato; se si era ordinati dopo il matrimonio, si doveva mantenere la continenza con la moglie. Nello stesso periodo non esistono leggi scritte sul celibato in senso stretto o sulla continenza; però non si dà neppure alcun documento scritto che neghi l'esistenza di tale obbligo. Perciò è legittimo prendere in considerazione i primi documenti pubblici, che nel quarto secolo fanno risalire l'obbligo della continenza al periodo apostolico. Oggi esegeti e teologi seri fanno a giusto titolo risaltare i fondamenti biblici dell'obbligo del celibato, non scartano affatto l'idea di una eventuale “tradizione apostolica” della continenza dopo l'ordinazione e concepiscono la disciplina attestata dalla legge del quarto secolo come il frutto di una lenta evoluzione, dovuta all'azione progressiva del fermento evangelico nella comunità ecclesiale. La questione del celibato dei chierici maggiori è tornata ad essere attuale e potrebbe contribuire al progresso della riflessione della Chiesa su un argomento così complesso. La ricerca sull'origine della continenza al periodo apostolico, oltre ad essere un dovere scientifico, è un aiuto offerto alle nuove generazioni, che dovranno decidere il loro futuro. Heid si pone con imparzialità di fronte a queste due posizioni, le confronta punto per punto e giunge alla conclusione che la “rinnovata rilettura di tutte le fonti documentarie conferma di fatto in maniera molteplice e approfondisce la concezione di Cochini” (p. 20). Perciò egli non esita ad affrontare di nuovo tale esame, che gli consente non solo di ribadire che l'obbligo della continenza risale al periodo apostolico ma anche di apportare ulteriori ritocchi nell'interpretazione di qualche fonte documentaria, di esporre più ampiamente lo sfondo storico-sociale della continenza dei chierici nei primi tre secoli.

Lo studio eccellente di Cochini resta tuttavia ancora indispensabile, perché esamina tutti i testi sino al settimo secolo senza tralasciare la Chiesa nestoriana e altre questioni particolari. Heid ritiene giustificato seguire il metodo storico progressivo nel riesaminare la questione del celibato dal Nuovo Testamento al Concilio Trullano II o Quinisesto del 691, per facilitare la comprensione dello sviluppo progressivo della “tradizione apostolica” della continenza. Egli, come già ha fatto Cochini, si pone sulla scorta del principio enunciato da s. Agostino all'epoca della controversia donatista: “Ciò che è osservato da tutta la Chiesa ed è sempre stato mantenuto, pur senza essere stato stabilito da alcun concilio, è da considerarsi a giusto titolo trasmesso solo dall'autorità apostolica” (8). Il valore di questo principio deriva dalla fedeltà della Chiesa dei primi secoli alla tradizione originaria. I Padri cercarono di mantenere senza innovazioni quanto era stato trasmesso. Agostino riconosce che questo orientamento garantisce la possibilità di risalire alle origini apostoliche, purché si tratti di un dato dottrinale o disciplinare che sia stato osservato da tutta la Chiesa e mantenuto costantemente. Heid nota giustamente che Cochini affermando “l'origine apostolica della continenza, osservata dai chierici maggiori in tutta la Chiesa di allora”, vuole anzitutto fissarne il tempo al periodo neotestamentario, senza determinarne dogmaticamente l'immutabilità (9). La continenza dei ministri ordinati nel periodo neotestamentario Dopo queste premesse il patrologo tedesco percorre le varie fasi della prassi della continenza e del celibato nei primi secoli della Chiesa a partire dall'esempio di Gesù, che rese il suo insegnamento persuasivo e credibile, praticandolo per primo esistenzialmente. Egli scelse il celibato per sé e per quelli che chiamò a sé e “costituì come Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare” (Mc 3, 13-14). L'ingiuria di “eunuco” (Mt 19, 12) non preoccupò né Cristo né i suoi apostoli. Anche se qualcuno di questi, come Pietro, era sposato, tutti lasciarono la propria consorte o non si sposarono affatto per seguire Cristo in maniera incondizionata e cooperare con Lui alla proclamazione del “regno dei cieli”, sia prima sia dopo la pasqua, in uno stile di vita perfettamente continente. Vi era la possibilità di avere durante le loro peregrinazioni missionarie delle collaboratrici sostentate dalla comunità (cfr 1 Cor 9, 5), come Gesù stesso aveva consentito che delle donne provvedessero a Lui e ai suoi discepoli (cfr Lc 8, 1-3). Vigeva però sempre la perfetta continenza né sussisteva alcuna differenza in proposito tra gli apostoli e Paolo. Tale modo di vivere proseguì anche quando il ministero passò dagli apostoli ai Vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, come appare dal progressivo sviluppo testimoniato dalle lettere pastorali e che almeno nell'Asia minore si dovette verificare tra il 50 e il 100 dopo Cristo. 

Si avevano quindi ministri celibi, vedovi e sposati, ma gli sposati dal giorno della loro ordinazione potevano vivere con le loro consorti solo in perfetta continenza (cfr 1 Tm 3, 2.12; Tit 1, 6). A nessuno, neppure in caso di vedovanza, era consentito di risposarsi e il candidato agli ordini, che si era sposato due volte, era ritenuto, secondo la concezione paolina, incapace di vivere in continenza (cfr 1 Cor 7, 8s). Vigeva quindi una pluralità di stati (celibi, vedovi o sposati) con l'unico stile di vita di perfetta continenza, che non era lasciato ad una scelta personale, perché su questa non si può basare un'istituzione né ad essa si può far risalire una unanimità da osservarsi nel futuro. “L'opinione dominante che il Nuovo Testamento non offra alcuna prova per la disciplina del celibato contraddice perfino se stessa e non si sostiene ad un esame approfondito e differenziato” (51). La continenza dei chierici maggiori dal secondo secolo al 220 Dopo le lettere pastorali c'imbattiamo verso il 200 in più chiari accenni alla continenza dei chierici maggiori del Nord Africa occidentale e orientale. Clemente alessandrino riconosce che possono essere ammessi ai ministeri ordinati anche uomini sposati con figli, ma non concede affatto loro di generarne altri dopo l'ordinazione. Essi devono seguire l'esempio degli apostoli, anche se eventualmente sposati, e da cristiani perfetti continuare la loro vita familiare senza rapporti coniugali. Si può quindi dire con buon fondamento che Clemente conosce anche la continenza dei chierici secondo lo stile di vita degli apostoli. Lo stesso va detto di Tertulliano, anche se in lui si trovano solo prove indirette sulla continenza dei chierici sposati, le quali però non lasciano alcun dubbio al riguardo. All'obbligo stretto della continenza per i chierici sposati si connette il divieto loro fatto di risposarsi, che si riscontra in Egitto, nel Nord Africa e, verosimilmente, anche a Roma. Tertulliano, che parla di molti Vescovi risposati, conosce anche l'esplicito divieto della bigamia e la deposizione di Vescovi bigami. Ippolito rimprovera al Vescovo di Roma Callisto di non far osservare tale divieto e di ordinare egli stesso dei bigami. Però Callisto non ha posto fondamentalmente in questione il divieto della bigamia, piuttosto egli ne sostiene soltanto un'interpretazione più larga non tenendo conto, come faceva lo stesso Tertulliano, del matrimonio contratto prima del battesimo. Così anche se poteva capitare che venisse ordinato un vedovo risposatosi dopo il suo battesimo, l'esigenza della continenza rimaneva salda. Un ulteriore indizio dell'obbligo della continenza è la proibizione generale del matrimonio dopo l'ordinazione che si riscontra per la prima volta in Ippolito. Anche Callisto conosce e rispetta tale divieto, però talvolta, contrariamente ad Ippolito, concede a chierici minori di risposarsi. 

Testifica anche la deposizione di qualche chierico maggiore che, per ignoranza della tradizione obbligante della Chiesa al riguardo, era passato a nozze dopo l'ordinazione. Con ciò non si afferma che tale chierico potesse continuare ad esercitare il suo ministero, anzi si deve ammettere che, pur sospeso dalle sue funzioni, rimaneva ancora nel clero, perché gli si potesse con tale legame assicurare il sostentamento economico. La continenza dei chierici maggiori dal terzo secolo sino al Concilio di Nicea (325). La Didascalia siriaca in Oriente segue la linea iniziata da Clemente alessandrino. In Siria i chierici maggiori ordinariamente erano sposati, ma almeno il candidato all'episcopato doveva essere di età avanzata in modo che egli, avendo già provveduto all'educazione dei figli, poteva dopo l'ordinazione dedicarsi totalmente al suo ministero. Perciò si vedeva la sua continenza con la propria moglie un'esigenza del tutto rispondente al suo ufficio. Dalle riflessioni di Origene sul divieto della digamia si può dedurre che conosce l'obbligo della continenza. Però egli si pone il quesito: se la continenza dei chierici maggiori sposati è decisiva, perché non si ordinano uomini rimasti vedovi dopo il loro secondo matrimonio, anche se sono disposti ad osservare la continenza? Queste osservazioni, senza portare all'abolizione del divieto di un secondo matrimonio, hanno rassodato la tradizione della monogamia e della continenza, perché per Origene non è concepibile il sacerdozio senza la perfetta continenza. Ad evitare subito equivoci nella disamina dei dati storici circa la continenza dei chierici maggiori, va tenuto presente che è norma giuridica obbligatoria sia la disposizione tramandata solo oralmente attraverso una consuetudine vincolante sia quella espressa come legge scritta e promulgata in forma legittima. Nella storia di un popolo le leggi scritte sono precedute da norme consuetudinarie tramandate oralmente e tuttavia vincolanti. Di ciò non hanno tenuto conto coloro che, osservando che la prima legislazione canonica a noi nota in materia di continenza dei chierici maggiori risale al IV secolo d. C., ne traggono la conclusione che fino ad allora l'osservanza della continenza era lasciata alla libera decisione del singolo. La normativa scritta, che verrà dal Sinodo spagnolo di Elvira agli inizi del IV secolo, si rifà alla tradizione obbligante della continenza già testimoniata da Tertulliano e Cipriano, anche se si dovevano eliminare eventuali carenze di conoscenza e di chiarezza al riguardo presso chierici maggiori, viventi in regioni isolate e non debitamente informati su questo obbligo. Sulla linea di Clemente o Origene si pongono Eusebio, Arcivescovo di Cesarea di Palestina, e lo stesso Sinodo di Ancira. Quest'ultimo infatti, affrontando il desiderio di sposare (espresso da un celibe candidato al diaconato), non deflette dalla tradizione ma ribadisce che il Vescovo può ordinare tale candidato solo dopo alcuni anni dal suo matrimonio. La continenza obbligatoria viene confermata dall'uso praticato anche da qualche chierico, come per es. Paolo, Vescovo di Samosata, di vivere da fratello e sorella con qualche donna senza alcun rapporto sessuale. I propugnatori della continenza vedevano in ciò un segno particolarmente luminoso delle loro capacità ascetiche. Va inoltre osservato che l'obbligo della continenza dei chierici sposati si rifletteva anche sulle loro consorti. Perciò si prescriveva dai sinodi che i candidati all'ordinazione non potevano sposarsi con donne adultere e, se eventualmente le loro mogli commettevano adulterio, se ne dovevano separare, perché esse col proprio comportamento si erano dimostrate incapaci di osservare la continenza. Per questo stesso motivo le mogli dei chierici non potevano essere digame. Eventuali infrazioni a queste norme venivano severamente punite. Contrariamente a quanto da qualcuno è stato affermato, la continenza generale dei chierici è più chiaramente testimoniata in Oriente che in Occidente. Alle testimonianze di Origene e di Eusebio, da cui essa già appare un dato ovvio, si aggiungono quelle di Epifanio per l'isola di Cipro, di Girolamo per la Palestina e l'Egitto, di Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuectia e Teodoreto di Ciro, per la Siria e l'Asia Minore. 

Tutti documentano la continenza o la presuppongono chiaramente (131-154) e fanno perfino constatare una tendenza verso un clero celibe o una preferenza per i candidati celibi (154-167). Pur verificandosi qualche trasgressione, la prassi collegata della monogamia e della continenza resta immutata in Oriente sino al quinto secolo, anche se non si tien conto del matrimonio contratto prima del battesimo. Nuova è invece l'interpretazione data da Crisostomo, Girolamo, Teodoro e Teodoreto: con la condizione che il Vescovo sia unius uxoris vir (1 Tm 3, 2) si proibirebbe solo la poligamia, ma non i rapporti coniugali con l'unica donna che gli rimane. In realtà, se si osservano bene i testi di questi padri si vuole solo sottolineare con l'unius uxor viri che il Vescovo sposato si deve considerare quasi uxorem non habens per cui resta in vigore la continenza (10). Certamente ha contribuito al prevalere del clero celibe su quello sposato l'influsso dei monaci, tra cui per lo più si sceglievano in Oriente come in Occidente i candidati agli ordini maggiori. Non mancarono in questa tendenza ascetica delle esagerazioni, tanto che nell'Asia Minore verso la metà del quarto secolo i cosiddetti eustaziani giunsero a rigettare il matrimonio, ad esigere il divorzio da tutti gli sposati, anche se erano chierici, e ad invitare i laici a non rivolgersi a preti sposati. Decisa fu però la reazione dei Vescovi, che proibirono il divorzio ai chierici sposati, senza però permettere loro i rapporti coniugali con le proprie consorti. Inoltre non si può trarre alcuna prova contraria all'obbligo della continenza nell'Asia, nella Palestina e nell'Egitto dall'interpretazione preconcetta di alcuni dati. Infatti è inverosimile che Gregorio di Nazianzo il giovane sia stato generato da suo padre Gregorio, parimenti Vescovo di Nazianzo, dopo la sua ordinazione, perché i dati biografici additano il contrario. Anche Cirillo di Gerusalemme esige perfetta continenza dai chierici sposati e dalle loro mogli, in contrasto con l'obbligo dei sacerdoti giudaici. Atanasio conosce Vescovi sposati e monaci, che dopo la loro consacrazione o professione religiosa non ebbero più rapporti coniugali. Sinesio, scelto per l'episcopato, preferisce non accettarlo per avere ancora figli ma, una volta ordinato, si comporta in piena adesione al dovere della continenza. Non si vede perciò come dopo la valutazione di tanti documenti Roger Gryson abbia potuto sostenere che “la legge del celibato è sorta soltanto a Roma verso la fine del quarto secolo. Il papato non ha mai desistito dall'adoperarsi per il suo mantenimento e per lasciarla prevalere sulla consuetudine antica più liberale” (ibid.). La continenza dei chierici nella Chiesa occidentale sino agli inizi del quinto secolo Ora nell'Africa del Nord, dove vigeva da tempo la continenza, come sappiamo da Tertulliano e da Cipriano, il 16 giugno 390 il Sinodo di Cartagine prescrive all'unanimità che “il Vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dalla consorte, affinché chi è al servizio dell'altare conservi una castità perfetta” (188). Prima della votazione il Vescovo Genetlio aveva ricordato che ciò “si addice... a quelli che sono al servizio dei sacramenti divini... per ottenere, in tutta semplicità, quanto domandano a Dio; facciamo in modo di custodire anche noi ciò che insegnarono gli apostoli ed è stato osservato da tutta l'antichità” (188). 

I Vescovi africani non ripetono qui passivamente le Decretali di papa Siricio, di poco anteriori, ma si rendono essi stessi garanti della tradizione apostolica della continenza dei chierici maggiori. Non lo avrebbero mai fatto se essa non fosse stata in armonia anche col terzo canone del Concilio di Nicea (325), che già ne aveva testimoniato la conformità alla tradizione apostolica. Data la situazione desolata in cui si era venuta a trovare in Africa la Chiesa dopo lo scisma donatista, i Vescovi dal 390 cercarono di ovviarvi anche con prescrizioni giuridiche e ribadirono la continenza dei chierici maggiori, tenendo anche conto di quanto aveva fatto in proposito il Vescovo di Roma. La Chiesa di Spagna, sin dal Sinodo di Elvira circa il 306, aveva prescritto la continenza con una norma scritta esplicita, che è la prima a noi pervenuta. Ciò non significa che, come supposero Funk e altri al suo seguito, fino ad allora fosse consentito ai chierici maggiori di proseguire la vita matrimoniale anche dopo l'ordinazione, se le nozze erano state contratte prima. Infatti i Padri di Elvira danno l'impressione non d'introdurre un'innovazione di tanta rilevanza, ma di sancire una prassi già in vigore. Altrimenti avrebbero dovuto almeno spiegare perché si poneva fine al libero uso del matrimonio e sarebbero certamente andati soggetti a forti contestazioni. L'essere entrato il canone 33 di Elvira senza urti nella storia conferma che esso, lungi dall'essere una svolta, testimonia la fedeltà della Chiesa di Spagna ad una tradizione antica. Più tardi Priscilliano si fece promotore di un movimento di ascetica riformatrice così rigorosa che i suoi protagonisti, tra cui numerosi Vescovi e chierici, furono tacciati di manicheismo. A Roma sotto papa Damaso (366-384) e nel Nord Italia sotto Ambrogio, sia a Milano che nelle campagne, la continenza era osservata senza particolari reazioni. Però in Italia si era preoccupati degli attacchi mossi nella Spagna alla continenza da coloro che contrastavano il priscillianismo e dai chierici sposati che, insofferenti dell'obbligo della continenza, la volevano limitare solo ai giorni della Celebrazione Eucaristica, analogamente a quanto si prescriveva ai leviti nell'Antico Testamento. Ambrogio e l'anonimo Ambrosiastro si prendono la cura di confutare tali argomenti, facendo osservare che la frequenza della Celebrazione Eucaristica non esercita un ruolo definitivo. Perciò la continenza non può essere considerata un ritrovato di Roma nel tardo quarto secolo in base alla Celebrazione Eucaristica quotidiana, perché tale prassi non sussisteva allora né a Roma né in Spagna. Inoltre, mentre la propaganda priscillianista portava in Spagna e altrove al disprezzo manicheo del corpo, l'Ambrosiastro ne difende la dignità e giustifica la continenza dei chierici maggiori per la sua convenienza col ministero complessivo loro affidato. In questa luce si spiegano i vari interventi del Vescovo di Roma. Su richiesta di Imerio, metropolita di Tarascona, Siricio il 10 febbraio 385 gli invia la decretale Directa con la quale affronta la questione della continenza, già da secoli vigente come obbligatoria, e ribadisce che “noi tutti, Vescovi, presbiteri e diaconi, vi ci troviamo legati fin dal giorno della nostra ordinazione e sottomettiamo i nostri cuori e i nostri corpi al servizio della sobrietà e della purezza, per essere totalmente graditi al nostro Dio nei sacrifici che offriamo ogni giorno” (200). Nel gennaio del 386 un concilio di 80 Vescovi dell'Italia centrale e meridionale tenutosi a Roma prende una serie di decisioni che Siricio comunica a vari episcopati con la decretale Cum in unum. 

L'introduzione insiste sulla fedeltà alle tradizioni apostoliche, perché “non si tratta d'impartire precetti nuovi, ma di far osservare quelli che sono trascurati per l'apatia e la pigrizia di alcuni” (220). Tra “le prescrizioni di una costituzione apostolica e di una costituzione dei Padri”, si trova l'obbligo della continenza per i chierici maggiori. “È degno, casto e onesto... che [Vescovi], presbiteri e diaconi non abbiano rapporti con la loro consorte dato che essi sono assorbiti dai doveri quotidiani del loro ministero” (221). Anche la decretale Dominus inter, che è una risposta del papa Damaso o di Siricio a domande dei Vescovi delle Gallie, sviluppa gli stessi argomenti. Da questi decretali appare chiaro l'obbligo già da tempo vigente della continenza, sebbene le infrazioni fossero frequenti, anche per ignoranza della tradizione obbligante, alla fine del IV secolo in Spagna e nelle Gallie. Gli argomenti biblici addotti da alcuni contestatori vengono nelle decretali precisati: i leviti dell'antica alleanza potevano avere figli, ma erano tenuti alla continenza durante il loro servizio al tempio; a maggior ragione i ministri della nuova alleanza devono osservare la continenza perpetua; la condizione che il Vescovo sia unius uxoris vir è stata posta propter continentiam futuram, perché la monogamia provava la capacità di praticare la continenza dopo l'ordinazione. La reazione del monaco Gioviniano si rivolgeva allora in Roma contro la propaganda ascetica di s. Girolamo e la linea ufficiale della Chiesa che poneva la verginità al di sopra del matrimonio. Egli accettava per principio il celibato assoluto di alcuni chierici e anche il dovere della continenza dei chierici sposati. Perciò non ha affatto sganciato a Roma la crisi del celibato né ha provocato da parte della Chiesa un inasprimento della disciplina, per cui da quel momento come i chierici celibi anche quelli sposati e le loro mogli avrebbero dovuto vivere continenti. Il clero da lungo tempo conosceva tutta la disciplina della continenza e anche Gioviniano l'accettava. Papa Innocenzo interviene sulla continenza nelle Gallie con la decretale Etsi tibi indirizzata il 15 febbraio 404 al metropolita di Rouen, Vittricio, e l'altra Consulenti tibi inviata il 20 febbraio 405 al Vescovo di Tolosa, Esuperio. 

Nello stesso tempo s. Girolamo (11) inveisce contro il sacerdote della Gallia meridionale, Vigilanzio, per il cui influsso alcuni chierici maggiori ordinati dopo il matrimonio continuavano talvolta a generare figli. Le decretali di Innocenzo non introducono affatto la continenza del clero, ma mirano soltanto a stabilire delle precise norme giuridiche, perché si possa procedere in maniera equanime e unitaria contro i chierici trasgressori. Non conosciamo chiaramente quale fosse in proposito lo stato di tale disciplina nelle singole regioni della Gallia, ma almeno in Aquitania, dove compare Vigilanzio, si avverte che egli, senza contestare la continenza dei chierici maggiori, vorrebbe che il suo Vescovo permettesse ai chierici minori di sposarsi prima del diaconato, anche se dopo l'ordinazione diaconale dovevano vivere in continenza. Forse alla base dell'intervento di Vigilanzio c'era un problema molto concreto. Alcuni monaci abbandonavano i loro chiostri e venivano incardinati nel clero diocesano e addetti alla cura d'anime dapprima come chierici minori. Alcuni di loro intendevano frattanto sposarsi e generare figli, e trovavano in ciò l'appoggio di Vigilanzio. Di qui la reazione di s. Girolamo che, per il suo zelo a favore del monachesimo, ha visto forse in Vigilanzio un avversario della continenza anche nel clero maggiore. 

Certo in Occidente nel IV secolo sono emerse delle difficoltà per l'osservanza della continenza causate dalla diffusione della Chiesa anche nelle campagne, dove talvolta s'ignoravano consuetudini anche obbliganti. Di qui l'impegno di Papi, Vescovi e teologi per l'approfondimento dei motivi della continenza e la sua regolazione globalmente unitaria, che porta a sicurezza giuridica e stabilità. La continenza, eredità comune dell'Oriente e dell'Occidente Da quanto si è documentato si rilevano l'eredità comune della Chiesa Orientale e Occidentale circa la continenza dei chierici maggiori e la perfetta concordanza delle decretali papali con la disciplina orientale, perché miravano solo ad evitare abusi in Occidente contro il sospetto di manicheismo e l'euforia della verginità (183-258). La crescente coscienza della responsabilità dei Vescovi di Roma per l'unità nella tradizione apostolica anche circa la disciplina essenziale spiega i loro interventi, perché in Occidente si conservi integra la continenza dei chierici come era praticata anche in Oriente sin dagli inizi apostolici. Nel quinto secolo la continenza dei chierici maggiori non era in crisi in Oriente come si potrebbe supporre da alcune dichiarazioni dello storico della Chiesa, Socrate. Egli, infatti riferendosi alla Tessaglia, alla Macedonia e alla Grecia, dice che di recente anche i suddiaconi sposati dovevano vivere in continenza. La notizia da lui riportata circa Vescovi che generavano figli e circa la leggenda di Pafnuzio provengono dai novaziani, i quali volevano giustificarsi per non esigere più la continenza dai chierici maggiori sposati. A loro si appoggiavano a Costantinopoli gli avversari della continenza e i chierici maggiori che non l'osservavano. D'altra parte la stessa leggenda di Pafnuzio presuppone che nella Chiesa bizantina si desiderava e osservava la continenza dei chierici maggiori. Anche il codice legislativo di Teodosio del 420 la prescriveva. L'imperatore Giustiniano (527-565), il cui influsso si faceva sentire anche nell'ambito della Chiesa latina, riordinò tutta la disciplina della continenza, ribadendo la sua obbligatorietà e stabilendo che i Vescovi sarebbero stati scelti preferibilmente tra gli ecclesiastici non sposati e i monaci (12), mentre quelli sposati e senza figli dovevano vivere lontano dalle proprie mogli (13). Intanto l'apparizione e la fulminea espansione dell'Islam sconvolge la Chiesa d'Oriente. L'Africa cristiana, la Siria, la Palestina, la Mesopotamia e l'Egitto cadono sotto il suo dominio tra il 635 e il 642. Dei quattro Patriarcati orientali resta in piedi solo quello di Bisanzio, che per di più a nord deve fronteggiare le invasioni slave e bulgare. Lo sconvolgimento politico provoca una crisi intellettuale e morale paragonabile a quella che nel quinto secolo era seguita alla caduta dell'Impero romano. Nello stesso tempo la Chiesa bizantina è in crescente tensione con la Sede papale, che contesta il canone 20 del Concilio di Calcedonia del 451, il quale aveva conferito alla “nuova Roma” autorità patriarcale sulle Chiese metropolitane delle diocesi del Ponto, dell'Asia proconsolare e della Tracia. Leone Magno l'ha respinto dichiarandolo contrario ai canoni di Nicea e ai diritti delle Chiese particolari. Nel sesto secolo Giustiniano da abile politico era riuscito solo a mantenere lo statu quo, senza eliminare i disaccordi. Il Concilio Quinisesto del 691, che riunì 215 Padri greci, orientali o armeni sotto la cupola o trullo del Palazzo imperiale di Bisanzio, pur proponendosi di riformare gli abusi e gli errori del suo tempo, lo fece ostentando il disaccordo con la Chiesa latina, tanto che papa Sergio (687-701) di origine siriana, dichiarò di preferire la morte piuttosto che riconoscere certi canoni contrari all'ordine della Chiesa. 

Il Quinisesto anche se ha detto l'ultima parola della disciplina ecclesiastica per la Chiesa greca, conserva più di un'usanza conforme a quella della Chiesa latina. Il canone 12 proibisce ai Vescovi ordinati di abitare con le proprie mogli per evitare lo scandalo del popolo; il canone 48 prescrive che la moglie del Vescovo, che si è separata da lui di comune accordo, deve entrare, dopo la di lui consacrazione, in un monastero distante dalla residenza episcopale. Avrà però diritto ad essere sostenuta da suo marito e, se ne è degna, ad essere promossa alla dignità di diaconessa, non all'ordine del diaconato. Si sa che, specialmente dopo Leone Magno, la tradizione latina autorizzò per molto tempo i chierici maggiori sposati a continuare a convivere con le proprie mogli, osservando però stretta continenza. Dal sesto secolo i concili occidentali esigettero a poco a poco la separazione del Vescovo dalla moglie. Quindi per il Vescovo l'obbligo della continenza perfetta era identica a Roma e a Bisanzio. Stando ai canoni 3 e 6 possono essere ammessi al chiericato i monogami, purché la moglie sia stata vergine, di condizione libera e non abbia esercitato alcuna professione considerata disonesta. Il canone 13 in contrasto con la regola vigente nella Chiesa latina, sancisce: “... noi, conformandoci all'antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica, vogliamo che i legittimi matrimoni degli uomini consacrati a Dio rimangano in vigore anche in futuro, senza sciogliere il legame che li unisce alle mogli, né privarli dei mutui rapporti nei tempi convenienti. In tal modo, se qualcuno è giudicato degno di essere ordinato suddiacono o diacono o sacerdote, non gli venga impedito di avanzare in questa dignità perché ha una moglie legittima, né si esiga da lui di promettere, al momento della sua ordinazione, che si asterrà dai rapporti legittimi con sua moglie, in caso contrario offenderemmo il matrimonio istituito dalla legge di Dio e benedetto dalla sua presenza, mentre la voce del Vangelo ci grida: “non divida l'uomo quelli che Dio ha congiunti” (Mt 19, 6; Mc 10, 9); e l'apostolo insegna: “il matrimonio sia da tutti rispettato e il letto coniugale resti senza macchia” (Eb 13, 4); e ancora: “Sei legato ad una donna coi vincoli di matrimonio? Non cercare di scioglierli” (1 Cor 7, 27). 

Sappiamo d'altronde che i Padri riuniti a Cartagine, per misura di preveggenza, data l'importanza dei costumi dei ministri dell'altare, hanno deciso che “i suddiaconi, i quali accedono ai santi misteri, i diaconi e anche i presbiteri, si astengano dall'unirsi alle loro mogli durante i periodi loro particolarmente [indicati]”. Così anche noi conserveremo ciò che fu trasmesso dagli apostoli e osservato da tutta l'antichità, sapendo che vi è un tempo per ogni cosa, soprattutto per il digiuno e la preghiera: è necessario infatti che quelli che si avvicinano all'altare, nel periodo in cui trattano le cose sante, siano del tutto continenti, per ottenere ciò che domandano a Dio in tutta semplicità”. Perciò, se qualcuno agendo contro i canoni apostolici, osa privare un chierico ordinato, cioè un presbitero, un diacono o un suddiacono, dei rapporti coniugali e della comunanza di vita con la sua legittima moglie, sia deposto; come pure “se un presbitero o un diacono manda via la moglie col pretesto della devozione, sia scomunicato e, se persiste, deposto” (286). Questo canone trullano si distacca dalla norma della Chiesa latina, per la quale si esigeva dagli uomini sposati l'impegno della continenza perfetta al conferimento del suddiaconato, del diaconato o del presbiterato. In Occidente il matrimonio non impediva l'accesso ai ministeri ordinati, conservava la sua indissolubilità dopo l'ordinazione e giustificava la convivenza del chierico maggiore con la propria moglie da fratello e sorella. La Chiesa latina, richiedendo la perfetta continenza, non “separava ciò che Dio aveva unito” e, pur giudicando perfettamente compatibili il matrimonio e il ministero ordinato, elevava il modo di vita dei suoi ministri a livello ritenuto rispondente alla loro missione. 

I Vescovi del Concilio Quinisesto, per introdurre un'innovazione rilevante in questo settore, si appellano alla “antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica”, quale sarebbe testificata dal Concilio di Cartagine del 390 tramite citazioni tratte dal Codex canonum Ecclesiae Africanae, collezione oggi ritenuta apocrifa. Il Concilio Quinisesto, utilizzando il Concilio di Cartagine per risalire al periodo apostolico, ne riconosce l'importanza come testimonianza della disciplina primitiva. Però i Padri bizantini, diversamente da quelli di Cartagine, non menzionano nel canone 13 il Vescovo e richiedono dai presbiteri e dai diaconi non più la continenza perfetta quale si conviene al loro stato secundum propria statuto ma solo quella temporanea durante i periodi “che sono loro particolarmente assegnati”. L'espressione latina del Concilio di Cartagine era stata tradotta dal Codex _ kata tous idious òrous _ costruzione greca interpretabile nel senso voluto dai Padri del Concilio Quinisesto. Nonostante questa differenza, le tradizioni orientale e latina concordano sull'origine apostolica del dovere della continenza _ temporanea o perpetua _ e sul suo fondamento biblico-teologico. I chierici maggiori sono tenuti ad astenersi dai rapporti coniugali in quanto “ministri dei misteri divini” nella nuova alleanza e mediatori del popolo attraverso la preghiera. Questo legame non è messo in discussione dalla legislazione trullana, anzi è in certo qual modo sottolineato dall'obbligo della continenza periodica. Giustamente nota Cochini: “Si può supporre che, se l'uso della celebrazione quotidiana si fosse stabilito nelle Chiese d'Oriente, l'argomento a fortiori sviluppato da Siricio avrebbe certo avuto effetti simili nella legislazione bizantina del settimo secolo. O, invece, sarebbe stato difficile ai latini mantenere il principio di una continenza giornaliera se, in un modo o nell'altro, la preghiera degli intercessori del popolo di Dio non fosse stata da essi concepita come una missione ininterrotta” (14). 

I Padri dei primi secoli indicano spesso il celibato e la continenza perfetta come un libero dono gratuito di Dio da accogliere con fede e costante preghiera. Perciò i Vescovi consideravano significativo e necessario interrogare il candidato agli ordini maggiori sulla sua disponibilità ad osservare la perfetta continenza. Chi dava il suo assenso, poteva essere certo di averne ricevuto il carisma tanto da loro desiderato e implorato dall'alto. Anche se l'obbligo della continenza si ricollegava sotto qualche aspetto alla prassi cultuale del giudaismo e del paganesimo come eminente espressione di religioso rispetto davanti a Dio, sin dalle origini assunse per il ministro ecclesiale il senso di dedizione totale libera e gioiosa al Padre e a tutti i fratelli, che andava realizzata esistenzialmente, in unità di culto e di vita sempre disponibile, soprattutto nella Celebrazione Eucaristica, attualizzazione dell'offerta sacrificale di Cristo per unificare i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11, 52). Il pregio dell'indagine storica di Heid sta nell'aver presentato con obiettività come l'intera Chiesa subito comprese che il legame tra sacerdozio e celibato fluisce coerentemente dallo stile di vita di Gesù, testimoniato dal Vangelo, da cui sono nati impulsi per determinate attuazioni. Ora Gesù, che si è donato come sposo una volta per sempre a tutta la Chiesa e si rivolge, attraverso di essa, all'umanità senza discriminazione alcuna, ha costituito il ministero ordinato. Lo stile di vita dei ministri, che deve riflettere in modo particolare quello del Maestro, si è concretizzato sin dal periodo apostolico anche con il celibato o almeno con la perfetta continenza, senza affatto svilire il valore del matrimonio, anzi confermandolo con la propria testimonianza. Essendo il celibato secondo il Nuovo Testamento una delle forme più importanti della sequela di Cristo, esso è stato praticato ed esigito senza che fosse in alcun modo violata la libertà di coloro che, conformati a Cristo con l'ordinazione, avevano anche la missione di testimoniare che la Chiesa fa costante riferimento a Cristo come suo unico sposo. Nel mondo d'oggi, in cui alcuni non sembrano percepire facilmente il senso del celibato sacerdotale, è indispensabile offrirne la vera giustificazione nella sequela di Cristo, inserirlo nell'ambito della radicalità evangelica, anche se non nella modalità della vita consacrata, e sottolineare, tra l'altro, che per il celibato che Gesù offre al sacerdote, questi non è isolato né allontanato dal mondo ma, secondo una visuale di fede, è pienamente incarnato, inserito nella storia e in comunione con tutti. Merito anche di Heid è l'aver fatto vedere lo sviluppo della comprensione del celibato e della continenza sacerdotale nei primi secoli, anche se non sono mancate difficoltà e contrasti. Si sono quindi già allora poste le basi indispensabili per comprendere in ogni tempo il ministero sacerdotale nella sua verità e bellezza e per attuarlo con dedizione totale e gioia profonda. 
 

Note:

1) Stefan Heid, Zölibat in der frühen Kirche. Die Anfänge einer Enthaltsamkeitsflicht für Kleriker in Ost und West, Ferdinand Schoening, Paderborn-Monaco-Vienna-Zurigo 1997, 339pp. 
2) Gryson R., Dix Ans de Recherches sur les Origines du Célibat ecclésiastique. Réflexion sur le pubblications des années 19701979, in Revue Théologique de Louvain 11 (1980) 157-185. Id., Les Origines du Célibat ecclésiastique du premier au septième siècle, Gembloux 1970. 
3) Franzen A., Zölibat und Priesterehe in der Auseinandersetzung der Reformationszeit und der katholischen Reform des 16. Jh.s., Münster, ed. 2, 1970. (Celibato e matrimonio dei preti nelle controversie del tempo della Riforma e della Riforma cattolica). 
4) Denzler G., Zur Geschichte des Zölibats, Freiburg, 1993 (Storia del celibato). 
5) Cochini C. Origines apostoliques du célibat sacerdotal, Le Sycamore, LetuielleuxNamur-Paris 1981; Id., “Il Celibato sacerdotale nella tradizione primitiva della Chiesa”, in G. Pittau-C. Sepe (curr), Identità e missione del sacerdote, Città Nuova, Roma 1994, pp. 166-189. 
6) Cholij R. “Il celibato nei Padri e nella storia della Chiesa”, in Solo per amore, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1993, pp. 27-47; Id., Clerical Celibacy in East and West, Hereforshire 1989. 
7) Stickler A.M., Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Lib. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1994; Id. ; “Evoluzione della disciplina del celibato nella Chiesa d'Occidente dalla fine dell'età patristica al Concilio di Trento”, in Coppens J (cur.), Sacerdozio e celibato, ed., Ancora, Roma 1975, pp. 505-509. Cfr anche Cattaneo E. I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, ed., Paoline, Cinisello Balsamo 1997, pp. 132-144.
8) Citato da Cochini, “Fondamenti storici del celibato sacerdotale”, in Sacrum Ministerium 3 (1997) 2, 74. 
9) Così Girolamo, Contro Gioviniano 1, 35, scrive: Oportet ergo episcopum irrepreehnsibilem esse, ut nulli vitio mancipatus sit; unius uxoris virum qui unam uxorem habuerit, non habeat, PL 232, 470. 
10) Gryson R. Les Origines du Célibat, cit. p. 127. 
11) In Contro Vigilanzio 2, PL 23, 2, 356, s. Girolamo fa osservare con impeto: “Che farebbero le Chiese d'Oriente? Che farebbero quelle dell'Egitto e della Sede apostolica, che accettano solo chierici celibi o continenti, o che, se hanno avuto una moglie, hanno rinunciato alla vita matrimoniale?”. 
12) Novella 6, cap. I. 
13) Novella 123 (546), cap. 29. 14) Cochini, Il celibato sacerdotale..., cit., p. 185.






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giovedì 2 ottobre 2014

FONDAMENTO BIBLICO DEL CELIBATO SACERDOTALE.


IL FONDAMENTO BIBLICO DEL CELIBATO SACERDOTALE.
di Ignace de la Potterie S. I.

 Da diversi secoli viene discussa la questione se l'obbligo del celibato per i chierici degli Ordini maggiori (o almeno quello di vivere nella continenza per quanti erano sposati) sia di origine biblica oppure risalga soltanto a una tradizione ec­clesiastica, dal IV secolo in poi, perché fin da quel periodo, indubbiamente, esiste al riguardo una legislazione irrecusabile. La prima soluzione è stata recentemente presentata di nuovo con una straordinaria dovizia di materiali da C. Cochini: “Origini apostoliche del celibato sacerdotale”[1]. La posizione dell'autore, chiaramente espressa nel titolo, sembra che si possa e si debba mantenere, purché si tenga atten­tamente conto con lui, meglio forse che nel passato, della crescita della tradizione antica, punto sul quale hanno insistito anche A. M. Stickler nella sua prefazione[2] e H. Crouzel in una recensione[3]; in altri termini, si deve dire che l'obbligodella continenza (o del celibato) è diventato legge canonica soltanto nel IV secolo, ma che anteriormente, fin dal tempo apostolico, veniva già proposto ai ministri della Chiesa l'ideale di vivere nella continenza (o nel celibato); e che quell'ideale era già profondamente sentito e vissuto come una esigenza da parecchi (per esempio Tertulliano e Origene), ma che non era ancora imposto a tutti i chierici degli Ordini maggiori: era un principio vitale, una semente, chiaramente presente fin dal tempo degli apostoli, ma che doveva poi progressivamente svilupparsi fino alla legislazione ecclesiastica del IV secolo[4].


In questa medesima linea sembra orientarsi anche il recente Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1579), il quale, pru­dentemente, non menziona nemmeno la legge canonica del celibato, che pur esiste sempre nel diritto attuale della Chie­sa (CIC 277, § 1), ma indica soltanto le sue motivazioni bibliche: però, anche qui, non rimanda più (come spesso nel passato) all'Antico Testamento, cita solo due passi del Nuo­vo Testamento: quello di Mt 19,12, sul celibato “ per il Re­gno dei cieli ”, poi il testo paolino di 1 Cor 7,32, dove si parla di coloro che sono “chiamati a consacrarsi con cuore indivi­so al Signore e alle "sue cose" ”; e si aggiunge infine che, “abbracciato con cuore gioioso, esso (il celibato) annuncia in modo radioso il Regno di Dio”. Certo, si potrebbero an­cora citare qui altri passi del Nuovo Testamento a cui riman­dava, per esempio, Paolo VI nella sua Enciclica Sacerdotalis coelibatus (nn. 17‑35), per indicare le ragioni del sacro celi­bato (il suo significato cristologico, ecclesiologico ed escato­logico). Ma il problema è che questi diversi testi descrivono, come un ideale tipicamente cristiano, il valore teologico e spi­rituale del celibato in genere; questo ideale, però, vale anche per i religiosi e per le persone consacrate nel mondo; non in­dicano una connessione speciale con i ministeri nella Chiesa.

La domanda precisa che si pone quindi è questa: esistono nella Sacra Scrittura dei testi che indichino un nesso specifico tra celibato e sacerdozio? Sembra di sì. Ma si dovrebbero a que­sto scopo meglio valutare certi passi neotestamentari che stra­namente non vengono quasi più presi in considerazione nelle discussioni recenti: sono i testi in cui viene proposta la norma paolina (molto controversa, è vero) dell'“ unius uxoris vir ”[5],  per l'analisi dellaquale anche C. Cochini ha portato recen­temente materiali nuovi. Questo principio, enunciato più volte nelle Lettere Pastorali, ha nel nostro caso un'importanza unica per due ragioni. La prima é, come hanno mostrato bene tan­to A. M. Stickler[6] quanto C. Cochini[7], che la clausola è una delle formule principali sulle quali si basava la Tradizione an­tica per rivendicare proprio l'origine apostolica della legge del celibato sacerdotale.Questo però era senza dubbio un enorme paradosso: come è possibile fondare il celibatodei sacerdoti partendo da testi che parlano di ministri sposati? Un tale ragionamento può avere qualche senso soltanto se si trova tra i due estremi (il matrimonio dei ministri e il celi­bato) un termine medio: è quello della continenza a cui si ob­bligavano proprio i ministrisposati. E probabilmente per­ché questo valore di mediazione della continenza non è stato più capito in seguito, che in tempi recenti la formula “ unius uxoris vir ” non è più stata usata nelle discussioni sul celiba­to. E’ molto opportuno oggi riesaminare attentamente quel­l'argomento tradizionale. L'altra ragione per cui questi testi sono specialmente importanti dal punto di vista strettamen­te biblico sta nel fatto che sono gli unici passi del Nuovo Te­stamento in cui viene emanata una norma identica per i tre gruppi dei ministri ordinati, e solo per loro: infatti, secondo le Lettere Pastorali, deve essere “ unius uxoris vir” sia l'epi­scopo (1 Tm 3,2), sia il presbitero (Tt 1,6), sia il diacono (1 Tm 3,12), mentre quella formula (tecnica a quanto sembra) non viene mai adoperata per gli altri cristiani. C'è qui dunque una esigenza specifica per l'esercizio del sacerdozio ministeriale in quanto tale. D'altra parte, si deve osservare anche che la formula complementare “ unius viri uxor”(1Tm 5,9) viene usata soltanto per una vedova di almeno sessant'anni, ossia, non per una cristiana qualsiasi, ma per una donna anziana che esercitava anch'essa un ministero nella comunità (pos­siamo paragonarlo a quello delle diaconesse nella tradizione antica). Il carattere stereotipato di questa formula delle Pa­storali fa sospettare che doveva essere già radicata in una lunga tradizione biblica [8].
Che cosa significa dunque il fatto che il ministro della Chie­sa doveva essere “l'uomo di una sola donna”?
Nelle pagine seguenti vorremmo mostrare innanzi tutto che la formula “unius uxoris vir” fin dal IV secolo era intesa, come lo spiega bene A. M. Stickler, “ (nel) senso di un argo­mento biblico in favore del celibato d'ispirazione apostoli­ca: si interpretava infatti la norma paolina nel senso di una garanzia che permetteva di assicurare l'osservanza effettiva dellacontinenza presso i ministri sposati prima della loro or­dinazione”[9]. Nella seconda parte faremo un passo in avan­ti: proporremo un approfondimento teologico della clausola paolina stessa, per mostrare che, già al livello del Nuovo Testamento, essa propone infatti, per il sacerdozio ministe­riale, il modello del rapporto sponsale tra Cristo‑Sposo e Chiesa‑Sposa, sulla base della mistica del matrimonio di cui Paolo parla più volte nelle sue lettere (cfr. 2Cor 11,2; Ef 5,22‑32)[10]; partendo da lì, apparirà abbastanza chiaro che, per i ministri sposati, la loro ordinazione implicava l'invito a vivere in seguito nella continenza.

La clausola “unius uxoris vir”: un argomento della tradizione antica per l'origine apostolica del celibato‑continenza

a)    La legislazione ecclesiastica a partire dal IV secolo

C’è un accordo generale tra gli studiosi per dire che l'ob­bligo del celibato o almeno della continenza è diventato legge canonica fin dal IV secolo. Ripetutamente vengono citati qui diversi testi inconfutabilitre decretali pontificie attorno al 385 (“ Decreta” e “ Cum in unum ” del papa Siricio, “ Do­minus inter” di Siricio o di Damaso) e un canone del conci­lio di Cartagine del 390[11].

Ma è importante osservare che i legislatori del IV o V se­colo affermavano che questa disposizione canonica era fon­data su una tradizione apostolica. Diceva per esempio il con­cilio di Cartagine: conviene che quelli che sono al servizio dei divini sacramenti sianoperfettamente continenti (conti­nentes esse in omnibus), “ affinché ciò che hanno insegnato gli apostoli e ha mantenuto l'antichità stessa, lo osserviamo anche noi”[12]. Fu poi votato all'unanimità il decreto stesso sull'obbligo della continenza: “Piace a tutti che il vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dall'unione coniugale con le loro spose (ab uxoribus se ab­stineant), affinché venga custodita la purezza perfetta di co­loro che servono all'altare”. Non viene esplicitamente citato qui l'“ unius uxoris vir ” paolino; ma il riferimento a quella clausola è implicito, perché vengono menzionati, come nelle Pastorali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Del resto, la cita­zione di 1Tm 3,2 è perfettamente esplicita in un testo un po' anteriore, la decretale “Cum in unum” di Siricio stesso, che presentava le norme del concilio di Roma del 386; qui, il pa­pa formula prima una obiezione: l'espressione “unius uxo­ris vir” di 1Tm 3,2, dicevano alcuni, esprimerebbe per il ve­scovo proprio il diritto di usare del matrimonio dopo l'ordi­nazione sacra; Siricio risponde presentando la propria inter­pretazione della clausola: “Egli (Paolo) non ha parlato di un uomo che persisterebbenel desiderio di generare (non per­manentem in desiderio generandi dixit); ha parlato in vista della continenza che avrebbero da osservare in futuro (prop­ter continentiam futuram)”. Questo testo fondamentale è stato ripetuto diverse volte in seguito[13]; viene commentato co­si da C. Cochini: “ La monogamia, [ossia la legge dell`unius uxoris vir] è una condizione per accedere agli Ordini, per­ché la fedeltà [finora osservata] a una sola donna è la garan­zia per verificare che il candidato sarà capace [in futuro] di praticare la continenza perfetta che verrà chiesta da lui dopo l'ordinazione”[14]. E l'autore prosegue: “Questa esegesi del­le prescrizioni di san Paolo a Timoteo e a Tito è un anello essenziale col quale i vescovi del sinodo romano del 386 e il papa Siricio si situano in continuità con l'età “ apostolica”.
Ma questa esegesi, per la quale si rivendicava una tradi­zione apostolica, è veramente fondata? Non senza ragione alcuni lo mettono in dubbio[15]. Infatti si devono porre qui al­cune domande: non è un po' strano scoprire nel comporta­ mento passato del ministro sposato (cioè la sua fedeltà a una sola donna, anche nei rapporti sessuali) una sufficiente ga­ranzia per il suo comportamento futuro, ma diverso (ossia la continenza nelle relazioni coniugali con quella medesima donna, la sua legittima sposa?) I legislatori vedevano nel pas­sato una garanzia per il futuro, ma stavano operando allo stesso tempo un cambiamento di registro: dall'uso (legitti­mo) del matrimonio alla rinuncia a quello. Per legittimare quel doppio passaggio, dal passato al futuro e dai rapporti sessuali alla continenza coniugale, ci vuole un tertium quid che lo spieghi: una tale legittimazione sarà possibile soltanto se si presenta di questa formula stessa un'interpretazione che ne faccia vedere forse qualche aspetto nascosto che finora non si era visto. E’ ciò che cercheremo di fare nella seconda parte.

Ma vorremmo prima esaminare brevemente se non ci so­no, nella storia dell'esegesi e della legislazione canonica, de­gli elementi che aiutino a comprendere più profondamente la clausola paolina.

b) Motivazioni teologiche della continenza
e del celibato dei sacerdoti

Dal tempo dei Padri fino a oggi ci troviamo confrontati con due interpretazioni diverse della formula paolina: per gli uni, la norma “unius uxoris vir ” proibisce la poligamia suc­cessiva;per gli altri, soltanto la poligamia simultanea[16].

La prima soluzione è senz'altro la più tradizionale: l'espressione significa allora che i ministri sacri potevano, sì, essere uomini sposati. ma una volta soltanto; e se la moglie era mor­ta. non potevano aver fatto un secondo matrimonio e non potevano risposarsi. Oggi ancora, questa interpretazione è la più comune tra gli esegeti cattolici. Secondo l'altra solu­zione, invece, “ unius uxoris vir ” significa soltanto l'interdi­zione di vivere contemporaneamente con diverse donne: sa­rebbe semplicemente la raccomandazione di osservare la mo­rale coniugale.
Ma nessuna delle due soluzioni è pienamente soddisfacen­te. Alla prima si obietta: se l'unione in cui viveva finora il ministro sposato era onesta, perché non avrebbe potuto es­serlo un secondo matrimonio, dopo la morte della consorte? E' tanto più vero che l'Apostolo stesso da una parte richiede­va che la vedova anziana che serviva la comunità fosse stata “unius viri uxor” (1Tm 5,9), dall'altra consigliava alle gio­vani di risposarsi (1Tm 5,14).Ma l'altra soluzione fa ugual­mente difficoltà.: la fedeltà coniugale nella vita matrimonia­le è certamente richiesta da tutti i cristiani. Per quale motivo allora l'espressione “ unius uxoris vir ” (e analogamente “ unius viri uxor ”) viene usata unicamente per coloro che esercitano un ministero nella comunità?

Aggiungiamo che la seconda interpretazione non va oltre il semplice livello della morale generale: applicata ai ministri della Chiesa ha qualcosa di banale, di riduttivo. La prima ‑ l'interdizione di un secondo matrimonio ‑ è piuttosto di carattere disciplinare e canonico, ma non viene indicato il suo fondamento teologico. La stessa lacuna, del resto, si notava già per la legislazione canonica del secolo IV: papa Siricio e tanti altri dopo di lui leggevano nella clausola paolina l'ob­bligo alla continenza per il clero sposato. Davano, è vero, un argomento: la purezza richiesta per avvicinarsi all'altare. Ma bisogna riconoscere che di quello non si parla affatto nel testo delle Pastorali.

Alla fine della sua indagine storica, anche A. M. Stickler riconosceva che, in tutto questo problema del celibato sacer­dotale, si era rimasti troppo al livello giuridico[17]; in quella lunga storia é mancata la riflessione teologica sul senso pro­fondo del sacerdozio ministeriale, sulla motivazione del suo celibato e sul suo valore spirituale. Questo è particolarmente vero per l'uso canonico che si faceva della norma “ unius uxoris vir”, dal secolo IV in poi. Bisogna quindi cercare, nella tradizione patristica e canonica stessa, se venivano date tal­volta delle motivazioni teologiche, per fondare sulla clauso­la paolina l'obbligo disciplinare della continenza del clero.

Tre testimonianze sono qui significative.
In primo luogo quella di Tertulliano, all'inizio del III secolo. Egli ricorda che la monogamianon è solo una disciplina ecclesiastica, ma an­che un precetto dell'Apostolo[18]. Risale quindi al tempo apo­stolico. D'altra parte, insiste sul fatto che parecchi credenti, nella Chiesa, non sono sposati, vivono nella continenza, e che diversi di loro appartengono agli “ Ordini, ecclesiasti­ci ”[19]; ora, gli uomini e le donne che vivono così, prosegue Tertulliano, “ hanno preferito sposare Dio ” (Deo nubere ma­luerunt)[20]a proposito delle vergini, egli precisa che sono “ spose di Cristo”[21]. Ma quale legame c'è tra il matrimonio monogamicoda una parte e la continenza dall'altra? Tertul­liano non lo dice, ma porta qui l'esempio di Cristo che, se­condo la carne, non era sposato, viveva da celibe (non era quindi “un uomo di una sola donna”); però, nello spirito, “ aveva una sola sposa, la Chiesa ” (unam habens ecclesiam sponsam)[22]. Questa dottrina delle nozze spirituali di Cristo con la Chiesa, ispirata qui dal testo paolino di Ef 5,25‑32, era comune nel cristianesimo antico; Tertulliano vedeva in quelle nozze spirituali uno dei principali fondamenti teolo­gici della legge del matrimonio monogamico: “ perché uno è" il Cristo e una la sua Chiesa ” (unus enim Christus et una eius ecclesia)[23].Non risulta però che Tertulliano abbia già connesso questa dottrina con le formule “unius uxoris vir” o “unius viri uxor” delle Lettere Pastorali, dove si parla espli­citamente del matrimonio monogamico; è quella connessio­ne dei due temi che noi invece cercheremo di stabilire più avan­ti. Del resto, il ragionamento di Tertulliano, nell'ultimo te­sto citato, non era veramente fondato: il problema di Ef 5,25‑32 non era quello del matrimonio monogamico: era, in genere, il problema del rapporto di ogni matrimonio cristia­no con l'Alleanza; Paolo parla li di tutti gli sposi nella Chie­sa; quando l'Apostolo, con un riferimento a Gn 2,24, dice che l'uomo e la donna “ saranno una sola carne ” (v. 31), egli legittima per loro l'uso del matrimonio[24]; la formula “ unius uxoris vir ” delle Lettere Pastorali, invece, non viene usata per tutti gli sposi, ma unicamente per i ministri della Chiesa (questo fatto è stato troppo poco osservato); anzi, in seguito verrà considerata come la base biblica della legge della continenza per i chierici. Questo è il punto che rimane da chiarire.

Con sant'Agostino facciamo un passo avanti. Egli, che ave­va preso parte ai lavori dei sinodi africani, conosceva certa­mente la legge ecclesiastica della “continenza dei chierici”[25]. Ma come Agostino spiega allora la clausola “unius uxoris vir ” che viene usata da Paolo per i chierici sposati? Nel De bono coniugali (verso il 420) egli ne propone una spiegazio­ne teologica, e si domanda perché la poligamia era accettata nell'Antico Testamento, mentre “nel nostro tempo, il sacra­mento è stato ridotto all'unione fra un solo uomo una sola donna; e di conseguenza non è lecito ordinare ministro della Chiesa (Ecclesiae dispensatorem) se non un uomo che abbia avuto una sola moglie (unius uxoris virum) ”; ed ecco la ri­sposta di Agostino: “Come le numerose mogli (plures uxo­res) degli antichi Padri simboleggiavano le nostre future chiese di tutte le genti soggette all'unico uomo Cristo (uni viro sub­ditas Christo), così la guida dei fedeli (noster antistes, il no­stro vescovo) che è l'uomo di una sola donna (unius uxoris­ vir) significa l'unità di tutte le genti soggette all'unico uomo Cristo (uni viro subditam. Christo)”[26]. In questo testo, do­ve troviamo la formula “unius uxoris vir” applicata al ve­scovo. Tutto l'accento cade sul fatto che lui, “l'uomo ”, nel­le relazioni con la sua “donna”, simboleggia il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Un uso analogo dei termini uomo e don­na si trova in un passo del De continentia:“L'Apostolo ci invita a osservare per così dire tre coppie (copulas): Cristo e la Chiesa, ilmarito e la moglie, lo spirito e la carne”[27]. Il suggerimento fornitoci da questi testi per l'interpretazione del­la clausola “unius uxoris vir” applicata al ministro (sposa­to) del sacramento è che egli, come ministro, non rappresenta soltanto la seconda coppia (il marito e la moglie), ma an­che la prima: egli impersona ormai Cristo nel suo rapporto sponsale con la Chiesa. Abbiamo qui il fondamento della dot­trina che diventerà classica: “ Sacerdos alter Christus ”. Il sa­cerdote, come Cristo, è lo sposo della Chiesa.

Un'ultima parola ancora sulla legislazione canonica del Me­dioevo. Diverse volte, nei libri penitenziali, si dice che, per un chierico sposato, avere ancora, dopo l'ordinazione, dei rapporti coniugali con la propria moglie, rappresenterebbe un'infedeltà alla promessa fatta a Dio; anzi, sarebbe un adul­terium, perché, essendo quel ministro ormai sposo della Chie­sa, il suo rapporto con la propria sposa “ appare come una violazione di un legame matrimoniale”[28]. Questa pesante ac­cusa a un uomo legittimamente sposato e onesto può soltan­to avere senso se si sottintende, come una cosa risaputa, che il ministro sacro, dal momento della sua ordinazione, vive ormai in un altro rapporto, anch'esso di tipo sponsale, quel­lo che unisce Cristo e la Chiesa, nel quale egli, il ministro, l'uomo (vir), rappresenta Cristo‑Sposo; con la propria spo­sa (uxor), quindi, “ l'unione. carnale deve (ormai) diventare spirituale ”, come diceva san Leone Magno[29].
Con queste diverse premesse storiche e teologiche, abbia­mo raccolto abbastanza materiale per affrontare il proble­ma esegetico, cioè per fare un'analisi precisa della formula stessa “unius uxoris vir” delle Lettere Pastorali.

“Unius uxoris vir”: una formula di Alleanza

Abbiamo visto precedentemente che, delle due interpreta­zioni tradizionali della clausola, l'una (la più diffusa) era di tipo disciplinare, l'altra esclusivamente morale. Ma non ve­niva quasi mai indicato perché un ministro della Chiesa doveva essere “l'uomo di una sola donna”.Vorremmo mostrare adesso che la ragione di questa norma, il suo senso profondo e le sue implicazioni sono già presenti nel testo stesso, s si riesce ad analizzarlo bene. Bisogna anzitutto chiarire il problema della provenienza di questa formula misteriosa, il cui carattere fisso, tecnico, stereotipato, è innegabile. Diciamo lo subito: la clausola è in realtà una formula di Alleanza Questo diventa chiaro quando si tiene presente il parallelismo tra la formula delle Lettere Pastorali con il passo di 2Cor 11,2, dove Paolo presenta la Chiesa di Corinto come una donna, come una sposa, che egli ha presentato a Cristo come una vergine casta:
“ Io sono geloso di voi della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati ad un solo uomo (uni viro), per presentarvi a Cristo come una vergine pura”.
Il contesto di questo brano è specialmente chiaro se connesso con 1Tm 5,9; la stessa formula “unus vir” viene usata per parlare dei rapporti sia della Chiesa, con Cristo, sia di quelli della vedova che ha avuto un solo uomo e che svolge un ministero nella comunità. In 2Cor 11,2, la sposa di Cri­sto e la Chiesa stessa.
Rileggiamo più attentamente il testo.
La gelosia di cui parla Paolo è una partecipazione alla “ge­losia ” di Dio per il suo popolo[30]: è lo zelo da cui è divorato l'Apostolo affinché i suoi cristiani rimangano fedeli all'Al­leanza fatta con Cristo, che è il loro vero e unico Sposo. Un altro dettaglio conferma questa lettura: la Chiesa‑Sposa vie­ne paradossalmente presentata a Cristo‑Sposo come “una ver­gine pura”; è un rimando alla Figlia di Síon, talvolta chia­mata dai profeti “vergine Sion”, “vergine Israele”[31], spe­cialmente quando viene invitata, dopo le infedeltà del passa­to, a essere di nuovo fedele all'Alleanza, al suo rapporto spon­sale con il suo unico Sposo.
L'altro passo decisivo del Nuovo Testamento è il testo classico di Ef 5,22‑33: l'uomo e la donna, uniti in matrimonio, sono l'immagine di Cristo e della Chiesa; ora il Cristo, lo Spo­so, ha offerto se stesso per la Chiesa, al fine di farsene una sposa gloriosa, santa e immacolata (cfr. vv. 26‑27).
Ma il fatto che l'espressione “ unius uxoris vir ” non venga usata qui nella lettera agli Efesini per tutti gli sposi cristiani, e sia riservata nelle Pastorali al ministro sposato, mostra che la formula fa direttamente riferimento al ministero sacerdo­tale e al rapporto Cristo‑Chiesa: il ministro deve essere co­me Cristo‑Sposo.
Sottolineiamo un’altra conseguenza importante del colle­gamento tra “unius uxoris vir” (o “unius viri uxor”) delle Pastorali con il passo di 2Cor 11,2: è il fatto che la Chiesa­-Sposa è chiamata “vergine pura”. L'amore sponsale tra il Cristo‑Sposo e la Chiesa‑Sposa rimane sempre un amore ver­ginale.

Per la Chiesa di Corinto (dove ovviamente la grande mag­gioranza dei cristiani era sposata), si trattava direttamente di ciò che Agostino chiama la virginitas fidei, la virginitas cordis, la fede incontaminata[32] , ben descritta anche da san Leone Magno: “ Discat Sponsa Verbi non alium virum nos­se quam Christum”[33]. Ma per i ministri sposati di cui par­lano le Lettere Pastorali, è normale che ‑ in quella visione mistica del loro ministero ‑ l'appello radicale alla virginitas cordis sia stato vissuto da loro anche come un appello alla virginitas carnis verso la propria moglie, ossia, quale appel­lo alla continenza, come è diventato chiaro nella Tradizio­ne, almeno dal secolo IV in poi. Non si tratta più, allora, di una prescrizione ecclesiastica, esteriore, bensì di una per­cezione interiore del fatto che l'ordinazione fa di lui, come ministro, un rappresentante di Cristo‑Sposo, in relazione con la Chiesa, Sposa e Vergine, e che non può quindi vivere con un’altra sposa.

Il rapporto decisivo dell'“ unius uxoris vir ” delle Pastora­li con la “vergine pura” di 2Cor 11, 2 è stato sottolineato anche molto bene da E. Tauzin: gli uomini che sono consacrati a Dio, dice, “devono rappresentare Cristo: ora, lui è soltanto lo Sposo di una sola Sposa, la Chiesa: "Virginem castam exhibere Christo"”[34]. E applica poi questo principio alla parabola di Mt 25,1‑13, dove le dieci “vergini”, che sono (al plurale) le spose di Cristo, rappresentano in realtà la sua unic sposa: “Esteriormente, c'è molteplicità, interiormente l'unità. La migliore immagine esteriore dell'unità interiore non è forse la verginità? ”.
Questa argomentazione sacramentale e spirituali dell'“unius uxoris vir”, fondata sulla teologia dell'Alleanza, emerge nella Tradizione occidentale già con Tertulliano, poi con sant'Agostino e san Leone Magno. La troviamo ben compendiata da san Tommaso, nel suo commento di 1Tm 3,2 (“Oportet ergo episcopum... esse, unius uxoris virum”): “Questo si fa, non solo per evitare l'incontinenza, ma per rappresentare il sacramento, perché lo Sposo della Chiesa è Cristo, e la Chiesa è una: "Una est columba mea" (Cant 6,9)”[35]. Ma san Tommaso non fa ancora il confronto con il testo di 2Cor 11,2, che parla della Sposa‑Vergine; perciò non aggiunge che il valore di rappresentanza del sacerdoziomonogamico comporta anche per il ministro sposato l'ap­pello alla continenza e, conseguentemente, per coloro che non sono sposati, l'appello al celibato.

Conclusione
 Per comprendere bene il modo in cui abbiamo cercato di indicare il fondamento biblico del celibato sacerdotale, è im­portante distinguere celibato e continenza. Nella Chiesa antica molti sacerdoti erano sposati. Questo spiega il fatto che, proprio per parlare dei ministri della Chiesa, venisse usata la formula “unius uxoris vir”; spiega inoltre il grande inte­resse dei Padri per il matrimonio monogamico (cfr. per esem­pio Tertulliano: De monogamia). Ma è diventato sempre più chiaro nella Tradizione che per un ministro della Chiesa, unito una sola volta in matrimonio con una donna, l'accettazione del ministero portasse come conseguenza che egli in seguito avrebbe dovuto vivere nella continenza.
 In tempi più recenti è stata introdotta la separazione tra sa­cerdozio e matrimonio. Pertanto la formula “ unius uxoris vir ”, intesa alla lettera e materialmente, non è più di applicazione immediata per i sacerdoti di oggi, i quali non sono sposati. Ma, proprio qui, paradossalmente, sta ancora l'interesse della for­mula. Bisogna partire dal fatto che, nella Chiesa apostolica, veniva usata solo per i chierici; prendeva cosi, oltre il senso im­mediato dei rapporti coniugali, un senso nuovo, mistico, un collegamento diretto con le nozze spirituali di Cristo e della Chiesa questo lo insinuava già Paolo; per lui, “unius uxo­ris vir” era una formula di Alleanza: introduceva il ministro sposato nella relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa; per Pao­lo, la Chiesa era una “vergine pura”, era la “Sposa” di Cristo. Ma questo collegamento tra il ministro e Cristo, essendo dovuto al sacramento dell'ordinazione, non richiede più og­gi, come supporto umano del simbolismo, un vero matrimo­nio del ministro; perciò la formula vale tuttora per i sacerdoti della Chiesa, benché non siano sposati; quindi, ciò che nel pas­sato era la continenza per i ministri sposati diventa nel nostro tempo ilcelibato di quelli che non lo sono. Però il senso sim­bolico e spirituale dell'espressione “ unius uxoris vir ” rimane sempre lo stesso. Anzi, poiché contiene un riferimento diret­to all'Alleanza, ossia al rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, ci invita a dare oggi, molto più che nel passato, una grande im­portanza al fatto che il ministro della Chiesa rappresentaCristo‑Sposo di fronte alla Chiesa‑Sposa. In questo senso, il sacerdote deve essere “l'uomo di una sola donna”; ma quel­l'unica donna, la sua sposa, è per lui la Chiesa che, come Maria la sposa di Cristo.

E’ proprio così che si esprime diverse volte Giovanni Pao­lo Il nella sua lettera post‑sinodalePastores dabo vobis.
A mo' di conclusione, ne citiamo alcuni passi più significativi.
Al n. 12, dopo aver ricordato che, per l'identità del presbitero, non è prioritario il riferimento alla Chiesa, bensì i riferimento a Cristo, il papa continua: “ In quanto mistero infatti, la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo: Lui, infatti, è la pienezza, il corpo, la sposa ( ... ). Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell'essere una de­rivazione, una partecipazione specifica e una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eter­na Alleanza: egli è un'immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua as­soluta "novità" nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristia­no e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali ”.

Sulla base di questa strettissima unità tra il presbitero e Cri­sto, si comprende meglio la ragione teologica profonda del celibato.
Il n. 22 è intitolato: “Testimone dell'amore sponsale di Cri­sto”. Più avanti: “Il sacerdote è chiamato a essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa ”. Cita poi una pro­posizione del sinodo: “ In quanto ripresenta Cristo capo, pa­store e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa ”.
Al n. 29, proprio nel paragrafo dove parla della verginità e del celibato, il Santo Padre cita per intero la propositio 11 del sinodo su questo argomento; poi, per spiegare la “ moti­vazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato ”, scrive: “ La volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazio­ne nel legame che il celibato ha con l'Ordinazione sacra, che configura il sacerdote e Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere ama­ta dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l'ha amata ”.


[1] Ch.Cochini, Origines apostoliques du célibat sacerdtal (Le Sycomore), Cul­ture et vérité, Lethielleux/Namur, Paris 1981.Sul problema molto discusso oggi del celibato nella Chiesa, si può consultare un numero speciale della rivista Conci­lium: Le Célibat du Sacerdoce catholique, in Concilium 78 (1972).

[2] A. M. Stickler, in Origines apostoliques du célibat sacerdotal, op. ci. Préface, p. 6.
[3] H. Crouzel, Une nouvelle étude sur les origines du célibat ecclésiastique, in Bull. De Litt. Eccl., 83 (1982) 293-297
[4] Cfr.  anche due studi di canonisti: P. Pampaloni, Continenza e celibato del clero. Leggi e motivi delle fonti canoniche dei secoli IV e V, in Studia Patavina 17 (1970) 5‑59; J. Coriden,Célibat. Droit canonique et Synode 1971, in Concilium 78 (1972) 101‑114.

[5] Cfr. il nostro articolo “ Mari d'une seule femme ”.Le sens théologique d'une formule paulinienne, in Paul de Tarse, ap&re du (lege: de) notre temps (a cura di L. De Lorenzi), Roma 1979, 619‑638. Nel presente studio parliamo solo della tra­dizione latina, poiché, come si sa, esiste un'altra disciplina nelle Chiese orientali.

[6] A. M. StickIer, L'évolution de la discipline du célibat dans l'Eglise en Occi­dent de la fin de l’age patristique au Concile de Trente, in Sacerdoce et célibat. Etudès historiques et théologiques (éd. J. Coppens), Gembloux‑Louvain 1971, pp. 373‑442.

[7] Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 5‑6.
[8] Cfr. il nostro studio Mari d'une seule femme, op. cit., p. 635, n. 64, dove mo­striamo che la formula “ unius uxoris vir ” (1 Tm 3,2) esprime la relazione sponsale dell'Alleanza tra Dio e il suo popolo, tra Cristo‑Sposo e la Chiesa‑Sposa; inoltre, la somiglianza della formula di lTm 3,2 con quella, vicina, di lTm 2,5: “ unus Deus, unus... homo Christus Iesus” permette di fare l'aggancio col tema profetico del­l'Alleanza, e di scoprire un legame con l'AT; cfr. specialmente Mal 2,14 (LXX): “ la donna della tua alleanza ”; 2, 10: “ l'alleanza dei nostri padri ”.

[9] A. M. Stickler, Préface, in Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 5‑6 (corsivo nostro).

              [10] Cfr. il nostro articolo La struttura di alleanza del sacerdozio ministeriale,in Communio 112 (luglio‑ agosto 1990) 102‑114, dove riprendiamo sinteticamente i ri­sultati dello studio anteriore: Mari dune seule femme, op. cit., per farne poi una applicazione specifica sia al caso del celibato sacerdotale sia a quello del sacerdozio degli uomini (non delle donne).

[11] Per questa parte storica, si vedano i testi in Ch. Cochini, Origines apostoli­ques, op. cit., pp. 19‑26.

[12] Il testo (ripreso da CCL 149, 13) si trova nell'originale latino con una versio­ne francese in Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 25‑26.

[13] Per la decretale “ Cum in unum ” di papa Siricio, cfr. Ep. V, e. 9 (PL 13, 1161 A); si trova anche nel concilio africano di Telepte (418): Conc. Thelense (CCL 149,62): trad. francese: Cochiní, Origines apostoliques, op. cit., p. 32; si vedano inoltre le due lettere di papa Innocenzo 1 (404‑405) ai vescovi Vittricio di Rouen ed Esuperio di To­losa: Ep. I I, (PL 20, 476 A. 497 B; Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 284‑286). Sulla via tracciata dai papi si orientano così l'Africa, la Spagna e le Gallie.

[14] Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., p. 33 (il corsivo è nostro).

[15] Per P. Pampaloni, per esempio, (art. cit., 41‑42) si tratterebbe “ di una for­zatura nella lettura dell'Apostolo ”; egli concede però che, secondo le fonti dell'e­poca, quella interpretazione probabilmente era ritenuta valida: anche H. Crouzel (art. cit., 294) osserva giustamente: se fosse vero, come pensano questi Padri, che l'Apostolo vedeva nella “monogamia” una garanzia di idoneità alla continenza. allora si dovrebbe supporre che, per Paolo, era conosciuto “ che la sposa era morta oppure che il candidato doveva vivere con ella come con una sorella: ciò che di­sgraziatamente il testo paolino non precisa ”. Questo è vero. Ma il testo paolino contiene un contatto letterario con 2Cor 11,2 (cfr. infra), il che permette di ritrova­re indirettamente il tema della continenza che è un tema di Alleanza.

[16] Cfr i1 nostro articolo Mari d'une seule femme, art. cit.: “ I. Histoire de l'e­xégèse ” (pp. 620‑623); “ II. Insuffisance des deux interprétations en présence ” (pp. 624‑628).

[17] A. M. Stickler, L'évolution de la discipline du célibat, op. cit., pp. 441‑442.
             [18] Cfr. Ad uxorem, 1,7,4 (CCL 1, 381); il rimando si fa qui a 1Trn 3,2.12; Tt1,6; si veda anche De exhort. cast, 7,2 (CCL 2,1024).

[19] De exhort. cast, 13,4 (CCL 2, 1035): su questo passo si può vedere il com­mento di Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 168‑171.

[20] Ibid.,; cfr. Ad uxorem, 1,4,4, parlando delle donne che, invece di scegliere un marito hanno preferito una vita verginale: “ Malunt enim Deo nubere. Deo spe­ciosae, Deo sunt puellae ” (CCL 1, 377).

[21] De virg. vel., 16,4: “ Nupsisti enim Christo, illi tradidisti carnem tuam, illi sponsasti maturitatem tuam ” (CCL 2, 1225); De res., 61, 6: “ virgines Christi mari­tae” (CCL 2, 1010).

[22] De monog.,"