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sabato 7 ottobre 2017

Una spiritualità al cui centro c’è Dio, non l’uomo.



Per una circostanza che ritengo altamente provvidenziale in questi giorni mi è stato messo a disposizione l’insegnamento di un monaco ortodosso che mi sta fornendo una serie di osservazioni sulla vita di preghiera e di fede. È un’esperienza bellissima, sorprendente e stimolante, sotto diversi aspetti.
Ammetto di aver sempre avuto un debole per la spiritualità orientale, per molteplici motivi. Forse perché sono ambrosiano e dunque figlio di quell’Ambrogio che è santo anche per le Chiese d’Oriente e ha permesso di conservare nel rito che porta il suo nome influssi provenienti dall’universo bizantino. Forse perché gli orientali non hanno perso per strada, o l’hanno persa meno di noi cattolici, quella dimensione contemplativa che mi sembra così importante e che noi cristiani occidentali rischiamo spesso di considerare invece un po’ secondaria rispetto a quella operativa. Forse perché i riti orientali sono impregnati di una sacralità e di un senso del mistero (e di conseguenza di una bellezza) che fra i cattolici sono andati stemperandosi.
Sia come sia, sto vivendo questa opportunità di confrontarmi con un religioso ortodosso come un autentico dono del Cielo. Ed ecco che cosa mi ha colpito di più, finora.
Prima di tutto il fatto che, per loro, la divina liturgia (la nostra santa messa) è davvero azione sacra, per cui non va presa alla leggera, come semplice rappresentazione. Lì, in quel momento, non si mette in scena qualcosa, non va in onda qualcosa, non si fa una rievocazione, ma si celebra un mistero, la cui sacralità è massima. Ecco perché non è opportuno che alla divina liturgia prenda parte chi ha un altro credo.  Non è un’esclusione: è rispetto del mistero sacro in atto.  Certo, nessun uomo è in grado di vedere nel cuore di un altro uomo, per cui non ci sono, né potrebbero esserci, divieti. Il punto riguarda la considerazione che si ha per la liturgia.
È evidente che qui siamo dinnanzi a un’idea di sacro che da noi si è largamente persa o quanto meno appannata. Da noi la messa più che mistero sacro è diventata assemblea e incontro, e la chiesa, più che luogo reso sacro dalla presenza reale di Cristo e dal mistero eucaristico che lì si rinnova realmente, è diventata appunto il luogo dell’assemblea e dell’incontro. Ecco perché sentirmi dire che la divina liturgia merita il rispetto che si attribuisce alle cose più sacre mi ha lasciato dapprima stupito ma in un secondo tempo ammirato. Rispetto vuol dire anche cura dei dettagli. Vuol dire preservare quello spazio e quel tempo dalle brutture tipiche del mondo: la superficialità, il lasciar correre, il protagonismo, la maleducazione.
Sento già l’obiezione: ma questo è formalismo e, alla fine, fondamentalismo. Non lo so. A me sembra coerenza. Mi sembra giusta considerazione per il sacro e il mistero. Ma da noi è così difficile parlare di sacro e di mistero. Da noi, per esempio, nella liturgia tutto deve essere mostrato, spiegato, illustrato, compreso, digerito. Ma che cos’è l’azione liturgica senza mistero? A che cosa si riduce il sacro se tutto lo sforzo è didascalico? Il sacro non è in larga parte indicibile?
Sento già l’altra obiezione: ma questi sono discorsi preconciliari! Non lo so. A me sembra che da questo fratello d’Oriente mi stia arrivando una lezione salutare, sulla quale sto meditando seriamente.
In secondo luogo mi ha colpito il costante riferimento al giudizio del Signore. In una spiritualità come la nostra, ormai dominata dall’idea di misericordia come vaga consolazione, sentir parlare di nuovo del giudizio divino, e dunque del timor di Dio, è qualcosa che fa pensare. Da noi certe espressioni sono andate quasi perdute, perché la nostra spiritualità è impregnata di sentimentalismo: la fede come una terapia a scopo riabilitativo, il rito come un’esperienza emotiva, la preghiera, quando c’è, come esercizio utile al benessere psicofisico. Per cui l’idea di giudizio, così scomoda perché può anche inquietare e, sì, spaventare, è meglio emarginarla, offuscarla, lasciarla un po’ sullo sfondo, come il residuo di un passato dal quale ci si è finalmente liberati. E invece questo monaco ortodosso l’ha costantemente al centro della sua vita spirituale: tutto si fa in un certo modo, tutto si vive in un certo modo, tutto si pensa e si dice in un  certo modo perché si è giudicati già ora e perché saremo giudicati in via insindacabile e definitiva nell’aldilà. È spaventoso? Non lo so. A me sembra che sia grandioso. Che renda l’uomo grande e importante.
In terzo luogo mi ha colpito la richiesta di non restare sempre fanciulli nella fede. E anche qui il contrasto con la nostra spiritualità è forte. Da noi man mano che si è persa la dimensione del giudizio si è parallelamente incrementata quella della giustificazione, intesa come scusante, come discolpa, come difesa. Per ogni comportamento non in linea con la dottrina, morale o di altro tipo, ecco la scappatoia, ecco il tentativo di comprendere e, appunto, giustificare. Proprio come si fa (ma non si dovrebbe esagerare nemmeno con loro) quando si tratta con i bambini piccoli. Anzi, la dottrina stessa è piegata a questo fine: è bene che sia più flessibile, così da non impensierire nessuno, così da non turbare i nostri equilibri tanto fragili. Ma nella vita di fede non si può restare sempre piccoli nel senso di non sviluppati, di inconsapevoli, di incoscienti. Occorre crescere, proprio come nella vita fisica e affettiva. E per crescere ci vuole l’impegno, ci vuole lo studio, ci vuole l’applicazione, ci vuole la volontà. Altrimenti si resta fermi al sentimentalismo, altrimenti ci si costruisce una fede vaga, a propria misura.
E qui vengo all’ultimo punto: Dio come fine e misura, Gesù come via per la salvezza. Il monaco dice: concentra tutta la tua attenzione sul sacro nome di Cristo, perché è Lui la strada che porta a Dio e alla salvezza. Quindi ripeti spesso: Signore, abbi pietà di me, peccatore. Anche qui la misericordia divina è ben presente, ma non come gentile concessione che raggiunge, a pioggia, un po’ tutti, come elargizione vaga, benevola e comprensiva, bensì come dono, per la precisione dono di salvezza (il più grande, il più decisivo), per chi invoca pietà in quanto si riconosce peccatore! Il monaco suggerisce di esclamarlo a voce alta: Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore. Ripeterlo non farà mai male.
In poche parole, mi sto confrontando con una spiritualità al cui centro c’è Dio, non l’uomo. E c’è l’anima, non lo stato psicofisico. Giusto? Sbagliato? Ognuno può fare le proprie valutazioni.
Per quanto mi riguarda, è come riscoprire un tesoro rimasto a lungo velato, in un angolo. Sapevo della sua esistenza, sapevo che da qualche parte qualcuno l’aveva conservato. Ed ecco che ora, attraverso una via d’Oriente, inaspettatamente e immeritatamente, con semplicità e umiltà, ricevo una parola che mi aiuta a svelarlo. Un miracolo. Nel senso etimologico del termine: qualcosa di cui  meravigliarsi. E quindi qualcosa per cui ringraziare.
AMDG et BVM

lunedì 8 giugno 2015

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI Giovedì, 7 giugno 2012


OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Roma, Giovedì, 7 giugno 2012


Cari fratelli e sorelle!
Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.



Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento. 
E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. 
Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II aveva penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. 

In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. 

Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane ovviamente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. 
In effetti – come spesso avviene – per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro. In questo caso, l’accentuazione giusta posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare

Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. 
E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.



In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia
Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. 

L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.



A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani – ricordo ad esempio quelle di ColoniaLondraZagabriaMadrid. E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso.

 Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita. 
Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. 
Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. 

E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale. Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).



Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. 

E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato. 

La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito
Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). 

Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita.



Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni
Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. 

Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. 

Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. 

Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo. Amen. 

AMDG et BVM

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