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lunedì 16 gennaio 2023

IL LIEVITO dei farisei. Le opinioni sul Figlio dell'uomo. Il primato a Simon Pietro

 


Maria Valtorta: 'L'Evangelo come mi è stato rivelato'

   Cap. CCCXLIII. Il lievito dei farisei. Le opinioni sul Figlio dell’uomo. Il primato a Simon Pietro.

   27 novembre 1945.

   343.1La pianura fiancheggia il Giordano prima che questo si getti nel lago di Merom. Una bella pianura su cui di giorno in giorno crescono più rigogliosi i cereali e s’infiorano gli alberi da frutto. I colli oltre i quali è Cedes sono ora alle spalle dei pellegrini, che infreddoliti camminano lesti nelle prime luci del giorno, guardando con desiderio il sole che ascende e cercandolo non appena il suo raggio tocca i prati e carezza le fronde. Devono avere dormito all’aperto, al massimo in un pagliaio, perché le vesti sono sgualcite e conservano festuche di paglia e foglie secche che essi si vanno levando man mano che le scoprono nella luce più forte.
   Il fiume si annuncia per il suo fruscio, che pare forte nel silenzio mattutino della campagna e per una folta riga di alberi dalle foglie novelle, che tremolano alla lieve brezza del mattino. Ma ancora non si vede, sprofondato come è nella pianura piatta. Quando le sue acque azzurre, ingrossate da numerosi torrentelli che scendono dai colli occidentali, si vedono luccicare fra il verde novello delle sponde, si è quasi sulla riva.
   «Facciamo la riva fino al ponte, oppure passiamo il fiume qui?», chiedono a Gesù che era solo, meditabondo, e che si è fermato ad attenderli.
   «Vedete se c’è barca per passare. È meglio andare di qui…».
   «Sì. Al ponte che è proprio sulla via per Cesarea Paneade potremmo incontrare da capo qualcuno messo sulle tracce», osserva Bartolomeo accigliato, guardando Giuda.
   «No. Non mi guardare male. Io non sapevo di venire qui e non ho detto nulla. Era facile capire che da Sefet Gesù sarebbe andato alle tombe dei rabbi e a Cédès. Ma mai avrei pensato volesse spingersi fino alla capitale di Filippo. Perciò essi lo ignorano. E non li troveremo per mia colpa né per loro volontà. A meno che non abbiano Belzebù che li conduce», dice calmo e umile l’Iscariota.
   «Questo è bene. Perché con certa gente… Bisogna avere occhio e misurare le parole, non lasciare indizi dei nostri progetti. Stare attenti a tutto si deve. Altrimenti la nostra evangelizzazione si tramuterà in perpetua fuga», ribatte Bartolomeo.
   Tornano Giovanni e Andrea. Dicono: «Abbiamo trovato due barche. Ci passano per una dramma a barca. Scendiamo sull’argine».
   E nelle due barchette, in due riprese, passano sull’altra sponda. La pianura piatta e fertile li accoglie anche qui. Una pianura fertile, ma poco popolata. Solo i contadini che la coltivano hanno casa in essa.


   343.2«Umh! Come faremo per il pane? Io ho fame. E qui… non ci sono neppure le spighe filistee… Erba e foglie, foglie e fiori. Non sono una pecorella né un’ape», mormora Pietro ai compagni, che sorridono dell’osservazione.
   Giuda Taddeo si volta — era un poco più avanti — e dice:
   «Compreremo pane al primo paese».
   «Sempre che non ci facciano fuggire», termina Giacomo di Zebedeo.
   «Guardatevi, voi che dite di stare attenti a tutto, dal prendere il lievito dei farisei e dei sadducei. Mi sembra che lo stiate facendo, senza riflettere a ciò che fate di male. State attenti! Guardatevi!», dice Gesù.
   Gli apostoli si guardano l’un l’altro e bisbigliano: «Ma che dice? Il pane ce lo ha dato quella donna del sordomuto e l’oste di Cedes. E questo è ancora qui. L’unico che abbiamo. Né sappiamo se potremo trovarne da prendere per la nostra fame. Come dunque dice che comperiamo da sadducei e farisei pane col loro lievito? Forse non vuole che si comperi in questi paesi…».
   Gesù, che era di nuovo avanti tutto solo, torna a voltarsi.
   «Perché avete paura di rimanere senza pane per la vostra fame? Anche se tutti qui fossero sadducei e farisei, non rimarreste senza cibo per il mio consiglio. Non è di quel lievito che è nel pane che Io parlo. Perciò potrete comperare dove vi pare il pane per i vostri ventri. E se nessuno ve lo volesse vendere, non rimarreste senza pane lo stesso. Non vi ricordate dei cinque pani con cui si sfamarono cinquemila persone? Non vi ricordate che ne raccoglieste dodici panieri colmi di avanzi? Potrei fare per voi, che siete dodici e avete un pane, ciò che feci per cinquemila con cinque pani. Non capite a quale lievito alludo? A quello che gonfia nel cuore dei farisei, sadducei e dottori, contro di Me. È odio, quello. Ed è eresia. Ora voi state andando verso l’odio come fosse entrato in voi parte del lievito farisaico. Non si deve odiare neppure chi ci è nemico. Non aprite neppure uno spiraglio a ciò che non è Dio. Dietro al primo entrerebbero altri elementi contrari a Dio. Talora, per troppo volere combattere con armi uguali i nemici, si finisce a perire o a essere vinti. E, vinti che siate, potreste per contatto assorbire le loro dottrine. No. Abbiate carità e riservatezza. Voi non avete in voi ancora tanto da poterle combattere, queste dottrine, senza esserne infettati. Perché alcuni elementi di esse li avete pure voi. E l’astio per loro ne è uno. Ancora vi dico che essi potrebbero cambiare metodo per sedurvi e levarvi a Me, usandovi mille gentilezze, mostrandosi pentiti, desiderosi di fare pace. Non dovete sfuggirli. Ma quando essi cercheranno darvi le loro dottrine, sappiate non accoglierle. Ecco quale è il lievito di cui parlo. Il malanimo, che è contro l’amore, e le false dottrine. Vi dico: siate prudenti».


   343.3«Quel segno che i farisei chiedevano ieri era “lievito”, Maestro?», chiede Tommaso.
   «Era lievito e veleno».
   «Hai fatto bene a non darglielo».
   «Ma glielo darò un giorno».
   «Quando? Quando?», chiedono curiosi.
   «Un giorno…».
   «E che segno è? Non lo dici neppure a noi, i tuoi apostoli? Perché lo si possa riconoscere subito», chiede voglioso Pietro.
   «Voi non dovreste avere bisogno di un segno».
   «Oh! non per poter credere in Te! Non siamo la gente che ha molti pensieri, noi. Noi ne abbiamo uno solo: amare Te», dice veementemente Giacomo di Zebedeo.


   343.4«Ma la gente, voi che l’avvicinate, così alla buona, più di Me, e senza la soggezione che Io posso incutere, che dice che Io sia? E come definisce il Figlio dell’uomo?».
   «Chi dice che Tu sei Gesù, ossia il Cristo, e sono i migliori.
   Gli altri ti dicono Profeta, altri solo Rabbi, e altri, Tu lo sai, ti dicono pazzo e indemoniato».
   «Qualcuno però usa per Te il nome stesso che Tu ti dai, e ti dice: “Figlio dell’uomo”».
   «E alcuni anche dicono che ciò non può essere, perché il Figlio dell’uomo è ben altra cosa. Né è sempre negazione questa. Perché in fondo essi ammettono che Tu sei da più del Figlio dell’uomo: sei il Figlio di Dio. Altri invece dicono che Tu non sei neppure il Figlio dell’uomo, ma un povero uomo che Satana agita o che sconvolge la demenza. Tu vedi che i pareri sono molti e tutti diversi», dice Bartolomeo.
   «Ma per la gente chi è dunque il Figlio dell’uomo?».
   «È un uomo nel quale siano tutte le virtù più belle dell’uomo, un uomo che raduni in sé tutti i requisiti di intelligenza, sapienza, grazia che pensiamo fossero in Adamo, e taluni a questi requisiti aggiungono quello del non morire. Tu sai che già circola la voce che Giovanni Battista non sia morto. Ma solo trasportato altrove dagli angeli, e che Erode, per non dirsi vinto da Dio, e più ancora Erodiade, abbiano ucciso un servo e, sottratto il capo di lui, abbiano mostrato come cadavere del Battista il corpo mutilato del servo. Tante ne dice la gente! Perciò pensano in molti che il Figlio dell’uomo sia o Geremia, o Elia, o qualcuno dei Profeti e anche lo stesso Battista, nel quale era grazia e sapienza, e si diceva il Precursore del Cristo. Cristo: l’Unto di Dio. Il Figlio dell’uomo: un grande uomo nato dall’uomo. Non possono ammettere in molti, o non lo vogliono ammettere, che Dio abbia potuto mandare suo Figlio sulla Terra. Tu lo hai detto ieri: “Crederanno solo coloro che sono convinti dell’infinita bontà di Dio”. Israele crede nel rigore di Dio più che nella sua bontà…», dice ancora Bartolomeo.
   «Già. Si sentono infatti tanto indegni che giudicano impossibile che Dio sia tanto buono da mandare il suo Verbo per salvarli. Fa ostacolo al loro credere in ciò lo stato degradato della loro anima», conferma lo Zelote. E aggiunge: «Tu lo dici che sei il Figlio di Dio e dell’uomo. Infatti in Te è ogni grazia e sapienza come uomo. Ed io credo che realmente chi fosse nato da un Adamo in grazia ti avrebbe somigliato per bellezza e intelligenza ed ogni altra dote. E in Te brilla Dio per la potenza. Ma chi lo può credere fra coloro che si credono dèi e misurano Dio su se stessi, nella loro superbia infinita? Essi, i crudeli, gli odiatori, i rapaci, gli impuri, non possono certo pensare che Dio abbia spinto la sua dolcezza a dare Se stesso per redimerli, il suo amore a salvarli, la sua generosità a darsi in balìa dell’uomo, la sua purezza a sacrificarsi fra noi. Non lo possono, no, essi che sono così inesorabili e cavillosi nel cercare e punire le colpe».


   343.5«E voi chi dite che Io sia? Ditelo proprio per vostro giudizio, senza tenere conto delle mie parole o di quelle altrui. Se foste obbligati a giudicarmi, che direste che Io sia?».
   «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente», grida Pietro inginocchiandosi a braccia tese verso l’alto, verso Gesù, che lo guarda con un volto tutto luce e che si curva a rialzarlo per abbracciarlo dicendo:
   «Te beato, o Simone, figlio di Giona! Perché non la carne né il sangue te lo ha rivelato, ma il Padre mio che è nei Cieli. Dal primo giorno che venisti da Me ti sei fatto questa domanda, e poiché eri semplice e onesto hai saputo comprendere ed accettare la risposta che ti veniva dai Cieli. Tu non vedesti[83] manifestazioni soprannaturali come tuo fratello e Giovanni e Giacomo. Tu non conoscevi la mia santità di figlio, di operaio, di cittadino come Giuda e Giacomo, miei fratelli. Tu non ricevesti miracolo né vedesti farne, né ti diedi segno di potenza come feci e come videro Filippo, Natanaele, Simon Cananeo, Tommaso, Giuda. Tu non fosti soggiogato dal mio volere come Levi il pubblicano. Eppure tu hai esclamato: “Egli è il Cristo!”. Dalla prima ora che mi hai visto, hai creduto, né mai la tua fede fu scossa. Per questo Io ti ho chiamato Cefa. E per questo su te, Pietra, Io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di lei. A te darò le chiavi del Regno dei Cieli. E qualunque cosa avrai legata sulla Terra sarà legata anche nei Cieli. E qualunque cosa avrai sciolta sulla Terra sarà sciolta anche nei Cieli, o uomo fedele e prudente di cui ho potuto provare il cuore. E qui, da questo momento, tu sei il capo, al quale va data ubbidienza e rispetto come ad un altro Me stesso. E tale lo proclamo davanti a tutti voi».


   343.6Se Gesù avesse schiacciato Pietro sotto una grandine di rimproveri, il pianto di Pietro non sarebbe stato così alto. Piange tutto scosso dai singhiozzi, col volto sul petto di Gesù. Un pianto che avrà solo riscontro in quello infrenabile del suo dolore di rinnegatore di Gesù. Ora è pianto fatto di mille sentimenti umili e buoni… Un altro poco dell’antico Simone — il pescatore di Betsaida che al primo annuncio del fratello aveva riso dicendo: «Il Messia appare a te!… Proprio!», incredulo e ridanciano — un poco tanto dell’antico Simone si sgretola sotto quel pianto per far apparire, sotto la crosta assottigliata della sua umanità, sempre più nettamente il Pietro, pontefice della Chiesa di Cristo.
   Quando alza il viso, timido, confuso, non sa che fare un atto per dire tutto, per promettere tutto, per rinforzarsi tutto al nuovo ministero: quello di gettare le sue braccia corte e muscolose al collo di Gesù e obbligarlo a chinarsi per baciarlo, mescolando i suoi capelli, la sua barba, un poco ispidi e brizzolati, ai capelli e alla barba morbidi e dorati di Gesù, guardandolo poi con uno sguardo adorante, amoroso, supplichevole, degli occhi un poco bovini, lucidi e rossi delle lacrime sparse, tenendo nelle sue mani callose, larghe, tozze, il viso ascetico del Maestro curvo sul suo, come fosse un vaso da cui fluisse liquore vitale… e beve, beve, beve dolcezza e grazia, sicurezza e forza, da quel viso, da quegli occhi, da quel sorriso…

   343.7Si sciolgono infine, tornando ad andare verso Cesarea di Filippo, e Gesù dice a tutti: «Pietro ha detto la verità. Molti l’intuiscono, voi la sapete. Ma voi, per ora, non dite[84] ad alcuno ciò che è il Cristo nella verità completa di ciò che sapete. Lasciate che Dio parli nei cuori come parla nel vostro. In verità vi dico che quelli che alle mie asserzioni o alle vostre aggiungono la fede perfetta e il perfetto amore, giungono a sapere il vero significato delle parole “Gesù, il Cristo, il Verbo, il Figlio dell’uomo e di Dio”».

[83] non vedesti è corretto, da MV su una copia dattiloscritta, in prima di avvicinarmi non avevi veduto; e ancora: alle parole non ricevesti

 miracolo MV aggiunge prima di essermi discepolo, e alle parole hai esclamato aggiunge dal primo istante. Sempre sulla pagina

 dattiloscritta MV rinvia, per le possibili eccezioni (= obiezioni), al capitolo del 12 ottobre 1944 nella finale (in 48.7). Tuttavia basterebbe

, per una retta interpretazione, ciò che si legge più sotto: “Dalla prima ora che mi hai visto, hai creduto…”.

[84] non dite è una raccomandazione di Gesù che si ritrova anche in altre occasioni (per esempio in: 175.1/2 - 230.6 - 232.5 - 347.6 - 349.8 -

 460.3) e la cui ragione è quasi sempre nei rispettivi contesti (come qui) o in una nota (come in 349.8). Maria Ss. ne darà una spiegazione più

 profonda in 642.3.


AMDG et DVM


lunedì 26 settembre 2022

CONSIDERAZIONI SUL PRIMATO DEL SUCCESSORE DI SAN PIETRO

Il primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa


Considerazioni sul recente Documento della Congregazione per la dottrina della fede


del cardinale Vincenzo Fagiolo


Se dovessimo analizzare il significato dei 22 titoli con i quali Dante nella Divina Commedia, nella Monarchia, nelle Epistole definisce e qualifica il papa, finiremmo forse per complicare ancor più la questione ecumenica, che proprio nel problema sui poteri del successore di Pietro trova ancora oggi non lievi ostacoli nel cammino dell’unità. Eppure quei titoli, anche quando esaltano il romano pontefice fino a farne l’Ostiarius Regni Coelorum (Mon. III, VIII, 9) e il Claviger Regni Coelorum (Mon. III, 15) nonché Vicarius Dei (Mon. I, II, 2. Nel Medioevo, alcuni papi, per esempio Innocenzo III, si presentarono anche con questo titolo) e Prefetto del Foro Divino (Par. XXX, 142), stando al canone neotestamentario (cfr. Mt 10, 2; 14, 28-31; 16, 16-23; 19, 27-29; 26, 33-35; Mc 3, 16; Lc 6, 14; 22, 32; Gv 1, 42; 6, 67-70; 13, 36-38; 21, 15-19; At 1, 13), non sono affatto infondati. Ma, per quanto sorretti da un fondamento biblico, presi nel loro nucleo essenziale e riassunti nel titolo più comunemente usato – successore di Pietro – quei titoli storicamente, per circostanze diverse, non da tutte le comunità cristiane sono stati ugualmente interpretati. Il punto cruciale, causa reale o supposta, è stato soprattutto l’esercizio del potere del papa. Tra le cause infatti che generarono la divisione tra la Chiesa cattolica e la ortodossa, in Oriente, prima, e poi tra la stessa Chiesa cattolica e le comunità cristiane in Occidente, quella dell’interpretazione del munus petrinum, dell’ufficio concreto cioè del successore di Pietro, è stata tra le più rilevanti e tra le più ardue a essere spiegata, ancorché «quasi tutti [i cristiani] però, anche se in modo diverso, aspirano alla Chiesa di Dio una e visibile, che sia veramente universale e mandata al mondo intero, perché il mondo si converta al Vangelo e così sia salvato per la gloria di Dio» (Unitatis redintegratio 1). Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno dimostrato con documenti magisteriali e iniziative apostoliche a tutto campo, sia verso l’Oriente che verso l’Occidente, la ferma volontà di proseguire nel cammino ecumenico, che il Vaticano II ha considerato uno dei suoi principali intenti, per raggiungere «il ristabilimento dell’unità da promuoversi fra tutti i cristiani» (UR 1). In questo senso, nell’enciclica Ut unum sint (25 maggio 1995), Giovanni Paolo II ha sottolineato la singolare rilevanza che nell’attuale momento della vita della Chiesa presenta la questione del primato di Pietro e dei suoi successori. L’enciclica perciò invita i pastori e i teologi a «trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova» (n. 25). La Congregazione per la dottrina della fede non ha tardato a raccogliere il voto pontificio e nell’arco di un anno e mezzo ha preparato un simposio prettamente dottrinale su Il primato del successore di Pietro, che si è svolto in Vaticano dal 2 al 4 dicembre 1996, i cui atti sono stati pubblicati quest’anno dalla Libreria Editrice Vaticana. In appendice al volume (pp. 493-503) c’è il documento che la stessa Congregazione ha fatto pubblicare sull’Osservatore Romano (sabato 31 ottobre 1998, p. 7, che chiameremo Documento) all’evidente scopo di allargarne la conoscenza e sollecitare teologi e pastori ad approfondirne i contenuti, anche – forse soprattutto – in vista di un cammino ecumenico meno arduo, anche se, probabilmente, più lungo se fosse lasciato alla sola riflessione teologica.

Il dato storico a conferma del primato
Sappiamo che, a partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa, già con Giovanni XXIII e poi con Paolo VI e Giovanni Paolo II, sta percorrendo, insieme alla via dottrinale, anche quella della carità, che, come ebbe a esprimersi il patriarca Atenagora, è da preferire. Senza quindi abbandonare quella dottrinale. La storia conferma che il primato visto e stimato come presidenza e servizio di carità, attirò per secoli – i più fecondi per vitalità dottrinale e missionaria – l’affectio delle varie Chiese a quella di Roma, che aveva a vescovo il successore di Pietro. Tanto per fare qualche riferimento, lo dichiarava già, tra i Padri apostolici, sant’Ignazio, vescovo di Antiochia (dopo san Pietro ed Evodio), il quale vedeva le varie comunità ecclesiali unite dalla carità e dalla fede sotto il governo dei legittimi pastori e con il primato della Chiesa di Roma, a motivo che in Roma Pietro e Paolo hanno fissata la loro autorità, e nel nome di essi Roma insegna poi alle altre Chiese (Epist. ad Smyrn. 8, 2; 4, 3). Sono vere tutte quelle Chiese – osservava nel secondo secolo sant’Ireneo – che hanno la nota dell’apostolicità, e, atteso che «longum est ire per singulas» nominandole tutte, basta esaminarne una che tutte le ricapitola: la Chiesa di Roma, fondata dai principi degli apostoli Pietro e Paolo; e come questi apostoli erano i principes tra gli altri, così la Chiesa di Roma ha su tutte le altre una potentior principalitas, dalla quale si desume il criterio di verità circa la Chiesa e la sua costituzione, voluta da Gesù Cristo (cfr. Adv. haer. III, 4, 1).
La primitiva tradizione, attestante il primato della Chiesa di Roma, è rimasta inalterata come dato dogmatico e come fonte di produzione giuridica; essa poggia sul fondamento della rivelazione divina, che con i testi del Vangelo e degli Atti mostra «con chiarezza e semplicità che il canone neotestamentario ha recepito le parole di Cristo relative a Pietro e al suo ruolo nel gruppo dei dodici. Perciò,» leggiamo nelle considerazioni della Congregazione per la dottrina della fede «già nelle prime comunità cristiane, come più tardi in tutta la Chiesa, l’immagine di Pietro è rimasta fissata come quella dell’apostolo che, malgrado la sua debolezza umana, fu costituito espressamente da Cristo al primo posto tra i dodici e chiamato a svolgere nella Chiesa una propria specifica funzione» (Doc. n. 3). Dalla rivelazione il dogma: «Basandosi sulla testimonianza del Nuovo Testamento, la Chiesa cattolica insegna, come dottrina di fede, che il vescovo di Roma è successore di Pietro nel suo servizio primaziale nella Chiesa universale» (Doc. n. 4). È sul contenuto di quest’insegnamento che va concentrata l’attenzione, sia per non smarrirne il valore dogmatico, perciò sempre vincolante, sia per non sovraccaricarlo di elementi che non gli sono essenziali e che potrebbero rendere più difficile l’esercizio del primato e ostacolare il cammino ecumenico. La primitiva tradizione fissava l’essenzialità del primato nel carisma di Cristo dato a Pietro e in Pietro ai suoi successori, perché fossero principio e fondamento dell’unità della fede e della comunionefides et caritas. Ne segue che non sussistono dubbi, sotto il profilo biblico, teologico e giuridico sull’originefinalità e natura del primato, come ben evidenzia la prima parte del Documento della Congregazione per la dottrina della fede, corredato da numerose fonti patristiche, conciliari e del magistero pontificio.

Dal Vaticano II a Giovanni Paolo II
Il più recente magistero pontificio si è sviluppato soprattutto con l’insegnamento del Vaticano I e del Vaticano II. Il primo, dopo aver indicato nel prologo la finalità del primato, dedica il corpo del testo a esporre il contenuto o ambito della potestà inerente, iure divino, allo stesso primato. Il Vaticano II non si è soffermato sul contenuto del primato, per non ripetere quanto già aveva sostenuto il Vaticano I, di cui ha riaffermato l’intera dottrina. Proseguendo nella linea del precedente Concilio, il Vaticano II ne ha completato l’insegnamento, trattando principalmente il tema della finalità. E lo ha fatto con la particolare attenzione al mistero della Chiesa come Corpus Ecclesiarum (cfr. Lumen gentium n. 23). Sul principio teologico della Chiesa communio, il Vaticano II ha fondato le sue considerazioni, che ci consentono di rilevare con maggior chiarezza che la funzione primaziale del vescovo di Roma e la funzione degli altri vescovi si trovano, non già in contrasto, ma in «un’originaria ed essenziale armonia». E a proposito va ricordato che il principio della communio fu tanto avvertito, creduto e voluto già nei primi secoli della Chiesa che ne scaturì il relativo istituto giuridico. In base al quale non erano ritenuti e considerati a pieno titolo membri della Chiesa coloro che non fossero nella communio fidei o nella communio sacramentorum o nella communio disciplinae. Quest’ultima, certamente non della stessa entità teologica delle prime due, era però ritenuta necessaria, anche perché era a tutela di quelle ed era di guida a viverle.
Sempre con la luce di questo istituto, ci è facile anche ora comprendere le suddette considerazioni della Congregazione romana, particolarmente quando ci ricorda che «il vescovo di Roma appartiene al loro collegio [dei vescovi] ed essi sono i suoi fratelli nel ministero» (Doc. n. 5. Cfr. Ut unum sint n. 95).
Come già nell’antichità, ancora oggi è possibile concepire e valutare, anche concretamente, l’esercizio del potere. Con il principio della communio non è arduo comprendere come ogni parte del corpo, formato da membra diverse con uffici diversi, sia collegata con il capo. Esprimendo questo concetto, san Leone Magno spiegava che «fra tutte le membra privilegiate del corpo mistico, i due apostoli Pietro e Paolo hanno avuto da Dio una funzione davvero speciale. Essi sono quasi due occhi di quel capo, che è Cristo» (Sermo 82, 1, 6-7). E con il discorso (Sermo 4, 1-2) per l’anniversario della sua elezione, ricordava che «tutto il corpo della Chiesa riconosce che il carattere sacro della dignità pontificia è unico». E lo è perché, soggiungeva, non ci si deve fermare «a considerare la nostra povera persona, ma piuttosto la gloria del beato Pietro apostolo [...], colui che si trovò vicino alla sorgente stessa dei carismi e da essa ne fu riempito e come sommerso. Ecco perché molte prerogative erano esclusive della sua persona e, d’altro canto, niente è stato trasmesso ai successori che non si trovasse già in lui». Il problema però sorge dal rovescio di quest’ultima frase, che in sé è dogmaticamente fondata e da ritenere per fede: «Niente è stato trasmesso ai successori che non si trovasse in lui». Ma chiediamoci: c’è qualcosa nei successori che in Pietro non c’è stata? Con questa domanda entriamo nella seconda parte del Documento della Congregazione per la dottrina della fede concernente «l’esercizio del primato e le sue modalità» (nn. 7-15).
Stante la chiara fonte biblica o, più specificatamente, il divino mandato (cfr. Mt 16, 18; Lc 22, 32; Gv 21, 15-17), è dogmaticamente certo che Cristo ha voluto «che il collegio apostolico fosse perfettamente uno, con doppio e strettissimo vincolo. Il primo è quello interiore della fede e della carità che è stata riversata nei cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5, 5). L’altro è quello esterno del governo di uno solo sopra tutti. A Pietro, infatti, fu affidato il primato sugli altri apostoli come a perpetuo principio e visibile fondamento di unità (cfr. Pio XI, Ecclesiam Dei, in AAS 15, 1923, 573 ss.).
Il problema emerge in tutta la sua valenza teologica e giuridica, pastorale ed ecumenica, quando non si coglie nell’esercizio del primato o governo proprio del papa l’elemento che lo collega con il mistero salvifico di Cristo e con la specifica missione della Chiesa. Da questo collegamento si evince subito e con chiarezza che la Chiesa, anche – anzi soprattutto – al suo vertice non è una potenza che possa seguire i parametri del potere civile (classica la distinzione che spesso riecheggia nei testi patristici: Sacerdotium distinto dall’ImperiumImperatoribus palatiaSacerdotibus Ecclesiae) e che il primato «non è un ufficio di coordinamento o di presidenza, né si riduce ad un Primato d’onore, né può essere concepito come una monarchia di tipo politico» (Doc. n. 7). Non è però altrettanto immediata la conoscenza dei limiti che circoscrivono la potestas sacra in genere ed in specie quella pontificia. I limiti che il primato non può oltrepassare certamente sono quelli «che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione» (Doc. n. 7). La Congregazione per la dottrina della fede nell’ambito della potestas petrina indica quali funzioni del vescovo di Roma anzitutto «una specifica e particolare responsabilità nella missione evangelizzatrice» (cfr. LG n. 23; CIC can. 782 § 1), che all’interno di tutta la Chiesa rappresenta ed è un ufficio magisteriale supremo ed universale (cfr. Conc. Vat. I, Pastor aeternus c. 4) e che implica anche, in certi casi, la prerogativa dell’infallibilità (cfr. LG n. 25; CIC can. 749 § 1; CCEO can. 597 § 1). Insieme alla funzione magisteriale del primato, la missione del successore di Pietro «comporta la facoltà di porre gli atti di governo ecclesiastico necessari o convenienti per promuovere e difendere l’unità della fede e di comunione» (Doc. n. 10).
Questa potestà di giurisdizione, in riferimento al suo esercizio è definita «ordinaria, suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa, potestà che [il papa] può sempre esercitare liberamente» (CIC can. 331). Se questa definizione non fa difficoltà, il problema sorge nel determinare qualiquando e se per tutta o una sola parte della Chiesa gli atti di governo siano necessari o convenienti. Questi atti sono stati diversissimi nella vita bimillenaria della Chiesa: ciò che all’inizio non rientrava, almeno di fatto, nell’ambito dell’esercizio primaziale, oggi è norma: oggi il sommo pontefice nomina i vescovi, per secoli non lo ha fatto direttamente; oggi per una parte della Chiesa li nomina e per un’altra parte conferma quelli che sono stati legittimamente eletti (cfr. CIC can. 377 § 1). Il Documento in oggetto esemplifica, indicando “ad esempio” (tra gli atti del governo primaziale «necessari o convenienti per promuovere e difendere l’unità della fede»): «Dare il mandato per l’ordinazione di nuovi vescovi; [...] emanare leggi per tutta la Chiesa, stabilire strutture pastorali a servizio di diverse Chiese particolari, dotare di forza vincolante le decisioni dei Concili particolari, approvare istituti religiosi sopradiocesani, ecc.» (n. 10). L’elenco potrebbe continuare con tutte le norme del Codice di diritto canonico che stabiliscono le riserve alla Santa Sede. Ma se facessimo un confronto non solo con gli interventi, e le modalità di essi, che i pontefici dei primi secoli (potremmo allungarci anche oltre il secolo V) esperivano come governo petrino, necessario o conveniente al bene della Chiesa, ma anche con quelli dei papi del tempo delle Decretali (Decretalium Collectiones di Gregorio IX o il Liber sextus Decretalium di Bonifacio VIII o le Constitutiones extravagantes di Clemente V), constateremmo quanto vario e differenziato sia stato il criterio di interventi pontifici “necessari o convenienti”. Le differenziazioni però vanno interpretate anche alla luce della realtà storica della Chiesa che, pellegrina con le sue istituzioni nell’età presente, porta la fugace figura di questo mondo (cfr. LG n. 48). Anche per questo – leggiamo nel Documento – l’immutabile natura del primato del successore di Pietro si è espressa storicamente attraverso modalità di esercizio adeguate alle circostanze di una Chiesa pellegrinante in questo mondo mutevole (cfr. n. 12). E la stessa Chiesa si è ravveduta quando ha constatato che la figura di questo mondo l’ha così offuscata da indurla ad atti che erano al di fuori o non necessari né convenienti alla sua missione. Comunque sotto il profilo dottrinale, sia teologico che giuridico, il criterio che ci ricorda ora il Documento non solo è valido, ma anche unico; il resto è nella saggezza e prudenza di chi avendo il potere deve esercitarlo, conformemente alla natura e alle finalità del divino mandato. E se è giusto che prima sedes a nemine iudicatur, è altrettanto giusto non far discendere da questo principio “un potere assoluto” del papa; anzi ascoltare la voce della Chiesa (e oggi è divenuta una prassi, giuridicamente anche consolidata; si vedano ad esempio i cann. 342-348 sul Sinodo dei vescovi) è un contrassegno del valore dell’unità, una conseguenza del corpo episcopale e del sensus fidei dell’intero popolo di Dio. In questa linea non entrano e non possono entrare tutte quelle istanze tendenti a vincolare giuridicamente il successore di Pietro nell’esercizio del suo ministero. Si imboccherebbe la strada svincolata dalla divina costituzione della Chiesa, che verrebbe ridotta ad una societas puramente umana se tale strada fosse seguita sino in fondo. Per non cadere in pericoli del genere, è fondamentale il discernimento circa la congruenza tra la natura del ministero petrino e le eventuali modalità del suo esercizio. Discernimento da compiersi nella Chiesa, ossia sotto l’assistenza dello Spirito Santo, con la vitalità dell’Eucaristia operante nell’interno della Chiesa, quale centro e radice di comunione ecclesiale, in dialogo fraterno del romano pontefice con gli altri vescovi. Secondo le esigenze concrete della Chiesa sarà poi il papa (o il papa con il Concilio ecumenico), quale successore di Pietro, a dover pronunciare autoritativamente il giudizio definitivo, a profitto della Chiesa universale (cfr. Doc. n. 13).
Questo richiamo al soprannaturale è parte integrante del primato e del suo esercizio. Ecco perché l’attuale movimento ecumenico – quale il Vaticano II e il conseguente magistero pontificio hanno voluto e programmato – è nato e si snoda sotto l’azione dello Spirito Santo, con il continuo e pressante invito ad ascoltare «quello che lo Spirito Santo dice alle Chiese» (Ap 1, 7). La preghiera, che il papa – e con lui oggi la Chiesa “divisa” – rivolge al Padre per mezzo del suo Figlio Gesù, è che i cristiani non resistano allo Spirito Santo che li sprona a ricomporre l’unità visibile dei cristiani.