Non è un paese per figli
di Alessandro D’Avenia
«Tu vai, io sono qui, se cadi sono qui»: ricordo nitidamente il campetto di cemento screpolato sotto casa, la bicicletta gialla di mio fratello, gli alberi di mandarini di là dal muretto di protezione e l’espressione calma sul viso di mio padre quando mi insegnò ad andare in bicicletta, consegnandomi con fiducia alle strade del mondo e alle inevitabili sbucciature che dovevo imparare ad affrontare per diventare grande.
Nitidamente ricordo anche i racconti di mia nonna sul nonno che non ho mai conosciuto: quando la guerra li aveva separati per troppo tempo, si era procurato una malattia al fegato mangiando non so quante uova. Il tutto per poter essere rimandato a casa e stare qualche giorno con lei, e io, bambino incantato dall’eroismo del nonno, decisi che da grande volevo amare così, come lui aveva fatto con lei.
Ricordo il giorno in cui il mio professore di liceo mi prestò il suo libro di poesie preferito e mi disse di restituirglielo dopo due settimane. Mi immergevo nelle pagine di versi che non capivo, ricevevo la grande eredità della bellezza da un altro uomo, le cui note al margine dei versi diventavano più importanti dei versi stessi: mi introducevano nella sua storia e in quella di un poeta di due secoli prima che giungeva fino a me, diciassettenne in cerca di futuro.
Ricordo il sorriso costante di padre Pino Puglisi, che incrociavo nei corridoi del mio liceo dove insegnava religione, mentre le sue battaglie silenziose lo stavano portando alla morte, comminata dai mafiosi perché, come risulta dall’interrogatorio del sicario, «si portava i picciriddi cu iddu» (portava i bambini con lui). Dove? Verso una vita a testa alta, semplicemente perché mostrava loro il cielo stellato, li faceva giocare e studiare. Per questo era pericoloso quanto Falcone e Borsellino, perché ri-generava quei bambini strappandoli al controllo del padrinato e restituendoli alla paternità. Li rendeva liberi: figli responsabili del mondo. I liberi, nella lingua latina, erano infatti i figli che potevano ricevere l’eredità: la libertà è appartenenza a una storia che si riceve gratuitamente e che ci si impegna ad ampliare.
Non è un caso che alcuni istanti siano scolpiti nella nostra memoria di bambini e adolescenti. La mia memoria e quindi la mia identità è maturata nei momenti in cui qualcuno mi ha consegnato, a prezzo del suo sudore, dolore, amore, l’esperienza imperdibile del mondo perché io la custodissi e l’ampliassi. L’uomo che sono e voglio essere lo devo al bambino-adolescente che ha ricevuto un testimone da passare, da uomini e donne che, pur con le loro debolezze, non badavano solo a se stessi, ma erano occupati a generarmi alla vita interiore, dove si annida il nome proprio che ciascuno ha e dove si origina l’energica consapevolezza di un inedito da fare.
Solo le relazioni vere riescono in questa impresa di aiutarci a crescere, ma per essere generative devono prendersi tutto il tempo che serve: che cos’è, alla fine, amare se non donare il proprio tempo a un altro?
Me lo confermano tante lettere come questa: «Vengo da una famiglia che non subisce le conseguenze della crisi e ho due genitori, separati, con lavori che impegnano quasi la totalità del loro tempo. Ho tantissimi oggetti: telefono ultimo modello, motorino, vestiti firmati, tutto quello che voglio me lo comprano. So che starai pensando che sono un ingrato, ma non mi basta tutto quello che ho. Molte volte capita che i miei compagni di classe, all’uscita di scuola, vadano in ufficio dal padre per prendere un panino per pranzo al volo o che le ragazze passino la domenica con le madri per centri commerciali a fare shopping. Mi chiedo a cosa serva lavorare tanto se poi alla fine non ti rimane tempo per queste cose. Preferirei usare la metro o avere un cellulare scassato ma poter andare ogni tanto a prendere un gelato con mio padre e parlare di politica, calcio, scuola e lavoro. Oppure mi piacerebbe che mia madre ogni tanto venisse la domenica alla partita di calcio proprio come fanno tutte le altre mamme. Loro però sono talmente presi dagli affari che non si accorgono che io viva la situazione come un disagio. Non c’è niente di peggio che affrontare l’adolescenza senza la presenza dei genitori».
Persino Ulisse diventò eroe da bambino e adolescente. Infatti proprio alla fine dell’Odissea, in una delle scene che amo di più, egli si presenta al padre Laerte ma non viene riconosciuto dopo vent’anni d’assenza. Allora sceglie due segni per rivelarsi come suo figlio. Gli mostra la ferita ricevuta durante la caccia al cinghiale alla quale Laerte aveva inviato il ragazzo e poi lo porta nel frutteto in cui, da bambino, il padre gli aveva insegnato uno per uno i nomi degli alberi che gli avrebbe consegnato in eredità quando sarebbe cresciuto. A quel punto Laerte riconosce (conosce di nuovo) Ulisse come figlio, attraverso i sicuri segni di una storia comune: la ferita che ha reso l’adolescente un uomo e la fedeltà alle cose e ai loro nomi di cui lo ha reso responsabile sin da piccolo.
La crisi dell’educazione oggi ha un’unica matrice: la difficoltà o la incapacità di generare simbolicamente le vite, cioè di narrare la storia di cui si è parte e di affidare una qualche eredità spirituale e morale da custodire e sviluppare, dopo averla coerentemente difesa a costo della propria vita. Nella lingua ebraica la parola per indicare la storia (Toledot) significa «generazioni» perché è una storia di nomi e di compiti che Dio consegna agli uomini, e loro ai figli: non una storia di eventi ma di figli.
La crisi della trasmissione, sia di identità sia di eredità, mina alla base la crescita, perché taglia la radice che rende necessaria l’educazione: l’essere figli. È questa la condizione originaria e originale di ciascuno, una condizione non meramente biologica, ma spirituale, che si genera e rigenera attraverso racconti, gesti, azioni, proprio come quando mio padre mi prendeva in braccio e lanciava in aria, per spingermi nel futuro con la sua forza, mentre mia madre voleva tenermi ancorato alla terra del suo grembo: a che serve uno spazio di radici senza un orizzonte di attesa di rami e frutti?
La difficoltà a consegnare un’esperienza credibile, una storia valida, un’eredità solida, rende sterile qualsiasi relazione impegnata a far crescere l’altro: la politica promette paternalisticamente il futuro ma nei fatti non lo apre; l’arte si chiude in discorsi incomprensibili che di fatto disprezzano l’uomo e poi, per raggiungerlo, si riduce a effimera provocazione o seduzione commerciale; la scuola diventa addestramento, scatola di prestazioni, ripetizione di pensieri altrui, anziché acquisizione di un’esperienza custodita e raccontata per essere vagliata e rinnovata da chi l’ha ricevuta.
Il letto da rifare di oggi, come mostra la lettera, è il silenzioso urlo di orfani e diseredati, ragazzi e ragazze generati alla vita ma non al senso della vita, riempiti di oggetti ma privi di progetti, dimenticati da una politica divenuta impotente (nel senso di sterile) di fronte alle cifre spaventose della dispersione scolastica, della disoccupazione giovanile e della crisi demografica. C’è una paternità che nutre i figli perché siano migliori dei padri e una invece che, come Saturno, li divora per paura che i figli caccino i padri.
Due visioni antitetiche contenute nei due sogni, relativi al defunto padre, raccontati dal protagonista del libro di Cormac McCarthy Non è un paese per vecchi:
«Il primo non me lo ricordo tanto bene, lo incontravo in città e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo. Ma nel secondo sogno era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, io ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare, era avvolto in una coperta e teneva la testa bassa, e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola ricavata da un corno, come usava ai vecchi tempi. E sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi».
I veri padri aprono la strada, portano il fuoco e lo donano ai figli, nella notte fredda e buia della storia, perché poi toccherà a loro fare altrettanto, di generazione in generazione.
Ma come possiamo crescere quando i padri rinunciano al loro ruolo di aprire la strada a chi viene dopo di loro? Come possiamo sperare quando i maestri perdono il fuoco?
Possiamo ancora essere figli di qualcuno?
Corriere della Sera 12 Febbraio 2018