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sabato 16 novembre 2013

SANTO PADRE BENEDETTO XVI IN GERMANIA OMELIE E DISCORSI 23 SETTEMBRE 2011


VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI IN GERMANIA omelie e discorsi 23 settembre 2011



VISITA ALLA CATTEDRALE DI SANTA MARIA DI ERFURT
Illustri Signore e Signori!
Prendendo la parola, vorrei innanzitutto ringraziare per quest’occasione di incontrarvi. La mia particolare gratitudine va al Presidente Schneider, che mi ha dato il benvenuto e mi ha ricevuto in mezzo a voi con le sue cortesi parole.
Vorrei ringraziare, allo stesso tempo, per questo dono speciale, che il nostro incontro possa svolgersi in questo luogo storico.
Per me, come Vescovo di Roma, è un momento emozionante incontrare qui, nell’antico convento agostiniano di Erfurt, rappresentanti del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania.

Qui Lutero ha studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote nel 1507. Contro il desiderio del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e si incamminò verso il sacerdozio nell’Ordine di sant’Agostino. In questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore. Per lui la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”. Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente. Chi, infatti, si preoccupa oggi di questo, anche tra i cristiani?
Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani, oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo soltanto carne. Se oggi si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra, dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo?

Le domande in questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia. Esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita. La domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Martin Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda. Penso che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin Lutero.

E poi è importante: Dio, l’unico Dio, il Creatore del cielo e della terra, è qualcosa di diverso
da un’ipotesi filosofica sull’origine del cosmo. Questo Dio ha un volto e ci ha parlato. Nell’uomo Gesù Cristo è diventato uno di noi – insieme vero Dio e vero uomo. Il pensiero di Lutero, l’intera sua spiritualità era del tutto cristocentrica: “Ciò che promuove la causa di Cristo” era per Lutero il criterio ermeneutico decisivo nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questo, però, presuppone che Cristo sia il centro della nostra spiritualità e che l’amore per Lui, il vivere insieme con Lui orienti la nostra vita.

Ora forse voi direte: Va bene, ma cosa ha a che fare tutto questo con la nostra situazione ecumenica? Tutto ciò è forse soltanto un tentativo di eludere con tante parole i problemi urgenti, nei quali aspettiamo progressi pratici, risultati concreti? A questo riguardo rispondo: la cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono restate come dono e compito. È stato l’errore dell’età confessionale aver visto per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della Sacra Scrittura e nelle professioni di fede del cristianesimo antico. È questo il grande progresso ecumenico degli ultimi decenni: che ci siamo resi conto di questa comunione e, nel pregare e cantare insieme, nell’impegno comune per l’ethos cristiano di fronte al mondo, nella comune testimonianza del Dio di Gesù Cristo in questo mondo, riconosciamo tale comunione come il nostro fondamento imperituro.

Il pericolo di perderla, purtroppo, non è irreale. Vorrei qui far notare due aspetti. Negli ultimi tempi, la geografia del cristianesimo è profondamente cambiata e sta cambiando ulteriormente.

Davanti ad una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con un immenso dinamismo missionario, a volte preoccupante nelle sue forme, le Chiese confessionali storiche restano spesso perplesse. È un cristianesimo di scarsa densità istituzionale, con poco bagaglio razionale e ancora meno bagaglio dogmatico e anche con poca stabilità. Questo fenomeno mondiale ci pone tutti davanti alla domanda: che cosa ha da dire a noi di positivo e di negativo questa nuova forma di cristianesimo? In ogni caso, ci mette nuovamente di fronte alla domanda su che cosa sia ciò che resta sempre valido e che cosa possa o debba essere cambiato, di fronte alla questione circa la nostra scelta fondamentale nella fede.

Più profonda e nel nostro Paese più scottante è la seconda sfida per l’intera cristianità; di essa vorrei parlare: si tratta del contesto del mondo secolarizzato, nel quale dobbiamo vivere e testimoniare oggi la nostra fede. L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più. Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Questo è un compito ecumenico centrale. In questo dovremmo aiutarci a vicenda: a credere in modo più profondo e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo. Come i martiri dell’epoca nazista ci hanno condotti gli uni verso gli altri e hanno suscitato la prima grande apertura ecumenica, così anche oggi la fede, vissuta a partire dell’intimo di se stessi, in un mondo secolarizzato, è la forza ecumenica più forte che ci ricongiunge, guidandoci verso l’unità nell’unico Signore.
© Copyright 2011 – Libreria Editrice Vaticana

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INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI
DEL CONSIGLIO DELLA “CHIESA EVANGELICA IN GERMANIA”

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Sala del Capitolo dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt
Venerdì, 23 settembre 2011

   
Illustri Signore e Signori!
Prendendo la parola, vorrei innanzitutto ringraziare di cuore per questa opportunità d’incontrarci qui. La mia particolare gratitudine va a Lei, caro Fratello Presidente Schneider, che mi ha dato il benvenuto e che con le sue parole mi ha accolto in mezzo a voi. Lei ha aperto il suo cuore, ha espresso apertamente la fede veramente comune, il desiderio di unità. E noi siamo anche lieti, poiché ritengo che questa assemblea, i nostri incontri, vengano celebrati anche come la festa della comunione nella fede. Vorrei inoltre ringraziare tutti per il vostro dono di poter conversare insieme come cristiani qui, in questo luogo storico.
Per me, come Vescovo di Roma, è un momento di profonda emozione incontrarvi qui, nell’antico convento agostiniano di Erfurt. Abbiamo appena sentito che qui Lutero ha studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote. Contro il desiderio del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e si incamminò verso il sacerdozio nell’Ordine di sant’Agostino. E in questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. “Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore. Per Lutero la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”. Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente nel cuore. Chi, infatti, si oggi si preoccupa ancora di questo, anche tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani,  oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo soltanto carne. Se si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. La questione non ci preoccupa più. Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra, dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo? E le domande in questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia. Esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita. La domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda, non accademica, ma concreta. Penso che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin Lutero.
E poi è importante: Dio, l’unico Dio, il Creatore del cielo e della terra, è qualcosa di diverso da un’ipotesi filosofica sull’origine del cosmo. Questo Dio ha un volto e ci ha parlato. Nell’uomo Gesù Cristo è diventato uno di noi – insieme vero Dio e vero uomo. Il pensiero di Lutero, l’intera sua spiritualità era del tutto cristocentrica: “Ciò che promuove la causa di Cristo” era per Lutero il criterio ermeneutico decisivo nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questo, però, presuppone che Cristo sia il centro della nostra spiritualità e che l’amore per Lui, il vivere insieme con Lui orienti la nostra vita.
Ora forse si potrebbe dire: va bene, ma cosa ha a che fare tutto questo con la nostra situazione ecumenica? Tutto ciò è forse soltanto un tentativo di eludere con tante parole i problemi urgenti, nei quali aspettiamo progressi pratici, risultati concreti? A questo riguardo rispondo: la cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono restate come dono e compito. È stato l’errore dell’età confessionale aver visto per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della Sacra Scrittura e nelle professioni di fede del cristianesimo antico. È questo per me il grande progresso ecumenico degli ultimi decenni: che ci siamo resi conto di questa comunione e, nel pregare e cantare insieme, nell’impegno comune per l’ethos cristiano di fronte al mondo, nella comune testimonianza del Dio di Gesù Cristo in questo mondo, riconosciamo tale comunione come il nostro comune fondamento imperituro.
Certo, il pericolo di perderla non è irreale. Vorrei far brevemente notare due aspetti. Negli ultimi tempi, la geografia del cristianesimo è profondamente cambiata e sta cambiando ulteriormente. Davanti ad una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con un immenso dinamismo missionario, a volte preoccupante nelle sue forme, le Chiese confessionali storiche restano spesso perplesse. È un cristianesimo di scarsa densità istituzionale, con poco bagaglio razionale e ancora meno bagaglio dogmatico e anche con poca stabilità. Questo fenomeno mondiale – che mi viene continuamente descritto dai vescovi di tutto il mondo – ci pone tutti davanti alla domanda: che cosa ha da dire a noi di positivo e di negativo questa nuova forma di cristianesimo? In ogni caso, ci mette nuovamente di fronte alla domanda su che cosa sia ciò che resta sempre valido e che cosa possa o debba essere cambiato, di fronte alla questione circa la nostra scelta fondamentale nella fede.
Più profonda e nel nostro Paese più scottante è la seconda sfida per l’intera cristianità; di essa vorrei parlare: si tratta del contesto del mondo secolarizzato, nel quale dobbiamo vivere e testimoniare oggi la nostra fede. L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più. Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Questo è un compito ecumenico centrale nel quale dobbiamo aiutarci a vicenda: a credere in modo più profondo e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo. Come i martiri dell’epoca nazista ci hanno condotti gli uni verso gli altri e hanno suscitato la prima grande apertura ecumenica, così anche oggi la fede, vissuta a partire dell’intimo di se stessi, in un mondo secolarizzato, è la forza ecumenica più forte che ci ricongiunge, guidandoci verso l’unità nell’unico Signore. E per questo lo preghiamo di imparare di nuovo a vivere la fede per poter diventare così una cosa sola.

© Copyright 2011 – Libreria Editrice Vaticana
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CELEBRAZIONE ECUMENICA
PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Chiesa dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt
Venerdì, 23 settembre 2011

   
Cari fratelli e sorelle nel Signore!
“Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola” (Gv 17,20): così ha detto Gesù nel Cenacolo, al Padre. Egli intercede per le generazioni future di credenti. Guarda al di là del Cenacolo verso il futuro. Ha pregato anche per noi. E prega per la nostra unità. Questa preghiera di Gesù non è semplicemente una cosa del passato. Sempre Egli sta davanti al Padre intercedendo per noi, e così in quest’ora sta in mezzo a noi e vuole attrarci nella sua preghiera. Nella preghiera di Gesù si trova il luogo interiore, più profondo, della nostra unità. Diventeremo una sola cosa, se ci lasceremo attirare dentro tale preghiera. Ogni volta che, come cristiani, ci troviamo riuniti nella preghiera, questa lotta di Gesù riguardo a noi e con il Padre per noi dovrebbe toccarci profondamente nel cuore. Quanto più ci lasciamo attrarre in questa dinamica, tanto più si realizza l’unità.
È rimasta inascoltata la preghiera di Gesù? La storia del cristianesimo è, per così dire, il lato visibile di questo dramma, in cui Cristo lotta e soffre con noi esseri umani. Sempre di nuovo Egli deve sopportare il contrasto con l’unità, e tuttavia sempre di nuovo si compie anche l’unità con Lui e così con il Dio trinitario. Dobbiamo vedere ambedue le cose: il peccato dell’uomo, che si nega a Dio, si ritira in se stesso, ma anche le vittorie di Dio, che sostiene la Chiesa nonostante la sua debolezza e attira continuamente uomini dentro di sé, avvicinandoli così gli uni agli altri. Per questo, in un incontro ecumenico, non dovremmo soltanto lamentare le divisioni e le separazioni, bensì ringraziare Dio per tutti gli elementi di unità che ha conservato per noi e sempre di nuovo ci dona. E questa gratitudine deve al contempo essere disponibilità a non perdere, in mezzo ad un tempo di tentazione e di pericoli, l’unità così donata.
L’unità fondamentale consiste nel fatto che crediamo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Che lo professiamo quale Dio trinitario – Padre, Figlio e Spirito Santo. L’unità suprema non è solitudine di una monade, ma unità attraverso l’amore. Crediamo in Dio – nel Dio concreto. Crediamo nel fatto che Dio ci ha parlato e si è fatto uno di noi. Testimoniare questo Dio vivente è il nostro comune compito nel momento attuale.
L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo, nell’hybris del potere, nel vuoto del cuore e nella brama di soddisfazione e di felicità, “perde” sempre di più la vita. La sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Lui. Il nostro primo servizio ecumenico in questo tempo deve essere di testimoniare insieme la presenza del Dio vivente e con ciò dare al mondo la risposta di cui ha bisogno. Naturalmente di questa testimonianza fondamentale per Dio fa parte, in modo assolutamente centrale, la testimonianza per Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che è vissuto insieme con noi, ha patito per noi, è morto per noi e, nella risurrezione, ha spalancato la porta della morte. Cari amici, fortifichiamoci in questa fede! Aiutiamoci a vicenda a viverla! Questo è un grande compito ecumenico che ci introduce nel cuore della preghiera di Gesù.
La serietà della fede in Dio si manifesta nel vivere la sua parola. Si manifesta, nel nostro tempo, in modo molto concreto, nell’impegno per quella creatura che Egli volle a sua immagine, per l’uomo. Viviamo in un tempo in cui i criteri dell’essere uomini sono diventati incerti. L’etica viene sostituita con il calcolo delle conseguenze. Di fronte a ciò noi come cristiani dobbiamo difendere la dignità inviolabile dell’uomo, dal concepimento fino alla morte – nelle questioni della diagnosi pre-impiantatoria fino all’eutanasia. “Solo chi conosce Dio, conosce l’uomo”, ha detto una volta Romano Guardini. Senza la conoscenza di Dio, l’uomo diventa manipolabile. La fede in Dio deve concretizzarsi nel nostro comune impegno per l’uomo. Fanno parte di tale impegno per l’uomo non soltanto questi criteri fondamentali di umanità, ma soprattutto e molto concretamente l’amore che Gesù Cristo ci insegna nella descrizione del Giudizio finale (Mt 25): il Dio giudice ci giudicherà secondo come  ci siamo comportati nei confronti di coloro che ci sono prossimi, nei confronti dei più piccoli dei suoi fratelli. La disponibilità ad aiutare, nelle necessità di questo tempo, al di là del proprio ambiente di vita è un compito essenziale del cristiano.
Ciò vale anzitutto, come detto, nell’ambito della vita personale di ciascuno. Ma vale poi nella comunità di un popolo e di uno Stato, in cui tutti noi dobbiamo farci carico gli uni degli altri. Vale per il nostro Continente, in cui siamo chiamati alla solidarietà in Europa. E, infine, vale al di là di tutte le frontiere: la carità cristiana esige oggi il nostro impegno anche per la giustizia nel vasto mondo. So che da parte dei tedeschi e della Germania si fa molto per rendere possibile a tutti gli uomini un’esistenza degna dell’uomo, e per questo vorrei dire una parola di viva gratitudine.
Infine vorrei ancora accennare ad una dimensione più profonda del nostro obbligo di amare. La serietà della fede si manifesta soprattutto anche quando essa ispira certe persone a mettersi totalmente a disposizione di Dio e, a partire da Dio, degli altri. I grandi aiuti diventano concreti soltanto quando sul luogo esistono coloro che sono totalmente a disposizione dell’altro e con ciò rendono credibile l’amore di Dio. Persone del genere sono un segno importante per la verità della nostra fede.
Alla vigilia della mia visita si è parlato diverse volte di un dono ecumenico dell’ospite, che ci si aspettava da una tale visita. Non c’è bisogno che io specifichi i doni menzionati in tale contesto. Al riguardo vorrei dire che questo, come per lo più è apparso, costituisce un fraintendimento politico della fede e dell’ecumenismo. Quando un Capo di Stato visita un Paese amico, generalmente precedono contatti tra le istanze, che preparano la stipulazione di uno o anche di più accordi tra i due Stati: nella ponderazione dei vantaggi e degli svantaggi si arriva al compromesso che, alla fine, appare vantaggioso per ambedue le parti, così che poi il trattato può essere firmato. Ma la fede dei cristiani non si basa su una ponderazione dei nostri vantaggi e svantaggi. Una fede autocostruita è priva di valore. La fede non è una cosa che noi escogitiamo e concordiamo. È il fondamento su cui viviamo. L’unità cresce non mediante la ponderazione di vantaggi e svantaggi, bensì solo attraverso un sempre più profondo penetrare nella fede mediante il pensiero e la vita. In questa maniera, negli ultimi 50 anni, e in particolare anche dalla visita di Papa Giovanni Paolo II, 30 anni fa, è cresciuta molta comunanza, della quale possiamo essere solo grati. Mi piace ricordare l’incontro con la commissione guidata dal Vescovo [luterano] Lohse, nella quale ci si è esercitati insieme in questo penetrare in modo profondo nella fede mediante il pensiero e la vita. A tutti coloro che hanno collaborato in questo – per la parte cattolica, in modo particolare, al Cardinale Lehmann – vorrei esprimere vivo ringraziamento. Non menziono altri nomi – il Signore li conosce tutti. Insieme possiamo tutti solo ringraziare il Signore per le vie dell’unità sulle quali ci ha condotti, ed associarci in umile fiducia alla sua preghiera: Fa’ che diventiamo una sola cosa, come Tu sei una sola cosa col Padre, perché il mondo creda che Egli Ti ha mandato” (cfr Gv 17,21).

© Copyright 2011 – Libreria Editrice Vaticana
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VESPRI MARIANI
PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Wallfahrtskapelle di Etzelsbach
Venerdì, 23 settembre 2011

  
Cari fratelli e sorelle!
Di vero cuore vorrei salutare tutti voi che siete venuti qui, a Etzelsbach, per quest’ora di preghiera. Fin dalla mia giovinezza ho sentito parlare tanto dell’Eichsfeld che ho pensato: devo vederlo una volta e pregare insieme con voi. Ringrazio cordialmente il Vescovo Wanke, che già durante il volo mi ha presentato la vostra regione, e ringrazio i vostri portavoce e rappresentanti che mi hanno consegnato doni simbolici della vostra terra, e, al tempo stesso, hanno potuto darmi almeno un’idea della varietà di questa regione.
Così sono molto felice che si sia realizzato il mio desiderio di visitare l’Eichsfeld e di ringraziare, assieme con voi, la Vergine Maria qui a Etzelsbach. “Qui, nell’amata vallata tranquilla” – dice un canto di pellegrini – e “sotto i vecchi tigli”, Maria ci dona sicurezza e nuova forza. In due dittature empie, che hanno mirato a togliere agli uomini la loro fede tradizionale, la gente dell’Eichsfeld era sicura di trovare qui, nel santuario di Etzelsbach, una porta aperta e un luogo di pace interiore. L’amicizia particolare con Maria, amicizia che è cresciuta da tutto questo, la vogliamo continuare, anche con questa celebrazione dei Vespri mariani di oggi.
Quando i cristiani in tutti i tempi e in tutti i luoghi si rivolgono a Maria, si fanno guidare dalla certezza spontanea che Gesù non può rifiutare le richieste che gli presenta sua Madre; e si poggiano sulla fiducia incrollabile che Maria è al tempo stesso anche Madre nostra – una Madre che ha sperimentato la sofferenza più grande di tutte, che percepisce insieme con noi tutte le nostre difficoltà e pensa in modo materno al loro superamento. Quante persone nel corso dei secoli sono andate in pellegrinaggio a Maria per trovare davanti all’immagine dell’Addolorata – come qui ad Etzelsbach – consolazione e conforto!
Guardiamo la sua immagine! Una donna di mezza età con le palpebre appesantite dal molto pianto e al contempo lo sguardo trasognato rivolto lontano, come se stesse meditando nel suo cuore su tutto ciò che era accaduto. Sulle sue ginocchia riposa il corpo esanime del Figlio; Ella lo stringe delicatamente e con amore, come un dono prezioso. Sul corpo denudato del Figlio vediamo i segni della crocifissione. Il braccio sinistro del Crocifisso cade verticalmente verso il basso. Forse questa scultura della Pietà – come spesso si usava – era originariamente collocata sopra un altare. Così il Crocifisso rimanda con il suo braccio disteso a quanto accade sull’altare dove il santo sacrificio da Lui compiuto è reso presente nell’Eucaristia.
Una particolarità dell’immagine miracolosa di Etzelsbach è la posizione del Crocifisso. Nella maggior parte delle rappresentazioni della Pietà, Gesù morto giace con il capo verso sinistra. Così l’osservatore può vedere la ferita del costato del Crocifisso. Qui a Etzelsbach, invece, la ferita del costato è nascosta, perché la salma, appunto, è orientata verso l’altro lato. A me sembra che in tale rappresentazione si nasconda un profondo significato, che si svela solo ad un’attenta contemplazione: nell’immagine miracolosa di Etzelsbach i cuori di Gesù e di sua Madre sono rivolti l’uno verso l’altro; i cuori s’avvicinano l’uno all’altro. Si scambiano a vicenda il loro amore. Sappiamo che il cuore è anche l’organo della sensibilità più profonda per l’altro, come pure l’organo dell’intima compassione. Nel cuore di Maria c’è lo spazio per l’amore che il suo Figlio divino vuole donare al mondo.
La devozione mariana si concentra nella contemplazione del rapporto tra la Madre e il suo Figlio divino. I fedeli, nella preghiera, nella sofferenza, nel ringraziamento e nella gioia, hanno trovato sempre nuovi aspetti e titoli che possono meglio dischiudere a noi questo mistero, per esempio l’immagine del Cuore immacolato di Maria come simbolo dell’unità profonda e senza riserve con Cristo nell’amore. Non è l’autorealizzazione, il voler possedere e costruire se stessi, a compiere il vero sviluppo della persona, cosa che oggi viene proposta come modello della vita moderna, ma che facilmente  si muta in una forma di egoismo raffinato. È piuttosto l’atteggiamento del dono di sé, la rinuncia a se stessi, che si orienta verso il cuore di Maria e con ciò anche verso il cuore di Cristo, come pure verso il prossimo, e solo in questo modo ci fa trovare noi stessi.
“Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno” (Rm 8,28): è quanto abbiamo appena sentito nella lettura tratta dalla Lettera ai Romani. In Maria, Dio ha fatto concorrere tutto al bene e non cessa di far sì che, attraverso Maria, il bene si diffonda ulteriormente nel mondo. Dalla Croce, dal trono della grazia e della redenzione, Gesù ha dato agli uomini come Madre la propria Madre Maria. Nel momento del suo sacrificio per l’umanità, Egli rende Maria in certo modo mediatrice del flusso di grazia che deriva dalla Croce. Sotto la Croce, Maria diventa compagna e protettrice degli uomini nel loro cammino di vita. “Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata” (Lumen gentium, 62), così l’ha espresso il Concilio Vaticano II. Sì, nella vita noi attraversiamo alterne vicende, ma Maria intercede per noi presso il Figlio suo e ci aiuta a trovare la forza dell’amore divino del Figlio e ad aprirci ad esso.
La nostra fiducia nell’intercessione efficace della Madre di Dio e la nostra gratitudine per l’aiuto sempre nuovamente sperimentato portano in sé in qualche modo l’impulso a spingere la riflessione al di là delle necessità del momento. Che cosa vuol dirci veramente Maria, quando ci salva da un pericolo? Vuole aiutarci a comprendere l’ampiezza e la profondità della nostra vocazione cristiana. Con delicatezza materna vuole farci capire che tutta la nostra vita deve essere una risposta all’amore ricco di misericordia del nostro Dio. Come se dicesse a noi: comprendi che Dio, il quale è la fonte di ogni bene e non vuole nient’altro che la tua vera felicità, ha il diritto di esigere da te una vita che si abbandoni totalmente e con gioia alla sua volontà e si adoperi perché anche gli altri facciano altrettanto. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”. In effetti: dove lasciamo che l’amore di Dio agisca totalmente sulla nostra vita e nella nostra vita, là è aperto il cielo. Là è possibile plasmare il presente così che corrisponda sempre di più alla Buona Novella del nostro Signore Gesù Cristo. Là le piccole cose della vita quotidiana hanno il loro senso e là i grandi problemi trovano la loro soluzione.
In questa certezza, preghiamo Maria, in questa certezza crediamo in Gesù Cristo nostro Signore e nostro Dio. Amen.

© Copyright 2011 – Libreria Editrice Vaticana
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INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITÀ MUSULMANA
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Salone dei ricevimenti – Nunziatura Apostolica di Berlin
Venerdì, 23 settembre 2011

   
Cari amici musulmani,
mi è gradito porgere qui, oggi, un saluto a Voi, Rappresentanti di diverse comunità musulmane presenti in Germania. Ringrazio molto cordialmente il professore Mouhanad Khorchide per le cortesi parole di saluto e per le riflessioni profonde che ci ha presentato. Esse mostrano come è cresciuta un’atmosfera di rispetto e di fiducia tra la Chiesa cattolica e le comunità musulmane in Germania e diventi visibile ciò che insieme ci sostiene.
Berlino è un luogo opportuno per un tale incontro, non solo perché qui si trova la moschea più antica sul territorio della Germania, ma anche perché a Berlino vive il numero più grande di musulmani rispetto a tutte le altre città della Germania.
A partire dagli anni ‘70, la presenza di numerose famiglie musulmane è divenuta sempre di più un tratto distintivo di questo Paese. Sarà tuttavia necessario impegnarsi costantemente per una migliore reciproca conoscenza e comprensione. Ciò è essenziale non solo per una convivenza pacifica, ma anche per l’apporto che ciascuno è in grado di dare per la costruzione del bene comune all’interno della medesima società.
Molti musulmani attribuiscono grande importanza alla dimensione religiosa. Ciò, a volte, è interpretato come una provocazione in una società che tende ad emarginare questo aspetto o ad ammetterlo tutt’al più nella sfera delle scelte private dei singoli.
La Chiesa cattolica si impegna fermamente perché venga dato il giusto riconoscimento alla dimensione pubblica dell’appartenenza religiosa. Si tratta di un’esigenza che non diventa irrilevante nel contesto di una società maggiormente pluralista. In ciò va fatta attenzione che il rispetto verso l’altro sia sempre mantenuto. Questo rispetto reciproco cresce solo sulla base dell’intesa su alcuni valori inalienabili, propri della natura umana, soprattutto l’inviolabile dignità di ogni persona in quanto creatura di Dio. Tale intesa non limita l’espressione delle singole religioni; al contrario, permette a ciascuno di testimoniare in modo propositivo ciò in cui crede, non sottraendosi al confronto con l’altro.
In Germania – come in molti altri Paesi non solo occidentali – tale quadro di riferimento comune è rappresentato dalla Costituzione, il cui contenuto giuridico è vincolante per ogni cittadino, che sia appartenente o meno ad una confessione religiosa.
Naturalmente il dibattito sulla migliore formulazione di principi come la libertà di culto pubblico, è vasto e sempre aperto, tuttavia è significativo il fatto che la Legge Fondamentale tedesca li esprima in un modo ancora oggi valido, a distanza di più di 60 anni (cfr art. 4, 2). In essa troviamo espresso prima di tutto quell’ethoscomune che è alla base della convivenza civile e che in qualche modo segna anche le regole apparentemente solo formali del funzionamento degli organi istituzionali e della vita democratica.
Potremmo chiederci come possa un tale testo, elaborato in un’epoca storica radicalmente diversa, in una situazione culturale quasi uniformemente cristiana, essere adatto alla Germania di oggi, che vive nel contesto di un mondo globalizzato ed è segnata da un notevole pluralismo in materia di convinzioni religiose.
La ragione di ciò, mi pare, si trova nel fatto che i padri della Legge Fondamentale ebbero la piena consapevolezza, in quel momento importante, di dover cercare una base veramente solida, nella quale tutti i cittadini potessero riconoscersi e che potesse essere una base portante per tutti, al di là delle differenze. Nel fare ciò, tenendo presenti la dignità dell’uomo e la responsabilità davanti a Dio, essi non prescindevano dalla propria appartenenza religiosa; per molti di loro, anzi, la visione cristiana dell’uomo era la vera forza ispiratrice. Tuttavia sapevano che tutti gli uomini devono confrontarsi con retroterra confessionali diversi o addirittura non religiosi: il terreno comune per tutti fu trovato nel riconoscimento di alcuni diritti inalienabili, che sono propri della natura umana e che precedono ogni formulazione positiva.
In questo modo una società allora sostanzialmente omogenea pose il fondamento che oggi possiamo ritenere valido per un tempo segnato dal pluralismo. Fondamento che, in realtà, indica anche degli evidenti confini a tale pluralismo: non è pensabile, infatti, che una società possa sostenersi nel lungo termine senza un consenso sui valori etici fondamentali.
Cari amici, sulla base di quanto ho qui accennato, penso che sia possibile una collaborazione feconda tra cristiani e musulmani. E in questo modo contribuiamo alla costruzione di una società che, sotto molti aspetti, sarà diversa da ciò che abbiamo portato con noi dal passato. In quanto uomini religiosi, a partire dalle rispettive convinzioni possiamo dare una testimonianza importante in molti settori cruciali della vita sociale. Penso, ad esempio, alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio, al rispetto della vita in ogni fase del suo naturale decorso o alla promozione di una più ampia giustizia sociale.
Anche per questo ritengo importante celebrare una Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia del mondo; vogliamo fare questo – come ben sapete – il prossimo 27 ottobre ad Assisi, a 25 anni dallo storico incontro in quel luogo guidato dal mio Predecessore, il Beato Giovanni Paolo II. Con tale raduno vogliamo mostrare, con semplicità, che da uomini religiosi noi offriamo il nostro particolare contributo per la costruzione di un mondo migliore, riconoscendo al tempo stesso la necessità, per l’efficacia della nostra azione, di crescere nel dialogo e nella stima reciproca.
Con questi sentimenti rinnovo il mio cordiale saluto e vi ringrazio per questo incontro, che per me costituisce un grande arricchimento in questo soggiorno nella mia patria. Grazie per la vostra attenzione!

© Copyright 2011 – Libreria Editrice Vaticana

martedì 4 dicembre 2012

«Tutto deve ricominciare da Cristo»





Il Papa ha ragione

«Tutto deve ricominciare da Cristo»

Per una coincidenza che ritengo straordinaria, un mio amico sacerdote mi invia ieri sera l'estratto di un libro e mi parla della figura di Michel-Marie Zanotti-Sorkine, un Parroco marsigliese che, ora, ritrovo in un articolo di Marina Corradi su Avvenire del 29 novembre scorso, che pubblico di seguito, segnalato e commentato oggi da Magister: è da lì che ho ripreso anche l'immagine del suo volto, che non conoscevo. Ringraziamo il Signore e verifichiamo come ancora una volta il Sacerdote non deve far altro che il sacerdote (docente-guida-santificatore: il «triplice munus») per conquistare anime al Signore e al Suo Regno.
Domani pubblicherò l'estratto in italiano del suo libro Au diable la tiédeur (Al diavolo la tiepidezza), che si divide in due parti. La prima è rivolta ai sacerdoti: 50 pagine di pensieri, consigli, sentenze semplici e forti per ridefinire il loro sacerdozio. La seconda è destinata ai fedeli per ricordare le basi della religione cattolica e far luce sui comportamenti e virtù che aiutano a vivere. Sta avendo grande successo. Uscito nell'ottobre scorso, ha già venduto più di 15.000 copie.

Quella tonaca nera svolazzante sulla rue Canabière, tra una folla più maghrebina che francese, ti fa voltare. Toh, un prete, e vestito come una volta, per le strade di Marsiglia. Un uomo bruno, sorridente, eppure con un che di riservato, di monacale. E che storia, alle spalle: cantava nei locali notturni di Parigi, solo otto anni fa è stato ordinato e da allora è parroco qui, a Saint-Vincent-de-Paul.

Ma la storia in realtà è anche più complicata: Michel-Marie Zanotti-Sorkine, 53 anni, discende da un nonno ebreo russo, immigrato in Francia, che prima della guerra fece battezzare le figlie. Una di queste figlie, scampate all’Olocausto, ha messo al mondo padre Michel-Marie, che per parte paterna è invece mezzo corso e mezzo italiano. (Che bizzarro incrocio, pensi: e guardi con stupore la sua faccia, cercando di capire com’è un uomo, con dietro un tale nodo di radici). Ma se una domenica entri nella sua chiesa gremita, e ascolti come parla di Cristo con semplici quotidiane parole; e se osservi la religiosa lentezza dell’elevazione dell'ostia, in un silenzio assoluto, ti domandi chi sia questo prete, e cosa in lui affascini, e faccia ritornare chi è lontano.

Infine ce l’hai davanti, nella sua canonica bianca, claustrale. Sembra più giovane dei suoi anni; non ha quelle rughe di amarezza che marchiano col tempo la faccia di un uomo. Una pace addosso, una letizia che stupisce. Ma lei chi è?, vorresti chiedergli immediatamente.

Davanti a un pasto frugale, cenni di una vita intera. Due splendidi genitori. La madre, battezzata ma solo formalmente cattolica, lascia che il figlio frequenti la Chiesa. La fede gli è contagiata «da un vecchio prete, un salesiano in talare nera, uomo di fede generosa e smisurata». Il desiderio, a otto anni, di essere sacerdote. A tredici perde la madre: «Il dolore mi ha devastato. E però non ho mai dubitato di Dio". L’adolescenza, la musica, e quella bella voce. I piano bar di Parigi potranno sembrare poco adatti a discernere una vocazione religiosa. Eppure, intanto che la scelta lentamente matura, i padri spirituali di Michel-Marie gli dicono di restare nelle notti parigine: perché anche lì c’è bisogno di un segno. La vocazione infine preme. Nel 1999, a 40 anni, si avvera il desiderio infantile: sacerdote, e in talare, come quel vecchio salesiano.

Perché la talare? «Per me – sorride – è una divisa da lavoro. Vuole essere un segno per chi mi incontra, e soprattutto per chi non crede. Così sono riconoscibile come sacerdote, sempre. Così per strada sfrutto ogni occasione per fare amicizia. Padre, mi chiede uno, dov’è la posta? Venga, l’accompagno, rispondo io, e intanto si parla, e scopro che i figli di quell’uomo non sono battezzati. Me li porti, dico alla fine; e spesso quei bambini, poi, li battezzo. Cerco in ogni modo di mostrare con la mia faccia un’umanità buona. L’altro giorno addirittura – ride – in un bar un vecchio mi ha chiesto su quali cavalli puntare. Io gli ho dato i cavalli. Ho chiesto scusa alla Madonna, fra me: ma sai, le ho detto, è per fare amicizia con quest’uomo. Come diceva un prete, che è stato mio maestro, a chi gli chiedeva come convertire i marxisti: 'Occorre diventare loro amici', rispondeva».

Poi, in chiesa, la messa è severa e bella. Il prete affabile della Canabière è un prete rigoroso. Perché cura tanto la liturgia? «Voglio che tutto sia splendente attorno all’eucarestia. Voglio che all’elevazione la gente capisca che Lui è qui, davvero. Non è teatro, non è pompa superflua: è abitare il Mistero. Anche il cuore ha bisogno di sentire».

Lui insiste molto sulla responsabilità del sacerdote, anzi in un suo libro – ha scritto numerosi libri, e scrive ancora, a volte, canzoni – afferma che un sacerdote che abbia la chiesa vuota si deve interrogare e dire: «È a noi che manca il fuoco». Spiega: «Il sacerdote è 'alter Christus', è chiamato a riflettere in sé Cristo. Questo non significa chiedere a noi stessi la perfezione; ma essere consci dei nostri peccati, della nostra miseria, per poter comprendere e perdonare chiunque si presenti in confessionale».

In confessionale, padre Michel-Marie va tutte le sere, con assoluta puntualità, alle cinque, sempre. (La gente, dice, deve sapere che il prete c’è, comunque). Poi resta in sacristia fino alle undici, per chiunque desideri andarci: «Voglio dare il segno di una disponibilità illimitata». A giudicare dal continuo pellegrinaggio di fedeli, a sera, si direbbe che funzioni. Come una domanda profonda che emerga da questa città, apparentemente lontana. Cosa vogliono? «La prima cosa è sentirsi dire: tu sei amato. La seconda: Dio ha un progetto su di te. Non bisogna farli sentire giudicati, ma accolti. Occorre far capire che l’unico che può cambiare la loro vita è Cristo. E Maria. Due sono le cose che secondo me permettono un ritorno alla fede: l’abbraccio mariano, e l’apologetica appassionata, che tocca il cuore».

«Chi mi cerca – continua – prima di tutto domanda un aiuto umano, e io cerco di dare tutto l’aiuto possibile. Non dimenticando che il mendicante ha bisogno di mangiare, ma ha anche un’anima. Alla donna offesa dico: mandami tuo marito, gli parlo io. Ma poi, quanti vengono a dire che sono tristi, che vivono male... Allora chiedo: da quanto lei non si confessa? Perché so che il peccato pesa, e la tristezza del peccato tormenta. Mi sono convinto che ciò che fa soffrire tanta gente è la mancanza dei sacramenti. Il sacramento è il divino alla portata dell’uomo: e senza questo nutrimento non possiamo vivere. Io vedo la grazia operare, e che le persone cambiano».

Giornate totalmente donate, per strada, o in confessionale, fino a notte. Dove prende le forze? Lui – quasi pudicamente, come si parla di un amore – dice di un profondo rapporto con Maria, di una confidenza assoluta con lei: «Maria è l’atto di fede totale, nell’abbandono sotto alla Croce. Maria è assoluta compassione. È pura bellezza offerta all’uomo». E ama il rosario, l’umiltà del rosario, il prete della Canabière: «Quando confesso, spesso dico il rosario, il che non mi impedisce di ascoltare; quando do la comunione, prego». Lo ascolti intimidita. Ma allora, tutti i preti dovrebbero avere una dedizione assoluta, quasi da santi? "Io non sono un santo, e non credo che tutti i preti debbano essere santi. Però possono essere uomini buoni. La gente sarà attratta dal loro volto buono».

Problemi, in strade a così forte presenza di musulmani immigrati? No, dice semplicemente: «Rispettano me e questa veste». In chiesa accoglie chiunque con gioia: «Anche le prostitute. Do loro la comunione. Che dovrei dire? Diventate oneste, prima di entrare qui? Cristo è venuto per i peccatori e io ho l’ansia, nel negare un sacramento, che lui un giorno me ne possa rendere conto. Ma noi sappiamo ancora la forza dei sacramenti? Ho il dubbio che abbiamo troppo burocratizzato l’ammissione al battesimo. Penso al battesimo di mia madre ebrea, che, quanto alla richiesta di mio nonno, fu un atto solo formale: eppure, anche da quel battesimo è venuto un sacerdote».

E la nuova evangelizzazione? «Vede – dice al congedo, nella sua canonica – più invecchio e più capisco ciò che ci dice Benedetto XVI: tutto davvero ricomincia da Cristo. Possiamo solo tornare alla sorgente».

Più tardi poi lo intravedi da lontano, per strada, con quella veste nera mossa dal passo veloce. «La porto – ti ha detto – perché mi riconosca uno che magari altrimenti non incontrerei mai. Quello sconosciuto, che mi è estremamente caro».
Marina Corradi

Cor Mariæ Immaculatum, intercede pro nobis

lunedì 3 dicembre 2012

*SAN FRANCESCO SAVERIO: APOSTOLO DELLE INDIE e PATRONO DELLE MISSIONI CATTOLICHE

LOQVEBAR DE TESTIMONIIS TVIS IN CONSPECTV REGVM ET NON CONFVNDEBAR
ET MEDITABAR
IN MANDATIS TVIS
QVÆ DILEXI NIMIS

3 DICEMBRE
SAN FRANCESCO SAVERIO CONFESSORE,
APOSTOLO DELLE INDIE

Gli Apostoli furono gli antesignani della Venuta del Cristo; era dunque giusto che al tempo dell'Avvento non mancasse la commemorazione di qualcuno di essi. La divina Provvidenza vi ha provveduto. Senza parlare di sant'Andrea, la cui festa è spesso già passata quando si apre il tempo dell'Avvento, s'incontra immancabilmente ogni anno san Tommaso all'approssimarsi del Natale. Diremo più avanti perché egli ha ottenuto questo posto in preferenza degli altri Apostoli; qui vogliamo solo insistere sulla convenienza la quale sembrava esigere che il Collegio Apostolico fornisse almeno uno dei suoi membri per annunciare, in questa parte del Ciclo cattolico, la venuta del Redentore. Ma Dio non ha voluto che il primo apostolato fosse il solo ad apparire all'inizio del Calendario liturgico; grande è pure, benché inferiore, la gloria di quel secondo Apostolato per il quale la Sposa di Gesù Cristo moltiplica ancora i suoi figli, in una feconda vecchiaia, come dice il Salmista (Sal 91,15). Vi sono ancora oggi dei Gentili da evangelizzare; la venuta del Messia è ben lontana dall'essere stata annunciata a tutti i popoli; ma, tra i valenti messaggeri del Verbo che, in questi ultimi secoli, hanno fatto risonare la loro voce in mezzo alle genti infedeli, non ve n'è alcuna che abbia brillato di più vivo splendore, che abbia operato maggiori prodigi e che si sia mostrata più somigliante ai primi Apostoli, del recente Apostolo delle Indie, san Francesco Saverio.

E certo, la vita e l'apostolato di quest'uomo meraviglioso furono l'oggetto di un grande trionfo per la nostra santa Madre la Chiesa Cattolica nel tempo in cui risplendettero. L'eresia, sostenuta in tutti i modi dalla falsa scienza, dalla politica, dalla cupidigia e da tutte le cattive passioni del cuore umano, sembrava giunta al momento della vittoria. Nel suo audace e sfrenato linguaggio, essa parlava sol più con profondo disprezzo di quella antica Chiesa fondata sulle promesse di Gesù Cristo; la denunciava alle genti, ed osava chiamarla la prostituta di Babilonia, come se i vizi dei figli potessero oscurare la purezza della madre. Infine Dio si mostrò, e d'improvviso il suolo della Chiesa apparve coperto dei più mirabili frutti di santità. Gli eroi e le eroine si moltiplicarono dal seno stesso di quella sterilità che era solo apparente, e mentre i pretesi riformatori si mostravano i più viziosi degli uomini, l'Italia e la Spagna da sole brillavano d'uno splendore incomparabile per i capolavori di santità che si produssero nel loro seno.

Oggi è san Francesco Saverio, ma più d'una volta nell'Anno, ci troveremo a festeggiare i nobili compagni e le illustri compagne che la grazia divina gli ha suscitati: di modo che il XVI secolo non ebbe nulla da invidiare ai secoli più favoriti delle meraviglie della santità. Certo, non si preoccupavano molto della salvezza degli infedeli quei sedicenti riformatori che pensavano solo a distruggere i1 vero Cristianesimo sotto le rovine dei suoi templi; e appunto in quello stesso momento una società d'apostoli si offriva al Pontefice romano per andare a stabilire la fede presso i popoli più immersi nelle ombre della morte. Ma, fra tutti questi apostoli, come abbiamo detto, nessuno ha realizzato il tipo primitivo allo stesso grado del discepolo di Ignazio. 

Nulla gli è mancato, né la vasta estensione dei paesi solcati dal suo zelo, né le migliaia d'infedeli che ha battezzati con il suo braccio infaticabile, né i prodigi di ogni specie che lo mostrarono agli infedeli come segnato del sigillo che avevano ricevuto quelli di cui la santa Liturgia dice: "Questi sono coloro che, vivendo ancora nella carne, sono stati i piantatori della Chiesa". L'Oriente ha dunque visto, nel XVI secolo, un Apostolo venuto da Roma sempre santa, e il cui carattere e le cui opere richiamavano lo splendore di cui brillarono coloro che Gesù aveva egli stesso mandati. Sia dunque gloria al divino Sposo che ha vendicato l'onore della sua Sposa, suscitando Francesco Saverio e presentandoci in lui un'idea di ciò che furono, in seno al mondo pagano, gli uomini che egli aveva incaricati di promulgare il suo Vangelo.
VITA. - San Francesco nacque in Navarra nel 1506. Conobbe a Parigi sant'Ignazio di Loiola con il quale si legò in santa amicizia. Quando fu fondata la Compagnia di Gesù, Ignazio lo mandò nelle Indie nel 1542. Fu celebre per il suo spirito di preghiera, per la sua grande mortificazione, per il dono dei miracoli e per le innumerevoli conversioni che operò con la predicazione presso gl'infedeli. Morì nell'isola di Sanciano il 2 dicembre 1552. Il Suo corpo riposa a Goa (Indie) e il suo braccio destro è venerato nella chiesa del Gesù a Roma. San Francesco Saverio è patrono della Propagazione della Fede.
"Glorioso apostolo di Gesù Cristo che hai illuminato della sua luce le genti sedute nelle ombre della morte, noi, Cristiani indegni, ci rivolgiamo a te, affinché con quella stessa carità che ti portò a sacrificare tutto per evangelizzare le genti, ti degni di preparare i nostri cuori a ricevere la visita del Salvatore che la nostra fede attende e che il nostro amore desidera. Tu fosti il padre delle genti infedeli; sii anche il protettore del popolo dei credenti, nei giorni in cui ci troviamo. Prima di avere ancora contemplato con i tuoi occhi il salvatore Gesù, lo facesti conoscere a innumerevoli popoli. Ora che lo vedi faccia a faccia ottieni che anche noi lo possiamo vedere, quando apparirà, con la fede semplice e ardente dei Magi dell'Oriente, primizie gloriose delle genti che tu sei andato ad iniziare alla luce mirabile (1Pt 2,9).
Ricordati anche, o grande Apostolo, di quelle stesse genti che hai evangelizzate, e presso le quali la parola di vita, per un terribile giudizio di Dio, ha cessato di essere feconda. Prega per il vasto impero della Cina che il tuo sguardo salutava morendo, e al quale non fu dato di sentire la tua parola. Prega per il Giappone, diletta piantagione che il cinghiale di cui parla il Salmista ha cosi orribilmente devastata. Ottieni che il sangue dei Martiri che vi fu sparso come l'acqua, fecondi finalmente questa terra. 
Benedici anche, o Saverio, tutte le Missioni che la nostra santa Madre Chiesa ha intraprese, nelle regioni in cui la Croce ancora non trionfa. Che i cuori degli infedeli si aprano alla luminosa semplicità della fede; che il seme fruttifichi al centuplo; che il numero dei nuovi apostoli, tuoi successori, vada sempre crescendo; che il loro zelo e la loro carità non vengano mai meno; che i loro sudori diventino fecondi e che la corona del loro martirio sia non solo la ricompensa, ma il complemento e l'ultima vittoria del loro apostolato. Ricordati, dinanzi al Signore, degli innumerevoli membri di quell'associazione per la quale Gesù Cristo è annunciato in tutta la terra, e che si è posta sotto il tuo patrocinio. Prega infine con cuore filiale per la santa Compagnia della quale sei la gloria e la speranza. Che essa fiorisca sempre più sotto il vento della tribolazione che non le è mai mancato, che si moltiplichi affinché per essa siano moltiplicati i figli di Dio, che abbia sempre al servizio del popolo cristiano numerosi Apostoli e savi Dottori, e non porti invano il nome di Gesù"".


* * *
Consideriamo lo stato miserevole del genere umano nel momento in cui apparirà Cristo. L'affievolirsi delle verità sulla terra è crudelmente espresso dal diminuire della luce materiale in questi giorni. Le antiche tradizioni si vanno spegnendo da ogni parte; il Dio creatore di tutte le cose è misconosciuto nell'opera stessa delle sue mani, e tutto è diventato Dio, eccetto il Dio che tutto ha fatto

Questo orrido Panteismo distrugge la morale pubblica e privata. 
 Tutti i diritti, fuorché quello del più forte, sono dimenticati; la voluttà, la cupidigia, il saccheggio siedono sugli altari e ricevono l'incenso. 
La famiglia è distrutta dal divorzio e dall'infanticidio; la stirpe umana è degradata in massa dalla schiavitù, e anche le nazioni periscono con le guerre di sterminio. 
Il genere umano non ne può più, e se la mano che l'ha creato non viene nuovamente in suo aiuto, deve inevitabilmente soccombere in una vergognosa e sanguinosa dissoluzione. 

I giusti che ancora conta e che lottano contro il torrente e la degradazione universale, non lo salveranno, perché sono disprezzati dagli uomini, e i loro meriti non potrebbero, dinanzi a Dio, coprire l'orribile lebbra che divora la terra. 
Più criminale ancora che nei giorni del diluvio, ogni carne ha corrotto la sua via; nondimeno, un secondo sterminio non servirebbe che a manifestare la giustizia di Dio; è tempo che venga sulla terra un diluvio di misericordia, e che colui che ha creato il genere umano discenda per guarirlo. 

Appari dunque, o figlio eterno di Dio. Vieni a rianimare quel cadavere, a guarire tante piaghe; a lavare tante sozzure, a rendere sovrabbondante la grazia là dove abbonda il peccato; e quando avrai convertito il mondo alla tua santa legge, allora avrai mostrato a tutti i secoli futuri che tu stesso o Verbo del Padre, sei venuto: perché se solo un Dio ha potuto creare il mondo, non c'era che l'onnipotenza d'un Dio che potesse restituirlo alla santità, dopo averlo strappato a Satana e al peccato.

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 259-263
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Spiritualis Communio

"Mi Iésu,/ crédo Te in Sanctìssimo Sacraménto adésse,/
Te ànte òmnia àmo,/ Tùi desidério tòto còrde flàgro./
Quìa nunc per sacraméntum Te accìpere néqueo,/
sàltem, spìritu tàntum, quæso,/ in cor méum véni...

Quàsi iàm præséntem Te ampléctor,/ Totùmque me Técum iùngo;/
ne ùmquam sìnas ut a Te discédam".

<<Cor Mariæ Immaculatum, intercede pro nobis>>