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martedì 10 novembre 2015

L'abito




Viene alla mente ciò che scriveva nel 1982 il beato Giovanni Paolo II al cardinale Ugo Poletti, allora vicario per la diocesi di Roma. 

Dopo aver sottolineato che l’abito ecclesiastico è un segno "che esprime il nostro ‘non essere del mondo’ " e "testimonianza della speciale appartenenza a Dio", così continuava:

 “L'abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato:

per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall'ambiente secolare nel quale vive; 

per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. 

L'abito, pertanto, giova ai fini dell'evangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell'esistenza dell'uomo.

Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare”.

AMDG et BVM

venerdì 30 gennaio 2015

L'abito dei chierici.


 Jean-Jacques Olier


La veste talare e la cotta, che sono l'abito della religione di Gesù Cristo (1) sono l'espressione esteriore della professione da noi fatta, di rivestirci interiormente della religione di Cristo verso il suo divino Padre.

Questa è la dichiarazione che tutti chierici devono fare ai piedi del vescovo ricevendo il santo abito. Essi testimoniano così solennemente di dedicarsi a Dio in Cristo suo Figlio, per servirlo nella sua Chiesa, di prenderlo per unico retaggio, per unico bene, per loro tutto. Allora soltanto vengono rivestiti della cotta, dopo d'aver ricevuto la tonsura e d'esser stati rivestiti di una veste talare.

Tutte queste circostanze sono molto misteriose e devono essere considerate con seria attenzione da coloro che entrano nel chiericato. Le persone incaricate dell'istruzione dei chierici, porranno gran cura nel darne le spiegazioni. Da parte loro, i chierici devono desiderare ardentemente di conoscere ciò che esse significano (2); poiché vi riscontreranno i loro obblighi principali e le disposizioni speciali che sono loro necessarie per entrare in questo stato e per abbracciare questa santa professione.

PARTE Iª – DELLA SANTA VESTE TALARE

L'abito col quale si presenta colui che aspira al chiericato è la santa veste talare. Questo abito è il segno esterno dell'anima disposta a entrare nella vita ecclesiastica (3).

Tutto ciò che esiste di esteriore nella Chiesa del Signore governata dal suo Spirito divino e dalla sua santa saggezza, esprime qualcosa di interiore che non potrebbe essere espressa che con qualche espressione o figura sensibile (4). Il corpo significa l'anima, in noi; e con i suoi gesti, con i suoi movimenti e con le sue azioni esso scopre quali sono le sue potenze intime che altrimenti resterebbero sconosciute.

Non si saprebbe mai che l'anima ha la potenzialità di vedere, di ascoltare,di parlare, se il corpo, con le sue funzioni dipendenti dall'anima, non facesse vedere ciò che essa è in se stessa (5).

Così Nostro Signore fa apparire nella Chiesa, per mezzo di cose esteriori, ciò che vi è di più nascosto nei suoi misteri (6); e mediante le vesti e gli ornamenti di cui ricopre i suoi ministri, le cerimonie con cui vela le sue opere, egli spiega ciò che l'uomo nuovo e il suo spirito divino operano nelle anime nostre.·

Ora, poiché di tutte le vesti dell'ecclesiastico la prima è la veste talare, venerabile abito proprio dello stato ecclesiastico e prescritto dai sacri canoni stessi (7), dobbiamo vederne il significato e ciò che la Chiesa intende esprimerci per suo mezzo.

La veste talare, che è un abito nero, significa la prima delle disposizioni che deve avere il chierico e la prima parte della religione del santo clero, che è d'essere morto ad ogni amore, ad ogni stima del mondo (8). 

La cotta, invece, rappresenta la seconda parte di questa stessa religione, che è di non vivere che per il Signore. Si ricopre di questo abito colui che si presenta a ricevere la tonsura, per insegnargli che deve essere talmente distaccato da ogni cosa terrena, da rassomigliare a un morto, non desiderando più che Dio, in confronto del quale non esiste nulla al mondo di amabile. 

Così del resto dichiara il chierico allorché, spogliandosi dell'ignominia dell'abito secolare, si ricopre di questa santa veste: 

egli dichiara pubblicamente in faccia a tutta la Chiesa, che intende di cambiare le proprie abitudini, i propri costumi, così come cambia d'abito (9); 
che non intende più viver della vita terrena, ma della vita celeste; 
che non conosce più che Dio, non stima altri che Lui, che Egli è il suo tutto e che il resto non gli è più nulla; 
infine, che vuol essere come i beati che, nella visione di Dio, non vedono più che lui, o che se vedono qualche altra cosa, qualche creatura, la vedono talmente in Dio, che essa è ai loro occhi piuttosto Dio che creatura.

L'abito del chierico che rivela come egli sia il perfetto religioso di Dio, entrato nella comunione e partecipazione della religione del cielo, è la cotta. Questo è il suo abito vero, perfetto, senza del quale non può compiere alcuna delle sue funzioni (10); di modo che egli non è considerato chierico rappresentante il proprio stato, che quando ne è rivestito. 

Se qualche volta non porta che la veste talare, questo avviene quando egli è nel secolo (11), indegno di vedere l'innocenza, la purezza, la santità e lo splendore del suo abito divino

E se non mostra che nero agli occhi del mondo, è per significare che è morto per esso, e che egli lo considera tanto miserabile che, per vivere nella giustizia e nella grazia, bisogna morire a ciò che esso' è; tanto è vizioso e corrotto (12)!

L'ampiezza di questo abito non ci deve stupire (13); il prete rappresenta tutto il mondo; deve portare nel cuore la religione che aveva Cristo nel suo, che è la religione universale che egli offrì al suo Padre per supplemento di quella di tutta la sua Chiesa.

Egli amava, adorava, lodava il Padre per tutti gli uomini e per tutti gli angeli. Faceva per essi ciò che non potevano degnamente fare, di modo che suppliva a tutti (4). Così egli era il religioso universale, colui che pregava lodava e glorificava Dio per tutto il mondo.

Questo Egli continua a fare nel Cielo (15) e nel Santissimo Sacramento dell'Altare, dove rende a Dio tutti gli omaggi e i doveri della religione nel suo interiore, come la Chiesa glieli rende esteriormente sulla terra e glieli renderà egualmente nel Cielo. 

Ma poi che Nostro Signore, ascendendo al cielo e lasciando la terra, ha cessato di onorare esteriormente il suo divin Padre a nome di tutti gli uomini come visibilmente faceva sulla terra, così ha voluto lasciare dei successori della sua religione che continuassero a compiere gli stessi doveri verso Dio, Padre suo (16). 
E siccome questa religione è in lui per mezzo dello Spirito Santo, la cui virtù gli fa adorare Dio quanto lo può essere, egli ha voluto, dopo l'ascensione al cielo, mandare questo stesso Spirito ai suoi Apostoli ed ai suoi discepoli affinché continuasse a diffondere nei cuori come aveva fatto nel suo (17), una religione perfetta, santa, interiore, comprendente in sé i doveri e gli omaggi di tutto il mondo insieme.

Così, gli Apostoli e i Preti sono i successori di Gesù Cristo nella sua religione e non sono stabiliti se non per onorare Dio in nome di tutto il mondo (18).

Per questo, la veste talare è così ampia, a rappresentare quasi la sfericità e la distesa della terra: ciò che si raffigurava anticamente nella veste del sommo sacerdote che era pure amplissima per prefigurare l’immensità della religione di Gesù Cristo (19). 
Il pontefice nella antica legge, portava su di sé i nomi delle dodici tribù (20) 
per prefigurare l'eccellenza della religione del Figlio di Dio e la grandezza del suo amore verso il Padre che sorpassò quello di tutti gli uomini insieme; ed ancora 
per significare che i preti devono portare l'amore di tutti gli uomini nei loro cuori (21); 
che essi devono contenere nel cuore tutti gli omaggi, tutte le lodi di ogni fedele, e possedere nelle loro anime più religione verso Dio che tutte le creature insieme riunite. 

La santa veste talare è inoltre come un sudario che ci tiene sepolti e che esprime al vescovo lo stato di morte nel quale si trova il santo chierico che a lui si presenta. Dico sempre è dovunque santo, perché, come la Chiesa è un nuovo mondo e un mondo di santità, fatto soltanto per rappresentarci Dio e Gesù Cristo nelle loro eminenti perfezioni, nulla deve trovarsi in essa che non sia santo.

La santa veste talare significa dunque che il chierico è morto al secolo (22): come egli stesso protesta, quando dice di non voler più che Dio; Dominus pars hereditatis meae. Ed anche se non lo dicesse, parlerebbe del suo obbligo l'abito che indossa che, semplice e nero come è, esprime a chiunque che il chierico che lo porta è morto alla pompa ed al fasto del secolo (22) e che deve esserne separato nel cuore come lo è nell'abito (23).

L'abito talare ricopre tutto il corpo, a testimoniare che tutta la carne è morta e che il chierico che lo porta, reca in sé la morte di Cristo in tutte le sue membra. Necessità quindi che colui che è innalzato al santo stato ecclesiastico, faccia apparire, nella persona, la morte di Nostro Signore e le sue vittorie, e tutte le sue azioni lo proclamino e lo annuncino dappertutto (24).  Dice San Paolo che tutti i cristiani devono essere circondati per tutto il loro corpo della morte di Gesù Cristo: Semper mortifìcationem Jesu in corpore nostro circumferentes (25). Questo è raffigurato dall'abito talare che, ricoprendo il chierico e circondandone il corpo, non lascia scorgere nulla di lui se non sotto un abito di morte (26).

Siccome essi sono interamente appartenenti a Gesù e si sono dati a Lui senza riserva nello stato clericale, non devono soltanto essere mortificati nella carne, nelle sue sregolatezze e nei suoi desideri, secondo la parola dell'Apostolo: Qui sunt Christi, carnem suam crucifìxerunt cum vitiis et concupiscentiis (27); ma ancora devono essere morti e sepolti con Gesù Cristo, per partecipare poi alla sua nuova vita. 

Anche questo esprime la veste talare. E come la crocifissione, la morte e la sepoltura precedono la risurrezione interiore, il vescovo vuol vedere un figliolo vestito della veste talare come di un lenzuolo funebre che ne ricopra tutto il corpo, che lo tenga seppellito, prima di dargli la cotta (28).

NOTE

(1) Habitus religiosus Sidon., lib. 4, ep. 24. Conc. Meld. anno 845, c. 37.
(2) Quaeratur ex singulis an ritus et caeremonias, quae cum initiantur adhiberi solita sunt, noverint? an sanctiores illarum notiones? an sacrarum vestium, quibus induuntur, mysteria et significata? lnst. ad Ord. Eccl. suscip. in Eccl. Mediol. – Quaeratur quid per tonsuram significetur, quae fit in superiori capitis parte; quid per superpelliceum, quo c1erici induuntur, declaretur? Ibid. – Vestes ministrorum designant idoneitatem quae in eis requiritur ad tractandum divina. D. Thom. , Suppl, q. 40, a. 7, in corp.
(3) Etsi habitus non faciat monachum, in clerico tamen magnum indicium est, ut ait Salomon, eius quod in corde latet. Synodus Atheniens. ann 1571.
(4) Quaecumque in ecclesiasticis officiis rebus ac ornamentis consistunt, divinis plena sunt signis atque mysteriis.Dnrand. Divin. Offic. praem.
(5) Sicut accidentia multum conferunt ad cognoscendam rei ipsius quidditatem: ita habitus exterior plurimum confert ad declarandum ·morum honestatem. Synod. Venusin., anno 1589. – Haec (ornamenta) sunt virtutum insignia, quibus tanquam scripturis docentur utentes quales esse debeant. Hugo a S. Victor., Specul. Eccl., c. 6. .
(6) Considerare debet per symbola quam accipit gratiam. Sim. Thessalon., de Sacro Ordin., cap. 5.
(7) Conc. Basileens. Lateran. sub Leone X, anno 1511, sess. 9: et alia passim.
(8) Nigra vestls insinuat humilitatem mentis; vile vestimentum denuntiat mundi contemptum, De modo bene vivendi, cap. 9: Op. S. Bernard., tom. 2. Omnia tanquam cinerem despielens, quasi mortuus prorsus ad mortuum immobilis permanebat. S. Chrysost., hom. 1, de laud. Pauli.
(9) Priorls vestis detractio, et alterius assumptio, slgnificat a media sancta vita ad perfeetiorem traduetionem. S. Dionys. , de Eccles. Hier., cap. 6. –Moneo te ut habitum, quem ostendis specie, impleas opere... Sanctus est habitus, sanctus sit animus. Sicut sancta sunt vestimenta, sic opera sancta sint. De modo bene vivendi, cap. 9: Op. S. Bernard., tom. 2.
(10) Caveant tam saeerdotes quam clerici, ne superpelliceo exuti clericalibus fungantur officiis. Synod. Capad. aquens, an., 1617, tit de Min. Eccl. c. 19.
(11) Ne cum superpelliceo per civitatem deambulantes vagentur. Synod. Vicens., anno 1628: tit. 13, de Vita et hon. Cleric., c. 3.
(12) Moriendum est mundo ut Deo in sempiternum vivamus. S. Aug, serm. 170, n. 9.
(13) Vestimentum amplum et longum, propter pietatem et divinam caritatem. Sim Thessalon., de Ord.
(14) Sese Deo ac Patri subjecit... et obedientiae suae odorem tanquam pro omnibus simul et singulis Deo et Patri obtulit. S. Cyril Alex., lib. 11, de Ador. in Spirit. et verit.
(15) Introivit in ipsum caelum, ut appareat nunc vultui Dei pro nobis, Hebr., 9, 24.
(16) Successori nel culto esterno e visibile, come si è detto più sopra: Sacerdotes Christi vicarios esse Christi et Christum. S. Chrysost., hom. 17, op. imp. in Matth., Suum relicturus erat eis ministerium. Id. in Joan., 20, hom. 86,al. 85 n. 2.
(17) Sicut misit me Pater, et ego mitto vos: Haec cum dixisset, insufflavit, et dixit eis: Accipite Spiritum sanctum. Joan.,22 et 23. Hac vocula sicut illos quodammodo slbi aequat, et pares efficit, scilicet proportionaliter ut suos successores et vicarios. Corn. a Lap. hic. – Sicut significat etiam similitudinem in fine: utrique enim missi sunt ad eundem finem.Id., ex S. Cyrill., lib. 12 in Joan., in ead. verb.
(18) Sacerdotes procuratores sunt apud Deum pro ejus Ecclesia. Guillel. Paris.de Sacro Ord. – Pro universo terrarum orbe deprecator est apud Deum. S. Chrysost., de Sacerd. t. 6, c. 4. – Non jura sua sed aliena allegat. Guillel. Paris., ibid.
(19) Amictus pontificis totius mundi quaedam imago fuit. Philo., de Vita Mosis., lb. 3.
(20) Portabit Aaron nomina filiorum Israel coram Domino super utrumque humerum. Exod. 28, 12. Portabit nomina filiorum Israel in rationali judictl super pectus suum quando ingredietur sanctuarium. Ibid., 29 .
(21) Est Aaron Christi figura, et Illius sacerdotii quod in spiritu et veritate intelllgitur. S. Cyr. Alex., lib. 11, de Ador. in spir. et verit.
(22) Clericatum elegistis, id est, mundo renuntiare, et cum habitu humilitatis, affectum promittere humilitatis, Ivo Carnot., serm. 2. De excell. sacro Ord. Pontif. Bibliot. Apost. exhort. ad Tonsur.
(23) Paupertatem et humlitatem profertis habitu corporis. Ibid.
(24) Sacerdotes constituti sunt per mundum, Christi narrare victorias. Petr. Dom. opusc. 18, contra Cleric. intemp. dissert. 1, c. 1.
(25) II Cor., 4, 10.
(26) Homines sacros tum interius tum exterus oportet mortificationem Jsu circumferre in suo corpore. S. Cyril. Alex., de Adorat. in spir. et verit., lib. 11. – Vestimentum talare, tam retro quam a lateribus et ante undique clausum. Conc. Basil.
(27) Gal. 5, 24.
(28) Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, id est Christo crucifixo se conformaverunt, affligendo carnem suam cum vitiis..., id est, cum peccatis; concupiscentiis, id est, passionibus quibus anima inclinatur ad peccandum. Non enim bene crucifigit carnem, qui passionibus locum non aufert, D. Thom,. in ead. verb. Ep. ad Gal., 5, 24, lect. 7.

PARTE II – DELLA COTTA

Il santo vescovo, parlando dell'abito dei chierici, lo chiama l'abito della santa religione (60) come noi lo abbiamo già detto.


Questo abito significa due cose: la morte a se stesso ed al peccato, e la vi ta dedicata a Dio. «Consideratevi, – dice S. Paolo, – come morti al peccato e non vivendo più che per Dio in nostro Signore Gesù Cristo» (61).
Questo doppio stato di vita e di morte ci è comunicato nel santo battesimo, per il quale noi moriamo come Gesù e risuscitiamo come Lui alla nuova vita (62); Di ciò facciamo solenne e speciale professione nella tonsura, quando noi dichiariamo di morire al mondo ed alle creature (63) per non vivere che di Dio, della sua gloria e del servizio della sua Chiesa (64).

S. Giacomo . esprime la nostra religione in questi due effetti: Religio munda, dice egli, et inmaculata apud Deum et Patrem, haec est visitare pupillos et viduas in tribulatione eorum et inmaculatum se custodire ab hoc saeculo(65). La nostra santa religione consiste innanzi tulto nell'essere completamente morti pel mondo, di modo che nulla resti in noi delle sue macchie, della corruzione delle sue massime e della impurità del suo amore.

In secondo luogo, essa consiste nel compiere santamente le opere di carità e di vita divina, come soccorrere il prossimo nelle sue necessità, in vista di Dio, per famore del quale noi serviamo anche e soprattutto quelli da cui non possiamo aspettarci niente (66).

L'abito, come la religione, è duplice: esterno e interiore. Per essere universale, completo, la religione deve essere tale, imperocchè l'uomo è composto di corpo e di anima e deve quindi rendere palese in tutto se stesso e al di fuori e nell'intimo suo, il suo culto e la sua religione (67).

L'abito esteriore consiste dapprima nella nera sottana di cui abbiamo testè parlato che significa la morte al mondo e a tutti gli istinti, i sentimenti di Adamo, in unione con la morte e sepoltura del Figliuolo di Dio, che il chierico deve manifestare al mondo con le sue opere e con tutta la slia condotta. In secondo luogo, consiste nella cotta, che rappresenta la vita nuova di Gesù Cristo, stabilita in noi in seguito alla morte del peccato; la sua risurrezione e la sua vita divina, resa sensibile ai figli della Chiesa per mezzo della purezza, della santità e di tutte le virtù che devono risplendere nei chierici (68).

Questo abito è stato imitato da quasi tutti gli ordini, dei Carmelitani, dei frati di S. Bernardo, degli Agostiniani e dei Domenicani che hanno diviso il loro abito fra il nero il bianco per esprimere esteriormente ciò che devono interiormente praticare, vale dire la mortificazione della carne la vita dello spirito (69).

Questi due santi esprimono due principali misteri dellnostra religione: San Bruno, col candore del suo abito, rappresenta la risurrezione di Nostro Signore, mentre San Benedetto aveva dapprima raffigurato nel color nero del suoil santo mistero della sua morte (70).

Questi due misteri questi due stati del Figlio di Dioesprimono nei chierici la veste talare la cotta di cui sono rivestiti.

L'abito interiore dei chierici è Gesù Cristo stesso. Questo abito è ben diverso da quelli esteriori che non hanno che un legame morale con i corpi che ne sono rivestiti e che li coprono soltanto, senza penetrarli (71); mentre questi penetra e s'insinua nell'anima che ne è rivestita. Ed è Cristo stesso in noi, che in certo modo, si confonde con noi, riempiendoci delle sue perfezioni e della sua sostanza, compenetrandoci di tutto se stesso e manifestando in noi le sue qualità divine (72); di modo che, per mezzo della sua sostanza, si forma come una stessa cosa di lui e di noi.

È di questo abito che S. Paolo voleva fossero vestiti tutti i cristiani, quando diceva: Induimini Dominum Jesum Christum (73). Il vescovo, dando ai chierici la cotta, che rappresenta la perfezione e il compimento della nostra religione mostra loro l'impegno formale e l'obbligo speciale che hanno nel rivestirla, dicendo a ciascuno di essi: Induat te Dominus novum hominem, qui secundum Deum creatus est, in justitia et sanctilate veritatis. Il Signore ti rivesta dell'uomo nuovo, che fu creato da Dio nella vera giustizia e santità. 

Parole misteriose (74) che ci denotano la condotta invisibile di Dio nella sua Chiesa e la santità che Egli esige dai chierici. 
Per comprenderle, bisogna considerare che l'uomo, riabilitato da Gesù Cristo nel battesimo, non è conforme ad Adamo nello stato della sua innocenza, poiché questi era stato creato in uno stato di universale santità, vale a dire santo nell'anima e santo nel corpo (75).

L'uomo rinnovato e rifugiato nella Chiesa, che è il vero paradiso terrestre, non è creato in questa santità universale, ma in uno stato di santità e di giustizia, in justitia et sanctitatedi santità, perché è fatto figlio di Dio; di giustizia perché l'uomo battezzato, che porta una carne ribelle e pesante che per lui è giogo penoso e sensibilissimo peso, deve avere in sé lo spirito di zelo e di giustizia contro se stesso per castigare questa carne, per ridurla in servitù crocifiggendola con la giustizia e punendola del suo orgoglio e della sua insolenza.

Bisogna che, per virtù dello spirito di Cristo che lo anima, egli la sottometta alla legge di Dio, che la costringa, suo malgrado, a servire il prossimo, che la riduca a un totale annientamento di se stessa. In questo, il nuovo uomo differisce dall'antico che era stato creato in un tal grado di santità, che la carne e i sensi seguivano le disposizioni dello spirito, col quale vivevano in perfetta intelligenza, essendo sempre d'accordo nei loro movimenti e sempre egualmente portati ad azioni di santità e di giustizia: ciò che non avviene più nell’uomo nuovo e nei cristiani la cui carne non è santificata (76). 

La seconda differenza fra la santità del cristiano rinnovato e riformato in Gesù Cristo, e quella dell'uomo primitivo nello stato d'innocenza, è che la santità del cristiano lo porta senza posa a privarsi, più che può, delle creature (77) che, dopo il peccato, non gli sono che soggetti di tentazione (78) per dedicarsi a Dio con una fede pura, sciolto da ogni legame umano (79). Invece la santità del primo uomo e la grazia dell'innocenza non lo separavano in tal modo dalle creature, anzi ad esse lo avvicinavano per ammirarne le bellezze divine espresse in esse, ciò che lo innalzava a Dio, pur trattandosi di forme visibili che cadevano sotto i suoi sensi.

Questa differenza dimostra la grande purezza del nostro stato rinnovato in Gesù Cristo, che ci santifica e ci consacra al Padre in un distacco universale delle cose, dedicandoci a lui nella sua verità e scorgendolo al lume della fede pura, senza soffermarci alle esteriorità di tutto questo mondo. 

Sanctifica eos in veritate (80), diceva altra volta Nostro Signore al Padre suo. O Signore, santificate i servi vostri nella verità, e cioè uniteli al vostro essere divino, e non solo figuratamente come facevate altra volta (81). Poiché la religione dei veri adoratori è di adorare Dio in spirito e verità (82) e non più solamente sotto delle ombre.

NOTE

(60) Habitum sacrae religionis. Pontifical. Rom.
(6t) Existimate vos mortuos quidem esse peccato, viventes autem Deo in Christo Jesu. Rom ., 6, 11.
(62) Consepulti ei in baptismo, in quo et resurrexistis per fidem operationis Dei, qui suscitavit illum a mortuis, Coloss., 2, 12.E se S. Benedetto, per una devozione particolare alla morte ed alla sepoltura di Gesù, si è rivestito completamente di nero, doveva nascere da lui un altro santo, l'umile san Bruno che, compiendo i disegni di Dio sul suo ordine, scelse l'abito bianco.
(63) Mortuum sibi deputet mundum, ac se mundi blandienltis illecebris exhibeat crucifixum. Jul. Pomer., de Vita Contempl., lib. 1, c. 8.
(64) Mercenarii sumus conducti… et ideo vocati a Christo, ut haec sola operemur, quae pertinent ad gloriam Dei... proximique profectum. S. Chrysost., hom. 34 oper. imp. inMatth.
(65) Jacob. 1, 27. – Visitare pupillos et viduas, etc., id est, exercere se in operibus misericordiae erga proximum, et in operibus munditiae erga seipsum. Lyran., hic. – Per sacculum, intelligit mundum et omnia quae sunt in mundo. Qui (enim) mundum diligit, immaculatum se a saeculo non custodit. Gloss.
(66) Puritas cordis in duobus consistit, in quaerenda gloria Dei, et utilitate proximi, ut in omnibus... nihil suum quaerat... sed tantum aut Dei honorem, aut salutem proximorum, aut utrumque. S. Bernard. Ep. 42, ad Henr. Sen., seu. de Offic. Episc., cap. 3, IL 10.
(67) Duplex est cultus Dei, interior et exterior. Cum enim homo sit compositus et anima et corpore, utrumque debet applicari ad colendum Deum, ut scilicet anima colat interiori cultu, et corpus exteriori. D. Thom., 1, 2, q. 101, a. 2, in corp.
(68) Ad hoc a Deo dati estis, ut depravatos mores ac leges mundi, verbo et exemplis viriiiter impugnetis. Barth. a Martyr., Stim. Past. p. 2, c. 6. –Superpelliceum primo propter sui candorem, munditiam seu puritatem castitatis designat... Tertio denotat innocentiam; et ideo ante omnes alias vestes sacras induitur; quia divino cultui deputati, innocentia vitae, cunctis virtutum actibus superpollere debent, juxta illud Psalmi: Innocentes et recti adhaeserunt mihi. Durand., Rat. divin. Offic., lib. 3, cap. 1, n. 10, 11.
(69) Visum est, ut mihi videtur, magnis Patribus illis nigrum colorem magis humilitati, magis poenitentiae, magis luctui convenire... Vestes candidas magis gloriam quam abjectionem, magis gaudium quam moerorem antiquitus designasse. Petr. Cluniac. ab. ad S. Bernard abb. Claraval., lib. 4, Ep. 17.
(70) Veteres Palres candida veste ad spiritualium genesim indicandam usi sunt; cum albus color vitae symbolum sit, et alter mortis. Vicecomes, de Baptism., lib. 5, c. 9.
(71) Vestis ad honorem et gloriam pIane sacrati sanctique generis, Christus est: atque praeclarum ac supernum sanctarum animarum ornamentum. S. Cyril. Alex., de Ador. in spirit. et verit., lib. 11, qui est de Sac.
(72) David ex persona Dei, de eis qui in ecclesiis sacerdotali munere funguntur, dicit: Sacerdotes ejus induam salutari. Paulus induere Dominum Jesum praccepit; hoc illud est de caelo habitaculum, illa exultationis tunica, et indumentum salutis. Ibid.
(73) Rom., 13, 14.
(74) Dicitur iuduere Christum qui Christum imitatur; quia sicut homo continetur vestimento, et sub ejus colore videtur, ita in eo qui Christum imitatur, opera Christi apparent.D. Thom., in Ep. ad Rom. c. 13, v. 14.
(75) Adam non opus habebat eo adjutorio quod implorant sancti in hac vita, ad quos perlinet liberationis gratia, cum dicunt: Video aliam legem in membris meis pugnantem legi mentis meae, etc., quoniam in eis caro concupiscit adversns spiritum, et spiritus adversus carnem... Ille vero nulla tali rlxa a seipso adversus seipsum tentatus atque turbatus, in illo beatitudinis loco sua secum pace fruebatur, S. Aug. de Corrept. et Grat. 11, n. 29.
(76) Byssus est genus lini candidissimi, et ad summum candorem multa vexatione et ablutione perductum. Significat autem perfectam carnis munditiam, secundum illud quod in Apocalypsi legitur; Byssus sunt justifìcationes sanctorum. Hac munditia caro sacerdotis ex se non habet; sicut nec linum ex se est candidum; sed, sicut dictum est, multis castigationibus et ablutionibus redditur candidum, ut aptum fiat indumentis pontificum. Forma est sacerdotalis munditiae, ut secundum Apostolum sacerdotes carnem suam castigent, et in servitntem redigant; at praeunte gratia habeant per industriam, quod non potuerunt habere per naturam. Ivo Carnot., de Signif. indum. sacerd., serm. 3 in Synod. – Hugo a S. Victor., de Sacram. Christi fid., lib. 2, p. 4, c. 2.
(77) Qui non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus. Luc., 14, 33.
(78) Creaturae Dei in odium factae sunt et in temptationem animis hominum et in muscipulum pedibus insipientium. Sap. 14, 11.
(79) Oportet Christianum, abnegato mundo, transferri ex hoc saeculo, in quo versatur animus illecebris illectus a tempore transgressionis Adam, in alterurn saeculum, et intellectu in superiori ac divino mundo versari. S. Macar., hom. 24. – Contemptu universorum Christus sequendus est. S. Hilar, in Matth. , cap. 16, n. 11.
(80) Joan. 17, 17. – In veritate, id est, in me. S. Cyril. Alex., lib., 11 in Joan. , c. 10.
(81) Sanctificantur in veritate heredes Testamenti novi, cujus veritatis umbrae fuerunt sanctifcationes veteris Testamenti, et cum sanctificantur in veritate, utique sanctificantur in Christo qui veraciter dicit Ego sum via et veritas. S. Aug., tract. 108 in Joan. n. 2.
(82) Veri adoratores adorabunt Patrem spiritu et veritate. – Joan. 4, 23.

domenica 4 maggio 2014

L'abito ecclesiastico!!!


L'abito ecclesiastico: sua finalità e sua importanza

"Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa." (Card. Giuseppe Siri)

1. Il monaco senza abito.
Si dice che l'abito non fa il monaco, il che è vero, nel senso che non basta mettersi qualcosa addosso per cambiare vita o distinguersi esteriormente dal mondo per operare la propria conversione interiore. D'altra parte, è vero anche il contrario: abbandonare l'abito religioso o deformarlo a mero "segno di riconoscimento" (come il tesserino appuntato sul petto dagli addetti di qualche azienda) può significare due sole cose, entrambe negative: o la vergogna per un modo di essere che si cerca di nascondere ogni qual volta faccia comodo; o l'idea secondo cui tra i consacrati e i laici non vi sia alcuna differenza se non sul piano puramente accidentale. In ultima analisi, è un'indebolimento della fede, occultata o deformata, che provoca l'abbandono, se non addirittura il disprezzo, della veste sacra.

Non è mia intenzione, qui, analizzare minutamente le molteplici ragioni che giustificano l'uso, da parte dei consacrati, di un abito diverso dalle altre persone. Tuttavia, poiché oggi anche il semplice buon senso sembra vacillare, bisognerà per lo meno spendere una parola contro le obiezioni più frequenti.

2. Chiarezza, non finzione.

La prima è quella secondo cui il consacrato, vestendosi come chiunque, sarebbe più vicino alla gente, più capace di mettersi in relazione con loro. Ora, la chiarezza dei ruoli sta alla base del funzionamento di un rapporto. Nessuno, credo, per corteggiare una ragazza si vestirebbe da donna; e sarebbe ridicolo che il capo di un'azienda, per avere migliori relazioni coi propri operai, andasse a visitarli in tuta da lavoro. Anzi, nell'uno e nell'altro caso l'interlocutore si sentirebbe preso in giro dal tentativo di impostare il rapporto su un mezzo inganno. E reagirebbe o allontanando il dissimulatore oppure trattandolo con sufficienza, perché chi si vergogna di un modo di essere perfettamente legittimo non ha alcun diritto ad essere preso sul serio. Con questo cade la prima obiezione all'abito religioso: chi non lo porta per avvicinarsi alla gente, si rende, sia pure involonariamente, artefice di un inganno. Il consacrato deve avvicinare la gente come consacrato, non come finto laico.

3. Il falso spiritualismo si traduce in vero materialismo.

L'altra frequente obiezione viene formulata più o meno in questo modo: uno stato interiore e spirituale non ha bisogno di essere manifestato con segni esteriori e materiali. Distinguo: uno stato interiore e spirituale privato, che non ha riflessi visibili sulla propria condizione pubblica, non ha effettivamente bisogno di essere denotato esteriormente. Non si chiederà ad un laico che si è confessato e ha fatto la Comunione di appendersi una nastrino al collo per far sapere a tutti la grazia che ha ricevuto. Anzi, vantarsi dei propri meriti, ancorché spirituali, significa alienarsi, come dice il Vangelo, la ricompensa che essi avrebbero meritato nell'altra vita. Invece uno stato interiore e spirituale pubblico, che cioè muta la condizione pubblica di una persona, modificandone il suostatus, non solo può, ma deve essere manifestato con segni visibili. Ora, il conferimento dei sacri ordini è pubblico, come pubblico è l'ingresso in un istituto religioso mediante la solenne professione dei voti. È necessario, quindi, che il consacrato porti esteriormente un segno di questa sua condizione, che lo distingue dagli altri fedeli e che, essendo pubblica, dev'essere pubblicamente manifestata.

Certo, la sana filosofia ci insegna a subordinare il materiale allo spirituale. Sappiamo perfettamente che il segno esteriore ha senso nella misura in cui riflette uno stato interiore. Attribuire soverchia importanza al segno, a scapito della realtà che esso significa, vuol dire confondere il mezzo col fine, l'accidentale con l'essenziale. Ma nell'uomo, fatto di anima e di corpo, anche la parte materiale ha la sua importanza. È l'istituzione stessa dei Sacramenti a dimostrarcelo. Per veicolarci le sue grazie ex opere operato, nostro Signore avrebbe potuto scegliere qualunque mezzo, anche puramente spirituale. Invece ha deciso di legarle ad un segno tangibile, un segno che, pur essendo in se stesso materiale, produce infallibilmente una grazia spirituale. Perché questa scelta? Per la consapevolezza che l'uomo, non essendo un puro spirito (come gli Angeli), ha bisogno di segni sensibili per accedere più facilmente alle realtà insensibili (cioè non percepibili attraverso i sensi). Ho parlato dell'istituzione dei Sacramenti. Ma avrei potuto menzionare anche l'Incarnazione. Dio poteva redimerci in diversi modi. Se ha scelto di farlo assumendo l'umana natura, è per lo scopo delineato dal prefazio di Natale: "affinché, conoscendo Dio visibilmente, siamo rapiti alla contemplazione delle realtà invisibili".

Bisogna quindi tenersi egualmente lontani da due opposti eccessi: da un lato, quello del materialismo, che ordina l'inferiore (le realtà corporee) al superiore (le realtà spirituali), comportando il dileguo di queste ultime; e dall'altro quello, non meno deleterio, dello spiritualismo, che, pur riconoscendo la ragionevole supremazia delle realtà spirituali, finisce per misconoscere l'importanza di quelle materiali.

L'uomo, diceva Pascal, è un po' angelo e un po' bestia. Quando cerca di diventare solo angelo, finisce per diventare solo bestia. Il protestantesimo ha voluto trasformare la religione del Verbo incarnato in qualcosa di puramente spirituale, senza sacramenti, senza sacrificio, senza sacerdozio, in una parola senza segni visibili che producano la grazia invisibile. Dopo non molto tempo, questo innaturale spiritualismo si è trasformato nel suo contrario, cioè nell'esaltazione della materia a scapito dello spirito. E non può essere altrimenti. Sganciato da uno dei propri elementi costitutivi - il corpo - l'uomo tenta di librarsi nei puri cieli dello spirito; ma, come dice il Poeta, "sua disianza vuol volar sanz'ali", poiché l'uomo non è un angelo, anche se si sforza di diventarlo. Non nel senso che non possa raggiungere la purezza di un angelo o la santità di un angelo, ma nel senso che non può comportarsi come se non avesse anche una parte materiale, la quale, se non viene usata come mezzo di santificazione, finisce per assumere una propria autonomia, trasformandosi in mezzo di dannazione. Mi spiego con un esempio. Tutti abbiamo bisogno di mangiare: possiamo seguire ciecamente questo istinto, e ammalarci di indigestione; possiamo fingere che non esista, e morire di fame; oppure possiamo mangiare per saziarci, ossia ordinando la realtà corporale (l'istinto) alla realtà spirituale (la ragione). Ora, poiché gli aspiranti suicidi, grazie a Dio, sono pochissimi, le persone che negano al cibo qualunque utilità, piuttosto che morire di fame, finiranno per passare al versante diametralmente opposto, cioè a sostenere la necessità di assecondare irrazionalmente le proprie passioni. È il finto angelo che diventa vera bestia.

4. Tentazioni gnostiche.

L'utilizzo di un segno esteriore che denoti una condizione interiore è dunque connaturale all'essenza dell'uomo, il quale, come abbiamo visto, deve servirsi ragionevolmente delle realtà materiali in modo da ordinarle a quelle spirituali. Di qui la somma importanza dell'abito sacro. Esso, infatti, non si limita ad indicare una condizione qualsiasi, tra le tante che l'uomo può pubblicamente assumere, ma è il segno di uno stato di vita diverso e distinto da quello delle altre persone. In quanto stato, tale condizione non viene mai abbandonata, neppure temporaneamente. Il consacrato non è tale solo quanto è in servizio: per questo i sacerdoti o i religiosi che usano la veste sacra solo durante le funzioni sono da biasimare non meno di quelli che non la usano mai. Anzi, forse sono da biasimare di più, perché, oltre a fraintendere il significato del segno, lo sviliscono a puro elemento di esibizione, come se il sacerdote non avesse alcun bisogno dell'abito e lo indossasse solamente per non deludere gli innocenti e puerili desideri del popolo. Chi si comporta così, riconosce il principio, sopra esposto, secondo cui le cose sensibili vanno utilizzate per favorire la contemplazione delle cose soprasensibili; ma ne limita l'applicazione ad alcune categorie di persone: il popolo, semplice e istintivo, ha bisogno di questi segni; i sacerdoti, i dotti, le persone colte, no. Non è difficile riconoscere in questo una forma velata di gnosi: l'accesso ad una forma di conoscenza riservata a pochi crea l'illusione di trascendere la natura umana, di non aver bisogno di ciò di cui tutti hanno bisogno. Inutile far rilevare come, alla resa dei conti, i consacrati che seguono questo tipo di ragionamento, quando non usano la veste, lo fanno per i discutibili motivi di cui abbiamo parlato all'inizio del presente articolo, se non addirittura per ragioni ancor meno onorevoli. È, ancora una volta, l'angelo (anche se stavolta restringe la possibilità di de-materializzarsi ad una ristretta cerchia di privilegiati) che si rivela bestia.

In realtà, il consacrato è il primo ad aver bisogno della veste sacra, è il primo ad aver bisogno di un segno esteriore che gli ricordi, anche quando sarebbe più propenso a dimenticarlo, il suo stato di vita. La natura umana, come ben sappiamo, non è distrutta dalla grazia; tanto meno è distrutta dalla conoscenza di certe nozioni o dall'assunzione di uno stato di vita (gnosi). Da questo punto di vista, il sacerdote è un uomo come tutti gli altri, bisognoso, anche lui, di ordinare il corpo mediante il ragionevole utilizzo delle realtà sensibili. Per questo le costituzioni degli Ordini religiosi, fino alla recenti riforme, ordinavano al consacrato di non deporre mai la sacra veste: perfino durante la notte, se non si usava l'abito intero (distinto, ovviamente, da quello impiegato durante il giorno), bisognava portare l'abitino, ossia un piccolo scapolare dello stesso tessuto e colore della veste sacra. Il terzo Concilio plenario di Baltimora stabiliva che i sacerdoti potevano indossare il clergyman solo all'esterno (come d'abitudine nei paesi anglosassoni), mentre in chiesa e in casa (cioè anche nel privato) doveva tassativamente portare la talare. In molti seminari, i candidati ai sacri ordini dormivano con l'abito talare piegato e deposto sul petto: non si trattava, come alcuni vorrebbero, di un semplice memento mori, ma della logica applicazione del principio secondo cui l'abito religioso serve anzitutto al sacerdote per riconoscere se stesso. Nei bui momenti di sconforto, di scoraggiamento, di tentazione, quando la volontà interiore è meno propensa a ricordarsi degli impegni assunti e delle scelte fatte, è spesso un segno esteriore che ci richiama alla realtà e ci salva. Riconoscere questo, non significa trasformare l'uomo in un eterno fanciullo, sempre bisognoso di qualcuno o qualcosa che lo controlli; significa piuttosto prendere atto della natura intima dell'uomo (in cui l'angelo, in alcuni momenti, rischia di essere soppiantato dalla bestia) e predisporre gli opportuni rimedi. Di qui la necessità di usare la veste sacra come memento al consacrato del suo modo di essere. In questo stessa senso va inquadrata la prassi di portare la tonsura o chierica nei capelli, la quale peraltro, a differenza della veste, non poteva essere neppure deposta. L'abito non fa il monaco, ma aiuta ad esserlo.

5. Dignità e bellezza.

C'è poi un'ultima questione da affrontare. Secondo alcuni, il sacerdote deve sì essere identificabile come tale, ma per ottenere questo scopo basta un "segno di riconoscimento" qualsiasi: una crocetta, un tau, un colletto, qualunque cosa possa alludere alla sua funzione. Osserviamo, anzitutto, che un segno, per essere riconoscibile, dev'essere univoco: quindi, parlare di un "segno di riconoscimento" senza stabilire esplicitamente quale, non ha alcun senso. Oggi siamo arrivati al paradosso di sacerdoti i quali pensano di essere riconosciuti per una sorta di telepatia interiore, come se il loro modo di essere ce l'avessero scritto in faccia. Né c'è da stupirsene, visto che alludere ad un "segno di riconoscimento" senza definirlo, significa lasciare aperto il campo alle più disparate interpretazioni, anche a quelle telepatico-sensitive. In secondo luogo, un segno, per essere efficace, deve avere una qualche relazione evidente ed immediata (analogia) con la realtà che vuole significare. Ora, è indubbio che la veste sacra, per il fatto di avvolgere interamente chi la porta, rimanda in modo assai efficace al fatto della totale consacrazione a Dio. Il consacrato, anche esteriormente, è rivestito di Cristo. La sua separazione dal mondo (che non significa estraneità, visto che, tolti i casi di vita assolutamente contemplativa, continua in vario modo ad operare nel mondo) è denotata dall'uso di vesti radicalmente diverse da quelle comuni. I colori sobri e le stoffe poco pregiate rimandano alla scelta dell'umiltà e, per chi ne ha fatto voto, della povertà. Secondo la stessa logica, i Prelati, in ragione del proprio ruolo, indossano vesti dai colori e dai tessuti più preziosi. E tutto questo, senza considerare le simbologie proprie degli abiti dei singoli istituti, ricchissime di significati teologici e spirituali. Come, celebrando la Messa, il sacerdote - anche esteriormente - si spoglia di se stesso e si riveste di Cristo, così nella sua vita quotidiana il consacrato, che ha rinunciato a se stesso abbracciando un determinato stato di vita, deve testimoniare - anche esteriormente - la sua intima identificazione col Salvatore.

Per questo la veste sacra non dev'essere priva di una sua dignità estetica. Trascurare questo aspetto in nome della comodità o del funzionalismo, significa eleminare od oscurare la corrispondenza analogica tra simbolo e significato. Non di rado, oggi, vediamo abiti religiosi striminziti e di tessuto sottilissimo, che lasciano trasparire le vesti borghesi sottostanti e che sembano fatti apposta per essere frettolosamente indossati quando ci si reca ad una funzione o si esce di casa. Nulla a che vedere rispetto alle vesti ampie, nobili e dignitose, ancorché poverissime, che si usavano prima delle recenti riforme. Le modifiche più notevoli si sono avute negli abiti delle religiose: ai lungi veli, ai soggoli inamidati, alle ampie gonne che scendevano fino al ginocchio, alle cinture, agli scapolari (cose, tavolta, di forma originale o insolita, ma sempre degne di una sposa di Cristo e comunque munite di una loro storia e di un loro significato), si sono sostituiti dei ridicoli tailleur stile anni Cinquanta, con gonna al ginocchio e giacchetta stilizzata. D'estate non è raro vedere le mezze maniche. Il soggolo è completamente scomparso e il velo si è trasformato in un esile fazzoletto, che lascia intravedere più capelli di quanti ne compra. Non è difficile scorgere, in queste stilizzazioni, il passaggio dall'abito come segno "escatologico", la cui forma suggerisce la realtà che è chiamata a significare, all'abito come segno "di riconoscimento", dotato di una funzione puramente convenzionale. E tutto questo senza tener conto delle conseguenze psicologiche di simili scelte: infatti, stilizzare o trascurare il segno che denota il proprio modo di essere, viene comunemente interpretato come negligenza e disinteresse verso il modo di essere in quanto tale.

6. Considerazioni finali.

Concludo con un tentativo di sintesi. L'abito religioso è il segno esteriore di una realtà interiore. Esso non è coessenziale a questa realtà, nel senso che non è indispensabile affinché questa esista (l'abito non fa il monaco), ma ne è la legittima espressione, conformemente alla natura dell'uomo, che essendo composto di anima e di corpo ha bisogno di servirsi delle cose visibili per cogliere meglio quelle invisibili (l'abito aiuta ad essere monaco). Spogliarsi del segno esteriore non implica la cessazione della realtà interiore; ma è visto dagli altri o come un suo svilimento (vergogna per ciò che si è) o come un tentativo di inganno (fingersi ciò che non si è). Quindi non è in alcun modo funzionale alle relazioni col prossimo, che, al contrario, hanno come presupposto la chiarezza, anche esteriore, dei ruoli. Queste considerazioni, se valgono per il prossimo, valgono a maggior ragione per il consacrato stesso, il quale, per primo, ha bisogno di un segno che gli ricordi sempre, anche quando sarebbe più propenso a scordarlo, la propria condizione. In quanto simbolo (realtà materiale che allude ad una realtà spirituale), la veste sacra deve avere una corrispondenza analogica con ciò che significa: in altre parole, deve in qualche modo rimandare, nel colore e nella forma, alle caratteristiche dello stato di vita che è chiamata a rappresentare. I segni di riconoscimento convenzionali (crocette, colletti, tau), come pure gli abiti stilizzati e imbruttiti che hanno rimpiazzato le dignitose vesti tradizionali, non soddisfano questo requisito, quindi sono da scartare. Essi denotano, tutt'al più, una funzione (come quella di un impiegato che porti un cartellino di riconoscimento), ma non un modo di essere: non sono sufficienti a fare della veste religiosa quel "segno escatologico" di cui parlano gli autori di spiritualità. Anzi, a causa della loro bruttezza ed ordinarietà, finiscono per svilire, a livello psicologico, anche la realtà che significano.

L'esperienza dimostra quanto abbiamo tentato di spiegare a parole. Nel corso della storia, l'abbandono della veste sacra è sempre coinciso con periodi di forte decadenza spirituale. Ad avere in uggia la forma tradizionale dell'abito sacro erano, per esempio, i chierici frivoli e libertini del XVIII secolo. Quanto al clero moderno, l'ostentata noncuranza nei confronti dei segni esteriori fa riscontro ad una mondanizzazione e ad una crisi d'identità (disciplinare e dottrinale) senza precedenti.

Del resto, la decadenza della religiosità esteriore è, ad un tempo, causa ed effetto della decadenza della religiosità interiore, poiché la mente umana è fatta in modo tale da conoscere invisibilia per visibilia. Trascurando il segno visibile, si finisce a poco a poco per perdere il contatto con la realtà invisibile da esso rappresentata. Parallelamente, chi non è più in grado di cogliere adeguatamente le cose spirituali non avverte più il bisogno di esprimerle in forma materiale. Si tratta di un circolo vizioso (abyssus clamat abyssum), dal quale è possibile uscire solo col recupero dei sani concetti della filosofia e della teologia tradizionali e col ritorno alla secolare prassi della Chiesa cattolica.

Daniele Di Sorco
AMDG et BVM