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sabato 5 ottobre 2013

Straziante ed eloquente al mille per cento! SONO I VANGELI DELLA FEDE ! Santi e Sante Martiri pregate per noi!


Sera del 24 – 11 - 1946
I Martiri e le loro conquiste.

Vedo un luogo che per costruzione e per personaggi molto mi ricorda il Tullianum nella visione della morte del piccolo Castulo ( Ne I quaderni del 1944, pag. 152.) Mi ricorda anche altri luoghi romani come le celle dei circhi dove ho visto ammassati i cristiani prossimi ad essere gettati ai leoni. Ma non è né l’uno né l’altro luogo. 

Le muraglie sono con le solite robuste pietre squadrate sovrapposte. La luce 

è poca e triste come filtrasse da feritoie e si mescolasse al lume incerto di una
fiammella ad olio insufficiente a rischiarare l’ambiente. Il luogo è sempre, di
certo, una carcere, e carcere di cristiani, ma, a differenza degli altri luoghi
che ho visto, questo ambiente fosco e triste non è tutto chiuso da porte e
muraglie. Ha in un angolo un ampio corridoio che si diparte dallo stanzone 
e va chissà dove. Anche il corridoio, un poco curvo come facesse parte di 
una larga elissi, è con le solite pietre quadrangolari e malamente 
rischiarato da una fiammella. Il luogo è vuoto. Però al suolo, un suolo 
che pare di granito, sparso di grossi sassi a far da sedili, sono degli indumenti.
Un rumore sordo, come di mare in tempesta che si senta lontano dalla riva, 
viene da non so dove. Delle volte è più fievole, talora è forte. Ha quasi del boato.

Forse per effetto delle pareti a curva che lo devono raccogliere e amplificare
come per eco. È un rumore strano. Delle volte mi sembra fatto da onde di 
mare o da una grande cascata d’acque, delle volte mi pare di sentirlo fatto 
di voci umane e penso sia folla che urla, altre fa dei suoni inumani durante 
i quali l’altro rumore si sospende per esplodere poi più forte... Ora uno 
scalpiccio di passi, di molti passi, viene dal corridoio ellittico che si illumina 
vivamente come se altri lumi vi venissero portati, e col rumore 
dei passi un rammarichio fievole di creature sofferenti...



Poi ecco la tremenda scena. Preceduto da due uomini colossali, anzianotti,
barbuti, seminudi, muniti di torce accese, viene avanti un gruppo di creature
sanguinanti, parte sorrette, parte sorreggenti, parte addirittura portate. Ho
detto: creature. Ma ho detto male. Quei corpi straziati, mutilati, aperti, quei
volti dalle guance segnate da atroci ferite che hanno dilaniato le bocche sino
all’orecchio, o spaccato una guancia sino a mostrare i denti infissi nella
mandibola, o cavato un occhio che spenzola fuor dall’orbita priva della 
palpebra ormai inesistente, o che è mancante affatto come per una barbara 
ablazione, quelle teste scoperchiate del cuoio capelluto come se un ordigno 
crudele le avesse scotennate, non hanno più aspetto di creature. 
Sono una visione macabra come un incubo, sono come un sogno di pazzia... 

Sono la testimonianza che nell’uomo si cela la belva e che essa è pronta 

ad apparire e a sfogare i suoi istinti approfittando di ogni pretesto che 
giustifichi la belluinità. Qui il pretesto è la religione e la ragion di stato. 
I cristiani sono nemici di Roma e del divo Cesare, sono gli offensori degli 
dèi, perciò i cristiani siano torturati. E lo sono. Che spettacolo! 
Uomini, donne, vecchi, fanciullini, giovinette sono là alla rinfusa in attesa 
di morire per le ferite o per un nuovo supplizio.

Eppure, tolto il lamento inconscio di coloro che la gravità delle ferite fa
insensati, non si sente una voce di rammarico. Quelli che li hanno condotti si
ritirano lasciandoli alla loro sorte, e allora si vede che i meno feriti cercano
di soccorrere i più gravi e chi appena può va a curvarsi sui morenti, chi non
può farlo stando ritto si trascina sulle ginocchia o striscia al suolo cercando
l’essere a lui più caro o quello che sa più debole di carne e forse di spirito. 

E chi può ancora usar le mani cerca dare soccorso alle forme denudate 

ricoprendole con le vesti che erano al suolo, oppure raccogliendo le membra 
dei languenti in positure che non offendano la modestia e stendendo su esse 
qualche lembo di veste. 
E alcune donne raccolgono nel grembo i bambini morenti, e forse 
non sono i loro, che piangono di dolore e paura. Altre si trascinano 
presso giovinette coperte soltanto delle chiome disciolte e cercano rivestire 
le forme verginali con le candide vesti trovate al suolo. E le vesti si intridono 
di sangue, e odor di sangue satura l’aria dell’ambiente mescolandosi al fumo 
pesante del lume ad olio. 

E dialoghi pietosi e santi si intrecciano sommessi.


“Soffri molto, figlia mia?” chiede un vecchio dal cranio scoperchiato della cute
che pende sulla nuca come una cuffia caduta e che non può vedere perché 
non ha più per occhi che due piaghe sanguinanti, rivolgendoli ad 
una che sarà stata una florida sposa ma che ora non è che un mucchio di 
sangue, stringente al petto aperto, con l’unico braccio che ancor lo può fare, 
in un disperato gesto di amore, il figliolino che sugge il sangue materno in 
luogo del latte che non può più scendere dalle mammelle lacerate.
“No, padre mio... Il Signore mi aiuta... Se almeno venisse Severo... Il
bambino... Non piange... non è forse ferito... Sento che mi cerca il petto...
Sono molto ferita? Non sento più una mano e non posso... non posso guardare
perché non ho forza più di vedere... La vita... se ne fugge col sangue... Sono
coperta, padre mio?...”.
“Non so, figlia. Non ho occhi più...”.

Più oltre è una donna che striscia al suolo sul ventre come fosse un serpente.
Da uno squarcio alla base delle coste si vedono respirare i polmoni. “Mi senti
ancora, Cristina?” dice curvandosi su una giovinetta nuda, senza ferite, ma col
color della morte sul viso. Una corona di rose è ancor sulla sua fronte sopra i
capelli morati disciolti. È semi svenuta.
Ma si scuote alla voce e carezza materna, e raduna le forze per dire:
“Mamma...”. La voce è un soffio. “Mamma! Il serpente... mi ha stretta così...
che non posso più... abbracciarti... Ma il serpente... è nulla... La vergogna...
Ero nuda... Mi guardavano tutti... Mamma... son vergine ancora anche 
se... anche se gli uomini... mi hanno vista... così?... Piaccio ancora a Gesù?...”.
“Sei vestita del tuo martirio, figlia mia. Io te lo dico: piaci a Lui più di
prima...”.
“Sì... ma... coprimi, mamma... non vorrei più esser vista... Una veste per
pietà...”.
“Non ti agitare, mia gioia... Ecco. La mamma si mette qui e ti nasconde... Non
posso più cercarti la veste... perché... muoio... Sia lode a Ge...”. E la donna
si rovescia sul corpo della figlia con un grande fiotto di sangue, e dopo un
gemito resta immobile. Morta? Certo agli ultimi respiri.
“La madre mia muore... Non è vissuto nessun prete per darle la pace?...” 
dice la giovinetta sforzando la voce.
“Io vivo ancora. Se mi portate...” dice da un angolo un vecchio dal ventre
aperto completamente...
“Chi può portare Cleto da Cristina e Clementina?” dicono in diversi.
“Forse io posso, ché ho buone le mani e forte ancora sono. Ma dovrei essere
condotto perché il leone mi ha levato gli occhi” dice un giovane bruno, alto e
forte.
“Ti aiuto io a camminare, o Decimo” risponde un giovinetto poco ferito, uno 
dei più illesi.
“E io e mio fratello ti aiuteremo a portare Cleto” dicono due robusti 
uomini nel fior della virilità, anche essi poco feriti.
“Dio vi compensi tutti” dice il vecchio prete sventrato mentre lo trasportano
con precauzione. E deposto che è presso la martire prega su di lei, e
agonizzante come è trova ancora il modo di raccomandare l’anima 
ad un uomo che, scarnificato nelle gambe, muore di dissanguamento al 
suo fianco. E chiede a quello cieco che lo ha portato se non sa nulla di Quirino.
“È morto al mio fianco. La pantera gli ha aperto la gola per il primo”.


“Le belve fanno presto all’inizio. Poi sono sazie e giuocano soltanto” dice un
giovinetto che si dissangua lentamente poco lontano.
“Troppi cristiani per troppo poche belve” commenta un vecchio che si zaffa 
con un cencio la ferita che gli ha aperto il costato senza ledergli il cuore.
“Lo fanno apposta. Per godere poi di un nuovo spettacolo. Certo lo stanno
ideando ora...” osserva un uomo che sorregge con la destra l’avambraccio
sinistro quasi staccato da una zannata di belva.

Un brivido scuote i cristiani.
La giovinetta Cristina geme: “I serpenti no! È troppo orrore!”.
“È vero. Esso ha strisciato su me leccandomi il viso con la lingua viscida...
Oh! Ho preferito il colpo d’artiglio che mi ha aperto il petto ma che ha ucciso
il serpente, al gelo dello stesso. Oh!” e una donna si porta le mani vacillanti
e insanguinate al volto.
“Eppure tu sei vecchia. Il serpente era serbato alle vergini”.
“Hanno satireggiato sui nostri misteri. Prima Eva sedotta dal serpente, poi i
primi giorni del mondo: tutti gli animali”.
“Già. La pantomima del Paradiso terrestre... Il direttore del Circo è stato
premiato per essa” dice un giovane.

“I serpenti, dopo averne stritolate molte, si sono gettati su noi finché
aprirono alle belve e fu il combattimento”.
“Ci hanno cosparse di quell’olio e i serpenti ci hanno sfuggite come preda di
cibo... Che sarà ora di noi? Io penso alla nudità...” geme una poco più che
fanciulla.
“Aiutami, Signore! Il mio cuore vacilla...”.
“Io confido in Lui...”.
“Io vorrei che Severo venisse, per il bambino...”.
“È vivo tuo figlio?” chiede una madre molto giovane che piange su ciò che 
era il figlio suo e che ora non è che un pugnello informe di carne: un 
piccolo tronco, solo tronco, senza testa, senza membra.
“È vivo e senza ferite. Me lo sono messo dietro la schiena. La belva ha
squarciato me. E il tuo?”.
“Il suo piccolo capo dai ricci leggeri, i suoi occhietti di cielo, le sue
piccole guance, le manine di fiore, i piedini che imparavano appena 
a camminare sono ora nel ventre di una leonessa... Ah! che era 
femmina e certo sa cosa è essere madre e non seppe avere pietà di me!…”.

“Voglio la mamma! La mamma voglio! È rimasta col padre là per terra... 
E io ho male. La mamma mi farebbe guarire la pancina!...” piange un 
bambino di sei, sette anni, al quale un morso o una zampata ha 
aperto nettamente la parete addominale, e agonizza rapidamente.
“Ora andrai dalla mamma. Ti ci porteranno gli angeli del cielo tuoi fratellini,
piccolo Lino. Non piangere così...” lo conforta una giovane sedendosi al suo
fianco e carezzandolo con la mano meno ferita. Ma il bambino soffre sul duro
pavimento e trema, e la giovane, aiutata da un uomo, se lo prende sui ginocchi 
lo sorregge e ninna così.


“Vostro padre dove è?” chiede Cleto ai due fratelli che lo hanno portato 
insieme all’accecato.
“È divenuto cibo del leone. Sotto i nostri occhi. Mentre già la belva gli
mordeva la nuca disse: ‘Perseverate’. Non disse di più perché ebbe la testa
staccata...”.
“Ora parla dal Cielo. Beato Crispiniano!”.
“Beati fratelli! Pregate per noi”.
“Per l’ultima lotta!”.
“Per l’ultima perseveranza”.
“Per amor di fratelli”.

Non temete. Essi, perfetti già nell’amore, tanto che il Signore li 
volle nel primo martirio, sono ora perfettissimi perché viventi nel 
Cielo, e del Signore altissimo conoscono e riflettono la Perfezione. 
Le spoglie loro, che abbiamo lasciate sull’arena, sono solamente 
spoglie. Come le vesti che ci hanno levate.
Ma essi sono in Cielo. Le spoglie sono inerti. Ma essi vivi sono. 
Vivi e attivi.
Essi sono con noi. Non temete. Non abbiate preoccupazione per 
come morrete. Gesù lo ha detto: ‘Non preoccupatevi delle cose 
della terra. Il Padre vostro sa di che avete bisogno’. Sa la vostra 
volontà e la vostra resistenza. Tutto sa e vi sovverrà. Ancora 
un poco di pazienza, o fratelli. E poi è la pace. Il Cielo si 
conquista con la pazienza e con la violenza. Pazienza nel dolore. 
Violenza verso le nostre paure d’uomini. Stroncatele. È l’insidia 
del Nemico infernale per strapparvi alla Vita del Cielo. Respingete 
le paure. Aprite il cuore alla confidenza assoluta. Dite: ‘Il Padre 
nostro che è nei Cieli ci darà il nostro pane quotidiano di fortezza 
perché sa che noi vogliamo il suo Regno e moriamo per esso 
perdonando ai nostri nemici’
No. Ho detto una parola di peccato. Non ci sono nemici per i 
cristiani. Chi ci tortura è nostro amico come chi ci ama.
Ci è anzi duplice amico. Perché ci serve sulla terra a testimoniare 
la nostra fede, e ci veste della veste nuziale per il banchetto eterno. 
Preghiamo per i nostri amici. Per questi nostri amici che non sanno 
quanto li amiamo. Oh! veramente in questo momento noi siamo 
simili a Cristo perché amiamo il nostro prossimo sino a morire 
per esso. Noi amiamo. Oh! parola! Noi abbiamo imparato ciò che è 
essere dèi. Perché l’Amore è Dio, e chi ama è simile a Dio, è 
veramente figlio di Dio. Noi amiamo evangelicamente non 
coloro dai quali attendiamo gioie e compensi, ma coloro che ci 
percuotono e ci spogliano anche della vita. Noi amiamo col 
Cristo dicendo: ‘Padre, perdonali perché non sanno ciò che fanno’
Noi col Cristo diciamo: ‘È giusto che si compia il sacrificio 
perché siamo venuti per compierlo e vogliamo che si compia’. 
Noi col Cristo diciamo ai superstiti: ‘Ora voi siete addolorati. 
Ma il vostro dolore si muterà in gaudio quando ci saprete in 
Cielo. Noi vi porteremo dal Cielo la pace in cui saremo’
Noi col Cristo diciamo: ‘Quando ce ne saremo andati manderemo 
il Paraclito a compiere i suoi misteriosi lavori nei cuori di quelli 
che non ci hanno capito e che ci hanno perseguitato perché 
non ci hanno capito’. Noi col Cristo non agli uomini ma al Padre 
affidiamo lo spirito perché lo sostenga col suo amore nella 
nuova prova. Amen”. Il vecchio Cleto, sventrato, morente, ha parlato 
con una voce così forte e sicura che un sano non avrebbe tale. Ed ha trasfuso 
il suo spirito eroico in tutti. Tanto che un canto dolce si leva da quelle 
creature straziate...


“Dove è mia moglie?” interroga una voce dal corridoio interrompendo il canto.
Severo! Sposo mio! Il bambino è vivo! Te l’ho salvato! Ma a tempo giungi...
perché io muoio. Prendi, prendi Marcellino nostro!”.
L’uomo si fa avanti, si curva, abbraccia la sposa morente, raccoglie il bambino
dalla mano tremante di lei e le due bocche, che si sono santamente amate, si
uniscono un’ultima volta in un unico bacio deposto sulla testolina innocente.
Cleto... Benedici... Muoio...”. Sembra che la donna abbia proprio trattenuto la
vita sino all’arrivo dello sposo. Ora si abbatte in un rantolo fra le braccia
del marito al quale sussurra: “Va’, va’... per il bambino... a Puden...”. La
morte le tronca la parola...
“Pace ad Anicia” dice Cleto.
“Pace!” rispondono tutti.
Il marito la contempla stesa ai suoi piedi, svenata, squarciata... Delle lacrime
gli cadono dagli occhi sul viso della morta. Poi dice: “Ricordati di me, o mia
sposa fedele!...”. Si volge al vecchio suocero: “La porterò nella vigna di Tito.
Caio e Sostenuto sono qui fuori con la barella”.

“Vi fanno passare?”.
“Sì. Chi ha ancora parenti fra i vivi avrà sepoltura...”.
“Col denaro?”.
“Col denaro... e anche senza. Ognuno che vuole può venire a raccogliere i 
morti  e a salutare i vivi. Sperano così che la vista dei martiri indebolisca quelli
che ancor liberi sono e li persuada a non farsi cristiani, e sperano che le
nostre parole... indeboliscano voi. Chi non ha parenti andrà al carnaio... Ma i
nostri diaconi nella notte ricercheranno i resti...”.

“Si prepara forse il nuovo martirio?”.
“Sì. Per questo fanno passare i parenti e anche per questo nella notte i martiri
verranno sepolti. Essi saranno occupati nello spettacolo...”.
“Così a tarda ora? Che spettacolo mai nella notte?”.
“Sì. Quale spettacolo?”.
“Il rogo. Quando sarà notte piena...”.
“Il rogo!... Oh!...”...
“A coloro che sperano nel Signore le fiamme saranno come la dolce rugiada
dell’aurora. Ricordate i giovinetti di cui parla Daniele (Daniele 3, 19-90). Essi andarono cantando fra le fiamme. La fiamma è bella! Purifica e veste di luce. Non le immonde belve. Non i lubrici serpenti. Non gli impudichi sguardi sui corpi delle vergini. La fiamma! Se resto di peccato è in noi, ci sia la fiamma del rogo simile al fuoco del Purgatorio. Breve purgatorio e poi, vestiti di luce, andiamo a Dio. A Dio: Luce, noi andremo! Fortificate i vostri cuori. Volevano essere luce al mondo pagano. I fuochi del rogo siano il principio della luce che noi daremo a questo mondo delle tenebre” dice ancora Cleto.

Dei passi pesanti, ferrati, nel corridoio. “Decimo, sei vivo ancora?” chiedono
due soldati apparendo nella stanza.
“Sì, compagni. Vivo. E per parlarvi di Dio. Venite. Perché io non posso venire a
voi, perché non vedrò mai più la luce”.
“Infelice’’ dicono i due.
“No. Felice. Io sono felice. Non vedo più le brutture del mondo. Entrando dalle
mie pupille le lusinghe della carne e dell’oro non mi potranno più tentare.
Nelle tenebre della cecità temporanea io vedo già la Luce. Dio vedo!...”.
“Ma non sai che fra poco sarai arso? Non sai che perché ti amiamo avevamo
chiesto di vederti, per farti fuggire se vivo eri ancora?”.
“Fuggire? Così mi odiate da volermi levare il Cielo? Non eravate così nelle
mille battaglie che sostenemmo fianco a fianco per l’Imperatore. Allora a
vicenda ci spronavamo ad essere eroi. Ed ora voi, mentre io mi batto per un
Imperatore eterno, immenso nella sua Potenza, mi consigliate alla viltà? Il
rogo? E non sarei morto volentieri fra le fiamme, durante gli assalti ad una
città nemica, pur di servire l’imperatore e Roma: un uomo mio pari, ed una 
città che oggi è e domani non è più? Ed ora che do l’assalto al Nemico più vero 
per servire Dio e la Città eterna dove regnerò col mio Signore, volete 
che io tema le fiamme?”.
I due soldati si guardano sbalorditi.

Cleto parla di nuovo: “Il martire è l’unico eroe. Il suo eroismo è eterno. Il
suo eroismo è santo. Non nuoce col suo eroismo a nessuno. Non emula gli stoici dagli stoicismi aridi. Non i crudeli dalle violenze inutili e nefande. Non
prende tesori. Non usurpa poteri. Dà. Dà del suo. Le sue ricchezze... Le sue forze... La sua vita... È il generoso che si spoglia di tutto per dare. Imitatelo. Servi supini di un crudele che vi manda a dare morte e a trovare la morte, passate alla Vita, a servire la Vita, a servire Dio. Forseché, caduta l’ebbrezza della battaglia, quando il segnale impone silenzio nel campo, voi avete mai sentito la gioia che sentite essere nel vostro compagno? No. Stanchezza, nostalgia, paura della morte, nausea di sangue e di violenze... Qui... guardate! Qui si muore e si canta. Qui si muore e si sorride. Perché noi non moriremo ma vivremo. Noi non conosciamo la Morte ma la Vita, il Signore Gesù”.

Entrano ancora quei due nerboruti uomini venuti al principio con le torce. Sono
con loro altri due uomini vestiti pomposamente. Le torce fumigano tenute alte
dai due. Gli altri che sono con loro si chinano a guardare i corpi...

“Morto... Anche questo... Costei agonizza... Il fanciullo ghiaccia già... Il
vecchio morrà fra breve... Questa?... Il serpente le ha schiacciato le costole.
Osserva, schiuma rosa è già alle labbra...” si consultano fra loro.
“Io direi... Lasciamoli morire qui”.
“No. Il giuoco è già fissato. Il Circo si riempie nuovamente...”.
“Gli altri delle carceri basterebbero”.
“Troppo pochi! Procolo non ha saputo regolare le masse. Troppi ai leoni. 
Troppo pochi per i roghi...”.
“Così è... Che fare?”.
“Attendi”. Uno si porta in mezzo alla stanza e dice: “Chi di voi è meno ferito
sorga in piedi”.
Si alzano una ventina di persone.
“Potete camminare? Reggervi in piedi?”.
“Lo possiamo”.
“Tu sei cieco” dicono a Decimo.
“Posso essere guidato. Non mi private del rogo, poiché penso che a questo
pensate” dice Decimo.
“A questo. E vuoi il rogo?”.
“Lo chiedo in grazia. Sono un soldato fedele. Guardate le cicatrici delle mie
membra. Per premio del mio lungo fedele servizio all’Imperatore, datemi il
rogo”.
“Se tanto ami l’Imperatore, perché lo tradisci?”.
“Non tradisco né l’Imperatore né l’Impero, perché non faccio atti contro la loro
salute. Ma servo il Dio vero che è l’Uomo Dio e l’Unico degno di essere servito
sino alla morte”.
“O Cassiano, con simili cuori i tormenti sono vani. Io te lo dico. Non facciamo
che coprirci di crudeltà senza scopo...” dice un intendente del Circo al
compagno.
“È forse vero. Ma il divo Cesare...”.
“E lascia andare! Voi che camminate, uscite di qui! Attendeteci presso le
uscite. Vi daremo delle vesti nuove”.
I martiri salutano quelli che restano. Un giovinetto si inginocchia per essere
benedetto dalla madre. Una fanciulla col suo sangue appone una crocetta 
come fosse un crisma sulla fronte della madre che la lascia per salire al rogo.
Decimo abbraccia i due commilitoni. Un vecchio bacia la figlia morente e si
avvia sicuro. Tutti prima di uscire si fanno benedire dal prete Cleto... I passi
dei morituri si allontanano nel corridoio.
“Voi rimanete ancora qui?” chiedono gli intendenti ai due soldati.
“Sì. Rimaniamo”.
“Per qual motivo? È... pericoloso. Costoro corrompono i fedeli cittadini”.
I due soldati scrollano le spalle.

Gli intendenti se ne vanno mentre entrano dei fossori con delle barelle per
portare via i morti. Vi è un poco di confusione perché con i fossori sono anche
i parenti dei morti e dei morenti e vi sono lacrime o addii fra questi e i
malvivi. I due soldati ne approfittano per dire a un fanciullo: “Fingiti morto.
Ti porteremo in salvo”.
Tradireste voi l’imperatore mettendovi in salvo mentre egli ha fiducia in voi
per la sua gloria?”.
“No certo, fanciullo”.
E neppure io tradisco il mio Dio che è morto per me sulla Croce”.
I due soldati, letteralmente sbalorditi, si chiedono: “Ma chi dà loro tanta
forza?”. E poi, col gomito appoggiato alla muraglia, a sostenere il capo,
restano meditabondi osservando.

Tornano gli intendenti con schiavi e con barelle. Dicono: “Siete ancora pochi
per il rogo. I meno feriti si siedano almeno”.
I meno feriti!... Chi più chi meno sono tutti agonizzanti. E non possono sedersi più. 
Ma le voci pregano: “Io! Io! Purché mi portiate…”.

Vengono scelti altri 11...
“Voi beati! Prega per me, Maria! A Dio, Placido! Ricordati di me, o madre!
Figlio mio, chiama l’anima mia presto! Sposo mio, ti sia dolce il morire!...”. I
saluti si incrociano...
Le barelle vengono portate via.

“Sorreggiamo i martiri col nostro pregare. Offriamo il duplice dolore delle
membra e del cuore che si vede escluso dal martirio per essi. Padre nostro...”.
Cleto, che è paurosamente livido ed è morente, raccoglie le forze per dire il
Pater.

Entra uno trafelato. Vede i due soldati. Arretra. Rattiene il grido che aveva
già sulle labbra.
“Puoi parlare, uomo. Non ti tradiremo. Noi, soldati di Roma, chiediamo di 
essere soldati di Cristo”.
“Il sangue dei martiri feconda le zolle!” esclama Cleto. E rivolto al
sopraggiunto chiede: “Hai i misteri?”.
“Sì. Ho potuto darli agli altri un momento prima che fossero portati nell’arena.
Ecco! “.
I soldati guardano stupiti la borsa di porpora che l’uomo si leva dal seno.
“Soldati. Voi ci chiedete dove noi troviamo la forza. Ecco la forza! Questo è il
Pane dei forti. Questo è Dio che entra a vivere in noi. Questo...”.
“Presto! Presto, o padre! Io muoio... Gesù... e morirò felice! Vergine, martire
e felice!” grida Cristina ansante negli spasimi della soffocazione.

Cleto si affretta a spezzare il pane e a darlo alla giovinetta che si raccoglie
quieta chiudendo gli occhi.
“Anche a me... e poi... chiamate i servi del Circo. Io voglio morire sul
rogo...” gorgoglia un fanciullo dalle spalle dilaniate e dalla guancia aperta
dalla tempia alla gola che sanguina.
“Puoi inghiottire?”.
“Posso! Posso. Non mi sono mai mosso né ho mai parlato per non morire... 
prima della Eucarestia. Speravo... Ora...”.
Il prete gli dà una mollichina del Pane consacrato. E il fanciullo cerca di
inghiottire. Ma non riesce. Un soldato si china impietosito e gli sorregge il
capo mentre l’altro, trovata in un angolo un’anfora con ancora un sorso d’acqua 
nel fondo, cerca di aiutarlo ad inghiottire versandogli l’acqua stilla a stilla fra 
le labbra.
Intanto Cleto spezza le Specie e le dà ai più vicini. Poi prega i soldati di
trasportarlo per distribuire ai morenti l’Eucarestia. Poi si fa ricondurre dove
era e dice: “Il nostro Signore Gesù Cristo vi ricompensi per la 
vostra pietà”.

Il fanciullino che stentava a inghiottire le Specie ha un breve affanno, si
dibatte... Un soldato impietosito lo prende fra le braccia. Ma mentre lo fa, un
fiotto di sangue sgorga dalla ferita del collo e bagna la lorica lucente.
“Mamma! Il Cielo... Signore... Gesù...”. Il corpicino si abbandona.
“È morto... Sorride...”.
“Pace al piccolo Fabio!” dice Cleto che impallidisce sempre più.
“Pace!” sospirano i morenti.

I due soldati parlano fra loro. Poi uno dice: “Sacerdote del Dio vero, termina
la tua vita mettendoci nella tua milizia”.
“Non mia... Di Cristo Gesù... Ma... non si può... Prima... bisogna essere
catecumeni...”.
“No. Sappiamo che in caso di morte viene dato il battesimo”.
“Voi siete... sani...”. Il vecchio ansa...
“Noi siamo morenti perché... Con un Dio quale è il vostro che vi fa tanto santi,
a che restare a servire un uomo corrotto? Noi vogliamo la gloria di Dio.
Battezzaci: io Fabio, come il piccolo martire; e il mio compagno Decimo 
come il nostro glorioso commilitone. E poi voleremo al rogo. A che vale la vita del
mondo quando si è compresa la Vita vostra?”.
Non c’è più acqua... nessun liquido... Cleto fa giumella della sua tremula mano, 
raccoglie il sangue che goccia dalla sua atroce ferita: 

“Inginocchiatevi... Io ti battezzo, o Fabio, nel nome del Padre, del 

Figlio, dello Spirito Santo... Io ti battezzo, o Decimo, nel nome 
del... Padre... del Figlio... dello Spirito... Santo... Il Signore sia con 
voi per la Vita... eterna...Amen!...”.

Il vecchio sacerdote ha finito la sua missione, la sua sofferenza, la sua vita... 
È morto...
I due soldati lo guardano... Guardano per qualche tempo quelli che muoiono
lentamente, sereni... sorridenti fra le agonie, rapiti nell’estasi eucaristica.
“Vieni, Fabio. Non attendiamo un attimo ancora. Con simili esempi è sicura la
via! Andiamo a morire per il Cristo!”. E rapidi corrono via per il corridoio
incontro al martirio e alla gloria.

Nel locale i gemiti si fanno sempre più lievi e più pochi... Dal Circo torna il
fragore che era all’inizio. La folla torna a rumoreggiare in attesa dello
spettacolo.



martedì 4 giugno 2013

S. Cecilia, vergine e martire


SANTA CECILIA

22 luglio. Festività di S. Maria Maddalena.

Una bella e lunga visione che non ha nulla a che fare con la Santa penitente che
io ho sempre amata tanto. La scrivo aggiungendo fogli a questo quaderno perché
sono sola e prendo quanto ho sotto mano.
Vedo le catacombe. Per quanto io non sia mai 1 stata nelle catacombe, capisco
che sono esse. Quali non so. Vedo oscuri meandri di stretti corridoi scavati
nella terra, bassi e umidi, fatti tutti a giravolte come un labirinto. Si
cammina diritti e sembra di poter continuare, al massimo di poter svoltare in un
altro corridoio, invece ci si trova di fronte una parete terrosa e occorre
svoltare, tornare indietro sino a ritrovare un altro corridoio che vada oltre.
In essi sono loculi e loculi, pronti per ricevere martiri. Pronti in questo
senso: che ognuno è leggermente scavato nella parete per dare una norma ai
fossori. Così in principio. Ma più ci si addentra e più 2 i loculi sono già
fondi e compiti, messi tutti nel senso della parete, come tante cuccette di
nave. Altri sono invece già colmi della loro santa spoglia e chiusi da una rozza
lapide incisa malamente col nome del martire o del defunto e i segni cristiani,
oltre una parola di addio e di raccomandazione.

Ma questi loculi già completati e chiusi sono proprio in quella zona che
suppongo sia la centrale della catacomba, perché qui si aprono sovente ambienti
più vasti, come sale e salette, e più alti, ornati di graffiti e più luminosi
degli altri per delle lucernette a olio sparse qua a là per devozione e per
comodità dei fedeli ai quali per qualche motivo si spenga la propria lampadetta.
Anche le persone qui sono più numerose e sboccano da tutte le parti, salutandosi
con amore, a voce bassa come il luogo santo lo richiede. Vi sono uomini, donne e
bambini. Di ogni condizione sociale. Vestiti da poveri e da patrizi. Le donne
hanno il capo coperto da una stoffa leggera come una mussola. Non è il velo di
tulle, certo, ma è come una garza fitta fitta, più bella nelle ricche, più
povera nelle povere, scura per le spose e vedove, bianca per le vergini. Vi sono
spose che hanno i bambini in braccio. Forse non avevano a chi lasciarli e se li
sono portati seco e, se i più grandicelli camminano al fianco delle mamme loro,
i più piccini, certuni infanti, dormono beati sotto il velo materno, cullati dal
passo della madre e dai canti lenti e pii che si elevano sotto le volte.
Sembrano angioletti scesi dal Cielo e sognanti il Paradiso a cui sorridono nel
sonno.
La gente aumenta e finisce a radunarsi in una vastissima sala semicircolare che
ha nel culmine del cerchio l’altare volto verso la folla ed è tutta coperta di
pitture o mosaici. Non capisco bene. So che sono figurazioni colorate in cui
splendono i toni più vivi o chiari e brillano le raggiere d’oro. Sull’altare
molti lumi accesi. Intorno all’altare una corona di vergini bianco-vestite e
bianco-velate.

1 Da qui comincia a scrivere sui fogli aggiunti al quaderno.
2 più è aggiunto da noi

Entra, benedicente, un vecchio dall’aspetto buono e maestoso. Credo sia il
Pontefice, perché tutti si prostrano riverenti. Egli è circondato da preti e
diaconi e passa fra la siepe di teste chine con un sorriso di bellezza
ineffabile sul volto. Il solo sorriso dice della sua santità. Sale all’altare e
si prepara al rito mentre i fedeli cantano.

La celebrazione ha luogo. È quasi simile alla nostra 3. Molto più complessa di
quella vista nel Tullianum, celebrata dall’apostolo Paolo, e di quella vista
celebrare in casa di Petronilla 4.

IL vecchio celebrante, Vescovo di certo se non Pontefice, è aiutato e servito
dai diaconi, i quali hanno vesti molto diverse dalle sue perché, mentre questo
porta una veste (di celebrazione) che somiglia, tanto per darle un’idea, a
quegli accappatoi 5 da toletta che le donne usano per pettinarsi - mantellette
tonde che coprono sul davanti e sul dietro e le spalle e braccia sino quasi al
polso - i diaconi hanno una veste di celebrazione quasi uguale alle attuali,
lunga sino al ginocchio e con maniche larghe e corte.
La Messa consta di canti, che comprendo essere brani di salmi o dell’Apocalisse,
di letture di brani epistolari o biblici e del Vangelo, i quali vengono
commentati ai fedeli dai diaconi a turno.
Finito di leggere il Vangelo - lo legge con voce di canto un giovane diacono -
si alza il Pontefice. Lo chiamo così perché sento che così è indicato da una
mamma ad un suo bambino piuttosto irrequieto. Il brano scelto era la parabola
delle dieci vergini: sagge o stolte 6.
Il Pontefice dice: «Propria delle vergini, questa parabola si rivolge a tutte le
anime, poiché i meriti del Sangue del Salvatore e la Grazia riverginizzano le
anime e le fanno come fanciulle in attesa dello Sposo.
Sorridete, o vecchi cadenti; alzate il volto, o patrizi sino a ieri immersi
nella fanghiglia del paganesimo corrotto; guardate senza più rimpianto al vostro
candido ignorare di fanciulle, o madri e spose. Non siete, nell’anima, dissimili
da questi gigli fra cui passeggia l’Agnello e che ora fanno corona al suo
altare. L’anima vostra ha bellezze di vergine che nessun bacio ha sfiorata,
quando rinascete e permanete in Cristo, Signor nostro. Il suo venire fa più
candida di alba su un monte coperto di neve l’anima che prima era sporca e nera
dei vizi più abbietti. Il pentimento la deterge, la volontà la depura, ma
l’amore, l’amore del nostro santo Salvatore, amore che viene dal suo Sangue che
grida con voce d’amore, vi rende la verginità perfetta. Non già quella che
aveste all’alba della vostra vita umana. Ma


3 La scrittrice si riferisce, ovviamente, alla S. Messa come veniva celebrata ai
suoi tempi, prima della riforma liturgica introdotta dal Concilio Vaticano II,
anche se resta la somiglianza della celebrazione da lei descritta con quella dei
nostri giorni.
4 Il 29 febbraio (pag. 225) ??? e il 4 marzo (pag. 243).???
5 accappatoi è nostra correzione da accapatoi
6 Matteo 25, 1-13.

quella che era del padre di tutti: Adamo, ma quella che era della madre di
tutti: Eva, prima che Satana passasse, traviando, sulla loro innocenza angelica,
sull’innocenza: dono divino che li vestiva di grazia agli occhi di Dio e
dell’universo.
O santa verginità della vita cristiana! Bagno di Sangue, di Sangue di un Dio che
vi fa nuovi e puri come l’Uomo e la Donna usciti dalle mani dell’Altissimo! O
nascita seconda della vostra vita, nella vita cristiana, preludio di quella
terza nascita che vi darà il Cielo quando vi salirete al cenno di Dio, candidi
per la fede o porpurei per il martirio, belli come angeli e degni di vedere e
seguire Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore nostro!
Ma oggi, più che alle anime riverginizzate dalla Grazia, mi volgo a quelle
chiuse in corpo vergine, con volontà di vergine. Alle vergini sagge che hanno
compreso l’invito d’amore del Signor nostro e le parole del vergine Giovanni, e
vogliono seguire per sempre l’Agnello fra la schiera di coloro che non conobbero
contaminazione e che empiranno in eterno i Cieli del cantico che niuno può dire
se non coloro che vergini sono per amore di Dio 7. E parlo alla forte nella
fede, nella speranza, nella carità, che si ciba questa notte delle Carni
immacolate del Verbo e si corrobora col suo Sangue come di Vino celeste per
esser forte nella sua impresa.
Una fra voi si alzerà da questo altare per andare incontro a un destino il cui
nome può essere “morte”. E vi va fidente in Dio, non della fede comune a tutti i
cristiani, ma di una ancor più perfetta fede che non si limita a credere per se
stessa, a credere nella protezione divina per se stessa. Ma crede anche per gli
altri e spera di portare a questo altare colui che domani sarà agli occhi del
mondo il suo sposo ma agli occhi di Dio il fratello suo dilettissimo. Doppia 8,
perfetta verginità che si sente sicura della sua forza al punto di non temere
violazione, di non temere ira di sposo deluso, di non temere debolezza di senso,
di non temere paura di minacce, di non temere delusione di speranze, di non
temere paura e quasi certezza di martirio.
Alzati e sorridi al tuo Sposo vero, casta vergine di Cristo che vai incontro
all’uomo guardando a Dio, che ci vai per portare l’uomo a Dio! Dio ti guarda e
sorride e ti sorride la Madre che fu Vergine e gli angeli ti fanno corona.
Alzati e vieni a dissetarti alla Fonte immacolata prima di andare alla tua
croce, alla tua gloria.
Vieni, sposa di Cristo. Ripeti a Lui il tuo canto d’amore sotto queste volte che
ti sono più care della cuna della tua nascita al mondo, e portalo teco sino al
momento che l’anima lo canterà nel Cielo mentre il corpo poserà nell’ultimo
sonno fra le braccia di questa tua vera Madre: l’apostolica Chiesa.»

Finita l’omelia del Pontefice, vi è un poco di brusio, perché i cristiani
sussurrano guardando e accennando la schiera delle vergini. Ma viene zittito per
far fare silenzio e poi vengono fatti uscire i catecumeni e la Messa prosegue.

7 Apocalisse 14, 4.
8 Doppia è lettura incerta


Non c’è il Credo. Almeno io non lo sento dire. Dei diaconi passano fra i fedeli
raccogliendo offerte, mentre altri diaconi cantano con la loro voce virile
alternando le strofe di un inno alle voci bianche delle vergini. Volute di
incenso salgono verso la volta della sala mentre il Pontefice prega all’altare e
i diaconi sollevano sulle palme le offerte raccolte in vassoi preziosi e in
anfore pure preziose.
La Messa prosegue ora così come è adesso. Dopo il dialogo che precede il
Prefazio, e il Prefazio cantato dai fedeli, si fa un grande silenzio in cui si
odono 9 solo le aspirazioni e i sibili del celebrante che prega curvo
sull’altare e che poi si solleva e a voce più distinta dice le parole della
Consacrazione.
Bellissimo il Pater intonato da tutti. Quando si inizia la distribuzione delle
Specie i diaconi cantano. Vengono comunicate le vergini per prime. Poi cantano
esse il canto udito per la sepoltura di Agnese 10: “Vidi supra montem Sion Agnum
stantem...”. Il cantico dura sinché dura la distribuzione delle Specie
alternandosi al salmo: “Come il cervo sospira alle acque, così l’anima mia anela
Te mio Dio” 11 (credo avere tradotto bene).
La Messa ha termine. I cristiani si affollano intorno al Pontefice per esserne
benedetti anche singolarmente e per accomiatarsi dalla vergine a cui si è
rivolto il Pontefice. Questi saluti avvengono però in una sala vicina, una
anticamera, direi, della chiesa vera e propria. E avvengono quando la vergine,
dopo una preghiera più lunga di tutte degli altri presenti, si alza dal suo
posto, si prostra ai piedi dell’altare e ne bacia il bordo. Pare proprio un
cervo che non sappia staccarsi dalla sua fonte d’acqua pura.

Sento che la chiamano: “Cecilia, Cecilia” e la vedo, finalmente, in viso, perché
ora è ritta presso il Pontefice e si è un poco sollevato il velo. È bellissima e
giovanissima. Alta, formosa con grazia, molto signorile nel tratto, con una
bella voce e un sorriso e uno sguardo d’angelo. Dei cristiani la salutano con
lacrime, altri con sorrisi. Alcuni le dicono come mai si è potuta decidere a
nozze terrene, altri se non teme l’ira del patrizio quando la scoprirà
cristiana.
Una vergine si rammarica che ella rinunci alla verginità. Risponde Cecilia a lei
per rispondere a tutti: “Ti sbagli, Balbina. Io non rinuncio a nessuna
verginità. A Dio ho sacrato il mio corpo come il mio cuore e a Lui resto fedele.
Amo Dio più dei parenti. Ma li amo ancora tanto da non volerli portare a morte
prima che Dio li chiami. Amo Gesù, Sposo eterno, più d’ogni uomo. Ma amo gli
uomini tanto da ricorrere a questo mezzo per non perdere l’anima di Valeriano.
Egli mi ama, ed io castamente lo amo, perfettamente lo amo, tanto da volerlo
avere meco nella Luce e nella Verità. Non temo le sue ire. Spero nel Signore per
vincere. Spero in Gesù per cristianizzare lo sposo terreno. Ma se non vincerò
in questo, e martirio mi verrà


9 odono è nostra correzione da ode
10 Il 20 gennaio, pag. 62. Apocalisse 14, 1.
11 Salmo 42 (volgata: 41), 2.


dato, vincerò più presto la mia corona. Ma no!... Io vedo tre corone scendere
dal Cielo: due uguali e una fatta di tre ordini di gemme. Le due uguali sono
tutte rosse di rubini. La terza è di due fasce di rubini intorno e un grande
cordone di perle purissime. Esse ci attendono. Non temete per me. La potenza del
Signore mi difenderà. In questa chiesa ci troveremo presto uniti per salutare
dei nuovi fratelli. Addio. In Dio”.
Escono dalle catacombe. Si avvolgono tutti in mantelli scuri e sgattaiolano per
le vie ancora semioscure perché l’alba è appena appena al suo inizio.


Seguo Cecilia che va insieme a un diacono e a delle vergini. Alla porta di un
vasto fabbricato si lasciano. Cecilia entra con due vergini sole. Forse due
ancelle. Il portinaio però deve essere cristiano perché saluta così: “Pace a
te!”.
Cecilia si ritira nelle sue stanze e insieme alle due prega e poi si fa
preparare per le nozze. La pettinano molto bene. Le infilano una finissima veste
di lana candidissima, ornata di una greca in ricamo bianco su bianco. Sembra
ricamata in argento e perle. Le mettono monili alle orecchie, alle dita, al
collo, ai polsi.
La casa si anima. Entrano matrone e altre ancelle. Un via vai festoso e
continuo.

Poi assisto a quello che credo sia lo sposalizio pagano. Ossia l’arrivo dello
sposo fra musiche e invitati e delle cerimonie di saluti e aspersions e simili
storie, e poi la partenza in lettiga verso la casa dello sposo tutta parata a
festa. Noto che Cecilia passa sotto archi di bende di lana bianca e di rami che
mi paiono mirto e si ferma davanti al larario, credo, dove vi sono nuove
cerimonie di aspersioni e di formule. Vedo a odo i due darsi la mano e dire la
frase rituale: “Dove tu, Caio, io Caia”.


Vi è tanta di quella gente e su per giù tutta in vesti uguali: toghe, toghe e
toghe, che non capisco quale sia il sacerdote del rito e se c’è. Mi pare di
avere il capogiro.
Poi Cecilia, tenuta per mano dallo sposo, fa il giro dell’atrio (non so se dico
bene), insomma della sala a nicchie e colonne dove è il larario, e saluta le
statue degli antenati di Valeriano, credo. E poscia passa sotto nuovi archi di
mirto ed entra nella vera casa. Sulla soglia le offrono doni e, fra l’altro, una
rocca e un fuso. Glie la offre una vecchia matrona. Non so chi sia.
La festa si inizia col solito banchetto romano e dura fra canti e danze. La sala
è ricchissima come tutta la casa. Vi è un cortile - credo si chiami impluvio, ma
non ricordo bene i nomi della edilizia romana né so se li applico giusti - che è
un gioiello di fontane, statue e aiuole. Il triclinio è fra questo e il giardino
folto e fiorito che è oltre la casa. Fra i cespugli, statue di marmo e fontane
bellissime.
Mi sembra passi molto tempo perché la sera scende. Si vede che per i romani non
c’erano le tessere 12. Il banchetto non finisce mai. È vero che vi sono soste di
canti e danze. Ma insomma...

12 Le tessere che, nel periodo bellico in cui Maria Valtorta scriveva,
regolavano il razionamento del pane e di altri alimenti.


Cecilia sorride allo sposo che le parla e la guarda con amore. Ma pare un poco
svagata. Valeriano le chiede se è stanca e, forse per farle cosa gradita, si
alza per licenziare gli ospiti.

Cecilia si ritira nelle sue nuove stanze. Le sue ancelle cristiane sono con lei.
Pregano e, per avere una croce, Cecilia bagna un dito in una coppa che deve
servire alla toletta e segna una leggera croce scura sul marmo di una parete. Le
ancelle la svestono del ricco abito mettendole una semplice veste di lana, le
sciolgono i capelli levandone le forcine preziose e glie li annodano in due
trecce. Senza gioielli, senza riccioli, così, con le trecce sulle spalle,
Cecilia pare una giovinetta, mentre giudico abbia dai 18 ai 20 anni.
Un’ultima preghiera e un cenno alle ancelle che escono per tornare con
altre più anziane, certo della casa di Valeriano. In corteo vanno ad una
magnifica camera e le più vecchie accompagnano Cecilia al letto che è poco
dissimile dai divani alla turca di ora, soltanto la base è di avorio intarsiato
e colonne di avorio sono ai quattro lati, sorreggenti 13 un baldacchino di
porpora. Anche il letto è coperto di ricchissime stoffe di porpora. La lasciano
sola.

Entra Valeriano e va a mani tese verso Cecilia. Si vede che l’ama molto. Cecilia
sorride al suo sorriso. Ma non va verso lui. Resta in piedi al centro della
stanza, perché, non appena uscite le vecchie ancelle che l’avevano adagiata sul
letto, ella si è rialzata.
Valeriano se ne stupisce. Crede non l’abbiano servita a dovere ed è già iracondo
verso le ancelle. Ma Cecilia lo placa dicendo che fu lei a volerlo attendere in
piedi.
“Vieni, allora, Cecilia mia” dice Valeriano cercando di abbracciarla. “Vieni,
ché io ti amo tanto”.
“Io pure. Ma non mi toccare. Non mi offendere con carezze umane”.
“Ma Cecilia!... Sei mia sposa”.
“Son di Dio, Valeriano. Son cristiana. Ti amo, ma con l’anima in Cielo. Tu non
hai sposato una donna, ma una figlia di Dio cui gli angeli servono. E l’angelo
di Dio sta meco a difesa. Non offendere la celeste creatura con atti di triviale
amore. Ne avresti castigo”.
Valeriano è trasecolato. Dapprima lo stupore lo paralizza, ma poi l’ira d’esser
beffato lo soverchia ed egli si agita e urla. È un violento, deluso sul più
bello. “Tu mi hai tradito! Tu ti sei fatta giuoco di me. Non credo. Non posso,
non voglio credere che tu sei cristiana. Sei troppo buona, bella e intelligente
per appartenere a questa sozza congrega. Ma no!... È uno scherzo. Tu vuoi
giuocare come una bambina. È la tua festa. Ma lo scherzo è troppo atroce. Basta.
Vieni a me”
“Sono cristiana. Non scherzo. Mi glorio d’esserlo perché esserlo vuol dire esser
grandi in terra e oltre. Ti amo, Valeriano. Ti amo tanto che sono venuta a te
per portarti a Dio, per averti con me in Dio”.


13 sorreggenti è nostra correzione da sorregenti


“Maledizione a te, pazza e spergiura! Perché mi hai tradito? Non temi la mia
vendetta?...”
“No, perché so che sei nobile e buono e mi ami. No, perché so che non osi
condannare senza prova di colpa. Io non ho colpa...”.
“Tu menti dicendo di angeli e dèi. Come posso credere a questo? Dovrei vedere e
se vedessi... se vedessi ti rispetterei come angelo. Ma per ora sei la mia
sposa. Non vedo nulla. Vedo te sola”.
“Valeriano, puoi credere che io menta? Lo puoi credere, proprio tu che mi
conosci? Sono dei vili, Valeriano, le menzogne. Credi a quanto ti dico. Se tu
vuoi vedere l’angelo mio, credi in me e lo vedrai. Credi a chi ti ama. Guarda:
sono sola con te. Tu potresti uccidermi. Non ho paura. Sono in tua balìa. Mi
potresti denunciare al Prefetto. Non ho paura. L’angelo mi ripara delle sue ali.
Oh! se tu lo vedessi!...”
“Come potrei vederlo?”
“Credendo in ciò che io credo. Guarda: sul mio cuore è un piccolo rotolo. Sai
cosa è? È la Parola del mio Dio. Dio non mente, e Dio ha detto di non avere
paura, noi che crediamo in Lui, ché aspidi e scorpioni saranno senza veleno per
il nostro piede 14...”.
“Ma pure voi morite a migliaia nelle arene...”
“No. Non moriamo. Viviamo eterni. L’Olimpo non è. Il Paradiso è. In esso non
sono gli 15 dèi bugiardi e dalle passioni brutali. Ma solo angeli e santi nella
luce e nelle armonie celesti. Io le sento... Io le vedo... O Luce! O Voce! O
Paradiso! Scendi! Scendi! Vieni a far tuo questo tuo figlio, questo mio sposo.
La tua corona prima a lui che a me. A me il dolore d’esser senza il suo affetto,
ma la gioia di vederlo amato da Te, in Te, prima del mio venire. O gioioso
Cielo! O eterne nozze! Valeriano, saremo uniti davanti a Dio, vergini sposi,
felici di un amore perfetto...” Cecilia è estatica.

Valeriano la guarda ammirato, commosso. “Come potrei... come potrei avere ciò?
Io sono il patrizio romano. Sino a ieri gozzovigliai e fui crudele. Come posso
esser come te, angelo?”
“Il mio Signore è venuto per dare vita ai morti. Alle anime morte. Rinasci in
Lui e sarai simile a me. Leggeremo insieme la sua Parola e la tua sposa sarà
felice d’esserti maestra. E poi ti condurrò meco dal Pontefice santo. Egli ti
darà la completa luce e la grazia. Come cieco a cui si aprono le pupille tu
vedrai. Oh! vieni, Valeriano, e odi la Parola eterna che mi canta in cuore”.
E Cecilia prende per mano lo sposo, ora tutto umile e calmo come un bambino, e
si siede presso a lui su due ampi sedili e legge il I capitolo del Vangelo di S.
Giovanni sino al v. 14, poi il cap. 3° nell’episodio di Nicodemo.
La voce di Cecilia è come musica d’arpa nel leggere quelle pagine e Valeriano le
ascolta prima stando seduto col capo appuntellato alle mani, posando i
gomiti

14 Marco 16, 17-18; Luca 10, 19.
15 gli è nostra correzione da i

sui ginocchi, ancora un poco sospettoso e incredulo, poi appoggia il capo sulla
spalla della sposa e a occhi chiusi ascolta attentamente e, quando lei smette,
supplica: “Ancora, ancora”. Cecilia legge brani di Matteo e Luca, tutti atti a
persuadere sempre più lo sposo, e termina tornando a Giovanni del quale legge
dalla lavanda in poi 16.
Valeriano ora piange. Le lacrime cadono senza sussulti dalle sue palpebre
chiuse. Cecilia le vede e sorride, ma non mostra notarle. Letto l’episodio di
Tommaso incredulo 17, ella tace...
E restano così, assorti l’una in Dio, l’altro in se stesso, sinché Valeriano
grida: “Credo. Credo, Cecilia. Solo un Dio vero può aver detto quelle parole e
amato in quel modo. Portami dal tuo Pontefice. Voglio amare ciò che tu ami.
Voglio ciò che tu vuoi. Non temere più di me, Cecilia. Saremo come tu vuoi:
sposi in Dio e qui fratelli. Andiamo, ché non voglio tardare a vedere ciò che tu
vedi: l’angelo del tuo candore “.
E Cecilia raggiante si alza, apre la finestra, scosta le tende perché la luce
del nuovo giorno entri, e si segna dicendo il Pater noster: adagio, adagio
perché lo sposo possa seguirla, e poi con la sua mano lo segna in fronte e sul
cuore e per ultimo gli prende la mano e glie la porta alla fronte, al petto,
alle spalle nel segno di croce, e poi esce tenendo lo sposo sempre per mano,
guidandolo verso la Luce.
Non vedo altro.

Ma Gesù mi dice:

«Quanto avete da imparare dall’episodio di Cecilia! È un vangelo della Fede 18.
Perché la fede di Cecilia era ancor più grande di quella di tante altre vergini.
Considerate. Ella va alle nozze fidando in Me che ho detto: “Se avrete tanta
fede quanto un granello di senapa, potrete dire a un monte: ritirati, ed esso si
sposterà”19. Vi va sicura del triplo miracolo di esser preservata da ogni
violenza, di esser apostola dello sposo pagano, di esser immune per il momento,
e da parte di lui, da ogni denuncia. Sicura nella sua fede, ella fa un passo
rischioso, agli occhi di tutti, non ai suoi, perché i suoi fissi in Me vedono il
mio sorriso. E la sua fede ha ciò che ha sperato.
Come va al cimento? Corroborata di Me. Si alza da un altare per andare alla
prova. Non da un letto. Non parla con uomini. Parla con Dio. Non si appoggia
altro che a Me.
Ella lo amava santamente Valeriano, lo amava oltre la carne. Angelica sposa,
vuole continuare ad amare così il consorte per tutta la vera Vita. Non si limita
a farlo felice qui. Vuole farlo felice in eterno. Non è egoista. Dà a lui ciò
che è il suo

16 Da Giovanni 13, 1 in poi.
17 Giovanni 20, 24-29.
18 Vedi il breve dettato del 28 febbraio, pag. 152.
19 Matteo 17, 20; Luca 17, 6.

bene: la conoscenza di Dio. Affronta il pericolo pur di salvarlo. Come madre,
ella non cura pericoli pur di dare alla Vita un’altra creatura.
La vera Religione non è mai sterile. Dà ardori di paternità e maternità
spirituali che empiono i secoli di calori santi. Quanti coloro che in questi
venti secoli hanno effuso se stessi, facendosi eunuchi volontari 20 pur di esser
liberi di amare non pochi, ma tanti, ma tutti gli infelici!
Guardate quante vergini fanno da madri agli orfani, quanti vergini da padri ai
derelitti. Guardate quanti generosi senza tonaca o divisa fanno olocausto della
loro vita per portare a Dio la miseria più grande: le anime che si sono perdute
e impazzano nella disperazione e nella solitudine spirituale. Guardate. Voi non
li conoscete. Ma Io li conosco uno per uno e li vedo come diletti del Padre.
Cecilia vi insegna anche una cosa. Che per meritare di vedere Iddio bisogna
esser puri. Lo insegna a Valeriano e a voi. Io l’ho detto: “Beati i puri perché
vedranno Dio”21.

Esser puri non vuol dire esser vergini. Vi sono vergini che sono impuri, e padri
e madri che sono puri. La verginità è l’inviolatezza fisica e, dovrebbe essere,
spirituale. La purezza è la castità che dura nelle contingenze della vita. In
tutte. È puro colui che non pratica e seconda la libidine e gli appetiti della
carne. È puro colui che non trova diletto in pensieri e discorsi o spettacoli
licenziosi. È puro colui che, convinto della onnipresenza di Dio, si comporta
sempre, sia che sia con sé solo che con altri, come fosse in mezzo ad un
pubblico.

Dite: fareste in mezzo ad una piazza ciò che vi permettete di fare nella vostra
stanza? Direste ad altri, coi quali volete rimanere in alto concetto, ciò che
ruminate dentro? No. Perché su una via incorrereste nelle pene degli uomini e
presso gli uomini nel loro disprezzo. E perché allora fate diversamente con Dio?
Non vi vergognate di apparire a Lui quali porci, mentre vi vergognate di
apparire tali agli occhi degli uomini?

Valeriano vide l’angelo di Cecilia e ebbe il suo e portò a Dio Tiburzio. Lo vide
dopo che la Grazia lo rese degno, e la volontà insieme, di vedere l’angelo di
Dio. Eppure Valeriano non era vergine. Non era vergine. Ma quale merito sapersi
strappare, per un amore soprannaturale, ogni abitudine inveterata di pagano!
Grande merito in Cecilia che seppe tenere l’affetto per lo sposo in sfere tutte
spirituali, con una verginità doppiamente eroica; grande merito in Valeriano di
saper volere rinascere alla purezza dell’infanzia, per venire con bianca stola
nel mio Cielo.
I puri di cuore! Aiuola profumata e fiorita su cui trasvolano gli angeli. I
forti nella fede. Rocca su cui si alza e splende la mia Croce. Rocca di cui ogni
pietra è un cuore cementato all’altro nella comune Fede che li lega.


20 Matteo 19, 12.
21 Matteo 5, 8.


Nulla Io nego a chi sa credere e vincere la carne e le tentazioni. Come a
Cecilia, Io do vittoria a chi crede ed è puro di corpo e di pensiero.
Il Pontefice Urbano ha parlato sulla riverginizzazione delle anime attraverso la
rinascita e la permanenza in Me. Sappiatela raggiungere. Non basta esser
battezzati per essere vivi in Me. Bisogna sapervi rimanere.

Lotta assidua contro il demonio e la carne. Ma non siete soli a combatterla.
L’angelo vostro ed Io stesso siamo 22 con voi. E la terra si avvierebbe verso la
vera pace quando i primi a far pace fossero i cuori con se stessi e con Dio, con
se stessi e i fratelli, non più essendo arsi da ciò che è male e che a sempre
maggior male spinge. Come valanga che si inizia da un nulla e diviene massa
immane.
Tanto dovrei dire ai coniugi. Ma a che pro? Già ho detto 23. Né si volle capire.
Nel mondo decaduto non soltanto la verginità pare manìa ma la castità nel
coniugio, la continenza, che fa dell’uomo un Uomo e non una bestia, non è più
riputata che debolezza e menomazione.

Siete impuri e trasudate impurità. Non date nomi ai vostri mali morali. Ne hanno
tre, i sempre antichi e sempre nuovi: orgoglio, cupidigia e sensualità. Ma ora
avete raggiunto la perfezione in queste tre belve che vi sbranano e che andate
cercando con pazza bramosia.
Per i migliori ho dato questo episodio, per gli altri è inutile perché alla loro
anima sporca di corruzione non fa che muovere solletico di riso. Ma voi buoni
state fedeli. Cantate con cuore puro la vostra fede a Dio. E Dio vi consolerà
dandosi a voi come Io ho detto. Ai buoni fra i migliori darò la conoscenza
completa della conversione di Valeriano per il merito di una vergine pura e
fedele.»

22 siamo è nostra correzione da sono
23 Nei dettati del 22 marzo (pag. 195) e del 21 giugno (pag. 321).