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giovedì 30 maggio 2013

*Vangelo della Fede. Santa Petronilla e Santa Felicola.


4 marzo 1944.

Il martirio di S. Petronilla e S. Felicola.

Vedo due giovani donne in preghiera. Una preghiera ardentissima che deve proprio
penetrare nei cieli. Una è più matura. Pare quasi sui trent’anni; l’altra deve da poco aver passato i venti. Sembrano in perfetta salute tutte e due. 
Poi si alzano e preparano un piccolo altare su cui dispongono lini preziosi e fiori.
Entra un uomo vestito come i romani dell’epoca, che le due giovani salutano con la massima venerazione. Egli si leva dal petto una borsa dalla quale trae tutto quanto occorre per celebrare una Messa. Poi si riveste delle vesti sacerdotali e
inizia il Sacrificio.
Non comprendo benissimo il Vangelo, ma mi pare sia quello di Marco: “E gli presentarono dei bambini... chi non riceverà il regno di Dio come un fanciullo non c’entrerà”  Marco 10, 15; Luca 18, 17.
 Le due giovani, inginocchiate presso l’altare, pregano sempre più fervorosamente.

Il Sacerdote consacra le Specie e poi si volge a comunicare le due fedeli, cominciando dalla più anziana, il cui volto è serafico di ardore. 
Poi comunica l’altra. Esse, ricevute le Specie, si prostrano al suolo in profonda preghiera e
sembra restino così per pura devozione.
Ma quando il Sacerdote si volge a benedire e scende dall’altare collocato su una
pedana di legno - dopo la celebrazione del rito, che è uguale a quella di Paolo nel Tullianum . Solo qui il celebrante parla più piano, date le due sole fedeli; ecco perché capisco meno il Vangelo  - una soltanto delle giovani si
muove. L’altra rimane prostrata come prima. La compagna la chiama e la scuote.
Si china anche il Sacerdote. La sollevano. Già il pallore della morte è su quel viso, l’occhio semispento naufraga sotto le palpebre, la bocca respira a fatica.
Ma che beatitudine in quel viso!
La adagiano su una specie di lungo sedile che è presso una finestra aperta su un cortile, in cui canta una fontana. E cercano soccorrerla. Ma, radunando le forze, ella alza una mano e accenna al cielo e non dice che due parole:
“Grazia... Gesù” e senza spasimi spira.

Tutto ciò non mi spiega che c’entra la giovane legata alla colonna che ho visto
questa notte e che, per quanto molto più pallida e smagrita, spettinata, torturata, mi pare assomigli tanto alla superstite che ora piange presso la
morta. E resto così, nella mia incertezza, per qualche ora.

Soltanto ora che è sera ritrovo la giovane piangente prima, ora ritta presso la
fontana del severo cortile nel quale sono coltivate solo delle piccole aiuole di gigli e sui muri salgono dei rosai tutti in fiore.

La giovane parla con un giovane romano: “È inutile che tu insista, o Flacco. Io ti sono grata del tuo rispetto e del ricordo che hai per la mia amica morta. 
Ma non posso consolare il tuo cuore. Se Petronilla è morta, segno era che non
doveva essere tua sposa. Ma io neppure. Tante sono le fanciulle di Roma che sarebbero felici di diventare le signore della tua casa. Non io. Non per te. Ma perché ho deciso di non contrarre nozze”.
“Tu pure sei presa dalla frenesia stolta di tante seguaci di un pugno d’ebrei?”.
“Io ho deciso, e credo non esser folle, di non contrarre nozze”.
“E se io ti volessi?”.
“Non credo che tu, se è vero che mi ami e rispetti, vorrai forzare la mia libertà di cittadina romana. Ma mi lascerai  seguire il mio desiderio avendo
per me la buona amicizia che io ho per te”.
“Ah, no! Già una m’è sfuggita. Tu non mi sfuggirai”.
“Ella è morta, Flacco. La morte è forza a noi superiore, non è fuga di uno ad un
destino. Ella non s’è uccisa. È morta...”.
“Per i vostri sortilegi. Lo so che siete cristiane e avrei dovuto denunciarvi al Tribunale di Roma. Ma ho preferito pensare a voi come a mie spose. Ora per l’ultima volta ti dico: vuoi esser moglie del nobile Flacco? Io te lo giuro che è meglio per te entrare signora nella mia casa e lasciare il culto demoniaco del tuo povero dio, anziché conoscere il rigore di Roma che non permette siano insultati i suoi dèi. Sii la sposa mia e sarai felice. Altrimenti...”.
“Non posso esser tua sposa. A Dio sono consacrata. Al mio Dio. Non posso adorare
gli idoli, io che adoro il vero Dio. Fa’ di me quello che vuoi. Tutto puoi fare del corpo mio. Ma la mia anima è di Dio ed io non la vendo per le gioie della tua casa”.
“È la tua ultima parola?”.
“L’ultima”.

 “Sai che il mio amore può mutarsi in odio?”
“Dio te ne perdoni. Per mio conto ti amerò sempre come fratello e pregherò per il tuo bene”.
“Ed io farò il tuo male. Ti denuncerò. Sarai torturata. Allora mi invocherai. Allora comprenderai che è meglio la casa di Flacco alle dottrine stolte di cui ti nutri”.
“Comprenderò che il mondo, per non avere più dei Flacchi, ha bisogno di queste
dottrine. E farò il tuo bene pregando per te dal Regno del mio Dio”.
“Maledetta cristiana! Alle carceri! Alla fame! Ti sazi il tuo Cristo se lo può”.

Ho l’impressione che le carceri siano abbastanza prossime alla casa della vergine perché la strada è poca, e che il nobile Flacco sia né più né meno che
un segugio del Questore di Roma perché, quando la visione, mutando aspetto, mi riporta la sala già vista con la giovane legata alla colonna, vedo che è un tribunale come quello in cui fu giudicata Agnese. Ben poche sono le differenze e che, anche qui, vi è un brutto ceffo che giudica e condanna, e che Flacco gli fa da aiutante e aizzatore.

Felicola, estratta dalla muda dove era, viene portata in mezzo alla sala. Appare
sfinita di forze ma ancor tanto dignitosa. Per quanto la luce l’abbacini, debole
come è e abituata ormai al buio carcere, si tiene eretta e sorride. Le solite
domande e le solite offerte seguite dalle solite risposte: “Sono cristiana. Non sacrifico ad altro Dio che non sia il mio Signore Gesù Cristo”.

Viene condannata alla colonna.
Le strappano le vesti e nuda, alla presenza del popolo, la legano con le mani e i piedi dietro ad una delle colonne del Tribunale. Per fare ciò le slogano le anche e le slogano le braccia. La tortura deve essere atroce. E non basta, ma
torcono le funi ai polsi e alle caviglie, la percuotono sul petto e sul ventre
nudo con verghe e flagelli, le torcono le carni con tenaglie e altri così atroci supplizi che non sto a ridire.
Ogni tanto le chiedono se vuol sacrificare agli dèi. Felicola, con voce sempre più debole, risponde: “No. Al Cristo. A Lui solo. Or che lo comincio a vedere, ed ogni tortura me lo rende più vicino, volete che io lo perda? Compite la vostra opera. Che io abbia il mio amore compiuto. Dolci nozze di cui Cristo è sposo ed io sposa sua! Sogno di tutta la mia vita!”.

Quando la slegano dalla colonna, ella cade come morta per terra. Le membra slogate, forse anche spezzate, non la reggono più, non rispondono a nessun comando della mente. Le povere mani, segate ai polsi dalla fune che ha fatto due
braccialetti di sangue vivo, pendono come morte. I piedi, pure lacerati ai malleoli sino a mostrare i nervi e i tendini, appaiono chiaramente spezzati dal modo come stanno ripiegati in modo innaturale. Ma il volto è pieno di una felicità d’angelo.

Scendono le lacrime sulle gote esangui, ma l’occhio ride assorto in una visione
che l’estasia.
I carcerieri, meglio i boia, la colpiscono di calci, e a calci la spingono, come fosse un sacco tanto immondo da non poter esser toccato, verso la predella del Questore.
“Ancor viva sei?”.
“Sì, per volontà del mio Signore”.
“Ancora insisti? Vuoi proprio la morte?”
“Voglio la Vita. Oh! mio Gesù, aprimi il Cielo! Vieni, Amore eterno!”.
“Gettatela nel Tevere! L’acqua calmerà i suoi ardori”.
I boia la sollevano con mal garbo. La tortura delle membra spezzate deve essere
atroce. Ma ella sorride. La avvolgono nelle sue vesti, non per pudicizia ma per
impedirle di reggersi in acqua. Inutile cura! Con degli arti in quello stato, non si nuota. Solo la testa emerge dal viluppo delle vesti. Il suo povero corpo, gettato sulle spalle di un carnefice, pende come fosse già morta. Ma ella sorride alla luce delle fiaccole, perché ormai è sera.
Giunti al Tevere, come fosse un animale da sopprimersi, la prendono e dall’alto del ponte la precipitano nelle acque scure, sulle quali ella riaffiora due volte e poi si inabissa senza un grido.


Dice Gesù:

«Ti ho voluto far conoscere la mia martire Felicola per dare a te ed a tutti qualche insegnamento.
Tu hai visto il potere della preghiera nella morte di Petronilla, compagna e maestra di Felicola di cui era molto più anziana, e il frutto di una santa
amicizia.

Petronilla, figlia spirituale di Pietro, aveva assorbito dalla viva parola del
mio Apostolo lo spirito di Fede. Petronilla. La gioia, la perla romana di Pietro. Sua prima conquista romana. Quella che, per la sua rispettosa e amorosa devozione all’Apostolo, lo consolò di tutti i dolori della sua evangelizzazione
romana.

Pietro per amore mio aveva lasciato casa e famiglia. Ma Colui che non mente gli
aveva fatto trovare in questa fanciulla - e in maniera sovrabbondante, colma,
premuta, secondo le mie promesse Luca 6, 38. - conforto, cure, dolcezze femminili. Come Io
a Betania, egli in casa di Petronilla trovava aiuti, ospitalità e soprattutto amore. La donna è uguale, nel suo bene e nel suo male, sotto tutti i cieli e in
tutte le epoche. Petronilla fu la Maria (Maria di Magdala, sorella di Lazzaro e Marta di Betania) di Pietro, con in più la sua purezza di fanciulla che il Battesimo, ricevuto mentre ancora l’innocenza non aveva conosciuto oltraggio, aveva portato a perfezione angelica.


Maria, ascolta.
Petronilla, volendo amare il Maestro con tutta se stessa senza che la sua avvenenza e il mondo potessero turbare questo amore, aveva pregato il
suo Dio di fare di lei una crocifissa. E Dio la esaudì. La paralisi crocifisse le sue angeliche membra. Nella lunga infermità sul terreno bagnato dal dolore fiorirono più belle le virtù e specie l’amore per la Madre mia.
Ascolta ancora, Maria. Quando fu necessario, la sua malattia conobbe una sosta.
Per mostrare che Dio è padrone del miracolo. E poi, finito il momento, tornò a crocifiggerla.

Non conosci nessun’altra, Maria, alla quale il suo Maestro, come Pietro a Petronilla, non dica, quando gli occorre: “Sorgi, scrivi, sii forte” e cessato il bisogno del Maestro non torni una povera inferma in perpetua agonia?
Morto l’Apostolo e guarita Petronilla, ella trovò che la sua vita non era più sua. Ma del Cristo. Non era di quelle che, ottenuto il miracolo, se ne servono per offendere Dio. Ma la salute la usò per l’interesse di Dio.

La vita vostra è sempre mia. Io ve la do. Ve lo dovreste ricordare. Ve la do come vita animale facendovi nascere e conservandovi vivi. Ve la do come vita spirituale con la Grazia e i Sacramenti. Dovreste ricordarvelo sempre e farne buon uso. Quando poi vi rendo la salute, vi faccio rinascere quasi dopo malattia mortale, dovreste ancor più ricordarvi che quella vita, rifiorita quando già la
carne sapeva di tomba, è mia. E per riconoscenza usarla nel Bene.
Petronilla lo seppe fare. Non si è assorbita  inutilmente la mia Dottrina. Essa
è come sale che preserva dal male, dalla
corruzione, è fiamma che scalda e
illumina, è cibo che nutre e fortifica, è fede che fa sicuri.
Viene la prova, l’assalto della tentazione, la minaccia del mondo. Petronilla prega. Chiama Dio.
Vuol essere di Dio. Il mondo la vuole? Dio la difenda dal mondo.
Il Cristo l’ha detto: “Se avete tanta fede quanto un granello di senape, potrete dire ad un monte: ‘Levati a va’ più in là’ ” (Matteo 17, 20; Marco 11, 23; Luca 17, 6).
 Pietro glie l’ha detto tante volte. Ella non chiede al monte di muoversi.
Chiede a Dio di levarla dal mondo prima che una prova superiore alle sue forze la schiacci. E Dio l’ascolta. La fa morire in un’estasi. In un’estasi, Maria, prima che la prova la schiacci.
Ricordala questa cosa, piccola discepola mia 


(Maria Valtorta, della cui vita viene fatto qui un parallelo con quella di Petronilla, morì dopo un lungo periodo di smemorato isolamento, che per molti è rimasto misterioso).

Felicola era amica, più che amica figlia o sorella, data la poca differenza d’età di una diecina d’anni circa. Non si convive senza santificarsi con chi è
santo. Come ci si guasta convivendo con chi è guasto. Se il mondo se la ricordasse questa verità! Ma il mondo invece trascura i santi o li sevizia, e
segue i satana divenendo sempre più satana.

La fermezza e la dolcezza di Felicola l’hai vista. Che è la fame per chi ha Cristo a suo cibo? Che è la tortura per chi ama il Martire del Calvario? Che è la morte per chi sa che la morte apre la porta alla Vita?
È sconosciuta dai cristiani d’ora la mia martire Felicola. Ma essa è ben conosciuta dagli angeli di Dio che la vedono ilare in Cielo dietro l’Agnello
divino. Ho voluto renderla nota a te per poterti parlare anche della sua maestra di spirito e per incuorarti al patire.

Ripeti con lei: “Ora sì che fra questi dolori comincio a vedere il mio sposo Gesù, nel quale ho posto tutto il mio amore”, e pensa che anche per te ho suscitato un Nicomede 
(È il nome del presbìtero che recuperò il corpo della santa martire Felicola, le cui notizie storiche sembrano corrispondere al racconto sulla martire Felicola, qui presentato. Il “Nicomede” della scrittrice, suscitato per il suo recupero spirituale, è Padre Migliorini),
per salvare dalle acque delle passioni il tuo io che
volevo per Me, e per raccogliere quanto di te merita d’esser conservato, ciò che è mio, ciò che può operare del bene all’anima dei fratelli.»



Felicola, santa, martire di Roma, la passio di Nereo e Achilleo la vuole sorella di latte di S. Petronilla. Sepolta al VII miglio della via Ardeatina, nel 1112 venne scoperta dal presbitero Benedetto e traslata a S. Lorenzo in Lucina. Il suo corpo qui ritrovato nel 1605 è conservato presso l’altare maggiore. Il primo rinvenimento dei resti avvenne, secondo la lapide del 1112, insieme alle spoglie del martire Gordiano.

[ Tratto dall'opera «Reliquie Insigni e "Corpi Santi" a Roma» di Giovanni Sicari ]
Antico Martirologio Romano, 13 giugno - A Roma, sulla via Ardeatina, il natale di santa Felicola, Vergine e Martire. Non volendo maritarsi a Flacco, ne sacrificare agli idoli, fu data in mano ad un Giudice, il quale, perseverando essa nella confessione di Cristo, dopo tenebroso carcere e lunga fame, tanto tempo la fece tormentare nell'eculeo, finchè essa non rese lo spirito, e così finalmente la fece deporre e gettare in una cloaca. Il suo corpo, estratto da san Nicomede Prete, fu sepolto sulla medesima via.

Martirologio Romano, 13 giugno: A Roma al settimo miglio della via Ardeatina, santa Felícola, martire

giovedì 14 febbraio 2013

SAN VALENTINO!




Il Pontefice pronuncia la sua omelia
per l'ordinazione sacerdotale di san Valentino.

«Battezzato nel giorno natale del martire Valente, il nuovo figlio della Chiesa Apostolica e Romana, e fratello nostro, ha voluto assumere il nome del martire beato, ma con quella modifica che l’umiltà attinta dal Vangelo - l’umiltà: una delle radici della santità - gli dettava. 

E non Valente, ma Valentino volle essere detto.
Oh! ma che in vero Valente egli è. Guardate quanto cammino ha fatto il pagano la cui religione era il vizio e la prepotenza. Voi lo conoscete quale è ora, nel seno della Chiesa. Qualcuno fra voi - e specie quelli che padri e madri di vera generazione gli sono stati, per essere quelli che con la parola e l’esempio l’hanno fatto concepire dalla Santa Madre Chiesa e partorire da essa per l’altare e per il Cielo - sanno quello che egli era non come cristiano Valente ma come il pagano di prima, il cui nome egli, e noi con lui, non vogliamo neppur ricordare. 

Morto è il pagano. E dall’acqua lustrale è risorto il cristiano. Ora egli è il vostro prete. Quanto cammino! Quanto! Dalle orgie ai digiuni; dai triclini alla chiesa; dalla durezza, dall’impurità, dall’avarizia, all’amore, alla castità, alla generosità assoluta.

Egli era il giovane ricco, e un giorno ha incontrato, portato a lui dal cuore dei santi, che anche senza parole illustrano Cristo - perché Egli traluce dal loro animo - ha incontrato Gesù, Signor nostro benedetto. 

Gli occhi dolcissimi del Maestro si sono fissati sul volto del pagano. E il pagano ha provato una seduzione che nessun piacere gli aveva ancor data, una emozione nuova, dal nome sconosciuto, dalla non descrivibile sensazione. Un che di soave come carezza di madre, di onesto come odore di pane testé sfornato, di puro come alba di primavera, di sublime come sogno ultraterreno.

Cadete voi larve del mondo e dell’Olimpo pagano quando il Sole Gesù bacia un suo chiamato. Come nebbie vi dissolvete. Come incubi demoniaci fuggite. Che resta di voi? Di voi che sembravate tanto splendida cosa? Un mucchio lurido di detriti inceneriti malamente e ancor fetidi di corruzione. 

“Maestro buono, che devo fare per seguire Te e avere la vita eterna?” ha chiesto. E il dolce, divino Maestro, con poche parole gli ha dato l’insegnamento di Vita: “Osserva questi comandi”. Oh! non gli poteva dire: “Segui la Legge!”. Il pagano non la conosceva. Gli disse allora: “Non uccidere, non rubare, non spergiurare, non essere lussurioso, onora i parenti e ama Dio e prossimo come te stesso”. Parole nuove! Mète mai pensate! Orizzonti infiniti pieni di luce. Della sua luce.

Il pagano non poteva dare la risposta del giovane ricco. Non poteva. Perché nel paganesimo sono tutti i peccati ed egli tutti li aveva nel cuore. 

Ma volle poterla dare. E venne ad un povero vecchio, al Pontefice perseguitato, e disse: “Dàmmi la Luce, dàmmi la Scienza, dàmmi la Vita! Un’anima dàmmi, in questo mio corpo di bruto!”, e piangeva. E il povero vecchio, che io sono, ha preso il Vangelo ed in esso ha trovato la Luce, la Scienza, la Vita per il mendicante piangente. Ho trovato tutto nel Vangelo di Gesù, nostro Signore, per lui. E gli ho potuto dare l’anima. L’anima morta evocarla a vita, e dirgli: “Ecco l’anima tua. Custodiscila per la vita eterna”.

Allora, bianco del bagno battesimale, egli si è dato a ricercare il Maestro buono e lo ha trovato ancora e gli ha detto: “Ora posso dirti che faccio ciò che Tu mi hai detto. Che altro manca per seguire Te?”. E il Maestro buono ha risposto: “Va’, vendi quanto hai e dàllo ai poveri. Allora sarai perfetto e potrai seguire Me”.

Oh! allora Valentino ha superato il giovane di Palestina! Non se ne andò via, incapace di separarsi da tutti i suoi beni. Ma questi beni mi ha portato per i poveri di Cristo e, libero dal giogo delle ricchezze, pesante giogo che impedisce di seguire Gesù, mi ha chiesto il giogo luminoso, alato, paradisiaco del Sacerdozio.

Eccolo. Lo avete visto sotto quel giogo, con le mani legate, prigioniero di Cristo, salire al suo altare. Ora vi frangerà il Pane eterno e vi disseterà col Vino divino. 
Ma lui, come io, per esser perfetti agli occhi del Maestro buono vogliamo ancora una cosa. Farci noi pane e vino: immolarci, frantumarci, spremerci sino all’ultima stilla, ridurci a farina per essere ostie. Vendere l’ultima, l’unica ricchezza che ci resta: la vita. Io la mia cadente vita di vecchio. Egli la fiorente vita di giovane.

Oh! non deluderci, Pontefice eterno. Concedici il beato martirio! Col sangue vogliamo scrivere il tuo Nome: Gesù Salvatore nostro. Un altro battesimo vogliamo, per la nostra stola che l’imperfezione umana sempre corrompe: quello del sangue. Per salire a Te con stole immacolate e seguirti, o Agnello di Dio che levi i peccati del mondo, che li hai levati col tuo Sangue! 

Beato martire Valente, nella cui chiesa siamo, al tuo Pontefice Marcello e per il tuo fratello sacerdote chiedi dal Pontefice eterno la stessa tua palma e corona.»

E non c’è altro.
(Maria Valtorta, da I Vangeli della Fede.)

AVE MARIA!







martedì 22 gennaio 2013

Diomede parla: «Fratelli, comprendo che è giunta l’ora del circo e della vittoria eterna. Per Agapito è già venuta. Per voi sarà domani. Siate forti, fratelli. Il tormento sarà un attimo. La beatitudine non conoscerà sosta. Gesù è con voi. Non vi lascerà neppure quando le Specie saranno consumate in voi. Egli non abbandona i suoi confessori. Ma con essi resta per riceverne senza un indugio l’anima lavata dall’amore e dal sangue. Andate. Pregate nell’ora della morte per i carnefici e per il vostro prete. Il Signore per mia mano vi dà l’ultima assoluzione. Non abbiate timore. Le anime vostre sono più candide di un fiocco di neve che scenda dal cielo.»


Sera dell’11 febbraio, ore 20.

<<Fra i miei spasimi vedo questi altri spasimi.
Una specie di pozzo circolare di una larghezza di pochi metri quadri. Avrà un
diametro di quattro, cinque metri al massimo, alto quasi altrettanto, senza
finestre. Una porta stretta, piccola, di ferro, è incassata nel muraglione di
quasi un metro di spessore. Al centro del soffitto un buco tondo, di un diametro
di un mezzo metro al massimo, serve per l’aerazione di questo pozzo che nel suo
pavimento, di suolo battuto, ha un altro buco dal quale sale fetore e gorgoglìo
d’acque profonde, come se vicino ci fosse un fiume o sotto passasse una cloaca
diretta al fiume.
Il luogo è malsano, umido, fetido. Le muraglie trasudano
acqua, il suolo è impregnato di materie schifose, perché comprendo che il buco
del soffitto fa da scolo ai rifiuti della cella soprastante.

In questo orrido carcere, in cui è una penombra folta che appena permette di
intravvedere l’essenziale, sono due persone. Una è coricata al suolo,
nell’umido, presso la parete, è incatenata per un piede. Ma non fa moto alcuno.
L’altro è seduto lì presso, col capo fra le mani. È vecchio, perché vedo il
sommo della testa calvo affatto.

Al di sopra, nell’altra cella, vi devono essere più persone, perché odo voci e
tramestìo. Voci di uomo e di donna. Voci di bimbi e di vecchi commiste a voci
fresche di giovinette e forti di adulti.
Cantano dentro per dentro (Espressione ricorrente e che signific: ogni tanto, di tanto in tanto) dei mesti inni che pur nella loro mestizia hanno un
che di tanta pace. Le voci risuonano contro le pareti spesse come in una sala
armonica. È molto bello l’inno che dice:

“Conducici alle tue fresche acque.
Portaci negli orti tuoi fioriti.
Dài la tua pace ai martiri
che sperano, che sperano in Te.

Sulla tua promessa santa
abbiam fondato la nostra fede.
Non deluderci, Gesù Salvatore,
perché abbiamo sperato in Te.

Ai martirî noi gioiosi andiamo
per seguirti nel bel Paradiso.
Per quella Patria tutto lasciamo
e non vogliamo, non vogliam che Te”.

Quando quest’ultimo canto si spegne lento, una luce si affaccia al buco e un
braccio si spenzola con una piccola lampadetta. Un volto d’uomo pure si
affaccia. Guarda. Vede che l’uomo coricato non fa moto e l’altro col capo fra le
mani non vede il lume, e chiama: “Diomede! Diomede! È l’ora”.
Il seduto sorge in piedi e trascinando la sua lunga catena viene sotto la
botola. “Pace a te, Alessandro”.
“Pace, Diomede”.
“Hai tutto?”.
“Tutto. Priscilla osò venire, travestita da uomo. Si è rasi i capelli per parere
un fossore. Ci ha portato di che celebrare il Mistero. Agapito che fa?”.
“Non si lamenta più. Non so se dorma o se sia spirato. E vorrei vedere... Per
dire su lui le preci dei martiri”.
“Ti caliamo la lampada. Attendi. Sarà gioia per lui avere il Mistero”.
Con un cordone di cinture annodate calano il fanaletto sino alle mani di Diomede
che, ora lo vedo bene, è un vecchio dal volto affilato e austero. Pallidissimo,
con pochi capelli, ha due occhi ancor splendidi di espressione. Nella sua
miseria di incatenato in quella fetida tana ha dignità di re.
Stacca il fanaletto dal cordone e va verso il compagno. Si china. Lo osserva. Lo
tocca. E apre le braccia, dopo aver posato la lampada al suolo, in un largo
gesto di commiserazione. Poi raccoglie le mani del cadavere, già quasi
irrigidite, e le incrocia sul petto. Povere mani gialle e scheletrite di vecchio
morto di stenti.
Si volge a chi attende presso il foro e dice:
Agapito è morto. Gloria sia al
martire della putrida fossa!”.
“Gloria! Gloria! Gloria al fedele al Cristo” rispondono quelli della cella
superiore.
“Calate per il Mistero. Non manca l’altare. Non più le sue mani, tese a far da
sostegno. Ma l’immoto petto che sino all’ultima ora ebbe palpiti per il Signore
nostro, Gesù”.

Viene calata una borsa di preziosa stoffa a da questa Diomede estrae un piccolo
lino, un pane largo e basso, un’anfora ed un piccolo calice. Prepara tutto sul
petto del morto, celebra e consacra dicendo le orazioni a memoria mentre quelli
di sopra rispondono. Deve essere nei primi tempi della Chiesa, perché la Messa è
su per giù come quella di Paolo nel Tullianum.
Quando la consacrazione è avvenuta, Diomede rimette nell’anfora il vino del
calice che è lievemente a brocca, forse scelto per questa funzione così, ripone
le Specie nella borsa e riporta tutto là dove il cordone attende di riportare di
sopra la borsa. Mentre questa sale, sollevata con precauzione, 
Diomede assolve i compagni. Il canto, quasi tutto di fanciulle, riprende dolcemente mentre i cristiani si comunicano.

Quando cessa, Diomede parla:

«Fratelli, comprendo che è giunta l’ora del circo e della vittoria eterna. Per
Agapito è già venuta. Per voi sarà domani. Siate forti, fratelli. Il tormento
sarà un attimo. La beatitudine non conoscerà sosta. Gesù è con voi. Non vi
lascerà neppure quando le Specie saranno consumate in voi. Egli non abbandona i suoi confessori. Ma con essi resta per riceverne senza un indugio l’anima lavata dall’amore e dal sangue. Andate. Pregate nell’ora della morte per i carnefici e per il vostro prete. Il Signore per mia mano vi dà l’ultima assoluzione. Non abbiate timore. Le anime vostre sono più candide di un fiocco di neve che scenda dal cielo.»

“Addio, Diomede!”, “Assistici, tu, santo, col tuo orare”, “Diremo a Gesù di
venire a prenderti”, “Ti precediamo per prepararti la via”, “Prega per noi”. I
cristiani si affacciano a turno al foro, salutano, sono salutati e scompaiono...
Per ultimo viene fatto risalire il fanaletto, e l’oscurità torna ancor più cupa
nell’antro in cui uno muore lentamente presso il già morto, fra il fetore e il
profondo fruscio delle acque sotterranee. Di sopra riprendono i canti lenti e
soavi.
Di mio non so dove avviene la scena. Direi a Roma, in tempi di persecuzione. Ma
quale sia la carcere non lo so. Come non so chi sia questo prete Diomede, dalla
figura tanto venerabile. Ma la visione per la sua tristezza mi colpisce ancora
di più di quella del Tullianum.>>

Domine Iesu,
Voca me, ut videam Te
Et in æternum fruar Te.
Amen.

giovedì 3 gennaio 2013

Adorazione dei Magi: GASPARE-MELCHIORRE-BALDASSARRE


34. Adorazione dei Magi. 
È "vangelo della fede". Mt 2, 1-12

Il mio interno ammonitore mi dice:
«Chiama queste contemplazioni, che avrai e che ti dirò, "i vangeli della fede", perché a te e agli altri 
verranno ad illustrare la potenza della fede e dei suoi frutti e a confermarvi nella fede in Dio». 
(La prima delle quali è l’unica a far parte dell’opera. Le altre, chiamate anch’esse “vangeli della fede”, non 
sono episodi propriamente del Vangelo e si trovano nel volume “I quaderni del 1944”).

Vedo Betlemme piccola e bianca, raccolta come una chiocciata sotto al lume delle stelle. Due vie principali 
la tagliano a croce, l'una venendo da oltre il paese, ed è la via maestra che poi prosegue oltre il paese, l'altra 
andando da un'estremità all'altra dello stesso, ma non oltre. Altre viuzze lo segmentano, questo piccolo 
paese, senza la più piccola norma di piano stradale come noi lo concepiamo, ma anzi adattandosi al suolo che 
è a dislivelli ed alle case sorte qua e là, secondo i capricci del suolo e del loro costruttore. Volte quali a destra 
e quali a manca, chi messa per spigolo, rispetto alla via che le costeggia, obbligano questa ad essere come un 
nastro che si sgomitola sinuosamente e non un rettilineo che va da qua a là senza deviare. Ogni tanto una 
piazzetta, sia per un mercato, sia per una fontana, sia perché, costruito qui e là senza regola, è rimasto uno 
scampolo di suolo sghimbescio su cui non è possibile costruire più nulla.
Nel punto dove mi pare di sostare particolarmente è proprio una di queste piazzette irregolari. Dovrebbe 
essere quadrata o quanto meno rettangolare. Invece è venuta un trapezio tanto strano da parere un triangolo 
acuto smusso nel vertice. Nel lato più lungo - la base del triangolo - vi è un fabbricato largo e basso. Il più largo del paese. Di fuori è un muraglione liscio e nudo, sul quale si aprono appena due portoni, ora ben serrati. Dentro invece, nel suo largo quadrato, si aprono molte finestre al primo piano, mentre sotto vi sono 
porticati che cingono cortili sparsi di paglia e detriti, con delle vasche per abbeverare cavalli e altri animali. 
Alle rustiche colonne dei portici sono anelli per tenere legate le bestie, e su un lato vi è una vasta tettoia per ricoverare mandre e cavalcature. Comprendo che è l'albergo di Betlemme.
Sugli altri due lati uguali sono case e casette, quali precedute e quali no da un poco d'orto, perché fra esse vi 
è quella che è con la facciata sulla piazza, e quella col retro della casa sulla piazza. Sull'altro lato più stretto, 
fronteggiante il caravanserraglio, un'unica casetta dalla scaletta esterna che entra a metà facciata nelle camere del piano abitato. Sono tutte chiuse perché è notte. Non vi è nessuno per le vie, data l'ora.
Vedo aumentare la luce notturna piovente dal cielo pieno di stelle, così belle nel cielo orientale, così vive e grandi che paiono vicine e che sia facile raggiungerle e toccare quei fiori splendenti nel velluto del firmamento. 

Alzo lo sguardo per comprendere la fonte di questo aumento di luce. Una stella, di insolita grandezza che la fa parere una piccola luna, si avanza nel cielo di Betlemme. E le altre paiono eclissarsi e 
farle largo come ancelle al passare della regina, tanto il suo splendore le soverchia e annulla. Dal globo, che 
pare un enorme zaffiro pallido, acceso internamente da un sole, parte una scia nella quale, al predominante 
colore dello zaffiro chiaro, si fondono i biondi dei topazi, i verdi degli smeraldi, gli opalescenti degli opali, i 
sanguigni bagliori dei rubini e i dolci scintillii delle ametiste. Tutte le pietre preziose della terra sono in 
quella scia, che spazza il cielo con un moto veloce e ondulante come fosse viva. Ma il colore che predomina 
è quello piovente dal globo della stella: il paradisiaco colore di pallido zaffiro che scende a fare di argento 
azzurro le case, le vie, il suolo di Betlemme, culla del Salvatore. Non è più la povera città, per noi meno di 
un paese rurale. È una fantastica città di fiaba in cui tutto è d'argento. E l'acqua delle fonti e delle vasche è di 
liquido diamante.

Con un più vivo raggiare di splendori la stella si ferma sulla piccola casa che è sul lato più stretto della 
piazzetta. Né i suoi abitanti, né i betlemmiti la vedono, perché dormono nelle chiuse case, ma essa accelera i 
suoi palpiti di luce, e la sua coda vibra e ondeggia più forte tracciando quasi dei semicerchi nel cielo, che si 
accende tutto per questa rete d'astri che essa trascina, per questa rete piena di preziosi che splendono 
tingendo dei più vaghi colori le altre stelle, quasi a comunicare loro una parola di gioia.

La casetta è tutta bagnata da questo fuoco liquido di gemme. Il tetto della breve terrazza, la scaletta di pietra 
scura, la piccola porta, tutto è come un blocco di puro argento sparso di polvere di diamanti e perle. Nessuna 
reggia della terra ha mai avuto od avrà una scala simile a questa, fatta per ricevere il passo degli angeli, fatta 
per esser usata dalla Madre che è Madre di Dio. I suoi piccoli piedi di Vergine Immacolata possono posarsi 
su quel candido splendore, i suoi piccoli piedi destinati a posarsi sui gradini del trono di Dio. Ma la Vergine 
non sa. Essa veglia presso la cuna del Figlio e prega. Nell'anima ha splendori che superano gli splendori di 
cui la stella decora le cose.

Dalla via maestra si avanza una cavalcata. Cavalli bardati ed altri condotti a mano, dromedari e cammelli 
cavalcati o portanti il loro carico. Il suono degli zoccoli fa un rumore di acqua che frusci e schiaffeggi le 
pietre di un torrente. Giunti sulla piazza, tutti si fermano. La cavalcata, sotto il raggio della stella, è fantastica 
di splendore. I finimenti delle ricchissime cavalcature, gli abiti dei loro cavalcatori, i volti, i bagagli, tutto 
splende unendo e ravvivando il suo splendore di metallo, di cuoio, di seta, di gemma, di pellame, al brillio stellare. E gli occhi raggiano e ridono le bocche, perché un altro splendore si è acceso nei cuori, quello di una gioia soprannaturale.

Mentre i servi si avviano verso il caravanserraglio con gli animali, tre della carovana smontano dalle 
rispettive cavalcature, che un servo subito conduce altrove, e a piedi vanno verso la casa. E si prostrano, 
fronte a terra, a baciare la polvere. Sono tre potenti. Lo dicono le vesti ricchissime. Uno, di pelle molto scura, 
sceso da un cammello, si avvolge tutto in uno sciamma di candida seta splendente, stretto alla fronte ed alla 
vita da un cerchio prezioso, da cui pende un pugnale o una spada dall'elsa tempestata di gemme. Gli altri
scesi da due splendidi cavalli, sono vestiti l'uno di una stoffa rigata, bellissima, in cui predomina il color 
giallo, fatto quest'abito come un lungo domino ornato di cappuccio e di cordone, che paiono un sol lavoro di 
filigrana d'oro tanto sono trapunti di ricami in oro. Il terzo ha una camicia setosa, che sbuffa da larghe e 
lunghe brache strette al piede, e si avvolge in uno scialle finissimo, che pare un giardino fiorito tanto sono 
vivi i fiori che lo decorano tutto. In testa ha un turbante trattenuto da una catenella tutta a castoni di diamanti.

Dopo avere venerato la casa dove è il Salvatore, si rialzano e vanno al caravanserraglio, dove i servi hanno 
bussato e fatto aprire.



E qui cessa la visione. Che riprende, tre ore dopo, con la scena dell'adorazione dei Magi a Gesù.
È giorno, ora. Un bel sole splende nel cielo pomeridiano. Un servo dei tre traversa la piazza e sale la scaletta 
della piccola casa. Entra. Esce. Torna all'albergo.
Escono i tre Savi, seguiti ognuno dal proprio servo. Traversano la piazza. I rari passanti si volgono a 
guardare i pomposi personaggi che passano molto lentamente, con solennità. Fra l'entrata del servo e quella 
dei tre è passato un buon quarto d'ora, che ha dato modo agli abitanti della casetta di prepararsi a ricevere gli 
ospiti.
Questi sono ancor più riccamente vestiti della sera avanti. Le sete splendono, le gemme brillano, un gran 
pennacchio di penne preziose, sparse di scaglie ancor più preziose, tremola e sfavilla sul capo di colui che ha 
il turbante.

I servi portano l'uno un cofano tutto intarsiato, le cui rinforzature metalliche sono in oro bulinato; il secondo 
un lavoratissimo calice, coperto da un ancor più lavorato coperchio tutto d'oro; il terzo una specie di anfora 
larga e bassa, pure in oro, e tappata da una chiusura fatta a piramide, che al vertice porta un brillante. Devono
essere pesanti, perché i servi li portano con fatica, specie quello del cofano.

I tre montano la scala ed entrano. Entrano in una stanza che va dalla strada al dietro della casa. Si vede 
l'orticello posteriore da una finestra aperta al sole. Delle porte si aprono nelle due altre pareti, e da queste 
sbirciano coloro che sono i proprietari: un uomo, una donna e tre o quattro fra giovinetti e bimbi.
Maria è seduta col Bambino in grembo ed ha vicino Giuseppe in piedi. Però si alza Ella pure e si inchina 
quando vede entrare i tre Magi. È tutta vestita di bianco. Così bella nella sua semplice veste candida che la 
copre dalla radice del collo ai piedi, dalle spalle ai polsi sottili, così bella nella testina coronata di trecce 
bionde, nel viso che l'emozione fa più vivamente roseo, negli occhi che sorridono con dolcezza, nella bocca 
che s'apre al saluto: «Dio sia con voi», che i tre si arrestano un istante colpiti. Poi procedono e le si prostrano 
ai piedi. E la pregano di sedere.

Essi no, non siedono, per quanto Ella li preghi di farlo. Essi restano in ginocchio, rilassati sui calcagni. 
Dietro a loro, pure in ginocchio, sono i tre servi. Essi sono subito dopo il limitare. Hanno posato davanti a 
loro i tre oggetti che portavano, e attendono.

I tre Savi contemplano il Bambino, che mi pare possa avere dai nove mesi ad un anno, tanto è vispo e 
robusto. Egli sta seduto in grembo alla Mamma, e sorride e cinguetta con una vocina di uccellino. È vestito 
tutto di bianco come la Mamma, con sandaletti ai piedini minuscoli. Una vestina molto semplice: una  tunichella da cui escono i bei piedini irrequieti, le manine grassottelle che vorrebbero afferrare tutto, e soprattutto la bellissima faccina nella quale splendono gli occhi azzurro cupi, e la bocca fa le fossette ai lati 
ridendo e scoprendo i primi dentini minuti. I ricciolini sembrano una polvere d'oro tanto sono splendenti e vaporosi.

Il più vecchio dei Savi parla per tutti. Spiega a Maria che essi hanno visto, una notte del passato dicembre, 
accendersi una nuova stella nel cielo, di inusitato splendore. Mai le carte del cielo avevano portato quell'astro 
e parlato di esso. Il suo nome non era conosciuto, perché essa non aveva nome. Nata allora dal seno di Dio, 
essa era fiorita per dire agli uomini una verità benedetta, un segreto di Dio. Ma gli uomini non le avevano 
fatto caso, perché avevano l'anima confitta nel fango. Non alzavano lo sguardo a Dio e non sapevano leggere 
le parole che Egli traccia, ne sia in eterno benedetto, con astri di fuoco sulla volta dei cieli. 

Essi l'avevano vista e si erano sforzati a capirne la voce. Perdendo contenti il poco sonno che concedevano 
alle loro membra, dimenticando il cibo, s'erano sprofondati nello studio dello zodiaco. E le congiunzioni 
degli astri, il tempo, la stagione, il calcolo delle ore passate e delle combinazioni astronomiche avevano a 
loro detto il nome e il segreto della stella. Il suo nome: «Messia». Il suo segreto: «Essere il Messia venuto al 
mondo». E si erano partiti per adorarlo. Ognuno all'insaputa dell'altro. Per monti e deserti, per valli e fiumi, 
viaggiando la notte, erano venuti verso la Palestina, perché la stella andava in tal senso. Per ognuno, da tre 
punti diversi della terra, andava in tal senso. E si erano trovati poi oltre il Mar Morto. Il volere di Dio li 
aveva riuniti là, ed insieme avevano proceduto, intendendosi, nonostante ognuno parlasse la sua lingua, e 
intendendo e potendo parlare la lingua del Paese per un miracolo dell'Eterno.
E insieme erano andati a Gerusalemme, poiché il Messia doveva essere il Re di Gerusalemme, il Re dei 
giudei. Ma la stella si era celata, sul cielo di quella città, ed essi avevano sentito frangersi di dolore il loro 
cuore e si erano esaminati per sapere se avevano demeritato di Dio. Ma avendoli rassicurati la coscienza, si 
erano rivolti a re Erode per chiedergli in quale reggia era il nato Re dei giudei che essi erano venuti ad 
adorare. E il re, convocati i principi dei sacerdoti e gli scribi, aveva chiesto dove poteva nascere il Messia. Ed 
essi avevano risposto: «A Betlemme di Giuda».
Ed essi erano venuti verso Betlemme e la stella era riapparsa ai loro occhi, lasciata la Città santa, e la sera 
avanti aveva aumentato gli splendori - il cielo era tutto un incendio - e poi si era fermata, adunando tutta la 
luce delle altre stelle nel suo raggio, sopra questa casa. Ed essi avevano compreso esser lì il Nato divino. Ed 
ora lo adoravano, offrendo i loro poveri doni e più che altro offrendo il loro cuore, che mai avrebbe cessato 
di benedire Iddio della grazia concessa e di amare il suo Nato, di cui vedevano la santa Umanità. Dopo 
sarebbero tornati a riferire al re Erode, perché egli desiderava adorarlo esso pure.

«Ecco intanto l'oro come a re si conviene possedere, ecco l'incenso come a Dio si conviene, ed ecco, o 
Madre, ecco la mirra, poiché il tuo Nato è Uomo oltre che Dio, e della carne e della vita umana conoscerà 
l'amarezza e la legge inevitabile del morire. Il nostro amore vorrebbe non dirle, queste parole, e pensarlo 
eterno anche con la carne come eterno è lo Spirito suo. Ma, o Donna, se le nostre carte, e più le nostre anime, 
non errano, Egli è, il Figlio tuo, il Salvatore, il Cristo di Dio, e perciò dovrà, per salvare la terra, levare su Sé 
il male della terra, di cui uno dei castighi è la morte. Questa resina è per quell'ora. Perché le carni, che son 
sante, non conoscano putredine di corruzione e conservino integrità sino alla loro risurrezione. E per questo 
nostro dono Egli di noi si ricordi, e salvi i suoi servi dando loro il suo Regno». Per intanto, per esserne 
santificati, Ella, la Madre, dia il suo Pargolo «al nostro amore. Che baciando i suoi piedi scenda in noi 
benedizione celeste».

Maria, che ha superato lo sgomento suscitato dalle parole del Sapiente e ha celato la tristezza della funebre 
evocazione sotto un sorriso, offre il Bambino. Lo pone sulle braccia del più vecchio, che lo bacia e ne è 
accarezzato, poi lo passa agli altri due.
Gesù sorride e scherza colle catenelle e le frange dei tre, e guarda curiosamente lo scrigno aperto pieno di 
una cosa gialla che luccica, e ride vedendo che il sole fa un arcobaleno battendo sul brillante del coperchio 
della mirra.
Poi i tre rendono a Maria il Bambino e si alzano. Si alza anche Maria. Si inchinano a vicenda, dopo che il più 
giovane ha dato un ordine al servo, che esce. I tre parlano ancora un poco. Non sanno decidersi a staccarsi da 
quella casa. Lacrime di emozione sono negli occhi. Infine si dirigono all'uscita, accompagnati da Maria e 
Giuseppe.
Il Bambino ha voluto scendere e dare la manina al più vecchio dei tre, e cammina così, tenuto per mano da 
Maria e dal Savio, che si curvano per tenerlo per mano. Gesù ha il passetto ancora incerto dell'infante e ride 
picchiando i piedini sulla striscia che il sole fa sul pavimento.
Giunti alla soglia -  non si deve dimenticare che la stanza era lunga quanto la casa - i tre si accomiatano 
inginocchiandosi ancora una volta e baciando i piedini di Gesù. Maria, curva sul Piccino, gli prende la 
manina e la guida, facendole fare un gesto di benedizione sul capo di ogni singolo Mago. È già un segno di 
croce tracciato dalle ditine di Gesù, guidate da Maria. 

(Che è il “Tau”. Lettera dell’alfabeto greco a forma di 
croce, il “tau” è il segno dei salvati indicato in: Ezechiele 9, 4-6. Lo incontreremo ancora, per esempio nel Vol 6 Cap 397, 413, nel Vol 7 Cap 491, nel Vol 9 Cap 567 e nel Vol 10 Cap 635)

Poi i tre scendono la scala. La carovana è già li pronta che attende. Le borchie dei cavalli splendono al sole 
del tramonto. La gente si è affollata sulla piazzetta a vedere l'insolito spettacolo.
Gesù ride battendo le manine. La Mamma lo ha sollevato e appoggiato al largo parapetto che limita il 
pianerottolo e lo tiene con un braccio contro il suo petto perché non caschi. Giuseppe è sceso con i tre e 
regge ad ognuno la staffa mentre salgono sui cavalli e sul cammello.86
Ora servi e padroni sono tutti a cavallo. L'ordine di marcia viene dato. I tre si curvano fin sul collo della 
cavalcatura in un ultimo saluto. Giuseppe si inchina, Maria pure e torna a guidare la manina di Gesù in un 
gesto di addio e di benedizione.


Dice Gesù:

«Ed ora? Che dirvi ora, o anime che sentite morire la fede? Quei Savi d'oriente non avevano nulla che li assicurasse della verità. Nulla di soprannaturale. Solo il calcolo astronomico e la loro riflessione che una vita integra faceva perfetta. Eppure hanno avuto fede. Fede in tutto: fede nella scienza, fede nella coscienza, fede  nella bontà divina. 

Per la scienza hanno creduto al segno della stella nuova, che non poteva che esser "quella", attesa da secoli dall'umanità: il Messia. Per la coscienza hanno avuto fede nella voce della stessa che, ricevendo " voci " celesti, diceva loro: "È quella stella che segna l'avvento del Messia". 
Per la bontà hanno avuto fede che Dio non li avrebbe ingannati e, poiché la loro intenzione era retta, li avrebbe aiutati in ogni modo per giungere allo scopo.

E sono riusciti. Essi soli, fra tanti studiosi dei segni, hanno compreso quel segno, perché essi soli avevano 
nell'anima l'ansia di conoscere le parole di Dio con un fine retto, che aveva a principale pensiero quello di dare subito a Dio lode ed onore.
Non cercavano un utile proprio. Anzi vanno incontro a fatiche e spese, e nulla chiedono di compenso che sia umano. Chiedono soltanto che Dio di loro si ricordi e li salvi per l'eternità. 
Come non hanno nessun pensiero di futuro compenso umano, così non hanno, quando decidono il viaggio, nessuna umana preoccupazione. Voi vi sareste messi mille cavilli: "Come farò a fare tanto viaggio in paesi e fra popoli di lingua diversa? Mi crederanno o mi imprigioneranno come spia? Che aiuto mi daranno nel 
passare deserti e fiumi e monti? E il caldo? E il vento degli altipiani? E le febbri stagnanti lungo le zone paludose? E le fiumane gonfiate dalle piogge? E il cibo diverso? E il diverso linguaggio? E... e... e ". 

Così 
ragionate voi. Essi non ragionano così. Dicono con sincera e santa audacia: "Tu, o Dio, ci leggi nel cuore e 
vedi che fine perseguiamo. Nelle tue mani ci affidiamo. Concedici la gioia sovrumana di adorare la tua Seconda Persona fatta Carne per la salute del mondo".
Basta. E si mettono in cammino dalle Indie lontane. (Gesù mi dice poi che per Indie vuol dire l'Asia meridionale, dove ora è Turchestan, Afganistan e Persia). Dalle catene mongoliche sulle quali spaziano 
unicamente le aquile e gli avvoltoi e Dio parla col rombo dei venti e dei torrenti e scrive parole di mistero sulle pagine sterminate dei nevai. Dalle terre in cui nasce il Nilo e procede, vena verde azzurra, incontro all'azzurro cuore del Mediterraneo, né picchi, né selve, né arene, oceani asciutti e più pericolosi di quelli marini, fermano il loro andare. E la stella brilla sulle loro notti, negando loro di dormire.
    Quando si cerca Dio, le abitudini animali devono cedere alle impazienze e alle necessità sopraumane.

La stella li prende da settentrione, da oriente e da meridione, e per un miracolo di Dio procede per tutti e tre verso un punto, come, per un altro miracolo, li riunisce dopo tante miglia in quel punto, e per un altro dà loro, anticipando la sapienza pentecostale, il dono di intendersi e di farsi intendere così come è nel Paradiso, 
dove si parla un'unica lingua, quella di Dio.
Un unico momento di sgomento li assale quando la stella scompare e, umili perché sono realmente grandi, 
non pensano che sia per la malvagità altrui che ciò avviene, non meritando i corrotti di Gerusalemme di 
vedere la stella di Dio. Ma pensano di avere demeritato di Dio loro stessi, e si esaminano con tremore e contrizione già pronta a chiedere perdono.
Ma la loro coscienza li rassicura. Anime use alla meditazione, hanno una coscienza sensibilissima, affinata da una attenzione costante, da una introspezione acuta, che ha fatto del loro interno uno specchio su cui si riflettono le più piccole larve degli avvenimenti giornalieri. Ne hanno fatto una maestra, una voce che avverte e grida al più piccolo, non dico errore, ma sguardo all'errore, a ciò che è umano, al compiacimento di ciò che è io. Perciò, quando essi si pongono di fronte a questa maestra, a questo specchio severo e nitido, 
sanno che esso non mentirà. Ora li rassicura ed essi riprendono lena.

"Oh! dolce cosa sentire che nulla è in noi di contrario a Dio! Sentire che Egli guarda con compiacenza l'animo del figlio fedele e lo benedice. Da questo sentire viene aumento di fede e fiducia, e speranza, e fortezza, e pazienza. Ora è tempesta. Ma passerà, poiché Dio mi ama e sa che lo amo, e non mancherà di 
aiutarmi ancora". Così parlano coloro che hanno la pace che viene da una coscienza retta, che è regina di ogni loro azione.
Ho detto che erano "umili perché erano realmente grandi". 

Nella vostra vita, invece, che avviene? Che uno, 
non perché è grande, ma perché è più prepotente, e si fa potente per la sua prepotenza e per la vostra idolatria sciocca, non è mai umile. Ci sono dei disgraziati che, solo per essere maggiordomi di un prepotente, uscieri di un ufficio, funzionari in una frazione, servi insomma di chi li ha fatti tali, si dànno delle pose da semidei. 
E fanno pietà!...

Essi, i tre Savi, erano realmente grandi. Per virtù soprannaturali per prima cosa, per scienza per seconda 
cosa, per ricchezza per ultima cosa. Ma si sentono un nulla, polvere sulla polvere della terra, rispetto al Dio 
altissimo, che crea i mondi con un suo sorriso e li sparge come chicchi di grano per saziare gli occhi degli 
angeli coi monili delle stelle.

Ma si sentono nulla rispetto al Dio altissimo, che ha creato il pianeta su cui vivono e lo ha fatto variato mettendo, Scultore infinito d'opere sconfinate, qua, con una ditata del suo pollice, una corona di dolci 
colline, e là un'ossatura di gioghi e di picchi, simili a vertebre della terra, di questo corpo smisurato a cui 
sono vene i fiumi, bacini i laghi, cuori gli oceani, veste le foreste, veli le nubi, decorazioni i ghiacciai di 
cristallo, gemme le turchesi e gli smeraldi, gli opali e i berilli di tutte le acque che cantano, con le selve e i 
venti, il grande coro di laude al loro Signore.

Ma si sentono nulla nella loro sapienza rispetto al Dio altissimo, da cui la loro sapienza viene e che ha dato 
loro occhi più potenti di quelle due pupille per cui vedono le cose: occhi dell'anima, che sanno leggere nelle cose la parola non scritta da mano umana, ma incisa dal pensiero di Dio. 
Ma si sentono nulla nella loro ricchezza: atomo rispetto alla ricchezza del Possessore dell'universo, che sparge metalli e gemme negli astri e pianeti e soprannaturali dovizie, inesauste dovizie, nel cuore di chi 
l'ama.

E, giunti davanti ad una povera casa, nella più meschina delle città di Giuda, essi non crollano il capo dicendo: "Impossibile", ma curvano la schiena, le ginocchia, e specie il cuore, e adorano. Là, dietro quel povero muro, è Dio. Quel Dio che essi hanno sempre invocato, non osando mai, neppur lontanamente, 
sperare di averlo a vedere. Ma invocato per il bene di tutta l'umanità, per il "loro" bene eterno. Oh! questo 
solo si auguravano. Di poterlo vedere, conoscere, possedere nella vita che non conosce più albe e tramonti!
Egli è là, dietro quel povero muro. Chissà se il suo cuore di Bambino, che è pur sempre il cuore di un Dio, 
non sente questi tre cuori che, proni nella polvere della via, squillano: "Santo, Santo, Santo. Benedetto il Signore Iddio nostro. Gloria a Lui nei Cieli altissimi e pace ai suoi servi. Gloria, gloria, gloria e benedizione"? Essi se lo chiedono con tremore di amore. E per tutta la notte e la seguente mattina preparano 
con la preghiera più viva lo spirito alla comunione con il Dio-Bambino. 

Non vanno a questo altare, che è un grembo verginale portante l'Ostia divina, come voi vi andate con l'anima 
piena di sollecitudini umane. Essi dimenticano sonno e cibo e, se prendono le vesti più belle, non è per 
sfoggio umano ma per fare onore al Re dei re. Nelle regge dei sovrani i dignitari entrano con le vesti più belle. E non dovrebbero essi andare da questo Re con le loro vesti di festa? E quale festa più grande di questa per loro?
Oh! nelle loro terre lontane, più e più volte si sono dovuti ornare per degli uomini pari a loro. Per far lorofesta e onore. Giusto dunque umiliare ai piedi del Re supremo porpore e gioielli, sete e preziose piume. 
Mettergli ai piedi, ai dolci piccoli piedi, le fibre della terra, le gemme della terra, le piume della terra, i 
metalli della terra - sono ancora opera sua - perché esse pure, queste cose della terra, adorino il loro Creatore.

E sarebbero felici se la Creaturina ordinasse loro di stendersi al suolo e fare un vivo tappeto ai suoi passetti di Bambino, e li calpestasse, Egli che ha lasciato le stelle per loro, polvere, polvere, polvere.
Umili e generosi. E ubbidienti alle " voci " dell'Alto. Esse comandano di portare doni al Re neonato. Ed essi 
portano doni. Non dicono: " Egli è ricco e non ne ha bisogno. È Dio e non conoscerà la morte ". 
Ubbidiscono. E sono coloro che per primi sovvengono la povertà del Salvatore. Come provvido quell'oro per chi domani sarà fuggiasco! Come significativa quella resina a chi presto sarà ucciso! Come pio quell'incenso a chi dovrà sentire il lezzo delle lussurie umane ribollenti intorno alla sua purezza infinita!

Umili, generosi, ubbidienti e rispettosi l'uno dell'altro. Le virtù generano sempre altre virtù. Dalle virtù volte 
a Dio, ecco le virtù volte al prossimo. Rispetto, che è poi carità. Al più vecchio è deferito di parlare per tutti, 
di ricevere per primo il bacio del Salvatore, di sorreggerlo per la manina. Gli altri potranno vederlo ancora. 
Ma egli no. È vecchio, e prossimo è il suo giorno di ritorno a Dio. Lo vedrà, questo Cristo, dopo la sua straziante morte e lo seguirà, nella scia dei salvati, nel ritorno al Cielo. Ma non lo vedrà più su questa terra. E allora per suo viatico gli rimanga il tepore della piccola mano, che si affida alla sua già rugosa.
Nessuna invidia negli altri. Ma anzi un aumento di venerazione per il vecchio sapiente. Ha meritato certo più di loro e per più lungo tempo. Il Dio-Infante lo sa. Ancora non parla, la Parola del Padre, ma il suo atto è parola. E sia benedetta la sua innocente parola, che designa costui come il suo prediletto.

Ma, o figli, vi sono altri due insegnamenti da questa visione.
Il contegno di Giuseppe che sa stare al "suo" posto. Presente come custode e tutore della Purezza e della 
Santità. Ma non usurpatore dei diritti di queste. È Maria col suo Gesù che riceve omaggi e parole. Giuseppe ne giubila per Lei e non si accora d'esser figura secondaria. Giuseppe è un giusto, è il Giusto. Ed è giusto sempre. Anche in quest'ora. I fumi della festa non gli salgono al capo. Resta umile e giusto.
È felice di quei doni. Non per sé. Ma perché pensa che con essi potrà fare più comoda la vita alla Sposa e al dolce Bambino. Non vi è avidità in Giuseppe. Egli è un lavoratore e continuerà a lavorare. Ma che "Loro"' i suoi due amori, abbiano agio e conforto. Né lui né i Magi sanno che quei doni serviranno ad una fuga e ad 
una vita d'esilio, nelle quali le sostanze dileguano come nube percossa dai venti, e ad un ritorno in patria 
dopo aver tutto perduto, clienti e suppellettili, e salvate solo le mura della casa, protetta da Dio perché là Egli 
si è congiunto alla Vergine e si è fatto Carne.

Giuseppe è umile, egli, custode di Dio e della Madre di Dio e Sposa dell'Altissimo, sino a reggere la staffa a questi vassalli di Dio. È un povero legnaiuolo, perché la prepotenza umana ha spogliato gli eredi di Davide dei loro averi regali. Ma è sempre stirpe di re ed ha tratti di re. Anche per lui va detto: Era umile perché era 
realmente grande.

Ultimo, soave, indicatore insegnamento.
È Maria che prende la mano di Gesù, che non sa ancora benedire, e la guida nel gesto santo.
È sempre Maria che prende la mano di Gesù e la guida. Anche ora. Ora Gesù sa benedire. Ma delle volte la 
sua mano trafitta cade stanca e sfiduciata, perché sa che è inutile benedire. Voi distruggete la mia benedizione. Cade anche sdegnata, perché voi mi maledite. E allora è Maria che leva lo sdegno a questa 
mano col baciarla. Oh! il bacio di mia Madre! Chi resiste a quel bacio? E poi prende con le sue dita sottili, ma così amorosamente imperiose, il mio polso e mi forza a benedire. 

Non posso respingere mia Madre. Ma bisogna andare da Lei per farla Avvocata vostra. Essa è la mia Regina prima d'esser la vostra, ed il suo amore per voi ha indulgenze che neppure il mio conosce. Ed Essa, anche senza parole ma con le perle del suo pianto e col ricordo della mia Croce, il cui segno mi fa tracciare 
nell'aria, perora la vostra causa e mi ammonisce: Sei il Salvatore. "Salva".

Ecco, figli, il "vangelo della fede" nell'apparizione della scena dei Magi. Meditate e imitate. Per il vostro bene».