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domenica 8 dicembre 2013

VERGINITA' * CELIBATO



La cultura della Verginità 
e del Celibato
 
nella Chiesa milanese 
da S. Ambrogio a S. Arialdo

1.    Gli influssi sul pensiero di Ambrogio
  a.    La professione religiosa della sorella Marcellina
  b.    La condizione di convertito
  c.    La spiritualità della Chiesa che viveva nell’attesa della venuta del Signore
  d.    La polemica con Gioviniano sulla superiorità della verginità
  e.    L’origine monastica dei Vescovi più conosciuti

2.    Simpliciano: suo maestro e successore
  a.    la cultura di S. Simpliciano
  b.    lettere di Ambrogio a Simpliciano

3.    L’evoluzione della pensiero di S. Ambrogio sulla donna: (non è in tema, ma ci aiuta a capire)
  a.    come nasce questa passione per la verginità in S. Ambrogio

4.    Le opere sulla verginità e sulla organizzazione delle vergini (377 –394)
  a. De Virginibus
  b. De Virginitate
  c. De Institutione virginis
  d. Exhortatio virginitatis
  e. De Lapsu virginis consacratae

5.    Antologia del suo pensiero sulla verginità
  a.    le qualità della vergine
  b.    il valore della promessa
  c.    non riprova il matrimonio, ma certo neppure lo mette al suo giusto posto

6.    La verginità sia maschile che femminile appare chiaramente come un complesso di qualità, di virtù, di caratteristiche psicologiche, morali e spirituali che presentano, chi si consacra, come una persona matura e totalmente modellata su Cristo; la verginità non è quindi solo una condizione fisica o fisiologica, ma è una scelta di vita che impegna tutta la persona.

7.    Il celibato sacerdotale in S. Ambrogio e le qualità che lo accompagnano

8.    Il celibato nei secoli dopo Ambrogio fino al Mille
  a.    clero cardinale e clero decumano
  b.    il problema dei missionari orientali

9.    Fermenti e inquietudini religiose alla metà del sec. XI°

10.  Sant’Arialdo, la sua personalità ed i suoi interventi positivi e negativi.







IL CELIBATO NELLA CHIESA MILANESE:
DA AMBROGIO (334/340 – 04.04.397) AD ARIALDO.

Viviamo in un periodo in cui con motivazioni opposte si vorrebbe rimettere in discussione le forme alte di consacrazione a Dio attraverso la verginità ed il celibato.
C’è chi è fuori della Chiesa e trova in certe situazioni di grave peccato e conseguente scandalo un motivo per irridere la tradizione bimillenaria  della stessa.
E c’è chi, stando all’interno di essa, si auspica che la Chiesa latina, imitando quella d’Oriente possa addolcire la forma celibataria del sacerdozio.
Per poter parlare con un minimo di informazione ragionata, si presuppone una sommaria conoscenza della vita e delle opere di S. Ambrogio; perché è Lui che rappresenta la radice della “Institutio Virginum” e del celibato sacerdotale nella Chiesa milanese.
Sono personalmente convinto che la fede per esprimersi nella vita di una donna o di un uomo abbia bisogno di gesti e di scelte esemplarmente significativi, oltre che di orientamenti di carattere naturale che, in qualche modo, favoriscano il suo sviluppo.
L’istituo della verginità in Ambrogio ha avuto diverse concause, non tutte di uguale peso, ma tutte determinanti per la formazione del suo pensiero.
Primo. La sua famiglia era senza dubbio cattolica1. Vantava una martire, Sotere. Lui ed il fratello divennero catecumeni molto presto, anche se poi il battesimo fu ricevuto solo sette giorni prima di diventare Vescovo, il 30.11.374.
Facciamo ben attenzione al suo anno di nascita perché è molto importante per un fatto che influenzerà tutta la sua adolescenza.
Allora,  alcuni pongono la sua nascita nel 334
Altri la vogliono nel 340.
La sorella Marcellina, il 6 gennaio del 353, maggiore di lui di 10 anni,  riceveva il velo di vergine consacrata a Dio, da Papa Liberio, nella basilica vaticana.
Quanti anni aveva Ambrogio? Tredici o al massimo diciannove anni, proprio gli anni della crisi adolescenziale o giovanile.
Questi aspetti psicologici che, nella storia di un uomo e di una donna, oggi vengono ritenuti determinanti, non vanno per nulla trascurati.
S. Ambrogio deve essere stato condizionato moltissimo dalla scelta della sorella, tanto che quando diventa Vescovo di Milano, dona tutti i suoi beni alla Chiesa, ma ponendo la clausola che l’usufrutto dei terreni vada alla sorella Marcellina. Non pensa neppure al fratello Satiro, che avrà al fianco come suo amministratore e collaboratore nella costruzione delle Chiese, ma pensa alla sorella.
Secondo. Non si deve neppure dimenticare la condizione di convertito, presente in Ambrogio, perché pur provenendo da famiglia cattolica, lui era stato pur sempre un catecumeno ed anche questo passaggio brusco alla pienezza di responsabilità nella vita della Chiesa deve aver influito non poco sulla sua personalità. E’ Lui stesso che non si vergogna di confessare questa sua condizione di uomo salvato dalla Grazia.2

 « Muoia pure la nostra carne alle cupidigie, stia schiava, stia sottomessa, e non si ribelli alla legge della nostra anima, ma muoia soggetta a una santa schiavitù, come avvenne in Paolo, il quale affrontava il suo corpo per metterlo in schiavitù, aff-mché la sua predicazione diventasse maggiormente persuasiva, qualora la legge della sua carne andasse pienamente d'accordo con la legge dello spirito.  Infattí la carne muore, quando la sapienza di Lui passa nello spirito, affìnché non pensi più alle cose della carne, ma a quelle dello Spirito.  Oh, se potessi vedere indebolirsi la mia carne, sì che io non venga più trascinato schiavo sotto la legge del peccato, e non viva più nella carne, ma nella fede di Cristo!  Per questa ragione c'è una grazia maggiore nella debolezza che nella salute del corpo.  Del resto il Signore non volle liberare daha debolezza della carne nemmeno Paolo, che gli era tanto caro ' e quando questi lo pregò che la debolezza si allontanasse da lui, rispose: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nella debolezza".  E Paolo si compiace maggiormente nelle sue debolezze, dicendo: "Quando sono debole, allora sono forte".  La forza dell'anima si perfeziona nella debolezza della carne …".
Possa tu degnarti di venire alla mia tomba, Signore Gesù, di lavarmi con le tue lacrime, poiché i miei occhi insensibili non hanno lacrime bastanti a lavare í miei peccati!  Se verserai le tue lacrime, io sarò salvo.  Se mi renderò degno delle tue lacrime, eliminerò il fetore di tutte le mie colpe.  Se sarò degno che tu pianga un poco per me, tu mi chiamerai dalla tomba di questo mio corpo, e dirai: "Vieni fuori', e così i miei pensieri non saranno più trattenuti nelle strettoie di questo corpo, ma usciranno incontro a Cristo, si muoveranno nella luce, affinché io non pensi più alle opere delle tenebre, ma alle opere della luce.  Chi ínfatti pensa al peccato, non fa altro che rendersi prigioniero di se stesso.
Chiama dunque fuori il tuo servo!  Sebbene i miei piedi siano nei ceppi e le mie mani incatenate, perché sono trattenuto dalle catene dei peccati, e sia ormai sepolto nei miei pensieri e nelle opere morte, se tu mi chiami io uscirò fuori ormai libero, e sarò "uno dei commensali" al tuo convito.  E la tua casa si riempirà del profumo dell'unguento prezioso, se tu vorrai custodire chi ti sei degnato di redimere.  Allora si dirà: "Ecco, colui che non fu nutrito in seno alla Chiesa, che non fu soggiogato fin da ragazzo, ma preso dai tribunali, sottratto dalle vanità di questo mondo, colui che si è dovuto abituare alle melodie del salmista dopo le grida dell'ufficiale giudiziario, rimane nel sacerdozio non per sua capacità, ma per grazia dí Cristo, e siede fra gli invitati della mensa celeste'.
0 Signore, mantieni il tuo favore, custodisci il tuo dono, che hai voluto fare a chi cercava perfino di sottrarsene.  Sapevo, infatti, che non ero degno di essere chiamato vescovo, poiché mi ero dato in balìa di questo mondo.  Ma "per la tua grazia sono quello che sono", e, in realtà, sono I' "infimo" di tutti í vescovi, e il meno meritevole di tutti; tuttavia, poiché anch'io ho affrontato qualche fatica per la tua santa Chiesa, prenditi cura di questo acquisto, e non lasciare che perisca, ormai sacerdote, colui che, già perduto, hai chiamato al sacerdozio; e hai fatto questo soprattutto perché io imparassi ad avere intima e sincera compassione dei peccatori, e questa è la virtù principale, poiché sta scritto: 'E non ti rallegrerai per i figli di Giuda nel giorno della loro rovina, e non spalancherai la tua bocca nel giorno della loro sventura", ma, tutte le volte che si parlasse del peccato di qualche caduto, io ne provassi pietà e non lo trattassi duramente, ma lo compatissi, scoppiando in lacrime; così, mentre piango per un altro, piangessí su di me, dicendo: "Tamar è più giusta di me" ».




 Terzo. Non si può neppure trascurare tutto l’influsso generale presente nella Chiesa di allora che deve aver condizionato in modo determinante la spiritualità di Ambrogio.
Il rapporto tra verginità e matrimonio e la dignità di valore tra i due non era così facilmente accettata. Non dimentichiamoci che il Matrimonio è un sacramento e d’altra parte, teniamo presente che i cristiani, incoraggiati da S. Paolo vivevano quasi in attesa della fine del mondo:
(1Corinzi cap. 7)Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; [30]coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; [31]quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo! [32]Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; [33]chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, [34]e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. [35]Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni.
            [36]Se però qualcuno ritiene di non regolarsi convenientemente nei riguardi della sua vergine, qualora essa sia oltre il fiore dell'età, e conviene che accada così, faccia ciò che vuole: non pecca. Si sposino pure! [37]Chi invece è fermamente deciso in cuor suo, non avendo nessuna necessità, ma è arbitro della propria volontà, ed ha deliberato in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene. [38]In conclusione, colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio. (Ignace de La Potterie, Il celibato nel Nuovo Testamento, lo presenta come il segno di una Nuova Alleanza in Dio: a questo patto si deve restare fedeli. Non è tanto la verginità in sé che conta, quanto la dedicazione totale a Cristo ed alla Chiesa, sua sposa e quindi tua sposa).
Non posso tralasciare un riferimento anche alla “Lettera ai Corinzi” di S. Clemente Papa, con una affermazione molto significativa: “chi è casto nel corpo non se ne vanti, ma riconosca il merito a Colui che gli concede il dono della continenza…Fu Lui a dotarci di grandi beni, prima ancora che noi nascessimo”. (Brev. Romano, venerdì IV sett. Di Pasqua)

Quarto. Girolamo, Ambrogio, Agostino vengono direttamente coinvolti in una feroce discussione sulla differenza di valore tra verginità e matrimonio.
Gioviniano, monaco milanese deve lasciare la città proprio a causa di questa sua equilibrata difesa delle due scelte fondamentali di vita nella Chiesa: matrimonio e verginità.
Dal “Contro Gioviniano” di Girolamo, per il metodo della confutazione delle tesi altrui, noi possiamo conoscere anche il pensiero autentico di questo monaco milanese. E’ Girolamo stesso che, confutando Gioviniano, ci fa conoscere il suo pensiero. Cosa dice Gioviniano?:
“Le vergini, le vedove e le donne sposate, che sono battezzate in Cristo, se non si differenziano tra loro per altre azioni, hanno lo stesso merito”  oppure:
“A tutti coloro che hanno conservato intatto il loro battesimo è riservata un’uguale ricompensa” oppure:
“non vi è differenza tra l’astenersi dal cibo ed assumerlo in rendimento di grazie”. Sembra quasi dire: “Tu vuoi fare penitenza, benissimo! Altri però vogliono servirsi del cibo per dare lode al Signore, perché glielo lo devi far credere come cosa riprovevole? Lascia che lodino così il Signore. E conclude: “Le nozze sono onorevoli ed il letto matrimoniale è casto!…Vergine non ti reco offesa! Hai scelto la continenza per l’urgenza del tempo presente? Ti è piaciuto essere santa nel corpo e nello spirito? Ma non ti insuperbire; sei parte della stessa Chiesa di cui sono membra anche le donne sposate!”.
 Per chi conosce  Girolamo, sa che le sue posizioni sono sempre radicali; sono però anche un segno della vivacità teologica di quei tempi.
« A Roma. Girolamo fu il centro di un gruppo di asceti al quale appartenevano soprattutto parecchie dame della nobiltà romana: le vedove Marcella e Paola con le figlie Eustochio e Blesilla. Lui non risparmia di invettive il clero romano come indegno e malsano, ma quando muore Blesilla, per i suoi digiuni e la sua ascesi, allora è tutta la comunità ecclesiale di Roma che insorge contro Girolamo ed i monaci vengono denunciati come misantropi, cervelli malsani ed uomini che fuggono la luce …Girolamo allora preferisce abbandonare Roma (385) e dopo vari spostamenti ad Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, si stabilisce definitivamente a Betlemme, nell’anno 386) ».4
Poteva mancare Agostino in questa contesa? No. Agostino scrive di tutto e su tutto. Nel 401, contemporaneamente egli scrive il “De bono coniugali” ed il “De sancta virginitate”.
Su Gioviniano scrive così nel suo libro sulle Eresie: “…quando ero ancora giovane ho sentito parlare della eresia del monaco Gioviniano…che distruggeva la Verginità della Madonna nell’atto in cui ha partorito e ad un tempo metteva sullo stesso piano del merito la vita degli sposi casti e fedeli con la verginità delle monache e la continenza celibataria di uomini eletti ai sacri uffici”.5
La parola ultima viene scritta nel Concilio di Cartagine del 390: “…coloro che celebrano i divini sacramenti siano perfettamente continenti perché ciò che hanno insegnato gli apostoli…lo osserviamo anche noi. Piace a tutti che il Vescovo, il presbitero, il diacono si astengano dalla unione coniugale con le loro spose affinché venga custodita la purezza perfetta di coloro che servono all’altare”.
In una lettera di Ambrogio a Papa Siricio (392) lo stesso Ambrogio ritorna su questo tema e scrive: “Noi non neghiamo che il matrimonio sia stato santificato da Cristo che disse con voce divina: “Esaranno due in una carne sola” e in un solo spirito, ma è molto più grande il mistero dell’opera divina, che il rimedio all’umana fragilità.  Pertanto dobbiamo lodare la brava moglie, ma è da preferire la vergine consacrata. (Jure laudatur bona uxor, sed melius pia virgo praefertur).6

Quinto. Alla fine del IV secolo, anche sotto l’effetto catastrofico delle invasioni barbariche c’era questa specie di fuga dal mondo ed il sorgere di gruppi ascetici e monastici.
Non va dimenticato inoltre che i Vescovi di allora provenivano quasi tutti dal monachesimo e ritenevano un titolo d’onore avere attorno alla propria cattedrale dei gruppi monastici soprattutto femminili.
San Basilio che viene giustamente ritenuto come il cardine del monachesimo d’Oriente è il grande modello agli occhi di Ambrogio. Ebbene, proprio San Basilio nel suo libro “Sullo Spirito Santo”, al cap. 15. Scrive: “Il Signore nel preparaci a quella vita che viene dalla Risurrezione, ci propone tutto un modo secondo il Vangelo. Vuole che non ci arrabbiamo, che siamo pazienti nelle avversità, puri dall’attaccamento ai piaceri, liberi dall’amore al denaro. In tal modo ciò che nella vita futura si possiede per condizione connaturale alla nuova esistenza, lo anticipiamo già qui per disposizione della nostra anima”. ( Letture del lunedì della quarta settimana di Pasqua).
Mi pare che qui si possa scovare la radice dei tre voti che accompagnano la professione religiosi: voti qui indicati come orientamento e non come condizione assoluta.
Si ha proprio l’impressione che dalla grande libertà ispirata dal Vangelo, man mano che passano i secoli gli stessi consigli assumano una valenza rigida ed intransigente.
Si spiega anche così una diversa lettura di vita cristiana tra Chiesa orientale, molto più duttile e Chiesa occidentale, sempre più rigida.


SIMPLICIANO: SUO MAESTRO E SUCCESSORE

S. Ambrogio trovò certamente in Simpliciano, presbitero della Chiesa milanese non solo un testimone della fede, ma soprattutto un maestro ed una guida.
Fu merito di Ambrogio quello di lasciarsi guidare da questo presbitero colto e santo.
E Simpliciano fu di valido aiuto per Ambrogio, per due motivi:
 perché gli fu maestro nella conoscenza  e nello studio della Bibbia,
perché era lui di fatto la guida spirituale delle vergini consacrate a Dio che, in Milano si erano radunate attorno a Lui in quella che oggi si chiama Basilica di san Simpliciano, ma che anticamente portava il nome di “Basilica Virginum”.
E’ dagli scritti del B. Card. Alfredo Ildefonso Schuster che prendo il giudizio più significativo sulla dedizione di Ambrogio nel coltivare vocazioni al monastero.
« Dopo aver dato (…) impulso alla vita verginale tra le giovanette d’Italia, sarebbe stato strano se poi S. Ambrogio non avesse fatto altrettanto con gli uomini…

Il Monastero del vescovo

…Egli che con sì caldo entusiasmo aveva lodato l’opera del Vescovo Eusebio nella vicina Vercelli, dove il Clero aveva abbracciato concordemente con il Pastore la vita monastica, non poteva astenersi dal promuovere anche a Milano la vita cenobitica.
Sappiamo, infatti, da S. Agostino che “Monasterium erat Mediolani plenum bonis fratribus, Ambrosio nutritore”.
Il Vescovo dunque provvedeva al mantenimento materiale dei cenobiti, frattanto che il presbitero Simpliciano – è sempre Agostino che lo riferisce – dirigeva spiritualmente la nascente comunità.
La circostanza che l'immediato Successore di Ambrogio sulla cattedra episcopale, abbia scelto il suo sepolcro, non già nel­l'Ambrosiana, ma nel portico della basilica ora a lui inti­tolata, ci fa ritenere che san Simpliciano avesse preferito quel luogo, per riposare anche nel sonno di morte tra i suoi monaci.7


La cultura di S. Símpliciano
Sant'Ambrogio non ha scritto alcuna Regola o manuale asce­tico per i suoi monaci, giudicando sufficiente per essi il vivo magistero di Simpliciano.           
Nei confronti di colui che egli considerava siccome il Padre del suo battesimo, il Vescovo non osava neppure tracciargli un regolamento per il suo monastero.  Sappiamo infatti da Ambro­gio medesimo, che Simpliciano, al pari di Cassiano, di Rufino, di Girolamo e di Epifanio, aveva girato mezzo mondo, per mettersi in contatto colle più distinte personalità del tempo, e per studiare le tradizioni ascetiche e monastiche delle varie regioni: "Fidei et adquirendae cognltionis divinae gratia totius orbem peragraveris, et quotidianae lectioni, nocturnis ac diurnis vicibus omne vitae hujus tempus deputaveris" (Epist.  LXV).  Quest'assi­duità alla pia meditazione, non solo di giorno, ma altresì di not­te, ci dipinge il primo abate milanese.

Lettere di Ambrogio a Simpliciano
Non sono molte le lettere indirizzate da Ambrogio a Simpli­ciano, e riguardano, solitamente questioni esegetiche che si erano sollevate durante le loro conferenze spirituali.
Una volta, circa il 387, il presbitero aveva richiesto ad Ambrogio un chiarimento sul concetto di libertà secondo san Paolo.  Questi gli rispose coll'epistola XXXVII, nella quale termina fa­cendo l'elogio della spontanea confessione delle proprie mancanze, così come già costumavano i monaci in quello che più tardi si chiamò il Capitolo delle colpe.
Nell'Epistola successiva, n. XXXVIII, Ambrogio tesse a Sim­pliciano l'elogio della povertà evangelica, citando tra gli altri, l'e­sempio del Profeta Elia, uno dei precursori della vita monastica.


L’EVOLUZIONE DEL PENSIERO DI AMBROGIO SULLA DONNA.

Dotato di una vasta cultura romana, con riferimenti vistosi anche alle opere di Cicerone dal quale prende pari pari addirittura il titolo di un libro, proprio nel De Officiis, Egli scrive con profonda onestà e rettitudine del fascino anche fisico della donna: “Non escludiamo il fascino e tuttavia non ammettiamo motivi di virtù nella bellezza fisica”.8
E tuttavia, da convertito, mette anche in guardia dai pericoli con una annotazione che, forse, oggi non riusciremmo a capire: “Solus erat Adam et non est praevaricatus, quia mens eius adhaerebat Deo. Postquam vero ei mulier adiuncta est, non potuit inhaerere mandatis coelestibus”.9 

Come nasce dunque questa passione per la verginità in Ambrogio?
Lo ripeto ancora; non dimentichiamo che Egli era un convertito e che, quindi, passava da una condizione di non convinta accettazione della morale pagana, di cui pur apprezzava qualche virtuosa impostazione di vita, ad una profonda convinzione che solo dalla passione per Cristo potesse svilupparsi il signum, il sacramento della verginità.

LE OPERE SULLA VERGINITÀ E SULLA ORGANIZZAZIONE DELLE VERGINI.
Sono le prime del suo Pontificato; anche questo è un segno della sua predilezione per questo stato.11
De Virginibus
De Virginitate
De Institutione virginis
Exhortatio virginitatis
De Lapsu virginis consacratae

De Virginibus: in tre libri.  E’ forse la più antica opera di sant'Ambrogio: è del 377.
E’ costituita da tre omelie, la prima delle quali pronunciata nel dies natalis di sant'Agnese, quindi il 21 gennaio.
La predicazione del santo ebbe tale risonanza che alcune donne e la sorella di lui, Marcellina, ne desiderarono la trascrizione.

De Virginitate è del 378.  Raccoglie parecchie omelie in lode della verginità e insieme la difesa dall'accusa rivolta al santo di distogliere le giovani dal matrimonio.

De Institutione virginis è del 392.  E il discorso pronunciato in occasione della Velatio di Ambrosia, nipote di s. Eusebio forse vescovo di Bologna e amico del santo.  Ambrogio aveva particolarmente curato  l'educazione di questa giovinetta.
L'opera esalta anche la perpetua verginità di Maria contro la pretesa negazione di Bonoso vescovo di Sardica.

Exhortatio virginitatis è del 394.  E’ il discorso pronunciato a Firenze per la consacrazione di una nuova chiesa, fatta costruire dalla vedova Giuliana sull'area dell'attuale s. Lorenzo.
Giuliana aveva un figlio e tre figlie tutti nella vita religiosa.

De Lapsu virginis consacratae.  Opera forse di Niceta di Remesiana attribuita a sant'Atnbrogio.  Ai tempi del santo una vergine consacrata di nome Susanna, di famiglia illustre, venne meno al voto fatto. La cosa risaputa fu di grave scandalo.


VEDIAMO DI FARE UNA ANTOLOGIA DEI SUOI PENSIERI PIU’ SIGNIFICATIVI

1.         Dignità della vergine (Exhortatio virginitatis, v, 28)
La Sacra Scrittura ha messo in luce molte donne, ma solo  alle vergini ha dato la palma della salvezza del popolo.
Nell'Antico Testamento una vergine condusse a piedi attraverso il mare il popolo ebreo chiuso tra la terra e il mare; nel vangelo il Creatore e Redentore del mondo è nato da una vergine.
Vergine è la chiesa che l’apostolo cercò di consegnare a Cristo come una vergine casta, vergine è la figlia di Sion, vergine la Gerusalemme celeste, in cui non entra nulla di volgare e di impuro…

2.    Gli antichi non avevano una concezione così alta della verginità (De Virginibus, i, v, 14, 15)
Certo la verginità non l'abbiamo in comune coi pagani né  è popolare tra i barbari, né praticata tra gli altri esseri viventi: sebbene respiriamo la stessa aria vitale e partecipiamo alla comune condizione di un corpo terreno e non differiamo da questi neppure nella pratica del generare, in questo solo però noi ci sottraiamo ai richiami di una natura che è uguale, che cioè i pagani pretendono la verginità ma la profanano anche se consacrata, i barbari la calpestano, gli altri la ignorano…Che castità è mai questa non di costumi ma di anni, prescritta non per sempre ma con limiti di età?
Troppo insolente è questa integrità che si riserva di lasciarsi violare in età più avanzata.
Gli antichi che posero un limite di tempo alla verginità, dimostrano che le loro vergini non debbono né possono perseverare. Che religione è mai questa, in cui le giovani devono essere caste e le vecchie no? Ma non è casta colei che è trattenuta in forza di una legge; né impudica colei che è fatta andare per legge.
Misteri incomprensibili, usanze singolari! per cui la castità è imposta, la libidine autorizzata.  E così non è casta colei che vi è costretta per timore, né onesta colei che viene presa per mercede.E non è pudore quello che, esposto ogni giorno all'insulto di sguardi licenziosi, è sferzato da occhiate disoneste.Si concedono a loro privilegi, si offrono compensi, come se non fosse questo il più grande indice di inverecondia, il vendere la castità.

3. La bellezza della vergine (De Virginibus, i, vi, 30)
Beate voi o vergini che ignorate quelli che sono piuttosto i tormenti che gli ornamenti della donna coniugata: voi avete come ornamento un pudore che si effonde sul volto pieno di riserbo, e una castità eletta; non schiave degli sguardi degli uomini, voi non giudicate i vostri meriti secondo l'errata valutazione altrui.  Avete anche voi da combattere per la vostra bellezza, per questa non lotta la prestanza fisica ma quella della virtù; né l'età la può spegnere, né la morte strappare, né la malattia guastare.
Arbitro di tale bellezza è Dio solo che, anche in un corpo meno bello, sa amare le anime belle.
Voi ignorate il peso del seno, il dolore del parto e tuttavia è ben numerosa la discendenza di un cuore pio, che tutti considera suoi figli; la vergine è feconda di posteri ma sterile di orfani, conosce eredi ma ne ignora la perdita.

La vera bellezza della vergine (De Virginibus, I, VII, 37, 38)
E’ nota, per testimonianza della Sacra Scrittura, quanto ti ha dato lo Spirito Santo: il regno, l'oro, la bellezza.  Il regno perché sei la sposa del re eterno o perché, col tuo animo invitto, non sei schiava delle lusinghe dei piaceri, ma le domini come una regina; l'oro, perché come quel metallo provato dal fuoco è più prezioso, coSì le sembiante di un corpo verginale, consacrato allo Spirito divino, acquistano un aumento di armonia.  Quale bellezza poi si può ritenere più grande di quella di colei che è amata dal Re, approvata dal Giudice, tutta dedita al Signore, consacrata a Dio; perennemente sposa e perennemente vergine in modo che né il suo amore conosce tramonto, né il suo pudore,danno.
E’ proprio questa la vera bellezza a cui non manca nulla, la sola che meriti di sentire dire dal suo Signore: « Sei tutta bella, amica mia e non c'è in te macchia alcuna » (Cant 4,7/8).

4.    La vergine è un dono di Dio (De Virginibus, I, VII, 32)
Avete sentito o genitori con quale virtù, con quali insegnamenti dovete educarle per poter avere delle figlie, per i cui meriti siano redenti i vostri peccati.
La vergine è un dono di Dio, un regalo per i genitori, un sacerdozio di castìtà.  La vergine è la vittima sacrificale della madre, col suo sacrificio quotidiano placa l'ira divina.
La vergine è un pegno inseparabile dai genitori, non li assilla per la dote, non li abbandona andandosene altrove, non li danneggia.

5. Cercare il Cristo (De Virginitate, XV, 93, 94)
Cercalo il Cristo, o vergine, anzi cerchiamolo tutti: l'anima non ha sesso,… Dobbiamo quindi con preghiere e suppliche scongiurare Dio che si degni di spirare in noi il soffio della grazia, come un vento favorevole, che non sconvolge con raffiche impetuose gli alberi da frutto, ma li muove con uno spirare delicato e lieve.

6. Cercare i1 Cristo (Exhortatio virginitatis, LX, 58)
Cerca il Cristo, o vergine, anche nella tua luce, cioè nei buoni pensieri, nelle opere buone che risplendano davanti al Padre tuo, che è nei cieli.  Cercalo nella notte, cercalo nella tua camera, perché egli viene anche di notte e bussa alla tua porta.  Vuole che tu sia sempre vigilante, vuole trovare aperta la porta del tuo spirito.  E vuole trovare aperta anche un'altra porta: le tue labbra dischiuse a cantare le lodi del Signore, la grazia dello Sposo; a confessare la Croce, quando nella tua stanza reciti il simbolo della fede o canti i salmi.
Quando Egli verrà, ti trovi a vegliare per essere pronta.
Dorma pure la tua carne, ma vigili la tua fede; dormano le lusinghe dei sensi, ma vigili il cuore prudente; le tue membra sappiano della Croce e del sepolcro di Cristo perché il sonno non vi infonda nessun ardore, non ecciti nessun impulso.
Così è l'anima che si apre al Cristo, quella che ignora il divampare della sensualità.

7.    Alla ricerca del Cristo (De Virginitate, VIII, 43, 44, 45, 46)
…Cristo non si trova in piazza o sulle strade…
Non si cerchi il Cristo dove non lo si può trovare.  Cristo non si aggira per la piazza.
Cristo è pace, in piazza ci sono le liti; Cristo è giustizia, in piazza c'è l'iniquità; Cristo è attivo, in piazza c'è un ozio inerte; Cristo è carità, in piazza c'è l'invidia; Cristo è fede, là c'è frode e perfidia; Cristo è nella chiesa, in piazza ci sono gli idoli.

8.    Che Egli ti cerchi (De Virginitate, x, 54, 55, 56)
Hai imparato dove cercare il Cristo; impara anche come meritare che Egli cerchi te.

LE QUALITÀ DELLA VERGINE12

9.    Come pregare
Valga presso Dio il nostro pregare frequente…
Certo, come di consueto dobbiamo pregare e ringraziare Dio quando ci alziamo, quando usciamo, quando stiamo per prendere il cibo e dopo averlo preso, quando accendiamo le lampade la sera e quando andiamo a dormire. Ma anche a letto voglio che tu alterni la recita dei salmi al Pater sia al tuo risveglio, sia prima di assopirti, perché sulla soglia del riposo il sonno ti trovi libera da ogni cura terrena e attenta alle sole cose di Dio


10.  Il Credo
Dobbiamo anche ripetere ogni giorno, prima dell’alba il CREDO che è il nostro segno inconfondibile

11. La riservatezza
Ad indicarmi la vergine sia prima di tutto la sua serietà…

12. La gioia
Uno spirito consapevole  ( del dono ricevuto) deve essere nella gioia

13. La sobrietà
Voi non siete figlie di Colui che non si trasfigura in luce, ma è Luce da Luce vera.

14. Il Silenzio
Molto grande è la virtù del silenzio…non confidare nelle troppe parole. Nel troppo dire non manca il peccato.
Sempre su questo argomento, c’è un testo stupendo che non possiamo tralasciare e che riguarda il silenzio durante l’offertorio (probabilmente perché la presentazione delle offerte creava qualche scompiglio dopo il silenzio imposto dall’omelia e dopo che dalla Chiesa erano stati allontanati a catecumeni; si può presumere che le vergini che organizzavano la presentazione dei doni, dessero qualche fastidio al celebrante…)
Allora Ambrogio raccontò questo fatto: “Un giorno che Alessandro, Re dei Macedoni, offriva sacrifici, una brace rovente cadde sul braccio di un suo giovane schiavo barbaro, mentre egli accendeva la lampada e questi, pur con le membra ustionate, rimase immobile e non diede alcun gemito di dolore, né fece capire il tormento con lacrime silenziose: fu così grande in quel giovinetto barbaro il senso del rispetto a cui era stato educato, che vinse perfino l’istinto della sua natura….e tu vergine del Signore, durante il sacrificio, cerca di non sospirare, di non raschiarti la gola, di non tossicchiare, di non ridere”.13


IL VALORE DELLA PROMESSA

15.  La promessa è inviolabile (De Lapsu virginis consecratae, v, 20)
Nel giorno della tua consacrazione, fatto l'elogio della tua castità, ti hanno messo sul capo il velo sacro e allora tutto il popolo sottoscrivendo le tue non con l'inchiostro ma con l'animo, gridò concorde: Amen.
Mi viene da piangere al ricordo di tali cose, mi sento trapassare il cuore considerando questi fatti.
Se infatti, combinati gli sponsali tra dieci testimoni e consumate le nozze, una donna sposata a un mortale non può commettere adulterio senza correre grave pericolo, che cosa sarà mai del fatto che viene sciolto per adulterio un legame spirituale contratto dinanzi a innumerevoli testimoni della chiesa, alla presenza degli angeli e delle schiere celesti?
Non so se si possa pensare una pena per tale peccato…
Se tu avessi recato danno soltanto a te, sarebbe ben triste, ma forse tollerabile.
Invece quante anime hai ferito coi tuo peccato, quante anime a proposito di te hai fatto pentire della loro promessa!  Quante labbra, anche di cristiani, si sono macchiate per causa tua, bestemmiando le vie del Signore !
I Gentili sparlano di noi e la sinagoga ne trae vanto contro la chiesa santa.

16.  Matrimonio e verginità (De Virginitate, VI, 34)
Chi ha scelto il matrimonio, non biasimi la verginità, né chi è vergine condanni il matrimonio.  Infatti già da tempo la chiesa ha condannato chi interpreta diversamente il suo pensiero: quelli cioè che osassero sciogliere il legame matrimoniale….
C'è un campo che ha molti frutti, ma è migliore quello che abbonda di frutti e di fiori.  Il campo della chiesa è fecondo di beni diversi.Qui si vedono germogliare le gemme della verginità, là levarsi austere le schiere delle vedove come gli alberi delle selve nella pianura; altrove la messe delle nozze cristiane riempie i granai del mondo come un abbondante raccolto e i torchi del Signore ridondano dei frutti della vite rigogliosa che il connubio fedele offre con larghezza.
(Un testo simile lo si trova anche in S. Agostino14, con una evidente imitazione di Ambrogio… “ Il bel giardino del Signore, o fratelli, possiede non solo le rose dei martiri, ma anche i gigli dei vergini, ledera di quelli che vivono nel matrimonio, le viole delle vedove”)

17. Non riprova il matrimonio (De Virginibus, I, VI, 24, 25, 26)
Io non distolgo dal matrimonio, ma aggiungo quello che offre la verginità.
Facciamo il confronto, se si vuole, dei beni delle donne coniugate con quelli più alti delle vergini.
Si vanti pure una donna della sua prole numerosa: quanti più ne ha generati, tanto più tribola.
Elenchi pure le consolazioni dei figli ma ne enumeri anche le preoccupazioni che le vengono.  Si sposa e piange.  Come si può desiderare ciò che fa piangere?  Concepisce e ne sente il peso.  La fecondità le porta, prima del frutto il disagio.  Genera e s'ammala.  Che dolce pegno è questo che incomincia dal pericolo e termina nei pericoli; che è destinato ad essere di dolore prima che di piacere! Che si acquista a prezzo di pericoli e non si può avere a proprio arbitrio.
Perché elencare tutte le preoccupazioni del nutrirli, dell'educarli, dello sposarli?  E queste sono le difficoltà delle madri fortunate!  Una donna ha degli eredi ma aumenta i suoi dolori.
Non bisogna parlare dei casi sfortunati perché l’animo dei genitori buoni non abbia a tremare.
Per fortuna dobbiamo dire che il pensiero della Chiesa oggi è un poco mutato sull’argomento; e direi che non dobbiamo neppure scandalizzarci per simili argomentazioni perché restano valide tutte le motivazioni che abbiamo detto in precedenza.
A questo punto, prima di passare a trattare delle qualità del celibato, cioè di quel tipo di consacrazione nella Chiesa che appartiene al settore maschile possiamo quindi già trarre qualche considerazione che fa da cerniera tra le due istituzioni:
·         La verginità trova il suo vero senso solo nella adesione a Cristo, perché
·         La Verginità viene da Cristo  e quindi
·         La vergine cerca e sta con Cristo
·                La verginità sia maschile che femminile appare chiaramente come un complesso di qualità, di virtù, di caratteristiche psicologiche, morali e spirituali che presentano, chi si consacra, come una persona matura e totalmente modellata su Cristo; la verginità non è quindi solo una condizione fisica o fisiologica, ma è una scelta di vita che impegna tutta la persona.
Da qui ne deriva anche la differenza specifica tra maschi e femmine in questo tipo di consacrazione a Cristo perché se per la donna S. Ambrogio chiede il superamento della leggerezza, della superficialità, della inconsistenza, della loquacità, della sfacciataggine, della imprudenza e della provocazione morbosa,
all’uomo che si consacra a Dio, il patrono della Chiesa di Milano, mette in guardia il levita dal rischio del potere, della fame di possesso sui beni o peggio sulle persone, della instabilità di carattere e per tutti della incostanza e della infedeltà.
Il documento nel quale troviamo lo sviluppo del pensiero di Ambrogio su questo argomento è il De Officiis, in tre libri, copiato, nello schema e perfino nel titolo, dal simbolo della latinità che fu Cicerone.



Cause della soppressione dei ministeri femminili

Anche se è doveroso ricordare che non possiamo pretendere dalla Parola di Dio una risposta precisa ai problemi pastorali dei nostri giorni, possiamo però cercare di capire quali possano essere state le cause che hanno determinato certamente un cambiamento di rotta nelle disposizioni circa il servizio all’altare della donna.
Nelle prime generazioni cristiane esisteva un linguaggio originale e pro­prio per indicare il servizio pastorale (episcopos, presbvteros, diaconos ecc.), respingendo la fraseologia sacerdotale veterotestamentaria. Un solo esempio: «Persone addette al servizio del gregge di Cristo» le chiama s. Clemente papa nel 98 le persone addette al culto; S. Cipriano di Cartagine invece nel 258 fa consistere il servizio pastorale soprat­tutto nel «servire l'altare e celebrare i divini sacrifici».
Il concilio di Elvira (305/6) motiva la scelta celibataria del clero non come maggior libertà per l'evangelizzazione, per il servizio della comunità e come sequela di Cristo, ma come necessità per essere puri, immacolati, degni dell'altare e del sacerdozio.
E’ solo un secolo dopo che avviene un cambio di mentalità legato, a mio avviso, al fatto che la formazione al servizio del culto fosse esclusivamente monastica. E’ da questa condizione storica delle Chiese che nascono certe prese di posizione tanto rigide.

S. Ambrogio dice ai chierici, alla fine del IV secolo: «Voi che avete ricevuto la grazia del sacro ministero con un corpo intatto, un pu­dore senza macchia, voi che altrettanto bene rimanete estranei alla intimità co­niugale, voi sapete che dovete assicurare un ministero integro e immacolato, che non deve essere profanato da alcuna relazione coniugale» (De officiis mini­strorum I, 50).

Il concilio loca­le di Nimes (a. 396) mentre interviene per abolire un servizio che era in atto ed usa una terminologia che trova giustificazione solo nella cultura di quel tempo, in realtà ci informa direttamente che in precedenza la tradizione ecclesiastica era opposta:
«Un'ordinazione di tal genere [delle diaconesse] fatta disprezzan­do la ragione, deve essere annullata ed è necessario vigilare affinché più nessuno possa dar prova di tanta auda­cia».
 Non meno categorico il 1° conci­lio di Oranges del 441 d.c.: «Non bisogna più in alcun modo ordinare delle diaconesse». E la proibizione dura tuttora.
Naturalmente questo traguardo è frutto di un'azione dottrinale e culturale di cui offriamo solo alcuni scampoli. «Tu, donna, sei colei che ha prepara­to la strada al diavolo» (Tertulliano). Ma passando attraverso s. Agostino possiamo arrivare fino a s. Tommaso che, sulla scia di Aristotele, sostiene che la donna è un essere mancato, svilito, sottomesso al­l'uomo a causa del peccato.
Il Decretum Gratiani (verso il 1140) si serve dell'esegesi di alcuni Padri della chiesa per legittimare la situazio­ne della donna che deve stare «in condizione di piena sottomissione, co­me schiava, in forza della quale essa deve essere sottomessa in tutto al­ l'uomo».
Nelle Decretali di Gregorio IX vi è tutta una raffica di proibizioni per la donna: proibizione ed esclusione da ogni attività pastorale, culturale e litur­gica.
E’ significativo il fatto che si ricorra all'Esodo 19,22; 30,20­s.) e al Levitico (21,17) per riportare nella chiesa una terminologia sacrale e sacerdotale di totale distacco dal popolo.
A questo mondo puro, divino, de­gno si contrappone nello stesso tempo il campo del profano, del secolare, dell'impuro, del contaminato, dell'in­degno... in cui sguazzano rinnegati, idolatri, eretici, apostati. A cui si ag­giunge il sesso, visto come impuro, indegno, sacrilego... rispetto al servi­zio dell'altare.
Da qui una diffusa svalutazione della sessualità, parallela al processo di degradazione della figu­ra della donna. Peggioramento che spesso dipende da un processo di sacra­lizzazione e dal passaggio a una conce­zione e terminologia di sacerdozio se­parato dal mondo profano, concepito come casta pura, angelica, degna del­l'altare a cui serve e del sacrificio che offre.


IL CELIBATO  SACERDOTALE

Anche in questo caso, è opportuno ricordare anche agli uomini del nostro tempo, e forse anche a tanti cattolici che non hanno le idee chiare in proposito, come la forma celibataria non chieda solo una castità fisica, ma consista globalmente in una adesione totale a Cristo
che si è fatto umile e povero per servire tutti.
Una castità che non sia intrisa di povertà, di distacco dai beni del mondo, di umiltà, di obbedienza, di totale identificazione in Cristo, umanamente non regge, è impossibile e alla fine diventa odiosa.
Siccome sappiamo bene che Ambrogio copia molto in questo settore dall’amico S. Basilio, fondatore del monachesimo orientale e che S. Benedetto nasce almeno 100 anni dopo la morte del Santo Vescovo, possiamo affermare che attorno a lui comincia a muoversi quel movimento di spiritualità che poi, 100 anni dopo, troverà nel monachesimo occidentale il suo fedele interprete, quando il clero secolare verrà meno ai suoi Officia, ai suoi doveri.
Cosa chiede S. Ambrogio ai giovani che intendono consacrarsi a Cristo?

“I bravi giovani devono avere timore di Dio, rispettare i genitori, onorare gli anziani, conservare la castità, non disprezzare l’umiltà, amare la clemenza e la modestia che sono l’ornamento della minore età. Come, infatti, si apprezza la serietà nei vecchi e l’attività in coloro che sono nel fiore degli anni, così nei giovani si apprezza la modestia come una dote di natura.”15 Come per il corredo spirituale della vergine, anche per chi si vuole consacrare nel Sacerdozio indica le stesse virtù come il silenzio, la modestia, il distacco dalle cose.
Mi pare di trovare qui nei testi di Ambrogio la radice di quel famoso esame di vocazione che era in uso nei nostri Seminari prima della fine di ogni anno scolastico; un esame che non riguardava solamente la castità, ma anche la retta intenzione, la riuscita negli studi, la fedeltà e il tanto irriso spirito ecclesiastico. Ambrogio si sofferma anche su dei particolari che sembrerebbero banali e dai quali, però, intuisce se ci sia o meno vocazione. Voglio leggervi solo un brano molto spassoso.
71. La modestia dev'essere conservata anche nel portamento, gesto, nell'incedere: nell'atteggiamento del corpo appare la virtù dell'animo.  Da questo l'uomo che sta nascosto dentro di noi viene giudicato o troppo leggero, spavaldo, torbido o, al contrario, costante, limpido e maturo.  Si può dire perciò che il nostro ­atteggiamento sia la voce dell'anima. 72. Voi ricordate, o figli, che un amico, pur apparentemente raccomandabile per lo zelo nei suoi doveri, non fu accolto da me nel clero soltanto perché il suo portamento era assai sconveniente; anche per un altro, che avevo trovato nel clero, fu invitato da me a non precedermi mai, perché il suo incedere insolente colpiva i miei occhi come una staffilata.  E glielo dissi quando, dopo il nostro screzio, venne restituito al suo ufficio.  Ebbi da eccepire soltanto questo; ma il mio giudizio non m'ingannò: entrambi, infatti, abbandonarono la Chiesa.  Risultò cosí che in loro la mala fede era tale quale il loro atteggiamento lasciava trasparire.  L'uno rinnegò la fede al tempo della persecuzione ariana; l'altro per avidità di denaro, volendo evitare il giudizio ecclesiastico, negò di essere del clero.  Nel loro portamento appariva chiara l'immagine ­della leggerezza, un atteggiamento da buffoni sempre di corsa. 73. Vi sono anche coloro che, camminando lentamente, imitano ­l'andatura degli istrioni e quasi le portantine delle processioni e l'incedere oscillante delle statue, sicché, dovunque muovono ­i passi, sembrano osservare determinati ritmi”.16
E potremmo continuare per ore nella descrizione ideale dell’uomo che si consacra a Dio.
E’ un peccato che negli studi di patrologia, come di altre discipline ecclesiastiche, si finisca per fare odiare gli studi con un imbottigliamento di notizie di carattere linguistico, letterario, storico o altro e manchi del tutto la preoccupazione di far conoscere lo stile dell’autore.
In Ambrogio ho letto, proprio subito dopo questi capitoli, dei brani di una crudezza che non mi sarei mai aspettato di trovare in uno scritto di uno dei più grandi padri della Chiesa.

Ed a proposito della bellezza maschile, scrive:”…Certamente noi non ammettiamo motivi di virtù nella bellezza fisica, tuttavia non ne escludiamo il fascino, perché la modestia suole soffondere di rossore gli stessi volti rendendoli più attraenti…mantenere la bellezza del vivere significa dare a ciascun sesso ed a ciascuna condizione ciò che loro conviene…come non approvo un comportamento molle e senza energia, così non lo voglio nemmeno zotico e rozzo” 17
«Il Cardinale Schuster commentando da par suo la Scola Ambrosii sul clero, scrive:
La dignità sacerdotale, come bellamente insegna il beato Am­brogio nel suo De Ofliciis, si può definire con un duplice com­pito.  Come Cristo per lo Spirito Santo si offre vittima immaco­lata (ad Hebr.  IX, 14) per meglio ricostituire la pienezza di po­tere divino che si era perduta col peccato di Adamo, cosi coloro che partecipano del sacerdozio secondo l'ordine di Melchisedech debbono offrirsi a Dio come vittime: essi che sull'altare operano i misteri della Passione del Signore, debbono manifestare i me­desimi misteri anche con la loro vita.
E quest'offerta sarà tanto più gradita a Dio quanto più santo, innocente, puro, immacolato, lontano dal peccato e più elevato dei cieli sarà il sacerdote che si offre; come Cristo è di Dio, cosi i suoi sacerdoti siano posseduti da Lui e siano guidati da Colui a cui Isaia dice: possiedici (Is.  XXVI, 13).
Ad un tal sublime stato di consacrazione a vittime del Si­gnore deve far seguito una singolare mortificazione della carne e dello spirito, una continua familiarità con Dio, al quale ci uni­scono soprattutto il mistero eucaristico e la preghiera liturgica che, anche per opera di Ambrogio, la Chiesa di Dio suole chia­mare semplicemente Ufficio Divino o Opera di Dio.
Questo suggerisce l'apostolo ai presbiteri di Efeso quando li definisce costituiti a vantaggio degli uomini per i loro rapporti con Dio, allo, scopo di offrire doni e sacrifici (ad Hebr.  V, 1); e nella seconda lettera a Timoteo, esponendo ancor più chiara­mente il suo pensiero, vuole che i sacerdoti attendano a Dio quando ordina: nessuno che si sia dato al servizio di Dio si im­mischi negli affari del secolo (Il ad Tim.  Il, 4)». 19




Possiamo dire, molto semplicemente che dopo la morte di Simpliciano fino alla fine del ‘600 (VII sec.) I Vescovi erano fortemente impegnati nelle questioni cristologiche con interferenze di ordine politico di non poco conto, fino al punto di dover abbandonare la Sede di Milano per Genova e successivo ritorno (San Giovanni Buono, 641 - 659) o al distacco di sedi vescovili come quella di Como dalla Sede Metropolitana.
Con la conquista della Liguria da parte dei Longobardi si rese immotivata la permanenza a Genova dell’alto clero milanese; sarà appunto S. Giovanni Buono a riportare gradualmente alla normalità la situazione della Chiesa milanese.
Ci troviamo, infatti, di fronte ad una fase delicata della Chiesa milanese, anche in considerazione del fatto che il rientro in sede dell'alto clero provocò inevitabilmente un fenomeno di riassestamento a livello delle istituzioni ecclesiastiche.  Vennero infatti a ritrovarsi uniti in un'unica azione pastorale due cleri, quello «maggiore», che per circa ottant'anni era rimasto in volontario esilio a Genova, e quello che potremmo definire «minore» e che nello stesso periodo aveva condotto la cura pastorale in Milano in condizioni di obiettiva difficoltà.  I documenti del basso medioevo useranno, per indicare questi due cleri, i due termini di «clero cardinale» con riferimento all'alto clero della cattedrale, e di «clero decumano » con riferimento a quello che si trovava in diretta cura d'anime.
Pare che dal punto di vista lessicale, la distinzione fra i due cleri derivasse, per analogia, dalla contrapposizione fra cardo e decumanus nella topografia castrense ed urbana di stampo classico-romano, non nel senso che i nomi topografia diedero origine ai nomi dei due ordines, ma nel senso che, preesistendo il titolo di cardinale nell'accezione ecclesiastica per indicare il chierico stabilmente legato alla cattedrale e derivando di fatto dalla stessa radice lessicale del cardo topografico, quando si volle trovare un termine che ad esso si opponesse per distinzione, sarebbe stato spontaneo e naturale ricorrere appunto a decumanus che già nel linguaggio topografico a cardo si opponeva distinguendosene.  L'analogia era evidente: come cardo e decumanus erano le direttrici principali del tessuto urbano e topografico della città, così cardinali e decumani erano di fatto gli assi portanti della Chiesa milanese all'interno delle sue istituzioni3O.  Resta dunque come fatto significativo che la Chiesa milanese medioevale vedesse la compresenza di due cleri, situazione che pare giustificata in maniera plausibile precisamente risalendo alle condizioni particolari del cosiddetto «esilio genovese». E’ vero per altro che la duplicità di clero non fu caratteristica solo di Milano ma un po' di tutte le Chiese dell'antica provincia, compreso Como, mentre non pare che tale fenomeno sia riscontrabile nelle Chiese d'area veneta; tuttavia fu solo a Milano che la differenza fra i due cleri si ritrovò ad essere notevolmente rimarcata anche in riferimento alle rispettive funzioni ministeriali.
Di fatto, se analizziamo le competenze del clero decumano e del primicerio maggiore, l'ecclesiastico che a tale clero era preposto, così come ce le presentano le fonti successive, troviamo una notevole indipendenza di azione pastorale rispetto al clero cardinale e allo stesso arcivescovo, probabilmente indizio, e nel contempo sopravvivenza, di una situazione in cui tale clero dovette operare in assenza del clero maggiore e indipendentemente da esso.  Spettava al primicerio, ad esempio, convocare due volte al mese i suoi preti per istruzioni di carattere pastorale; come l'arcivescovo in cattedrale dava il saluto pasquale e natalizio all'ordo maggiore, così faceva il primicerio con il clero decumano in S. Ambrogio; l'arcivescovo celebrava in cattedrale la processione delle palme con i cardinali, mentre il primicerío celebrava una funzione analoga in S. Ambrogio con i decumani; sempre al primicerio spettava il giudizio sulle cause matrimoniali in tutta la diocesi, il governo sulle parrocchie foresi, la riconciliazione dei penitenti al giovedì santo.  Infine, durante i vespri dell'Epifanía in cattedrale, egli prendeva posto su di un trono eretto di fronte a quello dell'arcivescovo (quasi in segno della sua altissima dignità nell'istituzione ecclesiastica milanese), anche se all'arcivescovo tuttavia consegnava un'offerta in segno di sudditanza, prova questa di una ricomposizione equilibrata delle gerarchie ecclesiastiche secondo il loro ordine obiettivo.  Dal punto di vista della prassi liturgica, nonostante Milano possedesse già due battisteri, quello di S. Stefano e quello di S. Giovanni Battista, i decumani ne ufficiavano uno proprio, quello di S. Giovanni Evangelista".  Inoltre anche nelle due cattedrale, come in tutte le altre chiese delle quali essi soli erano rettori, spettava ad essi e non al clero maggiore la celebrazione della messa per il popolo.
Questa situazione di duplicità durò per tutto il medioevo, fino al 1569, quando papa Pio V, su richiesta di Carlo Borromeo, abolì definitivamente il clero decumano, ormai ridottosi di numero e privo di plausibili motivi per una sua sopravvivenza.


Il problema dei missionari orientali

La situazione religiosa a Milano vedeva il permanere dell'arianesimo, professato ancora da più di un re longobardo: ariani furono Arioaldo (626-636) e Rotari (636-652), il quale, fra l'altro, emanò, nel 643,il celebre «editto» con la riaffermazione del separatismo etnico fra Longobardi e popolazione autoctona, onde frenare ogni processo di integrazione.  Anche dopo la parentesi rappresentata da re Ariberto I (653-661) di confessione cattolica, riprese una serie di re ariani, che tuttavia non ostacolarono apertamente il cattolicesimo.  E’ in questo contesto, nella seconda metà del sec.  Vll, che si inserisce il cosiddetto problema dei missionari orientali in terra milanese.
E’ risaputo che, proprio a cavallo fra il sec.  VI e il VII, si verificò un notevole influsso dell'area ecclesiastica orientale su quella occidentale: infatti nell'anno 611 la Siria era caduta sotto Cosroe Il e, benché nell'anno 622 l'imperatore Eraclio l'avesse liberata con una grande vittoria, successivamente nel 638 essa fini sotto il dominio arabo-islamico.  Di qui l'emigrazione di monaci e di clero verso Occidente, tanto che la loro presenza è testimoniata in misura massiccia soprattutto a Roma.
Su queste premesse qualche studioso ha avanzato l'ipotesi di un intervento da parte di Roma, a carattere missionario, nei confronti di Milano, la cui situazione ecclesiastica era quanto mai precaria, sia per l'assenza del clero maggiore, sia per gli strascichi della questione tricapitolina.  Tale intervento attraverso missionari di origine orientale pare rientrasse del resto in un piano missionario più ampio, comprendente vari paesi dell'Occidente (dall'Italia fino all'Inghilterra) ed aveva come scopo principale, almeno in riferimento alla situazione dell'Italia settentrionale, la definitiva conversione dei Longobardi, ancora pagani o ariani, la conservazione della fede e la salvezza della civiltà cristiana.
Di solito in tutto ciò viene riconosciuto a papa Gregorio Magno un ruolo di primo piano, anche se questo va forse ridimensionato, almeno per quanto riguarda il regno longobardo, a favore dell’azione diretta della cattolica regina Teodolinda.
Pare comunque che si possa precisare ulteriormente individuando per così dire due fasi di questa azione missionaria: la prima aveva come scopo fondamentale la conversione dei Longobardi, la seconda fu attuata ad opera di papi di origine orientale, particolarmente numerosi a cavallo fra il VI e il VII secolo, i quali trovarono nel clero orientale (monaci e preti) venuto a Roma validi elementi per le missioni in Europa.  A Milano, in modo particolare, questi missionari orientali avrebbero trovato terreno fertile per la loro opera, potendo agire in perfetta libertà per l'assenza del clero maggiore dalla città.
In effetti uno degli indizi che indurrebbe a pensare alla presenza di missionari a Milano in questo periodo è proprio la particolarità del doppio clero, quello dei cardinali accanto a quello dei decumani.  La leggenda che si trova formulata in Landolfo Seniore vuole che i decumani siano stati istituiti da Ambrogio stesso in numero di settantadue (il tipico numero missionario del Vangelo: cfr.  Lc 10,1) e soprattutto, particolare interessante, prima della istituzione dei cardinali, come a dire che la leggenda tradurrebbe popolarmente il ricordo di un tempo in cui i decumani erano già operanti nella Chiesa milanese mentre i cardinali non erano ancora presenti.  Il periodo dell'esilio genovese sembrerebbe rispondere a tali requisiti: l'alto clero infatti restò assente da Milano per un'intera generazione, quanto basta per farsi dimenticare e per essere considerato, al suo ritorno, quasi come una «novità» che si aggiungeva al clero decumano già operante da tempo.
La presenza di questi missionari orientali accanto al clero autoctono rimasto in Milano spiegherebbe l'introduzione di riti e di cerimonie provenienti dalle loro terre: tali novità sarebbero poi diventate consuetudini locali, accettate dal clero, anche da quello maggiore, una volta tornato in sede da Genova; di qui l'avvio a trasformazioni liturgiche che testimoniano notevoli apporti orientali (ad esempio, un certo influsso siríaco-palestínese sulla liturgia milanese), posteriori al periodo delle origini e che sembrerebbero ingiustificato per altra fase storica se non per quella cosiddetta missionaria; di qui il sorgere in seno alla liturgia ambrosiana di una religiosità piena di forme suggestive e talvolta a forte caratterizzazione popolare.  E’ il caso delle devozioni, nel loro intreccio, talvolta inestricabile, con la liturgia, ed in modo particolare è il caso della devozione mariana che proprio grazie ad agenti esterni di origine orientale, avrebbe conosciuto in questo periodo un forte incremento in terra ambrosiana.  Un documento pittorico in questo senso ci verrebbe offerto dagli affreschi di S. Maria di Castelseprio la cui fonte ispiratrice sono chiaramente i vangeli apocrifi ed il cui stile ne postulerebbe l'esecuzione da parte di un artista orientale".  A questo periodo sembrano risalire anche le grandi feste mariane, di indubbia importazione orientale: quella della purificazione (2 febbraio), durante la quale si svolgeva una solenne processione con l'icona della Madonna, detta Idea ( = immagine), dalla chiesa di S. Maria Beltrade, così chiamata perché fatta edificare forse dal re longobardo Bertarido, fino alla cattedrale invernale di S. Maria Maggiore, e la festa dell'incarnazione del Signore, celebrata nell'ultima domenica di avvento, anch'essa solennizzata con un'analoga processione dalla cattedrale a S. Maria al Circo.  Di sicura origine orientale è pure la devozione alla cintura della Madonna, devozione nata a Costantinopoli e testimoniataci, in terra ambrosiana, nel santuario mariano del Sacro Monte e a Monte Morone presso Malnate.
Altre devozioni assimilate dal popolo longobardo furono quelle all'arcangelo s. Michele, in seguito alla vittoria riportata sui Bizantini l'8 maggio 663 presso Monte Sant'Angelo sul Gargano, a s. Giorgio e a s. Romano".
La cosiddetta ipotesi sui missionari orientali in terra ambrosiana durante l'epoca longobarda ha conosciuto validi e convinti sostenitori.



FERMENTI E INQUIETUDINI RELIGIOSE ATTORNO ALLA METÀ DEL SEC. XI

Ogni grande cambiamento, soprattutto in humanis,  non avviene mai improvvisamente; esso ha bisogno di una grande maturazione dei cuori.
Così la testimonianza eroica di Arialdo è stata preceduta dai primi tentativi di riforma dei Vescovi che si sono succeduti nei secoli X e XI. Almeno uno che per strumentazioni politiche contemporanee,  forse è il più conosciuto, può essere qui ricordato: Ariberto d’Intimiano (1018 – 1045).
Ariberto, eletto Arcivescovo, nella sua azione pastorale si preoccupò di salvare la missione della Chiesa da ogni devianza…prendendo provvedimenti contro i chierici ammogliati e concubinari perché rappresentavano un grande pericolo per l’unità del patrimonio della Chiesa, che poteva andare suddiviso tra i figli nati da unioni tra chierici e donne libere.
Alla morte di Ariberto, la Chiesa milanese presenta all’imperatore di Germania, Enrico III la candidatura di ben quattro Cardinali; il Re, invece, volendo dimostrare di piegare il potere delle forze locali sceglie Guido da Velate, un chierico della nobiltà milanese della provincia.
L’Arcivescovo Guido da Velate passa attraverso fasi alterne di accoglienza e di rifiuto. Fu rifiuto, quando durante un pontificale in S. Maria Maggiore fu abbandonato all’altare solo, da tutto il clero o quando venne accusato di simonia davanti al Papa Leone IX.
Fu accoglienza e trionfo, quando giunto a Roma per essere processato, fu visto sedere alla destra del Papa, togliendo quel privilegio a Ravenna che era sede del patriarcato di occidente o quando, su ispirazione dei monaci istituisce a Milano la festa della Esaltazione della S. Croce e del S. Chiodo.
Qual’è la condizione del Clero in quel secolo?
Tra le tante, una nota pagina di un autore dell'Xl secolo, Andrea da Strumi, dipinge con realismo la situa­zione dei chierici milanesi: «In quel tempo il ceto degli ecclesiastici era stato sviato in una tale quantità di errori, che in esso non vi era quasi nessuno che fosse giustamente nel posto che occupava. ... Quasi tutti i preti conducevano una vita vergognosa con pubbliche mogli o con sgualdrine.  Ognuno cercava il proprio interesse, non quello di Cristo…. Tutti quanti erano talmente invischiati nell'eresia simoniaca, che non si poteva ottenere nessun incarico o grado, dal più piccolo al più grande se non comprandolo»21
E’ bene tenere presente che siamo in pieno medio Evo; un tempo in cui il potere politico ed ecclesiastico spesso si assommano o si scontrano e comunque si confondono.
E’ un tempo in cui la corsa alle prebende, ai canonicati, alle capellanie da parte del clero secolare, (aggettivo tanto odiato dal Beato Card. Schuster) pone lo stesso clero sotto il giogo dei potenti.
E’ un tempo in cui i beni della Chiesa corrono il rischio di essere dilapidati in eredità ai figli dei preti titolari di benefici.
E’ un tempo di evidente rischio di simonia, cioè di vendita di beni materiali e spirituali, perché la corsa verso il benessere è tentazione forte per quel povero clero che ha perso ormai ogni forma di spiritualità e trova nella carriera ecclesiastica un suo mezzo di affermazione.
Per fortuna, sia tra il clero secolare che nei monasteri c’è chi corre ancora verso la santità nonostante delle evidenti spaccature che risalgono di tre o quattro secoli, fra i cardo (cardinali o ordinari) ed i decumani.
Cardo e decumana sono due termini presi dalla topografia della città.
Cardo potremmo chiamarlo il centro
Decumana è invece la linea che attraversa la città da E/O, ortogonale al cardo.
In termini ecclesiastici: cardo o cardinali erano i sacerdoti che stavano attorno al Vescovo.
Decumani, noi li chiameremmo i missionari che avevano nel primicerio il loro superiore.
Il primicerio aveva tale importanza che, in Duomo, aveva una propria cattedra posta di fronte a quella del Vescovo.
Potete intuire subito quale simpatia godesse presso i fedeli dei borghi il clero decumano.
Arialdo è un diacono decumano, nato a Cucciago (Como)
Tra la fine del 1056 e l’inizio del 1057 Arialdo di Cucciago comincia a predicare nella pieve di Varese, ma poi capisce che la sua predicazione sarà valida solo se riuscirà a portarla nel cuore della Diocesi, in Milano.
Arialdo mette al centro del suo primo discorso in Milano il tema della luce che viene da Cristo.Il clero non è più in grado di trasmettere il messaggio evangelico perché schiacciato sotto il peso del concubinato e della simonia.
E’ importante far capire anche a tanti nostri contemporanei contestatori che la verginità nel Sacerdozio, voluta da Arialdo non è fine a sé stessa, ma è voluta per il bene della Chiesa;
è voluta perché i sacerdoti non siano sotto il giogo di una convivenza coniugale, non regolare, illecita, farisaica e dalle conseguenze nefaste e perfino dalla simonia così frequente allora.
In Arialdo non c’è solo l’esaltazione ossessiva della castità, ma una armoniosa  fusione tra verginità, preghiera, attenzione ai poveri e povertà in una totale imitazione di Cristo Signore. Questo è il chierico ideale, consacrato a Cristo, nel pensiero di Arialdo.
Il suo movimento prende il nome di pataria; un termine dispregiativo che non significa straccione, come si sente dire, ma “strascé”, colui che acquista e vende stracci.
Arialdo non fu proprio quel collo torto, da santino che, purtroppo, una certa iconografia ci ha tramandato.
Sotto certi aspetti fu anche brutale e violento:
·         Con l’espulsione dalle funzioni liturgiche dei concubini
·         Con l’obbligo di un totale cambiamento di vita nel clero, sotto pena della esclusione dai redditi dei benefici
·         Chi era legittimamente ammogliato doveva promettere una continenza assoluta con distacco dalla famiglia
In questo contesto va collocato l’Editto sul dovere di conservare la castità fatto sottoscrivere al clero.
Naturalmente ci fu il ricorso a Roma ed il Papa, Stefano IX, non può che mettersi dalla parte di Arialdo, pur con qualche distinzione.
La reazione non tardò a venire; nel Sinodo di Fontaneto (No), l’Arcivescovo, Guido da Velate con i Vescovi suffraganei commina la scomunica ad Arialdo.
E fu scontro fra chi era con l’Arcivescovo e chi abbandonando perfino i monasteri si uni ad Arialdo nella sua Canonica di Cucciago per iniziare un nuovo stile di vita.
Ogni rivoluzione, e questa fu una vera rivoluzione, porta con sé delle esasperazioni e degli errori:
·         come la dichiarazione della invalidità dei sacramenti ricevuti da preti indegni (ci vorrà il Conc. Di Trento per definire l’ex opere operato
·         oppure il boicottaggio delle Messe dei concubinari
·         oppure il netto rifiuto di preti anche legittimamente coniugati, per un antico legame nel diritto tra Chiesa ambrosiana e Chiesa bizantina; creando così una grande confusione tra disciplina e dottrina, tra normativa e vittime:
perché molti preti vennero allontanati dal servizio ecclesiastico dietro processo sommario fatti da laici patarini, contro la giurisdizione del Vescovo sul proprio clero.
Per dirimere la questione e mettere pace in Milano, il Papa, Stefano IX invia a Milano, in due momenti diversi due delegazioni:
la prima, con Ildebrando di Soana che prenderà il nome di Gregorio VII e Anselmo da Baggio, Vescovo di Lucca che prenderà il nome di Alessandro II
la seconda, formata dal nipote di Alessandro II, anche lui di nome Anselmo e da San Pier Damiani.
Il 30 settembre del 1061, Anselmo da Baggio diventa Papa con il nome di Alessandro II; non è ben visto dalla corte imperiale e dall’Arcivescovo di Milano. Il Papa mostra evidenti simpatie per la pataria tanto che richiama il diritto/dovere di Roma di intervenire nella questione delle Chiese locali; e Lui interviene in favore di Arialdo.
A questo punto il popolo milanese abbandona Arialdo ed il Papa per difendere con il proprio Arcivescovo l’autonomia della sede milanese, esercitata da secoli. Guido da Velate, Arcivescovo viene scomunicato dal Papa.
Il 4 giugno 1066, festa di pentecoste l’Arcivescovo convoca una folla enorme in Duomo e condanna Arialdo che si rifugia dall’amico Erlembardo a Legnano.
Uscito dal suo rifugio di Legnano, per tradimento di un sacerdote, viene messo nelle mani degli uomini dell’Arcivescovo che lo portano nella rocca di Angera, proprietà dell’Arcivescovo, viene ucciso e gettato nel lago, il 28 giugno 1066

Erlembaldo in seguito riportò a Milano il corpo del suo amico e, la festa di Pentecoste del 1067, lo fece seppellire nella chiesa milanese di S. Celso.  Nello stesso anno papa Alessandro II, che a quanto pare già annoverava A. tra i martiri, moderò gli eccessi di zelo dei Patarini inviando a Milano una legazione che assolse Guido dalla scomunica, avendo egli promesso di attuare la riforma.
Le reliquie di s. A., trasferite nel 1099 dall'arcivescovo Anselmo da Bovisio nella chiesa di S. Dionigi, accanto a quelle di Erlembaldo, e poi, nel 1528, nel Duomo, furono ritrovate e solennemente ricomposte nel 1940 dal cardinale lldefonso Schuster.
Il culto locale di s. A. è stato approvato con la formula « sanctus vel beatus nuncupatus » dalla S. Congregazione dei Riti, con decreto del 12 lugl. 1904 (approvato da Pio X il giorno successivo), e successivamente il 25 nov. dello stesso anno furono approvati l'Ufficio e la Messa propri del santo.







Considerazioni personali:

1.    Abbiamo già fatto rilevare che il celibato è uno degli aspetti di quella maturità spirituale o meglio, di quella dedicazione a Cristo che fa di un uomo ed una donna dei veri discepoli del Signore
2.    La verginità è dono di Dio; già prima dell’insegnamento esplicito di Cristo, il libro della Sapienza al cap.8,21 ci dice: “Sapendo che non avrei ottenuta la capacità di essere casto, se Dio non me l’avesse concessa – ed era proprio dell’intelligenza sapere da chi viene tale dono – mi rivolsi al Signore e lo pregai”.
3.    Chi, oggi, diventa prete nella Chiesa latina, aldilà della opportunità o meno di insistere così rigorosamente su tale disciplina, si assume questo impegno  e lo deve mantenere.
4.    La forma celibataria non è dottrina, ma disciplina e quindi suscettibile di adattamento alle circostanze.
5.    Sarebbe opportuno tenere presente che la conoscenza della storia del passato della Chiesa, forse, qualche precauzione non sbilanciata, ce la potrebbe ancora offrire. E’ per questo motivo che sento il desiderio di mettere a conoscenza di chi è interessato i testi di due teologi  che, a mio avviso, ci dicono quanto si sia raffinato il pensiuero della Chiesa sull’argomento.

A conclusione di questo excursus storico mi preme allegare due testi di insigni biblisti che possono aiutarci a capire, nel presente, la ricchezza della forma sia verginale che celibataria.

Testo di Ignace de la Potterie (da 30 Giorni, aprile ’93)
facciamo riferimento ad un re­cente libro di Christian Co­chini, Origines apostoliques du célibat sacerdotal, fornito di un enorme apparato di do­cumentazione storica.
Si tratta di un brano che ricorre nelle lettere pastorali, quella a Timoteo e quella a Tito: san Paolo vi affer­ma che il vescovo, il sacerdote e il diacono devono es­sere «unius uxoris vir>, l'uomo di una sola donna. Cu­riosamente questa indicazione viene data solo per i ministri ordinati, non per tutti i cristiani. Analogamente, questa formula viene usata per una vedova anziana che esercita anch'essa un ministero per la comunità (una specie di diaconessa): «unius viri uxor>. Sarà proprio questa frase che dal IV secolo in poi verrà uti­lizzata, come ha ben spiegato il cardinale Alfons Stick­ler nell'introduzione al libro di Cochini, «come un argo­mento in favore del celibato d'ispirazione apostolica». Il che sembra paradossale, visto che il brano parla di ministri sposati. Ma, per spiegarne il senso, bisogna trovare il termine medio tra il matrimonio dei ministri e il celibato: questo termine è la continenza a cui vengo­no obbligati i ministri sposati.
San Paolo dice, dunque, che il ministro della Chie­sa deve essere l'uomo di una so­la donna. In tutta la storia dell'esegesi, dal tempo di Tertul­liano fino ad oggi, ci sono state due diverse teorie fondate su di­verse interpretazioni di questo brano. Secondo la prima teoria, che è ancor oggi la più diffusa tra gli esegeti, con quella espressio­ne san Paolo voleva proibire la poligamia successiva: i sacerdo­ti possono essere uomini sposa­ti, ma una volta soltanto. E, se la moglie muore, non possono risposarsi. La se­conda teoria, invece, inter­preta quella frase come una proibizione alla poligamia simultanea: san Paolo vo­leva semplicemente inter­dire di vivere contempora­neamente con più donne.
In realtà, nessuna delle due soluzioni mi sembra soddisfacente. La prima non spiega cosa ci sarebbe di male a risposarsi - visto che si ritiene legittimo il ma­trimonio per il sacerdote - una volta defunta la prima moglie. La seconda, che è quella che ancora oggi do­mina nel mondo protestan­te, non tiene conto che la ri­chiesta di san Paolo è fatta solo a chi esercita un mini­stero nella comunità: forse che per gli altri cristiani è ammessa la poligamia?
Per cercare un'interpre­tazione più adeguata, ve­diamo se nella storia della tradizione patristica e ca­nonica siano state date delle motivazioni teologiche per fondare sul brano di san Paolo l'obbligo discipli­nare della continenza del clero.

Come abbiamo già detto, è un fatto indiscusso che l'ob­bligo del celibato diventa legge canonica a partire dal IV secolo. E i legislatori affermavano che questa di­sposizione canonica era fondata su una tradizione che risaliva ai tempi degli apostoli. Diceva il Concilio di Cartagine del 390: conviene che quelli che sono al servizio dei divini sacramenti siano perfettamente continenti «affinché ciò che hanno insegnato gli apo­stoli e ha mantenuto l'antichità stessa, lo osserviamo anche noi». Il Concilio aveva poi votato all'unanimità il decreto stesso sull'obbligo della continenza: «Piace a tutti che il vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dall'unione coniugale con le loro spose affinché venga custodita la purezza perfetta di coloro che servono all'altare». Anche se non viene citato il testo di san Paolo, il riferimento è implicito, visto che menziona, come nelle lettere pa­storali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. E nello stesso periodo papa Siricio, presentando le norme per il Concilio di Roma del 386, cita espressamente il testo di san Paolo « unius uxoris vir».
Lo stesso Tertulliano all'inizio del terzo secolo aveva ri­cordato (Ad uxorem) che la monogamia non è solo una disciplina ecclesiastica, ma anche un precetto dell'Apostolo. Risale quindi al tempo apostolico. E poi (De exhortatione castitatis) aveva insistito sul fatto che nella Chiesa parecchi credenti non sono sposati, vivono nella continenza e diversi di loro appartengo­no ad Ordini ecclesiastici: costoro «hanno preferito sposare Dio». Ma quale legame c'è tra il matrimonio monogamico e la conti­nenza? Tertulliano non lo dice, ma porta l'esempio di Cristo che, secondo la carne, non era sposato, viveva da celibe (non era quindi «un uomo di una sola donna»), però nello spi­rito «aveva una sola sposa, la Chiesa». E questa dottrina delle nozze spirituali di Cristo con la Chiesa era co­mune nel cristianesimo antico.
Analogamente sant'Agostino, nel De continentia, dice: «L'apostolo ci invita a osservare per così dire tre coppie: Cristo e la Chiesa, il marito e la moglie, lo spirito e la carne». Il suggerimento che ci fornisce questo testo per l'interpretazio­ne della formula «unius uxoris vir» appli­cata al ministro (sposato) del sacramento è che egli, come ministro, non rappresenta soltanto la seconda coppia (marito e mo­glie) ma anche la prima: egli impersona Cristo nel suo rapporto con la Chiesa. Abbiamo qui il fondamento della dottrina che diverrà classica: «Sacerdos alter Christus».
Anche numerosi altri testi penitenziali del Medioe­vo dicono che quando un uomo sposato, d'accordo con la moglie, vuole farsi prete, deve vivere nella con­tinenza, altrimenti commette un adulterio, dato che il, sacramento ricevuto lo ha reso marito di un'altra spo­sa, che è la Chiesa.
Questo breve excursus storico mostra come sia stata sempre viva l'idea, non ben formulata ma pur tuttavia vissuta, che il sacerdozio comporta le nozze spirituali con la Chiesa. E ci aiuta ora a comprendere l'interpre­tazione esegetica della frase di Paolo «unius uxoris vir». È una formula di Alleanza. Questo diventa ancor più chiaro se si confronta con un passo della seconda lettera ai Corinti, dove lo stesso Paolo parla della Chiesa di Corinto come di una sposa che egli ha pre­sentato a Cristo come una vergine casta: «lo sono geloso di voi - dice - della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati ad un solo uomo (uni viro) per presentarvi a Cristo come una vergine pura» (Il Cor 11, 2). II tema della Chiesa (in questo caso quella di Corinto) come sposa, e della gelosia di Dio, è proprio il tema biblico dell'Alleanza a cui la vergine-Israele viene invitata, dopo le infe­deltà del passato, per recuperare il suo rap­porto con il suo unico Sposo. E vai la pena notare come ritorni in questa seconda lettera ai Corinti la stessa for­mula (unus vir) che ve­niva usata nella lettera a Timoteo per la vedova al servizio della comunità.
Concludendo: se il ministero sacerdotale è una partecipazione all'Alleanza, se il sacer­dote, come Cristo, di­viene sposo della Chie­sa, ciò implica una con­tinenza a livello umano. Il sacerdote deve esse­re «l'uomo di una sola donna», e quell'unica donna è per luì la Chie­sa.

Lo stesso Giovanni Paolo li nella sua lette­ra post-sinodale Pastores dabo vobis, per spiegare «la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato» scrive: «La volontà della Chiesa trovala sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l'ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo capo e sposo della Chiesa. La Chiesa, come sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo capo e sposo l'ha amata».


da un articolo di Mons. Bruno Maggioni
( si chiede scusa ai lettori per non aver codificato la fonte di tale pubblicazione…)
…La castità non soltanto lascia trasparire la verità della sessualità (e non invece il suo rifiuto o la sua paura), ma la verità dell'amore di Dio e dell'uomo.
Per questo la castità aderisce alla persona e l'accompagna in tutte le situa­zioni in cui questa è chiamata a vivere. Certo la castità assume differenti modalità nei diversi stati di vita: nell'adolescenza e nell'età matura, nel fi­danzamento e nel matrimonio, nella vedovanza, nell'eventualità di un ma­trimonio che conosce la separazione, nella scelta della verginità. Modalità diverse, anche profondamente diverse, ma sempre espressive della medesima logica. La castità è una virtù che tocca la struttura dell'uomo, non semplice­mente lo stato in cui vive.
La parola castità dice subito e bene l'austerità e il dominio di sé. Ma que­sto è solo una faccia della castità: una faccia essenziale, da non tacere, tanto essenziale che senza di essa la castità non si regge. Ma non è l'unica faccia, né quella che da sola manifesta la novità evangelica.
Il dominio di sé che la castità richiede non è certamente quel modo di considerarsi padrone di se stesso che dà poi diritto a fare ciò che si vuole. Ma non è nemmeno quella nobile e austera padronanza di sé che si sforza di dominare le proprie passioni prendendole in pugno, padroneggiandole. Il dominio di sé evangelico è capovolto: non sta nel farsi padrone, ma nel con­segnarsi. Il dono di sé evangelico è fare spazio - dentro se stessi - alla si­gnoria di Cristo. Questa concezione evangelica del dominio di sé - ma potremmo anche dire dell'ascesi, della penitenza, della mortificazione - è una profonda no­vità, e segna la differenza fra il Vangelo e il mondo.

Beati i puri di cuore

Abbiamo scelto di leggere la castità all'interno della beatitudine dei puri di cuore (Mt 5,8). Ma la beatitudine dei puri di cuore deve, a sua volta, essere compresa alla luce di tutte le altre. Le beatitudini di Matteo sono otto, ma delineano tutte insieme una sola figura spirituale. E questa figura è Gesù. L'uomo delle beatitudini non è anzitutto il discepolo, ma Gesù. Le beatitu­dini, di conseguenza, acquistano senso, concretezza e spessore unicamente se vengono collocate dentro l'intera vita di Gesù, il cui punto di massima espressività è la Croce. E devono essere lette tenendo fermo un dato antro­pologico biblico di fondamentale importanza, cioè l'unità dell'uomo: un da­to, questo, che non va circoscritto a una cultura particolare, nel nostro caso la cultura semitica, perché è all'interno dell'evento stesso di Gesù Cristo.
Accettare l'unità dell'uomo significa comprendere che l'uomo è chiamato a vivere in una sola linea, corpo e anima. E significa comprendere che le ma­nifestazioni del corpo rinviano alla persona, manifestandola, esattamente come quelle manifestazioni che noi diciamo «spirituali». La castità trova spazio e senso in una concezione antropologica che valorizza il corpo, non in una antropologia che, invece, considera il corpo e e le sue manifestazioni come una parte inferiore, o esterna, alla vera realtà dell'uomo.
Ma torniamo alla beatitudine dei puri di cuore. Biblicamente il cuore dice il nucleo intimo e unificante della persona. Non soltanto slancio e amore, ma anche ragione, pensiero e intelligenza. La castità è un preciso modo di vivere tutte queste cose: i sentimenti come i pensieri, l'amore come l'intelli­genza. Unita al «cuore» - che, come sto dicendo, non è un generico richia­mo all'interiorità, ma un coinvolgimento di tutta la persona - la purezza esprime anzitutto la totalità dell'appartenenza a Dio. Puro di cuore è chi a Dio non nasconde nulla, ma gli consente di entrare in tutti gli angoli della sua persona e in tutti i settori della sua vita. Il contrario del puro di cuore è l'uomo doppio, diviso: alcune cose a Dio, alcune cose a se stesso. Il puro di cuore è chi vive una sola appartenenza (e per questo è libero da tutte le altre!); il contrario del puro di cuore è chi vuole spartirla con diversi padroni (Mt 6,24).
Oltre che per la totalità dell'appartenenza a un solo Padrone, la purezza di cuore si qualifica per la totalità della ricerca di Dio. Al di sopra di ogni altra cosa, con tutto se stesso, il puro di cuore cerca il Regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6,33). Può essere impegnato in molti lavori, può persino essere indaffarato, tuttavia il puro di cuore è al tempo stesso immobile, fer­mo, fisso al centro, interamente proteso in una sola direzione. Il contrario del puro di cuore è l'uomo frantumato, disperso, incapace di vivere secondo un'unica logica.
Ma nella totalità dell'appartenza e nella concentrazione della ricerca - che sono le due prime note della purezza di cuore - è necessariamente in­clusa la definitività. Nella totalità e nella concentrazione è incluso il `per sem­pre'. Il puro di cuore si dona al Signore tutto e per sempre, e imbocca con tutto se stesso una strada che egli considera definitiva. Il contrario del puro di cuore, invece, è l'uomo che, qualsiasi scelta faccia, mantiene sempre alle spalle un'uscita di sicurezza.
Il puro di cuore, infine, si distingue per la sua trasparenza. Egli lascia tra­sparire se stesso, senza finzioni. Il contrario è l'ipocrita, l'uomo mascherato, prigioniero di sé, che si nasconde perché pauroso di comunicare, di esporsi e di donarsi. Bisogna precisare, però, che la trasparenza del puro di cuore non si arresta qui. Infatti il puro di cuore non soltanto lascia trasparire se stesso, senza finzioni, ma si rende disponibile a farsi trasparenza dell'amore di Dio. E proprio qui che l'appartenenza al Signore trova la sua più alta espres­sione. Non basta cercare Dio appassionatamente, al di sopra di ogni altro interesse, ma occorre lasciarlo trasparire da tutto se stesso: da ogni gesto, da ogni parola, da ogni scelta. Il puro di cuore è tanto trasparente che non ferma l'attenzione su di sé, ma rinvia a Dio, come quando l'acqua di un ru­scello è così limpida che se ne vede il fondo. E questo perché la verità che egli dice non è sua, ma di Dio. E l'amore che egli manifesta non è suo, ma di Dio.
Come assicura la beatitudine, la totalità, la concentrazione, la profondità e la trasparenza rendono il puro di cuore capace di «vedere» Dio: la pienezza del suo volto nel futuro, e le sue tracce - che molti non vedono, ma che il puro di cuore sa vedere dovunque, anche quando sembrano cancellate - nel presente.

La gratuità dell'amore

La beatitudine dei puri di cuore, come già si diceva, non sta senza le altre. Né riesce - da sola - a offrire in modo compiuto tutti i fondamenti neces­sari per comprendere la lieta notizia della castità. Almeno tre idee importan­ti - che le beatitudini nel loro insieme sottolineano con molta forza - de­vono qui essere riprese.
La prima è la gratuità, suggerita in modo particolare dalla beatitudine dei poveri di spirito. Povero di spirito è Gesù, che è vissuto ponendo tutta la propria fiducia in Dio e non in se stesso. Povero di spirito è Gesù che ha condotto una vita itinerante, povera, sobria ed essenziale. Povero di spirito è Gesù che soprattutto - ha compreso se stesso (persona ed esistenza) in termini di gratuità: un dono che si fa dono, un amore dato che prolunga un amore ricevuto. La gratuità e la verità dell'amore di Dio. Ed è al tempo stes­so la verità del nostro amore. Certo l'amore - quello di Dio come quello dell'uomo - tende alla reciprocità, ma questa non è la sua radice né la sua misura. Se ami nella misura in cui sei ricambiato, il tuo non è vero amore. E se sei amato solo nella misura in cui dai, non ti senti veramente amato. Soltanto chi comprende questa gratuità nativa, originaria, dell'amore - che non è dovere ma bellezza - può comprendere la lieta notizia della castità.
Un secondo tratto importante è la coincidenza, se così si può dire, fra l'a­more di Dio e l'amore dell'uomo. L'ho appena suggerita notando che la gra­tuità è la verità di ambedue. Ma molte altre cose si devono dire.
La totalità, la concentrazione, la definitività, la trasparenza e la gratuità - questi i tratti dell'uomo delle beatitudini! - devono prendere forma e concretezza nelle relazioni con gli altri uomini. Non c'è altro luogo per farlo. Lo dicono le beatitudini dei misericordiosi, dei costruttori di pace, dei miti e dei perseguitati. Questo volgersi totalmente e gratuitamente agli uo­mini non è una semplice conseguenza del nostro volgersi totalmente a Dio, ma ne è la figura, il risvolto umano, la forma visibile e tangibile. E poi non si dimentichi che se noi possiamo amare, è solo perché Dio ci ama per pri­mo. Il nostro amore è un prolungamento del suo. Il nostro volgersi agli uo­mini è, perciò, la figura di come Dio guarda ogni uomo. Ma allora è proprio vero che non ci sono due amori - uno di Dio e uno dell'uomo - ma uno solo: il primo è la radice e la misura del secondo, e il secondo è l'ombra uma­na del primo. Questo è importante. L'amore di Dio non mi toccherebbe, se non lo vedessi - fatto visibile e umano - nell'amore di chi mi ama e nella mia gioia (e fatica) di amare. Ma l'amore dell'uomo - l'amore che ri­cevo come l'amore che dono - mi deluderebbe, se non lo vedessi come un'om­bra dell'amore di Dio.
Un terzo tratto importante - sempre suggerito dalle beatitudini - è la consapevolezza che il mondo non è il tutto dell'uomo. L'uomo ha bisogno di Dio, non soltanto dei suoi doni. Il puro di cuore lo sa, e non si illude di trovare la sua piena realizzazione nelle esperienze che ora può vivere, nep­pure nell'esperienza dell'amore. Per questo è sereno e lieto. Sereno perché - a differenza di chi pone nel mondo il proprio tutto - non è avido di possesso, né di forsennate esperienze, né di affrettate relazioni, né di vivere ad ogni costo. E lieto, perché il rifiuto di fare del mondo il proprio tutto non impoverisce la gioia dei doni di Dio, ma la esalta. E questo è proprio vero. Solo l'uomo che punta totalmente verso Dio trova l'indispensabile li­bertà per godere del mondo. L'uomo che invece fa del mondo il suo idolo, non ama veramente il mondo, lo idolatra ma non lo ama; e il suo atteggia­mento nei confronti del mondo è insieme servile e arrogante; non lo guarda veramente, non lo rispetta, unicamente teso a possederlo e a sfruttarlo. Chi punta verso Dio - e si libera dall'ansia dell'accumulo e dalla paura di per­dersi - vede nel mondo e nelle cose un dono di Dio, un dono per tutti. E vi si accosta con animo libero e atteggiamento gratuito, con la gioia di scorgere nelle cose un rimando verso la pienezza.

La castità, trasparenza di vero amore

Il discorso fatto sin qui ha certamente toccato alcuni punti essenziali del Van­gelo, che ora però dobbiamo rileggere ponendoli più direttamente in rappor­to con la castità e, dunque, con quella sfera profonda e delicata, altamente espressiva della persona, che è la sessualità. Il desiderio è di riuscire in qual­che modo a mostrare non soltanto la positività della castità - il suo valore, la sua utilità - ma la sua bellezza. È solo quando se ne intravede la bellezza che si comincia a capire davvero il Vangelo.
Scelgo come punto di osservazione il matrimonio, non perché mi interessi qui il matrimonio, ma perché nella relazione matrimoniale si possono vedere con particolare chiarezza le note essenziali, costanti della castità: note da riprodurre in ogni forma concreta di castità. Non è difficile accorgersi che sono le medesime note del puro di cuore.
La castità non è senza ascesi. Anche (e forse soprattutto) nel matrimonio l'ascesi mantiene un valore altissimo, necessario per vivere la sessualità nella sua verità, cioè nella sua capacità di esprimere donazione, dimenticanza di sé, gratuità. Anche reciprocità, certamente. Ma una reciprocità sorretta, e spezzata, dalla gratuità. L'amore matrimoniale costruisce la reciprocità, ma viene prima della reciprocità. Non si lascia imprigionare nella logica della parità fra il dare e l'avere. Gioisce nella reciprocità dell'amore, ma non vi si arresta. Se lo facesse, la stessa reciprocità - fondata sulla parità fra il dare e l'avere - sarebbe assai fragile. Un'alleanza misurata sulla parità non dura a lungo. Per reggersi deve scaturire da un amore che sa dare più di quanto riceve. Vale per il matrimonio quanto Gesù ha detto per la carità, che è il segno del vero discepolo: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34). «Gli uni gli altri» dice la reciprocità. Ma il «come io ho amato voi» dice un di più, che dilata la reciprocità, indicandone al tempo stesso il fondamento.
È chiaro, a questo punto, che per la castità intendo l'ascesi e la gioia di una sessualità vera, capace cioè di esprimere gratuità e dono di sé. Chi non si educa all'ascesi della castità - che non è dunque rinuncia ma crescita nel­la gratuità - non sarà mai capace non soltanto di una scelta celibataria, ma neppure di una scelta matrimoniale.
E anche chiaro, a questo punto, che la castità è sì esigente, come tutto il Vangelo, ma il distacco e la fatica che essa richiede nascono dall'aver tro­vato `un di più'. Per questo la castità è lieta notizia.
Suona come un paradosso, e invece dice una profonda verità: anche la relazione  matrimoniale deve racchiudere in se stessa un'apertura alla vergini­tà. Questo non per rinnegarsi, come se le espressioni dell'amore matrimo­niale fossero un `purtroppo', ma perché l'amore matrimoniale sia vero, cioè definitivo, qualsiasi cosa succeda. Sto sempre facendo il discorso sulla gratui­tà, che è l'anima profonda dell'amore, di ogni forma di amore. La gratuità rende stabile l'amore. Anche se l'altro ti abbandona, il tuo amore verso di lui non viene meno. Soffri, ma non viene meno. È come l'amore del Croci­fisso: rifiutato, dona la vita per chi lo rifiuta. Il matrimonio è chiamato a questa profondità di alleanza: una profondità che Gesù ha pienamente sve­lato nella sua vita e nella sua Croce, ma che - a ben guardare - è già depo­sta come un germe nella struttura creazionale, nativa, dell'amore.
La fedeltà all'alleanza nel caso/limite di un matrimonio spezzato - un caso limite che tuttavia, in forme molteplici, fa realmente parte del rischio dell'Alleanza, del rischio dell'amore - non è solo indicativa del fatto che il Vangelo richiede a tutti, in qualsiasi stato di vita, la disponibilità al marti­rio. E invece proprio indicativo della natura della reciprocità coniugale, che è alleanza definitiva. Si comprende che il coniuge, che vive la solitudine di una alleanza spezzata, è chiamato a una forma di castità che non è semplice assenza di rapporti sessuali, ma fedeltà. Non semplice mortificazione, ma te­stimonianza concreta di un legame che non torna indietro.
Ho fatto questo discorso sul caso/limite non perché mi interessi in se stes­so, ma perché è come uno specchio in cui si può scorgere con chiarezza tutta particolare le note dell'amore quotidiano, l'anima profonda che sempre de­ve accompagnare l'amore, anche nella felice situazione di un matrimonio riu­scito.
La castità è una lettura escatologica dell'amore. Ciò significa che la solitu­dine che ogni uomo - anche nell'amicizia più profonda, anche nell'alleanza più riuscita - sperimenta, non va letta e vissuta come frustrazione, ma co­me nostalgia di una pienezza che solo Dío può dare. Comprendere in questo modo l'incompiutezza dell'amore è castità. Casto è chi non si illude, né pre­tende, di trovare tutto, ora, nell'amore che gli è donato. Egli ama profonda­mente, coraggiosamente, ma non esaspera il suo bisogno di amore, non lo trasforma in pretese assillanti e incontentabili, invadenti, né si illude di riem­pire il suo bisogno di pienezza cercando gratificazioni altrove, al di fuori del­l'alleanza che ha stretto, o al di fuori della vocazione che egli ha accolto.
Solo questo amore casto è un amore che raggiunge veramente la persona nella sua libertà: ama la persona, non ciò che essa può dare in cambio, né il progetto che essa si vuole costruire. Ama la persona comunque diventi, lasciandole la sua libertà, correndo il rischio della sua libertà.

La trasparenza più trasparente

Come segno del primato di Dio, della relativizzazione del mondo e di vero amore a Dio e al mondo, Gesù ha scelto il `segno' del celibato. È un segno che si colloca al cuore della vita e tocca il centro della persona. Un segno che si pone nella realtà più vera e più delicata dell'uomo, che è la sua forza di amare e la sua gioia di essere amato.
Per il credente il fatto che Gesù abbia scelto fra tutte il celibato, non è privo di significato, come non sono prive di significa­to le sue scelte di povertà, di non violenza e di Croce. Gesù ha certamente fatto le sue scelte non a caso, ma per svelare nel modo più trasparente possi­bile il volto di Dio e la verità dell'uomo: chi è Dio per l'uomo e chi è l'uomo davanti a Dio. Tanto più che - soprattutto per quanto riguarda il celibato - non si può parlare di scelta culturale, dettata o condizionata dai costumi del tempo. E stata, anzi, una scelta del tutto innovativa, contro il pensare comune. Per la sua scelta celibataria Gesù è stato probabilmente deriso, cer­to incompreso. La fede comune sosteneva, infatti, l'obbligo di sposarsi per obbedire al comandamento del Dio creatore: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gen 1,28).
Se Gesù ha scelto la verginità, è perché questa è una trasparenza, se così si può dire, più trasparente, dove il più' non dice necessariamente una su­periore perfezione (questione un poco discussa che non è qui il caso di ri­prendere), ma certo una modalità più radicale: quella, appunto, di lasciare trasparire Dio soltanto, nel modo più diretto possibile, senza porsi in mezzo.
E difatti la verginità è un modo di amare, tirandosi da parte. Chi sceglie la verginità sceglie di donarsi e di amare totalmente - di amare totalmente Dio e gli uomini -, ma al tempo stesso sceglie di tirarsi da parte. Di fronte a chi lo ama e vorrebbe porlo al centro, egli ricorda: non sono io il tuo cen­tro, ma Dio. E si tira da parte, perché chi lo ama si volga a Dio. E se qualcu­no vuole inserirsi nel centro della sua vita, quasi vantando una priorità nel suo amore, egli ricorda: non tu sei il centro della mia vita, ma Dio.
È così che la verginità esalta - con una luminosità tutta particolare - l'anima profonda, più vera, di ogni modo di amare, che è il rinvio a Dio.
La verginità è la trasparenza `più trasparente' del primato di Dio: un pri­mato che, come ci hanno suggerito le beatitudini, è totalità di appartenenza, concentrazione e definitività. Riconoscere il primato di Dio significa, anzi­tutto, comprendere che la verità dell'uomo è l'essere amato da Dio. E in que­sto amore che l'uomo ritrova se stesso. Ed è proprio della gioia di essere amati da Dio che la verginità è trasparenza e proclamazione. Come si fa tra­sparenza della nostalgia di Dio, esprimendola in una ricerca appassionata del suo volto, tanto appassionata da non concedersi distrazioni.

Qualche conclusione

L'ideale tracciato richiede l'accompagnamento della comunità e dei suoi te­stimoni. Non si vivono le beatitudini da soli, né lo sposato né il non sposato, ma in compagnia. E richiede la pazienza e la gradualità di un itinerario: per di più un itinerario mai concluso, né sempre lineare. Soprattutto richiede una continua crescita nella fede: proprio quella fede che sa che ciò che non è possibile all'uomo è possibile a Dio. L'uomo delle beatitudini è un uomo che ha il coraggio di osare, non ponendo però la fiducia in se stesso, bensì in Dio.
Ma anche se difficile o non ovvia, o proprio per questo, sono convinto che la proposta della purezza di cuore sia una carta vincente. L'uomo ha bi­sogno di tendere a un di più. Sta qui la sua verità. Le cose ovvie, le stesse novità a misura della sua immaginazione, non lo soddisfano. Appena le rag­giunge, sono subito vecchie. L'uomo si compie superandosi.
Ma termino ritornando all'idea iniziale, alla scommessa, cioè, da cui sia­mo partiti: la castità, in tutte le sue forme, non è semplice comandamento, è la lieta notizia. La castità, come tutte le altre esigenze della sequela, richiede distacco e ascesi, fatica e allenamento, una consuetudine conquistata giorno dopo giorno. E come ogni vera libertà esige concentrazione e fedeltà. E tutt­avia resta lieta notizia. Il centuplo promesso da Gesù non è là dove si fanno conti, ma dove la proposta evangelica splende nella sua interezza. Solo così si può comprendere - non teoricamente, ma concretamente, vivendo e sapendo che le esigenze del Vangelo conducono a una scoperta che tutto capovolge: non è il discepolo che dona se stesso a Dio, ma è Dio che si dona al discepolo; poi è il discepolo che dona le cose che lascia a Dio, ma è Dio che insegna al discepolo un nuovo modo di goderle.



Note



  1. E. Cattaneo, La religione a Milano nell’età di S. Ambrogio, Milano 1974
  2. Ambrogio, De poenitentia 1,61
  3. Ambrogio, In Lucam 8,73
  4. Silvano Cola, Padri della Chiesa, Profili, Città Nuova, Roma 1964
  5. Enchiridium patristicum, alla voce Agostino, De Heresibus, n.1975
  6. Enchiridium Patrsticum, Ambrogio, n. 1253
  7. Scritti del Card. Ildefonso Schuster, p.202, Varese 1959
  8. Ambrogio, De Officiis, I,19,83
  9. Ambrogio, Epistula 49,2
  10. Ambrogio, Epistula 69, 4 e 6
  11. Ambrogio di Milano, passi scelti a cura di G. Marchesi, Milano 1974
  12. Ambrogio di Milano, passi scelti a cura di G. Marchesi, Milano 1974
  13. E. Cattaneo, La Religione nell’età di Ambrogio, Milano 1974, p.66
  14. S. Agostino, discorso 304, in onore di S. Lorenzo
  15. Ambrogio, De officiis, 1, 17, Roma 1977
  16. Ambrogio, De Officiis, 1,18,72, Roma 1977
  17. Ambrogio, De Officiis, 1, 19,83s, Roma 1977
  18. Dizionario della Chiesa Ambrosiana, 1, p.117, Milano 1987
  19. Scritti del Card. Ildefonso Schuster, p.357, Varese 1959
  20. Cfr. Collana Storia Religiosa della Lombardia, Diocesi di Milano, vol.1, p.88ss
  21. A. Lucioni, L’età della pataria in Diocesi di Milano 1, p.170, Varese 1990