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giovedì 7 febbraio 2013

Le 7 armi per combattere il maligno







Le armi per combattere il maligno

di Annalisa Colzi



                                             Santa Caterina de’ Vigri, la 
santa caterina da boSanta di Bologna che ha la particolarità di stare seduta, ci ha lasciato in eredità un preziosissimo scritto dal titolo 
Le sette armi spirituali. Poche pagine in cui compendia l’arte della sopravvivenza contro le insidie del maligno per ottenere la vita eterna.
Sette sono le armi per difenderci dalle tentazioni del maligno, come sette sono i doni dello Spirito Santo. Numero che, biblicamente parlando, rappresenta la pienezza, la perfezione. Perfezione a cui sono chiamati tutti i battezzati: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). E questa perfezione la possiamo raggiungere, come ci ricorda la Santa di Bologna, attraverso un vero e proprio combattimento. Vediamo in dettaglio quali sono queste armi.
1- La diligenzacioè la sollecitudine del bene operare. Scrive la santa bolognese: «Compito dello Spirito Santo è suscitare in noi le buone ispirazioni, ma dovere nostro è accettarle e metterle in pratica, facendo continua violenza alle nostre passioni, che sempre ci spingono al contrario di quello che vuole lo Spirito». Satana ci pungola attraverso immagini, sensazioni, stimoli, a volte anche buoni, a lasciare la via per noi tracciata dallo Spirito Santo, per intraprendere altre vie.
Alla santità, invece, si arriva attraverso la realizzazione del disegno che Dio ha su ciascuna anima; ed ecco perché satana fa di tutto per distruggere questo progetto. Nostro compito è rimanere fedeli alla vocazione, qualunque essa sia, religiosa o familiare e portarla avanti con perseveranza anche di fronte alle difficoltà umane e spirituali.
2- La diffidenza di sé, cioè credere fermamente di non poter fare nulla di buono da se stessi. E’ questa una delle verità più trascurate dal mondo moderno. Quanti oggi sono soggetti a se stessi, al proprio giudizio? Quanti indietreggiano davanti agli elogi che il mondo fa loro? Al contrario si gonfiano di orgoglio credendosi onnipotenti. San Paolo, però, ci ricorda che: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19).
Solo la diffidenza di sé, il riconoscersi per quello che realmente si è ci conduce alla salvezza eterna. La vera umiltà consiste proprio in questo: nel riconoscere che Dio è tutto e noi siamo nulla, che Dio può tutto e noi non possiamo nulla, che Dio è il Creatore e noi sue creature. Senza umiltà non si entra in Paradiso.
3- La confidenza in Dio, cioè il credere con tutte le forze che Gesù mai abbandonerà l’anima. Nella malattia, nella sventura, nell’angoscia, nell’aridità, satana sibilerà: «Dove è il tuo Consolatore?». Subito l’anima deve rispondere con forza: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla» (Sal 22,1).
4- Memoria della passione e morte di Cristo Gesù, ovvero la contemplazione dell’amore infinito di Dio. La tentazione di superbia, che spesso alberga nel cuore umano, si infrangerà come un onda di fronte allo spettacolo della passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo. Satana non potrà sostenere lo sguardo interiore che l’anima rivolge a Colui che è stato trafitto e all’istante si allontanerà, lasciando il cuore e la mente libera dai pensieri di orgoglio.
5- Memoria della nostra morteovvero il ricordo del giorno in cui ci troveremo faccia a faccia con il Giudice. Nel momento in cui il nostro misero corpo esalerà l’ultimo respiro, cesserà anche la Misericordia di Dio. Quel Gesù che, come un mendicante aveva bussato ripetutamente alla porta del nostro cuore per potervi prendere dimora, alla fine della nostra vita terrena si ergerà come Giudice.
Questo ricordo deve spronare l’anima a compiere il bene; a mettere a servizio delle anime i talenti ricevuti; a vivere in questo mondo come se non gli appartenesse, perché, ci ricorda san Paolo: «Passa la scena di questo mondo!» (1Co 7,31).
6- Memoria del Paradiso, ovvero la contemplazione della infinita bellezza, della infinita sapienza, della infinità carità di Dio: Uno e Trino.
Il Creatore ha preparato per coloro che perseverano nella Verità, doni di inestimabile valore. Perle preziose di incommensurabile bellezza con cui adornerà il vincitore. La memoria di sì tanta soavità deve spronare l’anima a voler godere dei beni futuri e di non preoccuparsi eccessivamente dei beni terreni. Il salmista ci ricorda che «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 89,10). Il ricordo del Paradiso ci aiuti a vivere con pazienza tutte le avversità che il mondo presenta, per poter godere in eterno della bellezza infinita ed eterna.
7- Memoria della Sacra Scrittura. Leggere, meditare, assaporare ciò che Dio ha lasciato scritto ai suoi figli, è segno di grande saggezza e di sicura vittoria nelle tentazioni. Lo stesso Gesù, nelle tentazioni del deserto, rispose al demonio con le parole della Sacra Scrittura dicendo: «Sta scritto».
Santa Caterina raccomanda alle sue consorelle di «non lasciare andare a vuoto le quotidiane lezioni che si leggono in Coro e alla mensa; pensate anche che il Vangelo e le Epistole, che ogni giorno udite nella Messa, siano lettere mandate a voi dal vostro celeste Sposo e con grande e fervente amore riponetele nel vostro cuore».
Istruiti da Santa Caterina da Bologna, che di tentazioni se ne intendeva, visto le sue innumerevoli battaglie contro il maligno, non mi resta che augurarvi… buona battaglia.
Annalisa Colzi
Respice paupertatem meam, gloriosa Virgo: 
* miseriam, et angustiam meam ne tardes auferre.

lunedì 1 ottobre 2012

“Catholicorum magister”, “Mundi magister”, “Sacrae legis peritissimus”, “espertissimo della Legge Sacra” (cioè la Bibbia) ; “Il dottore sommo nell’esegesi scritturistica” .


SAN GIROLAMO:


AL SERVIZIO DELLA PAROLA DI DIO


È stato uno dei grandi personaggi del mondo occidentale. Uno di quegli uomini che hanno lasciato un’impronta su questa terra: hanno fatto cultura, sono stati punti di riferimento nei secoli per tante persone. Hanno fatto storia. Il loro lavoro vince l’usura del tempo che tutto divora e spesso tutto dimentica.


Ecco alcuni titoli che hanno dato a Girolamo i suoi contemporanei e i posteri:

“Catholicorum magister” (Cassiano); maestro non solo dei cattolici ma “Mundi magister” così Prospero d’Aquitania. “Sacrae legis peritissimus”, “espertissimo della Legge Sacra” (cioè la Bibbia) è la definizione di Sulpicio Severo. Erasmo da Rotterdam lo salutò come: “Principe dei teologi”.


Nel nostro secolo poi papa Benedetto XV, nel 1920, lo ha indicato come “il dottore sommo nell’esegesi scritturistica” proprio perché egli aveva messo ogni istante della sua vita al servizio della Sacra Scrittura “per raggiungere più compiutamente il senso della Parola di Dio”.



La festa liturgica di Girolamo santo viene celebrata il 30 settembre. Un particolare curioso e forse unico. È ricordato come un santo che vale per tutta la chiesa (non è un “locale” insomma), ma non fu mai dichiarato tale dalla Chiesa. Il motivo? Semplice. Aveva un caratteraccio poco... santo. Era impetuoso, collerico, incline alla polemica, poco paziente e tagliente nei giudizi. Concediamogli però un’attenuante: ha condotto una vita ascetica rigorosa, soffrendo non poco per numerose malattie. Girolamo riconosceva questo suo carattere poco conciliante e socievole. L’arte lo ha rappresentato magro mentre si batte il petto con una pietra, dicendo, come riferisce la tradizione: “Perdonami, Signore, perché sono Dalmata”. Era tuttavia molto stimato dagli uomini di cultura del suo tempo ed il popolo lo ha venerato come santo fin dal primo Medio Evo.

È di Girolamo la famosa frase: “Ignoratio Scripturarum, ignoratio Christi est”.
Non conoscere la Scrittura equivale a non conoscere Gesù Cristo. Non possiamo dire che c’è molta conoscenza della Scrittura tra i Cattolici, anche se, dopo il Vaticano II, è più avvertita l’importanza di questa conoscenza e c’è più impegno per studiarla.
Alla vigilia dell’anno giubilare del 2000, preparato dalla riflessione sui temi “teologici” del Figlio (1997), dello Spirito (1998), del Padre (1999), ricordando san Girolamo riproponiamo il problema della conoscenza della Parola di Dio, del suo studio, del “perdere tempo” su di essa, per essere in grado di conoscere il Cristo, centro della Scrittura. Non c’è vero amore per ciò che la nostra intelligenza ignora. L’amore cresce se cresce la conoscenza. Questo vale per l’esperienza umana ma anche per quella spirituale. Non c’è conoscenza e quindi amore di Cristo senza lo studio di lui nella Bibbia. È questo il suo profondo messaggio.

Girolamo nacque nel 342 a Stridone in Dalmazia. I genitori cattolici lo fecero studiare prima a Roma, poi andò a Treviri, infine ad Aquileia. Qui aderì ad una comunità di asceti, che si chiamava “Coro dei Beati”.
Presto risuonò forte in lui il richiamo dell’Oriente. Girolamo partì carico dei suoi amati autori classici. Vi rimase dal 373 al 381. Fece grandi amicizie, come quella con Evagrio e con Gregorio di Nazianzio che lo avviò alla conoscenza e traduzione di Origene e di altri autori.


Nel 382 iniziò per Girolamo il periodo romano: sarà breve ma decisivo per il resto della sua vita. A Roma infatti conobbe il papa Damaso e ne divenne segretario. Questi lo indirizzò con decisione e intelligenza all’attività biblica. Da quel momento Girolamo visse per la Scrittura, per la sua traduzione, per il commento di essa, per la predicazione e per l’iniziazione di altri alla sua comprensione e personalizzazione. La Parola di Dio sarà il punto di riferimento costante in tutta la sua attività. Nel 384 iniziò infatti a rivedere le antiche versioni dei vangeli e quindi dei salmi.


Per capire la Scrittura la chiave ermeneutica è Cristo

Questo suo lavoro aveva l’appoggio e l’incoraggiamento di Damaso. Ma questi morì nel dicembre di quell’anno. Le lotte di potere non sono state mai completamente assenti anche in àmbito ecclesiale. Dopo tutto la chiesa è fatta di uomini con le loro virtù e ahimè anche i loro difetti. Girolamo aveva fatto un pensierino alla cattedra di Pietro, ritenendosi non proprio indegno. Dal lato culturale certamente lo era: fu uno degli uomini più eruditi del suo tempo (insieme ad Agostino, che ammirava e col quale ebbe un’amicizia “dialettica”). Conosceva bene sei lingue, aveva una profonda conoscenza dei classici.
Gli mancavano, ahimè, gli appoggi politici che pesano, le conoscenze che contano, le frequentazioni giuste e mirate. Per la successione a Damaso ci furono forti tensioni tra il clero romano, anche contro “quel dalmata” considerato un outsider. Girolamo ne rimase deluso, e captato il vento contrario alla sua santa ambizione, decise per il secondo e definitivo ritorno in Oriente. Vi rimarrà fino alla morte (420).
Si stabilì a Betlemme fondandovi due monasteri, uno maschile e l’altro femminile. Tra i suoi meriti c’è anche quello di aver dato un impulso decisivo alla diffusione del monachesimo occidentale. Il suo lavoro principale ormai era la traduzione della Scrittura, iniziata per incarico del suo amico Damaso. Quest’opera verrà conosciuta come la Vulgata: questa avrà un influsso enorme sulla vita della Chiesa e sul clima culturale del tempo e anche dopo.
Sarà proprio la sua Vulgata il primo libro della storia ad essere stampato da Johannes Gutenberg l’inventore della stampa. Girolamo era convinto che il messaggio biblico ha come finalità tutto il genere umano e non solo “le sfaccendate scuole di filosofi”. Il filo unificatore di un serio studio della Scrittura o ascesi biblica è dato dalla chiave centrale di interpretazione che è Cristo: lo studio impegnato porterà ad una conoscenza amorosa di Cristo e alla sua sequela. Per Girolamo leggere il Libro non è come leggere un libro. Il lettore biblico deve avere cinque qualità: essere prudente, diligente, interessato, zelante, informato.


“La Bibbia è una mediazione tra Dio che rivolge la Parola e l’uomo che legge, a guisa di una lettera che gli è stata inviata: Girolamo risulta in questo il Padre della Chiesa che più spinge a leggerla... Il dialogo del lettore con le pagine bibliche si concretizza poi in un dialogo con Cristo, perché tutte le Scritture parlano di Lui. La Bibbia perciò è il luogo privilegiato di incontro con Cristo, è il grande sacramentum del Salvatore...” (V. Grossi).

Che eredità spirituale ci lascia Girolamo? Certamente il suo amore totale per la Parola di Dio. L’itinerario esistenziale e spirituale che egli visse, trovò nello studio alla Bibbia il filo unificante, la fonte e le radici stesse della sua santità. La sua immensa fatica nella traduzione della Bibbia non era altro che la prova concreta, quotidiana del suo immenso amore a Cristo: ogni fatica affrontata per Lui gli sembrava leggera. In questo suo lavoro non era certamente sorretto dalle prospettive di carriera o di guadagno. Solo Cristo e solo per Cristo.


Lo studio della Scrittura era pensato da Girolamo come una vera ascesi, cioè come autentico, serio, quotidiano impegno e sacrificio per Cristo e la sua causa. Così scriveva Girolamo del suo amico Nepoziano:

“Con l’assidua lettura della Scrittura e la quotidiana meditazione egli aveva reso il suo cuore una biblioteca di Cristo”.
Ai cristiani che talvolta si lamentano del “silenzio di Dio” nella loro vita, San Girolamo ricorda una verità fondamentale:
“Quando preghi tu parli allo sposo. Quando leggi la Scrittura è Lui che ti parla”.
Dipende da noi lasciarlo parlare.


MARIO SCUDU sdb ***


*** Questo e altri 120 santi e sante sono nel volume di :
MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice ELLEDICI, 2011



“Ignoratio Scripturarum, 
ignoratio Christi est”.

sabato 17 marzo 2012

7Q5 - Il frammento di Qumran --Marco 6,52-53--


di Qumran


Varie
Tratto dal sito di Davide Borzaghi (che ringrazio)

Il Fatto
Un giorno di primavera del 1947 un ragazzo beduino di una banda di contrabbandieri chiamato Muhammed, il lupo, alla ricerca di una capra perduta sulle rupi ad Ovest del Mar Morto, nota l'entrata di una caverna mai vista prima. Dentro scopre delle antiche giare con lunghi rotoli manoscritti. Seguì negli anni, la scoperta di altre undici grotte vicine e tutte con manoscritti, erano i resti dell'insediamento monastico degli Esseni a Qumran, una corrente dell'ebraismo poco conosciuta se non per gli accenni tramandati dallo storico Giuseppe Flavio e dal filosofo Filone.
Il monastero di Qumran fu abbandonato di fronte alle armate romane di Vespasiano in marcia verso Gerusalemme nel 68 d.C.
Tutte le grotte contenevano scritti in ebraico e aramaico eccetto la grotta 7 dove nel 1955 vennero scoperti 19 frammenti scritti in greco.

Lo Scoop
Il frammento numero 5, che conteneva alla quarta riga le lettere -nnes- fece pensare alla parola egennesen (generare) tipica delle sezioni genealogiche dell'Antico Testamento (AT). Nessun passo dell'AT venne trovato corrispondente mentre da parte sua il papirologo britannico Colin H Roberts, in base a criteri scientifici di datazione della scrittura, collocò questo frammento non oltre il 50 d.C.

Tutte le autorità scientifiche escludevano a priori che potesse trattarsi di un frammento dei Vangeli.
Era ed è infatti universalmente stabilito che i tre sinottici (Matteo, Marco e Luca) siano stati scritti fra il 70 e il 100 d.C. Attorno al 1971, un esperto di papirologia greca, il gesuita José O' Callaghan riprese a verificare tutto il vecchio Testamento ma senza nessun risultato.

Solo alla fine, quasi per curiosità ha un'intuizione: e se quel -nnes- fosse Gennesaret (il nome di una città della Palestina)? O' Callaghan strabiliò: il frammento 7Q5 (grotta 7 di Qumran - frammento 5) concorda perfettamente, secondo tutti i criteri sticometrici (lo studio della lunghezza delle lettere e dei righi nella paleografia) con Marco 6,52-53 "Poiché non avevano capito il fatto dei pani e il loro cuore era indurito. E quando ebbero compiuto la traversata verso terra, vennero a Gerusalemme e approdarono." Per il povero gesuita spagnolo iniziò un vero e proprio calvario di critiche arrivando persino ad essere pesantemente apostrofato da molti confratelli della Chiesa stessa.


Un dibattito di oltre 20 anni
Da quel lontano 1972 in cui O' Callaghan propose al mondo accademico la sua scoperta, tutto venne messo a tacere per oltre 20 anni. Solo nel 1991 grazie agli interventi de "Il Sabato", settimanale di Comunione e Liberazione e del mensile internazionale "30 giorni" si poté riaprire il dibattito fra "addetti ai lavori" sia laici che ecclesiastici. Da allora, un numeroso stuolo di "gente comune tra cui chi scrive può seguire con la suspance di un giallo uno dei più discussi dibattiti sull'origine dei Vangeli.
Dal 1991 al 1994 i dibattiti fra accademici nelle sedi universitarie, nei simposi e sulle riviste specializzate continuavano a raccogliere sempre più adesioni internazionali al "caso" O' Callaghan fra i quali Orsolina Montevecchi, "la grande signora" della papirologia mondiale docente emerita all' Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano che in una intervista, in tutta la sua autorevolezza ebbe a commentare:
"...non si può più dubitare che il 7Q5 sia veramente Marco 6,52-53". 


Molti invece, e ci spiace dirlo, "luminari" di seminari cattolici e docenti di esegesi continuavano e continuano tuttora a negare i dati di una scientificità internazionalmente riconosciuta nei metodi e nei risultati solo perché accettare l'ipotesi di una retrodatazione dei Vangeli equivarrebbe perdere quella "saccenza" intrisa di teologia liberale che da oltre due secoli monopolizza, e spesso a caro prezzo, i più "famosi" nomi del panorama cattolico di questo secolo.

Basti pensare agli acidi e sbrigativi interventi di Monsignore Gianfranco Ravasi, il "teologo" di Famiglia Cristiana, prefetto della Biblioteca Ambrosiana recentemente riaperta dopo lunghi anni di restauri che continuò per oltre 17 anni a confondere quelle "poche lettere ebraiche" come sempre si espresse nei confronti del 7Q5 con le reali lettere greche di cui si compone il tanto discusso frammento. Biasimo e sdegno verso manifesti preconcetti a-scientifici che portò una studentessa di Casorate Primo (PV), Emanuela Rovaris, a concludere una lettera all'illustre esegeta (Ravasi del resto non è ne un papirologo ne un paleografo!!) con queste parole: "...Ma che addirittura si confondano lettere greche, come sono quelle del frammento 7Q5 con lettere ebraiche è forse troppo! Anche la scientificità può diventare un mito contrabbandato con troppa leggerezza."

Il perché di tanti ciechi rifiuti è facilmente intuibile.

Ammettere un periodo di formazione dei Vangeli a ridosso degli eventi significa escludere ogni possibilità di formazioni mitologiche e fantastiche così care alla teologia protestante del famoso teologo luterano tedesco Rudolf Bultmann che con un metodo storico-critico in parte deviato nel 1941 pubblicava il suo "manifesto della demitizzazione delle scritture cristiane" con il titolo di Newes Testament und Mythologie. Bultmann era convinto che per cercare di sopravvivere nel mondo moderno, i Vangeli dovevano lasciarsi stendere sul lettino dello specialista in grado di "demitizzarlo" ridandogli diritto di cittadinanza agli occhi dell'uomo secolarizzato. Occorreva allora purificare i Vangeli da tutti quei miti che lo incrostavano (miracoli, profezie, angeli, demoni ed esorcismi) e dichiarare cioè che non vi è nessun rapporto tra il Nuovo Testamento e la storia, tra ciò che si racconta e ciò che è successo, tra l'oscuro "Gesù della storia" e lo sfolgorante "Cristo della fede".
DF

Ad enfatizzare il dibattito in sede interdisciplinare fu il professor Carstern Peter Thiede membro dell'associazione internazionale di papirologia (A.I.P) e direttore dell'istituto per la ricerca epistemologica a Paderbon che ha pubblicato un minuzioso studio a sostegno di O' Callaghan "Il più antico manoscritto dei Vangeli" edito dall'Istituto biblico in cui viene mostrata la gravità delle tesi preconcette di molti "studiosi" basti pensare che neppure dopo le dettagliate analisi della scientifica di Gerusalemme che dimostrano una volte per tutte l'annoso problema della lettera "nu" ritenuta impossibile dagli oppositori di O'Callaghan; ancora oggi c'è chi dibatte sul 7Q5 vantando la propria scientificità ignorando o meglio, facendo finta di ignorare i pertinenti risultati delle analisi condotte con il microscopio a scansione laser confocale epifluorescente sviluppato da George Masuch e Thiede per l'analisi stratigrafica e tridimensionale di antichi papiri come è stato fatto da Flavio Dalla Vecchia nel suo "Ridatare i vangeli?" edito da Queriniana con la prefazione di Giuseppe Segalla nel 1997 dove il docente di esegesi dell'Italia settentrionale riporta nei suoi interventi articoli di O' Callaghan e di Thiede rispettivamente del 1972 e del 1984 escludendo (chissà se in buona fede o se per abissale ignoranza pretestuosa) tutti i recenti sviluppi dal 1991 al 1996. Ignora completamente inoltre la definitiva dimostrazione del problema della "nu" nella riga 2 data da Herbert Hunger, uno dei maggiori papirologi del nostro tempo che concludeva al simposio di Eichstatt con la prova definitiva che il 7Q5 è Marco 6,52-53. Sul 7Q5 restano certamente "questioni aperte" come del resto non si è ancora sufficientemente dibattuto "alla luce del sole" le ipotesi di un altro celeberrimo studioso, padre Carmignac, anche egli esposto agli strali dei "baroni della teologia" per aver portato avanti con dedizione e fermezza il problema del sustrato aramaico dei Vangeli, ulteriore prova che i fatti narrati nei quattro libretti erano stati redatti a ridosso degli eventi addirittura in lingua semitica. Ma i documenti del pretino cattolico dopo la sua morte sono mantenuti sotto riserbo sino al 2016 presso l'Istitut Catholique di Parigi. Da praticante cattolico per anni catechista parrocchiale posso solo discostarmi da un atteggiamento altezzoso e retrogrado come spesso mostrato da illustri personaggi del mio stesso credo. Auspico per gli anni a venire un'apertura di mente e di cuore per chi ancora nella Chiesa, Corpo Mistico del Cristo risorto, teme la ricerca della verità in ogni sua dimensione.


AMDG et BVM