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lunedì 4 novembre 2013

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI









MESSAGGIO DEL SANTO PADRE ALL’ARCIVESCOVO DI MILANO IN OCCASIONE DEL IV CENTENARIO DELLA CANONIZZAZIONE DI SAN CARLO BORROMEO, 04.11.2010



Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato all’Arcivescovo di Milano, Em.mo Card. Dionigi Tettamanzi, in occasione della celebrazione del IV Centenario della Canonizzazione di San Carlo Borromeo:


MESSAGGIO DEL 
SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Al venerato Fratello
Cardinale DIONIGI TETTAMANZI
Arcivescovo di Milano

Lumen caritatis. La luce della carità di san Carlo Borromeo ha illuminato tutta la Chiesa e, rinnovando i prodigi dell’amore di Cristo, nostro Sommo ed Eterno Pastore, ha portato nuova vita e nuova giovinezza al gregge di Dio, che attraversava tempi dolorosi e difficili. Per questo mi unisco con tutto il cuore alla gioia dell’Arcidiocesi ambrosiana nel commemorare il quarto centenario della canonizzazione di questo grande Pastore, avvenuta il 1° novembre 1610.

1. L’epoca in cui visse Carlo Borromeo fu assai delicata per la Cristianità. In essa l’Arcivescovo di Milano diede un esempio splendido di che cosa significhi operare per la riforma della Chiesa. Molti erano i disordini da sanzionare, molti gli errori da correggere, molte le strutture da rinnovare; e tuttavia san Carlo si adoperò per una profonda riforma della Chiesa, iniziando dalla propria vita. È nei confronti di se stesso, infatti, che il giovane Borromeo promosse la prima e più radicale opera di rinnovamento. La sua carriera era avviata in modo promettente secondo i canoni di allora: per il figlio cadetto della nobile famiglia Borromeo si prospettava un futuro di agi e di successi, una vita ecclesiastica ricca di onori, ma priva di incombenze ministeriali; a ciò si aggiungeva anche la possibilità di assumere la guida della famiglia dopo la morte improvvisa del fratello Federico.

Eppure, Carlo Borromeo, illuminato dalla Grazia, fu attento alla chiamata con cui il Signore lo attirava a sé e lo voleva consacrare al servizio del suo popolo. Così fu capace di operare un distacco netto ed eroico dagli stili di vita che erano caratteristici della sua dignità mondana, e di dedicare tutto se stesso al servizio di Dio e della Chiesa. In tempi oscurati da numerose prove per la Comunità cristiana, con divisioni e confusioni dottrinali, con l’annebbiamento della purezza della fede e dei costumi e con il cattivo esempio di vari sacri ministri, Carlo Borromeo non si limitò a deplorare o a condannare, né semplicemente ad auspicare l’altrui cambiamento, ma iniziò a riformare la sua propria vita, che, abbandonate le ricchezze e le comodità, divenne ricolma di preghiera, di penitenza e di amorevole dedizione al suo popolo. San Carlo visse in maniera eroica le virtù evangeliche della povertà, dell’umiltà e della castità, in un continuo cammino di purificazione ascetica e di perfezione cristiana.

Egli era consapevole che una seria e credibile riforma doveva cominciare proprio dai Pastori, affinché avesse effetti benefici e duraturi sull’intero Popolo di Dio. In tale azione di riforma seppe attingere alle sorgenti tradizionali e sempre vive della santità della Chiesa cattolica: la centralità dell’Eucaristia, nella quale riconobbe e ripropose la presenza adorabile del Signore Gesù e del suo Sacrificio d’amore per la nostra salvezza; la spiritualità della Croce, come forza rinnovatrice, capace di ispirare l’esercizio quotidiano delle virtù evangeliche; l’assidua frequenza ai Sacramenti, nei quali accogliere con fede l’azione stessa di Cristo che salva e purifica la sua Chiesa; la Parola di Dio, meditata, letta e interpretata nell’alveo della Tradizione; l’amore e la devozione per il Sommo Pontefice, nell’obbedienza pronta e filiale alle sue indicazioni, come garanzia di vera e piena comunione ecclesiale.

Dalla sua vita santa e conformata sempre più a Cristo nasce anche la straordinaria opera di riforma che san Carlo attuò nelle strutture della Chiesa, in totale fedeltà al mandato del Concilio di Trento. Mirabile fu la sua opera di guida del Popolo di Dio, di meticoloso legislatore, di geniale organizzatore. Tutto questo, però, traeva forza e fecondità dall’impegno personale di penitenza e di santità. In ogni tempo, infatti, è questa l’esigenza primaria e più urgente nella Chiesa: che ogni suo membro si converta a Dio. 

Anche ai nostri giorni non mancano alla Comunità ecclesiale prove e sofferenze, ed essa si mostra bisognosa di purificazione e di riforma. L’esempio di san Carlo ci sproni a partire sempre da un serio impegno di conversione personale e comunitaria, a trasformare i cuori, credendo con ferma certezza nella potenza della preghiera e della penitenza. 

Incoraggio in modo particolare i sacri ministri, presbiteri e diaconi, a fare della loro vita un coraggioso cammino di santità, a non temere l’ebbrezza di quell’amore fiducioso a Cristo per cui il Vescovo Carlo fu disposto a dimenticare se stesso e a lasciare ogni cosa. Cari fratelli nel ministero, la Chiesa ambrosiana possa trovare sempre in voi una fede limpida e una vita sobria e pura, che rinnovino l’ardore apostolico che fu di sant’Ambrogio, di san Carlo e di tanti vostri santi Pastori!

2. Durante l’episcopato di san Carlo, tutta la sua vasta Diocesi si sentì contagiata da una corrente di santità che si propagò al popolo intero. In che modo questo Vescovo, così esigente e rigoroso, riuscì ad affascinare e conquistare il popolo cristiano? È facile rispondere: san Carlo lo illuminò e lo trascinò con l’ardore della sua carità. "Deus caritas est", e dove c’è l’esperienza viva dell’amore, lì si rivela il volto profondo di Dio che ci attira e ci fa suoi.

Quella di san Carlo Borromeo fu anzitutto la carità del Buon Pastore, che è disposto a donare totalmente la propria vita per il gregge affidato alle sue cure, anteponendo le esigenze e i doveri del ministero ad ogni forma di interesse personale, comodità o tornaconto. Così l’Arcivescovo di Milano, fedele alle indicazioni tridentine, visitò più volte l’immensa Diocesi fin nei luoghi più remoti, si prese cura del suo popolo nutrendolo continuamente con i Sacramenti e con la Parola di Dio, mediante una ricca ed efficace predicazione; non ebbe mai timore di affrontare avversità e pericoli per difendere la fede dei semplici e i diritti dei poveri.

San Carlo fu riconosciuto, poi, come vero padre amorevole dei poveri. La carità lo spinse a spogliare la sua stessa casa e a donare i suoi stessi beni per provvedere agli indigenti, per sostenere gli affamati, per vestire e dare sollievo ai malati. Fondò istituzioni finalizzate all’assistenza e al recupero delle persone bisognose; ma la sua carità verso i poveri e i sofferenti rifulse in modo straordinario durante la peste del 1576, quando il santo Arcivescovo volle rimanere in mezzo al suo popolo, per incoraggiarlo, per servirlo e per difenderlo con le armi della preghiera, della penitenza e dell’amore.

La carità, inoltre, spinse il Borromeo a farsi autentico e intraprendente educatore. Lo fu per il suo popolo con le scuole della dottrina cristiana. Lo fu per il clero con l’istituzione dei seminari. Lo fu per i bambini e i giovani con particolari iniziative loro rivolte e con l’incoraggiamento a fondare congregazioni religiose e confraternite laicali dedite alla formazione dell’infanzia e della gioventù.

Sempre la carità fu la motivazione profonda delle asprezze con cui san Carlo viveva il digiuno, la penitenza e la mortificazione. Per il santo Vescovo non si trattava solo di pratiche ascetiche rivolte alla propria perfezione spirituale, ma di un vero strumento di ministero per espiare le colpe, invocare la conversione dei peccatori e intercedere per i bisogni dei suoi figli.

In tutta la sua esistenza possiamo dunque contemplare la luce della carità evangelica, la carità longanime, paziente e forte che "tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta" (1Cor 13,7). Rendo grazie a Dio perché la Chiesa di Milano è sempre stata ricca di vocazioni particolarmente consacrate alla carità; lodo il Signore per gli splendidi frutti di amore ai poveri, di servizio ai sofferenti e di attenzione ai giovani di cui può andare fiera. L’esempio e la preghiera di san Carlo vi ottengano di essere fedeli a questa eredità, così che ogni battezzato sappia vivere nella società odierna quella profezia affascinante che è, in ogni epoca, la carità di Cristo vivente in noi.

3. Non si potrebbe comprendere, però, la carità di san Carlo Borromeo se non si conoscesse il suo rapporto di amore appassionato con il Signore Gesù. Questo amore egli lo ha contemplato nei santi misteri dell’Eucaristia e della Croce, venerati in strettissima unione con il mistero della Chiesa. L’Eucaristia e il Crocifisso hanno immerso san Carlo nella carità di Cristo, e questa ha trasfigurato e acceso di ardore tutta la sua vita, ha riempito le notti passate in preghiera, ha animato ogni sua azione, ha ispirato le solenni liturgie celebrate con il popolo, ha commosso il suo animo fino a indurlo sovente alle lacrime.

Lo sguardo contemplativo al santo Mistero dell’Altare e al Crocifisso risvegliava in lui sentimenti di compassione per le miserie degli uomini e accendeva nel suo cuore l’ansia apostolica di portare a tutti l’annuncio evangelico. D’altra parte, ben sappiamo che non c’è missione nella Chiesa che non sgorghi dal "rimanere" nell’amore del Signore Gesù, reso presente a noi nel Sacrificio eucaristico. Mettiamoci alla scuola di questo grande Mistero! Facciamo dell’Eucaristia il vero centro delle nostre comunità e lasciamoci educare e plasmare da questo abisso di carità! Ogni opera apostolica e caritativa prenderà vigore e fecondità da questa sorgente!

4. La splendida figura di san Carlo mi suggerisce un’ultima riflessione rivolta, in particolare, ai giovani. La storia di questo grande Vescovo, infatti, è tutta decisa da alcuni coraggiosi "sì" pronunciati quando era ancora molto giovane. A soli 24 anni egli prese la decisione di rinunciare a guidare la famiglia per rispondere con generosità alla chiamata del Signore; l’anno successivo accolse come una vera missione divina l’ordinazione sacerdotale e quella episcopale. A 27 anni prese possesso della Diocesi ambrosiana e dedicò tutto se stesso al ministero pastorale. Negli anni della sua giovinezza, san Carlo comprese che la santità era possibile e che la conversione della sua vita poteva vincere ogni abitudine avversa. Così egli fece della sua giovinezza un dono d’amore a Cristo e alla Chiesa, diventando un gigante della santità di tutti i tempi.

Cari giovani, lasciate che vi rinnovi questo appello che mi sta molto a cuore: Dio vi vuole santi, perché vi conosce nel profondo e vi ama di un amore che supera ogni umana comprensione. Dio sa che cosa c’è nel vostro cuore e attende di vedere fiorire e fruttificare quel meraviglioso dono che ha posto in voi. Come san Carlo, anche voi potete fare della vostra giovinezza un’offerta a Cristo e ai fratelli. Come lui, potete decidere, in questa stagione della vostra vita, di "scommettere" su Dio e sul Vangelo. Voi, cari giovani, non siete solo la speranza della Chiesa; voi fate già parte del suo presente! E se avrete l’audacia di credere alla santità, sarete il tesoro più grande della vostra Chiesa ambrosiana, che si è edificata sui Santi.

Con gioia Le affido, venerato Fratello, queste riflessioni, e, mentre invoco la celeste intercessione di san Carlo Borromeo e la costante protezione di Maria Santissima, di cuore imparto a Lei e all’intera Arcidiocesi una speciale Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 1° novembre 2010, IV Centenario della Canonizzazione di san Carlo Borromeo.

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana


giovedì 31 ottobre 2013

AMORE PER LA POVERTÀ.



CAPITOLO VII

AMORE PER LA POVERTÀ.
MIRABILI INTERVENTI NEI CASI Dl NECESSITÀ

1. Tra gli altri doni e carismi che il generoso Datore concesse a Francesco, vi fu un privilegio singolare: quello di crescere nelle ricchezze della semplicità attraverso l'amore per l'altissima povertà.
Il Santo, notando come la povertà, che era stata intima amica del Figlio di Dio, ormai veniva ripudiata da quasi tutto il mondo, volle farla sua sposa, amandola di eterno amore, e per lei non soltanto lasciò il padre e la madre, ma generosamente distribuì tutto quanto poteva avere.
Nessuno fu così avido d'oro, quanto Francesco della povertà; nessuno fu più bramoso di tesori, quanto Francesco di questa perla evangelica.

Niente offendeva il suo occhio più di questo: vedere nei frati qualche cosa che non fosse del tutto in armonia con la povertà.
Quanto a lui, dall'inizio della sua vita religiosa fino alla morte, ebbe queste ricchezze: una tonaca, una cordicella e le mutande; e di questo fu contento.
Spesso richiamava alla mente, piangendo, la povertà di Gesù Cristo e della Madre sua, e affermava che questa è la regina delle virtù, perché la si vede brillare così fulgidamente, più di tutte le altre, nel Re dei Re e nella Regina sua Madre.

Anche quando i frati, in Capitolo, gli domandarono qual è la virtù che, più delle altre, rende amici di Cristo, rispose, quasi aprendo il segreto del suo cuore: «Sappiate, fratelli, che la povertà è una via straordinaria di salvezza, giacché è alimento dell'umiltà, radice della perfezione. Molteplici sono i suoi frutti, benché nascosti. Difatti essa è il tesoro nascosto nel campo del Vangelo: per comprarlo, si deve vendere tutto e, in confronto ad esso, si deve disprezzare tutto quello che non si può vendere».



2. «Chi brama raggiungere il vertice della povertà - disse - deve rinunciare non solo alla prudenza mondana, ma anche, in certo qual modo, al privilegio dell'istruzione, affinché, espropriato di questo possesso, possa entrare nella potenza del Signore e offrirsi, nudo, nelle braccia del Crocifisso. In nessun modo, infatti, rinuncia perfettamente al mondo colui che conserva nell'intimo del cuore lo scrigno dell'amor proprio».

Spesso, poi, discorrendo della povertà, applicava ai frati quell'espressione del Vangelo: Le volpi hanno le tane e gli uccelli del cielo hanno il nido; ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo.
Per questo motivo ammaestrava i frati a costruirsi casupole poverelle, alla maniera dei poveri, ad abitare in esse non come in casa propria, ma come in case altrui, da pellegrini e forestieri.
Diceva che il codice dei pellegrini è questo: raccogliersi sotto il tetto altrui, sentir sete della patria, passar via in pace.

Dava ordine, talvolta, ai frati di demolire le case che avevano costruite o di lasciarle, quando notava in esse qualcosa che, o quanto alla proprietà o quanto al lusso, urtava contro la povertà evangelica.
Diceva che la povertà è il fondamento del suo Ordine, la base principale su cui poggia tutto l'edificio della sua Religione, in modo tale che, se essa è solida, tutto l'Ordine è solido; se essa si sfalda, tutto l'Ordine crolla.




3. Insegnava, avendolo appreso per rivelazione, che il primo passo nella santa religione consiste nel realizzare quella parola del Vangelo: Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri.
Perciò ammetteva all'Ordine solo chi aveva rinunciato alla proprietà e non aveva tenuto assolutamente nulla per sé. Così faceva, in omaggio alla parola del Vangelo, ma anche per evitare lo scandalo delle borse private.


Un tale della Marca Anconitana gli chiese di accettarlo nell'Ordine e il vero patriarca dei poveri gli rispose: «Se vuoi unirti ai poveri di Cristo, distribuisci le cose tue ai poveri del mondo».
Ciò udito, quello se ne andò e, guidato dall'amor carnale, donò i suoi beni ai suoi parenti, e niente ai poveri.
Quando il Santo sentì da lui quel che aveva fatto, lo trafisse con questo duro rimprovero: «Va' per la tua strada, frate mosca, perché non sei ancora uscito dalla tua casa e dalla tua parentela. Hai dato le cose tue ai tuoi consanguinei e hai defraudato i poveri: non sei degno di appartenere ai poveri di elezione. Hai incominciato dalla carne; hai messo al tuo edificio spirituale un fondamento rovinoso».
Quell'uomo animale ritornò dai suoi, reclamò le cose sue e non volendo lasciarle ai poveri, abbandonò ben presto il proposito di darsi alla virtù.

MATER BONI CONSILII
ORA PRO NOBIS

giovedì 3 ottobre 2013

4 ottobre: SERAFICO PADRE SAN FRANCESCO D'ASSISI, Patrono d'Italia



4 OTTOBRE
SAN FRANCESCO D'ASSISI,  CONFESSORE


La conformazione a Cristo.
Nella lettera ai Romani l'Apostolo san Paolo ci dà la regola di ogni santità con le parole: "Quos praescivit et praedestinavit conformes fieri imagines Filii sui..." (Rom 8,29). Conformarci al divino modello, che si chiama Gesù.. È la conformità al Figlio di Dio, acquistata con la virtù, che fa i santi.

Celebriamo oggi un Santo, che fu copia ammirabile di Cristo Gesù, che il Sommo Pontefice Leone XIII chiama il più bello dei santi, che Papa Pio XI ci presenta come il santo che pare aver meglio compreso il Vangelo e conformata la vita al divino modello.
San Francesco infatti è un altro Cristo. Ha cercato Cristo, lo ha seguito, lo ha amato, lo ha dato agli altri, Cristo Gesù è tutta la sua vita. Non ci fermiamo sulle tradizioni graziose che vogliono che Francesco sia nato in una stalla, come Gesù, e su un poco di paglia; noi lo vediamo, giovane, arrestarsi improvvisamente in mezzo ai suoi sogni di piaceri e di feste, mentre pensa ad imprese cavalleresche, perché il Cristo di S. Damiano gli parla: "Francesco, che cosa vale di più? Servire il padrone o il servitore?". Francesco è affascinato da queste parole, comincia una vita nuova, apre il Vangelo e vi cerca Cristo cui consacrarsi interamente.
 
Amore del Vangelo.
Egli fa del Vangelo il suo nutrimento e, trovandovi una celeste soavità, esclama: "Ecco quello che da molto tempo cercavo!". Il Vangelo è suo sostegno, sua consolazione, rimedio a tutte le sofferenze, nelle prove non vuole altro conforto e un giorno dirà ai suoi frati: "Sono saturo di Vangelo, sono pieno di Vangelo". Il Vangelo diventa sua vita e quando vuole dare ai suoi frati una regola, scrive nelle prime pagine: "La regola e la vita dei Frati Minori è questa: osservare il santo Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo".
Povertà.
Ma il Vangelo è la storia dell'abbassamento del Figlio di Dio fino a noi e del suo amore per le nostre anime, è il Cristo povero, umile, piccolo, compassionevole e misericordioso, il Cristo Apostolo, il Cristo che ci ama e muore per noi. San Francesco, che lo ha scelto come regola di vita, lo vive alla lettera. Sull’esempio di Gesù, egli abbraccia la povertà e, davanti al Vescovo di Assisi si spoglia delle sue vesti, le restituisce al padre dicendo: "Adesso potrò veramente dire: Padre nostro, che sei nei cieli". E comincia la sua vita di povertà, povertà gioiosa e tutta piena di sole, non la povertà gelosa e afflitta, che troppo spesso vediamo nel mondo, povertà volontaria e amata. Va a tendere la sua mano delicata per le vie di Assisi ed è respinto come se fosse un pazzo, ma resta l'amante della povertà e, al momento della morte, è sua consolazione suprema essere stato fedele a "Madonna Povertà".
 
Umiltà.
Il Vangelo è Gesù Cristo umile e piccolo: parvus Dominus, il Grande piccolo Gesù, come lo chiama san Francesco. Egli medita questo insegnamento e si fa "l’umile Francesco", come lo chiamo l'autore dell'Imitazione. Si considera l'ultimo degli uomini, il più vile peccatore, e soffrire, essere disprezzato è per lui gioia perfetta e dà ai suoi figli il nome di Minori, cioè piccoli.
 
Misericordia.
Il Vangelo è Gesù Cristo compassionevole e misericordioso e, sul suo esempio, il cuore di Francesco è tutto pieno di misericordia. San Bonaventura, scrivendo la sua vita, ci dice: "La benignità, la bontà del nostro Salvatore Gesù Cristo è apparsa nel suo servo Francesco". Egli stesso, all'inizio del suo testamento, scrive: "Il Signore mi fece la grazia di cominciare a fare penitenza, perché quando ero nel peccato mi sembrava troppo amaro vedere dei lebbrosi, ma fui verso di loro misericordioso e quello che mi pareva amaro diventò per me dolcezza dell'anima e del corpo".
Francesco era misericordioso verso tutti i miseri e alla Tribuna del Parlamento italiano gli fu resa questa testimonianza: "Se san Francesco di Assisi non ha fondato istituzioni di carità, ha versato nel mondo tale una corrente di carità, che dopo sette secoli, nessuna opera di carità è stata fondata senza che egli ne sia stato ispiratore".
 
Apostolato.
Il Vangelo è Gesù Cristo apostolo. Egli è venuto perché gli uomini sentissero la parola di vita e con quale amore lascia cadere dal suo labbro le sue intenzioni divine! E Francesco, sulle orme di Cristo, si fa apostolo, traccia nell'aria il segno della Croce e manda i suoi discepoli ai quattro angoli del mondo. Egli ha capito bene le parole di Gesù: "Andate e insegnate a tutte le nazioni". Primo fra tutti i fondatori di Ordini moderni, manda i suoi figli nelle regioni infedeli e quando, dopo qualche mese, viene a sapere che cinque di essi hanno colto, nel Marocco, la palma del martirio, esclama con gioia: "Finalmente ho dei Vescovi!" I suoi vescovi erano i martiri. Dopo aver fondata l'opera sua, non sogna per sé che di offrire a Gesù la testimonianza del sangue e tre volte passa i mari, va a predicare Cristo fino alla presenza del Sultano infedele, ma Dio gli riserva un altro martirio per il giorno in cui gli manderà un Angelo a incidergli nelle sue carni le piaghe del divino Crocifisso.
 
Il dono di sé.
Il Vangelo è Gesù, che si dona e si immola e, come Gesù, Francesco si dona a sua volta. "Questo povero, piccolo uomo, dice san Bonaventura, non aveva che due cosa da offrire: il suo corpo e la sua anima". Dona a Dio il suo corpo con la penitenza e sappiamo come egli trattasse il suo corpo. Aveva diviso l'anno in nove quaresime successive, si contentava di pane secco e si rifiutava anche l'acqua necessaria alla sua sete, per non cedere alla sua sensualità. Era suo letto la terra nuda, suo cuscino un tronco di quercia e, tormentato spesso da malattie, ringraziava il Signore perché non lo risparmiava. Chiedeva a Dio di soffrire cento volte di più, se era sua volontà. Dava poi a Dio la sua anima con la preghiera e con lo zelo.
Ma san Francesco non è soltanto discepolo fedele di Cristo, perché copia la vita e le virtù del Maestro, ma è soprattutto il Santo dell'amore serafico. Egli è entrato nel Cuore di Gesù, ha compreso il Cuore di Gesù e gli rende amore per amore.
 
Amore dell’Eucaristia.
Con l'amore del Vangelo, un altro amore consuma il cuore di Francesco: l'amore dell'Eucaristia! Il mistero eucaristico era fatto apposta per  attirare la sua anima serafica! Un Dio disceso dal cielo per salvarci, fattosi carne in forma umana e morto sul Calvario come un delinquente, si abbassa ancora fino a prendere la forma di una piccola ostia, per unirsi a noi e farsi nostro cibo; un Dio, che, dopo la follia della Croce, giunge alla follia dell'Eucaristia e sta imprigionato nel tabernacolo, per attenderci e per riceverci, è un mistero ineffabile, che desta l'ammirazione delle anime amanti. Francesco, il grande amante del Vangelo, in cui trovava la parola vivente ed eterna di Gesù, il grande amante della Croce, in cui vede l'amore sacrificato, ama pure l'ostia dove è l'amore vivente, l'amore che si dona, l'amore che attira e trasforma le anime generose e pure! Per l'ostia egli corre a riparare i tabernacoli, per l'ostia va per le campagne a ripulire e ornare le chiese povere e abbandonate, per l'ostia dimentica la povertà e manda i frati a disporre sugli altari vasi d'oro e d'argento, per l'ostia si prostra lungo la via, quando vede spuntare la guglia di un campanile e passa ore davanti al tabernacolo, tremante per il freddo, in adorazione e in amore. Fa celebrare la Messa tutti i giorni e con fervore si comunica tutti i giorni.
In un'epoca in cui spesso il sacerdozio è avvilito, ricorda ai sacerdoti la loro grandezza. "Il vedo in essi il Figlio di Dio" e si mette in ginocchio davanti al sacerdote, e gli bacia le mani. Egli, il piccolo diacono, che si giudica indegno di salire l'altare, scrive a cardinali, a vescovi, a principi: "Vi prego, miei signori, baciando le vostre mani, fate in modo che il Corpo di Gesù sia trattato degnamente e da tutti debitamente rispettato". E Francesco prepara all'ostia anime adoratrici, circonda di anime vergini il tabernacolo con le Clarisse e ciborio, giglio, corona di spine diventano le armi di S. Damiano.
Vangelo, Croce, Eucaristia sono i grandi amori, che formano l'anima di Francesco, il segreto della sua azione nella Chiesa. Dopo aver cercato Gesù, dopo aver vissuto di Lui, dopo averlo amato, Francesco poteva attendere la morte, senza averne paura,. La grande Teresa d'Avila, mentre stava per morire esclamava: "È tempo di vederci, Gesù mio!". Francesco, nelle stese circostanze, si mette a cantare: "Voce mea ad Dominum clamavi, ad Dominum deprecatus sum. Chiamo il Signore con tutta la mia voce e prego il mio Signore". "Me exspectant iusti... I giusti mi attendono, essi vogliono essere testimoni della ricompensa che Dio mi darà" (Sal 140,1).
Quale incontro sarà quello dell'anima di Francesco con il Signore! Ricordiamo il quadro del Murillo, che ci presenta Cristo mentre stacca un braccio dalla croce e attirà a sé l'umile Francesco, per stringerlo al cuore. È questa la morte di Francesco. Con uno slancio sublime l'anima sua si getta tra le braccia di Dio e va a godere l'amore, che non ha fine.

VITA. - Francesco nacque ad Assisi nel 1182 e fin dalla giovinezza si mostrò caritatevole verso i poveri. Una malattia fu l'inizio di una vita di perfezione e risolvette di dare tutto quanto possedeva. Suo padre pretese la rinuncia all'eredità e Francesco rinunciò volentieri, spogliandosi tosto anche degli abiti che indossava. Fondò con alcuni compagni l'Ordine dei Frati Minori, che ebbe l'approvazione di Papa Innocenzo III. Francesco mandò i suoi religiosi a predicare dappertutto ed egli stesso, desideroso del martirio, partì per la Siria, ma avendo raccolto soltanto onori, tornò in Italia dove fondò presso la Chiesa di S. Damiano un Ordine di vergini, sotto la direzione di santa Chiara, e il Terz'Ordine, per dare anche alle persone viventi nel mondo un mezzo efficace di santificazione nella pratica delle virtù religiose. Nel 1224, mentre pregava sul monte Alvernia, gli apparve un serafino, che impresse nel suo corpo le piaghe di Crocifisso, in segno dell'amore che il santo nutriva per il Signore. Due anni dopo Francesco, molto ammalato, si fece portare alla chiesa di S. Maria degli Angeli e vi morì dopo aver esortato i suoi frati Minore ad amare la povertà, la pazienza e a difendere la fede della Chiesa Romana. Gregorio IX, che lo aveva conosciuto profondamente, lo iscrisse poco appresso nel catalogo del Santi.

Preghiera di san Francesco.
"Grande e magnifico Dio, mio Signore Gesù Cristo! Io ti supplico di darmi luce, di rischiarare le tenebre dell'anima mia. Dammi fede retta, speranza sicura, carità perfetta. Concedimi, o Signore, di conoscerti bene, per poter in tutte le cose agire nella tua luce secondo la tua volontà".

La Chiesa in rovina.
Così tu pregavi spesso e a lungo davanti al Crocifisso della vecchia chiesa di S. Damiano. E un giorno dal Crocifisso scese una voce che solo il tuo cuore poteva percepire e diceva: "Va', Francesco, ricostruisci la mia casa, che sta per crollare". E tu, tremante e felice insieme, rispondesti: "Andrò con gioia, o Signore, a fare quanto mi chiedi!".
La casa che stava per crollare era senza dubbio la vecchia e solitaria cappella di S. Damiano, ma il Signore pensava soprattutto alle rovine, accumulatesi nel corso degli ultimi secoli nella sua Chiesa.

L'Ordine dei Minori.
Il Papa, che lo aveva compreso, approvò l'Ordine dei Minori, che con il suo fervore, il suo amore per la povertà, lo zelo apostolico, non solo avrebbe riparato le rovine della Chiesa di Cristo, ma sarebbe andato a  costruire nuove cristianità nelle terre infedeli, col sangue dei migliori suoi figli.
Dalla gloria del cielo, dove il Signore ti concede ora così grande e gloriosa ricompensa, degnati, o san Francesco, di non dimenticare la Chiesa per cui non hai risparmiato fatiche.
Aiuta i tuoi figli, che proseguono l'opera tua nel mondo intero, e possano essi crescere in numero e in santità, prodigandosi sempre nell'insegnamento con la parola e con l'esempio.
Prega per tutto lo stato religioso, che acclama in te uno dei suoi Patriarchi illustri e tu, amico di san Domenico, mantieni tra le due famiglie quella fraternità, che non venne mai a mancare, conserva per l'Ordine Benedettino i sentimenti, che sono in questo giorno la tua gioia, stringendo ancora e legami, che il dono della Porziuncola ha annodato per l'eternità con i tuoi benefici (Porziuncola era una piccola proprietà dei Benedettini del Monte Subasio, ceduta a san Francesco, per essere la culla del suo Ordine).

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, Alba, 1959, p. 1138-1144

giovedì 26 settembre 2013

Un uomo ricco e un mendicante. ...Meglio essere Lazzari che Epuloni, credetelo. Giungete a crederlo e sarete beati. Domenica 29 settembre 2013, XXVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno C


"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta

Domenica 29 settembre 2013, XXVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 16,19-31.
C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. 
Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, 
bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. 
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 
Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. 
Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. 
Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. 
Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. 
E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, 
perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. 
Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. 
E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. 
Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi». 
Traduzione liturgica della Bibbia


Corrispondenza nel 
"Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : 
Volume 3 Capitolo 191 pagina 231.

“Consegna a Michea tanto denaro che domani egli possa ricompensare quanto oggi si è fatto prestare dai contadini di questa zona”, dice Gesù a Giuda Iscariota, che generalmente amministra le… sostanze comuni.
E poi Gesù chiama Andrea e Giovanni e li manda in due punti in cui si può vedere la strada o le strade che vengono da Jezrael. Chiama poi Pietro e Simone e li manda incontro ai contadini di Doras con l’ordine di fermarli presso il confine fra le due proprietà. 
Infine dice a Giacomo e Giuda: “Prendete le cibarie e venite”. 
Li seguono i contadini di Giocana, donne, uomini e bambini, e gli uomini portano due piccole anfore, piccole per modo di dire, che devono essere colme di vino. Più che anfore sono giarre e conterranno su per giù quei dieci litri ognuna. (Prego sempre non prendere le mie misure per articolo di fede). Vanno là dove un folto vigneto, già tutto coperto di foglie novelle, indica la fine dei possessi di Giocana. Oltre vi è un largo fossato, mantenuto pieno d’acqua con chissà che fatica. 
“Vedi? Giocana si è litigato con Doras per questo. Giocana diceva: “Colpa di tuo padre se tutto è rovina. Se non lo voleva adorare, almeno lo doveva temere e non provocare”. E Doras urlava, pareva un demonio: “Tu ti sei salvato le terre per questo fosso. Le bestie non l’hanno varcato…”. E Giocana diceva: “E allora come a te tanta rovina mentre prima i tuoi campi erano i più belli di Esdrelon? È il castigo di Dio, credilo. Avete passato la misura. Quest’acqua?… C’è sempre stata e non è essa che mi ha salvato”. E Doras urlava: “Questo prova che Gesù è un demonio”. “È un giusto”, urlava Giocana. E sono andati avanti per un pezzo, finché ebbero fiato, e dopo Giocana fece con grande spesa derivare acque dal torrente e scavare per cercare altre acque nel suolo e fare tutto un ordine di fossi a confine fra lui e il parente e li fece fare più fondi, e a noi disse quello che ti abbiamo detto ieri… In fondo lui è felice di quanto è accaduto. Era tanto invidioso di Doras… Ora spera poter comperare tutto, perché Doras finirà col vendere tutto per due spiccioli”. 
Gesù ascolta con benignità tutte queste confidenze e intanto attende i poveri contadini di Doras, che non tardano a venire e che si prostrano al suolo non appena vedono Gesù al riparo di un albero. 
“Pace a voi, amici. Venite. Oggi la sinagoga è qui ed Io sono il vostro sinagogo. Ma prima voglio essere il vostro padre di famiglia. Sedete in cerchio, che vi dia un cibo. Oggi avete lo Sposo, e facciamo convito di nozze”. 
E Gesù scopre una cesta e ne trae pani che dà agli stupiti contadini di Doras, e dall’altra leva quelle cibarie che ha potuto trovare: formaggi, verdure che ha fatto cucinare e un piccolo caprettino o agnellino, cotto intero, che spartisce ai poveri disgraziati, poi versa il vino e fa circolare il rozzo calice perché tutti bevano. 
“Ma perché? Ma perché? E loro?”, dicono quelli di Doras accennando a quelli di Giocana. 
“Loro hanno già avuto”. 
“Ma che spesa! Come hai potuto?”. 
“Ci sono ancora dei buoni in Israele”, dice Gesù sorridendo. 
“Ma oggi è sabato…”. 
“Ringraziate quest’uomo”, dice Gesù accennando all’uomo di Endor. “È lui che ha procurato l’agnello. Il resto fu facile averlo”. 
Quei poveretti divorano — è la parola — il cibo da tanto sconosciuto. 
Vi è uno, piuttosto vecchio, che si stringe al fianco un fanciullo di un dieci anni circa; mangia e piange. 
“Perché, padre, fai così?…”, chiede Gesù. 
“Perché la tua bontà è troppa…”. 
L’uomo di Endor dice con la sua voce gutturale: “È vero… e fa piangere. Ma il pianto è senza amaro…”. 
“È senza amaro. È vero. E poi… io vorrei una cosa. È anche desiderio questo pianto”. 
“Che vuoi, padre?”. 
“Questo fanciullo lo vedi? È mio nipote. Mi è rimasto dopo la frana di questo inverno. Doras neppure sa che mi ha raggiunto, perché lo faccio vivere come una bestia selvatica nel bosco e solo al sabato lo vedo. Se me lo scopre, o lo caccia o lo mette al lavoro… e sarà peggio di un animale da soma questo tenero mio sangue… A Pasqua lo manderò con Michea a Gerusalemme per divenire figlio della Legge… e poi?… È il figlio di mia figlia…”. 
“Lo daresti a Me, invece? Non piangere. Ho tanti amici che sono onesti, santi e senza figli. Lo alleveranno santamente, nella mia via…”. 
“Oh! Signore! Da quando ho saputo di Te l’ho desiderato. E pregavo il santo Giona, lui che sa cosa è essere di questo padrone, di salvare il mio nipote da questa morte…”. 
“Fanciullo, verresti con Me?”. 
“Sì, mio Signore. E non ti darò dolore”. 
“È detto”. 
“Ma… a chi lo vuoi dare?”, chiede Pietro tirando Gesù per una manica. “A Lazzaro anche questo?”. 
“No, Simone. Ma ce ne sono tanti senza figli…”. 
“Ci sono anche io…”. Il viso di Pietro pare fino affilarsi nel desiderio. 
“Simone, te l’ho detto. Tu devi essere il “padre” di tutti i figli che Io ti lascerò in eredità. Ma non devi avere la catena di nessun figlio tuo proprio. Non ti mortificare. Tu sei troppo necessario al Maestro perché il Maestro possa staccarti da Sé per un affetto. Sono esigente, Simone. Sono esigente più di uno sposo gelosissimo. Ti amo con ogni predilezione e ti voglio tutto per Me e di Me”. 
“Va bene, Signore… Va bene… Sia fatto come Tu vuoi”. Il povero Pietro è eroico nel suo aderire a questa volontà di Gesù. 
“Sarà il figlio della mia nascente Chiesa. Va bene? Di tutti e di nessuno. Sarà il “nostro” bambino. Ci seguirà quando lo permetteranno le distanze, o ci raggiungerà, e suoi tutori saranno i pastori, loro che amano nei bambini tutti il “loro” bambino Gesù. Vieni qui, fanciullo. Come ti chiami?”. 
“Jabé di Giovanni, e son di Giuda”, dice sicuro il ragazzo. 
“Sì. Siamo giudei noi”, conferma il vecchio. “Io lavoravo nelle terre di Doras in Giudea, e mia figlia si è sposata con un di quelle parti. Lavorava ai boschi presso Arimatea e -quest’in-ver-no…”. 
“Ho visto la sventura”. 
“Il fanciullo si è salvato perché quella notte era da un parente lontano… Veramente si è portato il nome, Signore! L’ho detto subito a mia figlia: “Perché? Non ricordi l’antico?”. Ma il marito volle chiamarlo così, e Jabé fu”. 
“Il fanciullo invocherà il Signore e il Signore lo benedirà e dilaterà i suoi confini, e la mano del Signore è sulla sua mano, ed egli non sarà più oppresso dal male”. Questo gli concederà il Signore per consolare te, padre, gli spiriti dei morti, e confortare l’orfano. 
Ed ora che abbiamo separato il bisogno del corpo da quello dell’anima con un atto di amore al fanciullo, ascoltate la parabola che ho pensata per voi. 


Vi era un tempo un uomo molto ricco. Le vesti più belle erano le sue, e nei suoi abiti di porpora e di bisso si pavoneggiava nelle piazze e nella sua casa, riverito dai cittadini come il più potente del paese, e dagli amici che lo secondavano nella sua superbia per averne utile. Le sue sale erano aperte ogni giorno in splendidi banchetti in cui la folla degli invitati, tutti ricchi, e perciò non bisognosi, si pigiavano adulando il ricco Epulone. I suoi banchetti erano celebri per abbondanza di cibi e di vini -prelibati. 
Ma nella stessa città vi era un mendico, un grande mendico. Grande nella sua miseria come l’altro era grande nella sua ricchezza. Ma sotto la crosta della miseria umana del mendico Lazzaro vi era celato un tesoro ancor più grande della miseria di Lazzaro e della ricchezza dell’Epulone. Ed era la santità vera di Lazzaro. Egli non aveva mai trasgredito alla Legge, neppure sotto la spinta del bisogno, e soprattutto aveva ubbidito al precetto dell’amore verso Dio e verso il prossimo. 
Egli, come sempre fanno i poveri, si accostava alle porte dei ricchi per chiedere l’obolo e non morire di fame. E andava ogni sera alla porta dell’Epulone sperando averne almeno le briciole dei pomposi banchetti che avvenivano nelle ricchissime sale. Si sdraiava sulla via, presso la porta, e paziente attendeva. Ma se l’Epulone si accorgeva di lui lo faceva scacciare, perché quel corpo coperto di piaghe, denutrito, in vesti lacere, era una vista troppo triste per i suoi convitati. L’Epulone diceva così. In realtà era perché quella vista di miseria e di bontà era un rimprovero continuo per lui. 
Più pietosi di lui erano i suoi cani, ben pasciuti, dai preziosi collari, che si accostavano al povero Lazzaro e gli leccavano le piaghe, mugolando di gioia per le sue carezze, e giungevano a portargli gli avanzi delle ricche mense, per cui Lazzaro sopravviveva alla denutrizione per merito degli animali, perché per mezzo dell’uomo sarebbe morto, non concedendogli l’uomo neppure di penetrare nella sala dopo il convito per raccogliere le briciole cadute dalle mense. 

Un giorno Lazzaro morì. Nessuno se ne accorse sulla Terra, nessuno lo pianse. Anzi ne giubilò l’Epulone di non vedere quel giorno né poi quella miseria che egli chiamava “obbrobrio” sulla sua soglia. Ma in Cielo se ne accorsero gli angeli. E al suo ultimo anelito, nella sua tana fredda e spoglia, erano presenti le coorti celesti, che in un folgoreggiare di luci ne raccolsero l’anima portandola con canti di osanna nel seno di Abramo. 

Passò qualche tempo e morì l’Epulone. Oh! che funerali fastosi! Tutta la città, che già sapeva della sua agonia e che si pigiava sulla piazza dove sorgeva la sua dimora per essere notata come amica del grande, per curiosità, per interesse presso gli eredi, si unì al cordoglio, e gli ululi salirono al cielo e con gli ululi del lutto le lodi bugiarde al “grande”, al “benefattore”, al “giusto” che era morto. 

Può parola d’uomo mutare il giudizio di Dio? Può apologia umana cancellare quanto è scritto sul libro della Vita? No, non può. Ciò che è giudicato è giudicato, e ciò che è scritto è scritto. E, nonostante i funerali solenni, l’Epulone ebbe lo spirito sepolto nell’Inferno. 

Allora, in quel carcere orrendo, bevendo e mangiando fuoco e tenebre, trovando odio e torture in ogni dove e in ogni attimo di quella eternità, alzò lo sguardo al Cielo. Al Cielo che aveva visto in un bagliore di folgore, in un atomo di minuto, e la cui non dicibile bellezza gli rimaneva presente ad essere tormento fra i tormenti atroci. E vide lassù Abramo. Lontano, ma fulgido, beato… e nel suo seno, fulgido e beato pure egli, era Lazzaro, il povero Lazzaro un tempo spregiato, repellente, misero, ed ora?… Ed ora bello della luce di Dio e della sua santità, ricco dell’amore di Dio, ammirato non dagli uomini ma dagli angeli di Dio. 

Epulone gridò piangendo: “Padre Abramo, abbi pietà di me! Manda Lazzaro, poiché non posso sperare che tu stesso lo faccia, manda Lazzaro ad intingere la punta del suo dito nell’acqua e a posarla sulla mia lingua per rinfrescarla, perché io spasimo per questa fiamma che mi penetra di continuo e mi arde!”. 

Abramo rispose: “Ricordati, figlio, che tu avesti tutti i beni in vita, mentre Lazzaro ebbe tutti i mali. E lui seppe del male fare un bene, mentre tu non sapesti dei tuoi beni fare nulla che male non fosse. Perciò è giusto che ora lui sia qui consolato e che tu soffra. Inoltre non è più possibile farlo. I santi sono sparsi sulla Terra perché gli uomini di loro se ne avvantaggino. Ma quando, nonostante ogni vicinanza, l’uomo resta quello che è — nel tuo caso, un demonio — è inutile poi ricorrere ai santi. Ora noi siamo separati. Le erbe sul campo sono mescolate. Ma una volta che sono falciate vengono separate dalle buone le malvagie. Così è di voi e di noi. Fummo insieme sulla Terra e ci cacciaste, ci tormentaste in tutti i modi, ci dimenticaste, contro l’amore. Ora siamo divisi. Tra voi e noi c’è un tale abisso che quelli che vogliono passare da qui a voi non possono, né voi, che lì siete, potete valicare l’abisso tremendo per venire a noi”. 

Epulone piangendo più forte gridò: “Almeno, o padre santo, manda, io te ne prego, manda Lazzaro a casa di mio padre. Ho cinque fratelli. Non ho mai capito l’amore neppure fra parenti. Ma ora, ora comprendo cosa è di terribile essere non amati. E, poi che qui dove io sono è l’odio, ora ho capito, per quell’atomo di tempo che vide la mia anima Iddio, cosa è l’Amore. Non voglio che i miei fratelli soffrano le mie pene. Ho terrore per loro che fanno la mia stessa vita. Oh! manda Lazzaro ad avvertirli di dove io sono, e perché ci sono, e a dire loro che l’Inferno è, ed è atroce, e che chi non ama Dio e il prossimo all’Inferno viene. Mandalo! Che in tempo provvedano, e non abbiano a venire qui, in questo luogo di eterno tormento”. 
Ma Abramo rispose: “I tuoi fratelli hanno Mosè ed i Profeti. Ascoltino quelli”. 

E con gemito di anima torturata rispose l’Epulone: “Oh! padre Abramo! Farà loro più impressione un morto… Ascoltami! Abbi pietà!”. 
Ma Abramo disse: “Se non hanno ascoltato Mosè ed i Profeti, non crederanno nemmeno ad uno che risusciti per un’ora dai morti per dire loro parole di Verità. E d’altronde non è giusto che un beato lasci il mio seno per andare a ricevere offese dai figli del Nemico. Il tempo delle ingiurie per esso è passato. Ora è nella pace e vi sta, per ordine di Dio che vede l’inutilità di un tentativo di conversione presso coloro che non credono neppure alla parola di Dio e non la mettono in pratica”. 

Questa la parabola, il cui significato è così chiaro da non meritare neppure una spiegazione. 

Qui veramente è vissuto conquistando la santità il Lazzaro novello, il mio Giona, la cui gloria presso Dio è palese nella protezione che dà a chi spera in Lui. A voi sì che Giona può venire, protettore e amico, e ci verrà se sarete sempre buoni. 

Io vorrei, e dico a voi ciò che dissi a lui la scorsa primavera, Io vorrei potervi tutti aiutare, anche materialmente, ma non posso, ed è il mio dolore. Non posso che additarvi il Cielo. Non posso che insegnarvi la grande sapienza della rassegnazione promettendovi il Regno futuro. Non odiate mai, per nessuna ragione. L’Odio è forte nel mondo. Ma ha sempre un limite l’Odio. L’Amore non ha limite di potenza né di tempo. Amate perciò, per possederlo a difesa e conforto sulla Terra e a premio in Cielo. Meglio essere Lazzari che Epuloni, credetelo. Giungete a crederlo e sarete beati. 


Non sentite nel castigo di questi campi una parola d’odio, anche se i fatti lo potevano giustificare. Non leggete male nel miracolo. Io sono l’Amore e non avrei colpito. Ma, visto che l’Amore non poteva piegare l’Epulone crudele, l’ho abbandonato alla Giustizia, ed essa ha fatto le vendette del martire Giona e dei suoi fratelli. Voi imparate questo dal miracolo. Che la Giustizia è sempre vigile anche se pare assente e che, essendo Dio Padrone di tutto il creato, si può servire, per l’applicazione di essa, dei minimi quali i bruchi e le formiche per mordere il cuore del crudele e dell’avido e farlo morire in un rigurgito di veleno che lo strozza. 
Io vi benedico, ora. Ma per voi pregherò ogni nuova aurora. E tu, padre, non avere più affanno per l’agnello che mi affidi. Te lo riporterò ogni tanto perché tu possa giubilare vedendolo crescere in sapienza e bontà sulla via di Dio. Sarà il tuo agnello di questa tua povera Pasqua, il più gradito degli agnelli presentati all’altare di Geové. Jabé, saluta il vecchio padre e poi vieni al tuo Salvatore, al tuo Pastore buono. La pace sia con voi!”. 
“Oh! Maestro! Maestro buono! Lasciarti!…”. 
“Sì. È penoso. Ma non è bene che il sorvegliante qui vi trovi. Sono venuto apposta qui per evitarvi punizioni. Ubbidite per amore all’Amore che vi consiglia”. 
I disgraziati si alzano con le lacrime agli occhi e vanno alla loro croce. Gesù li benedice ancora e poi, con la mano del fanciullo nella sua, e con l’uomo di Endor dall’altro lato, torna per la via già fatta alla casa di Michea, raggiunto da Andrea e da Giovanni che, finito il loro turno di guardia, si ricongiungono ai confratelli. 

Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

AVE MARIA!

martedì 30 luglio 2013

Domingo XVIII, T.O. - C - San Lucas, 12, 13-21: PARÁBOLA DEL RICO NECIO



LA AVARICIA Y EL RICO NECIO








Jesús está en una de las colinas de la ribera occidental del lago. A sus ojos aparecen las ciudades y poblados esparcidos en las playas de este y aquel lado. Exactamente bajo la colina están Mágdala y Tiberíades, la primera con su barrio de lujo, lleno de jardines, separado netamente de las casas de los pescadores, ciudadanos y gente del pueblo común por un arroyuelo que ahora está completamente seco. Tiberíades resplandece por todas sus partes, una ciudad que ignora lo que es miseria y decadencia. Bella y nueva ríe bajo el sol enfrente del lago. Entre una y otra ciudad están las huertas, más o menos cultivadas, de la estrecha llanura y luego los plantíos de olivos que en terrazas llegan hasta la cima de las colinas. Detrás de las espaldas de Jesús, de esta parte se ve la silla del monte de las Bienaventuranzas, a cuyos pies está el camino principal que va del Mediterráneo a Tiberíades. Probablemente debido a la cercanía de un camino concurridísimo, Jesús escogió esta localidad a la que se puede llegar de varias ciudades del lago o de la Galilea interior, y donde, al atardecer, es fácil volver a casa, o encontrar hospitalidad en varios lugares. El calor debido a las alturas es templado y más suavizado por los árboles que en la cima ocupan el lugar de los olivos.
Hay mucha gente además de los apóstoles y discípulos, gente que tiene necesidad de Jesús para que la cure, o para que le aconseje; gente que viene también movida por la curiosidad, por amigos o por espíritu de imitación. Mucha gente, en una palabra. La estación no ya canicular sino templada gracias al otoño invita más que nunca a caminar en busca del Maestro.
Jesús curó ya enfermos y habló a la gente, y seguro que fue sobre el tema de las riquezas injustas y de su despego de ellas, tema necesario a todos para que se ganen el cielo, pero indispensable para quien quiera ser su discípulo. Ahorita está respondiendo a las preguntas de estos y aquellos discípulos ricos que no saben cómo arreglárselas.

EL USO Y EL AMOR  DE LAS RIQUEZAS

Juan el escriba dice: "¿Debo entonces destruir lo que tengo, despojando a los míos de lo que les pertenece?"
"No. Dios te dio los bienes. Hazlos servir a la justicia y úsalos rectamente. Esto es, con ellos ayuda a tu familia: es un deber. Trata humanamente a tus siervos: es caridad. Haz bien a los pobres, acude a las necesidades de los discípulos pobres. De este modo tus riquezas no te serán tropiezo sino ayuda."
Y luego dirigiéndose a todos les dice: "En verdad os digo: el discípulo más pobre puede correr el mismo peligro de perder el cielo por amor a las riquezas, si hecho sacerdote mío, falta a la justicia pactando con el rico. El rico o el malo, muchas veces tratará de seduciros con regalos para que asintáis a su modo de vivir y a su pecado. Y habrá algunos de mis servidores que cederán a la tentación de los regalos. Mal hecho. El Bautista os lo enseña. En él existía verdaderamente la perfección del juez y magistrado, sin serlo, como loseñala el Deuteronomio: "No tendrás respetos personales, ni aceptarás donativos, porque cierran los ojos del sabio y alteran las palabras del justo". Muchas veces el hombre deja a que la espada de la justicia pierda su filo ante el oro que un pecador le pasa por encima. No debe ser así. Sabed ser pobres, sabed morir, pero no pactéis jamás con la culpa, ni siquiera con la excusa de que usaréis ese oro en beneficio de los pobres. Es oro maldito y no produciría ningún fruto. Es oro de compromiso infame. Se os ha hecho discípulos para que seáis maestros, médicos y redentores. ¿Qué seréis si fueseis participantes del mal por interés? Maestros engañadores, médicos que matan el enfermo, no redentores sino cooperadores de la ruina de los corazones."

¿ES LÍCITO RETENER EL DINERO DE OTROS?

Uno de entre la multitud se abre paso y dice. "No soy discípulo, pero te admiro. Responde, pues, a esta pregunta mía: "¿Es lícito retener el dinero de otro?". 
"No. Es robo como lo es el quitar el dinero al que pasa."
"¿Aunque sea dinero de la familia?"
"Aunque así sea. No es justo que alguien se apropie del dinero de los demás."
"Entonces, Maestro, ve a Abelmain, que está sobre el camino de Damasco y ordena a mi hermano que reparta conmigo la herencia de nuestro padre que murió sin haber dejado testamento. El se ha quedado con toda. Y ten en cuenta que somos gemelos, que nacimos del primero y único parto. Tengo, pues, los mismos derechos que él."
Jesús lo mira y dice: "Es una situación difícil, y tu hermano ciertamente no obra bien pero todo lo que puedo hacer es orar por ti y por él, para que se convierta e ir a tu tierra a evangelizar, para tocarle el corazón. No me pesa el camino si puedo poner paz entre vosotros."
El hombre lleno de rabia grita: "¿Y para qué quiero tus palabras? Más que palabras otra cosa se requiere en este caso."
"Pero no dijiste que ordenase a tu hermano que..."
"Ordenar no es evangelizar. El mandar va unido a la amenaza. Amenázalo de que lo herirás en su persona, si no me da lo mío. Tú lo puedes hacer. Como restituyes la salud, puedes provocar enfermedades.
"Oye, vine a convertir, no a herir. Pero si tienes fe en mis palabras, encontrarás la paz."
"¿Qué palabras?"
"Te dije que rogaré por ti y por tu hermano, para que él se consuele y se convierta."
"¡Cuentos, cuentos! No soy un estúpido para creerlo. Ven y ordena."
Jesús que ha sido paciente y manso, cambia su aspecto en severidad. Se endereza -antes estaba un poco inclinado hacia el hombrecillo fuerte e iracundo- y dice: "Hombre: ¿quién me hizo juez y árbitro de vosotros? Nadie. Para quitar una división entre dos hermanos acepté ir para ejercer mi misión de pacificador y redentor, y si hubieses creído en mis palabras, regresando a Abelmain, habrías encontrado a tu hermano ya convertido. No supiste creer. No tendrás el milagro. Tú, si hubieses sido el primero en apoderarte del tesoro, te habrías quedado con él, privando de él a tu hermano porque en verdad, como sois gemelos, así tenéis iguales pasiones, y tú como tu hermano tenéis un solo amor: el oro; una sola fe: el oro. Quédate, pues con tu fe. Adiós."
El hombre se va maldiciendo con escándalo de todos que quisieran pegarle, pero Jesús se opone. Dice: "Dejadlo que se vaya. ¿Por qué queréis ensuciaros las manos pegando a un animal? Lo perdono porque es un hombre poseído del demonio del oro que lo extravía. Perdonad también vosotros. Roguemos por este infeliz para que recobre la bella libertad."
"Es verdad. Aun su cara era horrible por la avaricia. ¿La viste?" se preguntan los presentes mutuamente.
"¡Es verdad! ¡Es la verdad! No tenía la cara de antes."
"Sí. Después cuando el Maestro se lo negó, por poco le pega mientras lo maldecía, y su cara se hizo como cara de demonio."
"Un demonio que tentaba. Tentaba al Maestro para hacer el mal..."

EN REALIDAD LOS CAMBIOS DEL ESPÍRITU 
SE REFLEJAN EN LA CARA

"Escuchad" dice Jesús. "En realidad los cambios del espíritu se reflejan en la cara. Ha sucedido como si el demonio se hubiese asomado a la superficie de su poseído. Pocos son los que siendo demonios, con acciones o con aspecto, no traicionen lo que son. Y estos pocos son los perfectos en el mal y completamente poseídos.
Por el contrario, la cara del justo es siempre bella, aunque si físicamente sea fea, con una hermosura sobrenatural que aflora del interior al exterior. Y no sólo por decir, sino que los hechos lo comprueban, vemos que él que no tiene vicios, aun en su carne respira frescura. El alma está en nosotros y nos envuelve todos. El hedor de un alma corrompida, corrompe también la carne. El perfume de un alma pura, preserva. El alma corrompida empuja la carne a pecados obscenos, y estos envejecen y deforman. El alma pura excita la carne a una vida pura, lo cual da frescura y comunica majestad.
Haced que en vosotros exista la juventud pura del espíritu, o resurja si se perdió, y alejaos de toda codicia, bien se trate de los sentidos, bien del poder. Ni esta vida ni la eterna dependen de la abundancia de bienes que se posean sino de la manera de vivir, y con la vida la felicidad de esta tierra y del cielo, porque el vicioso jamás es feliz, realmente feliz. El virtuoso lo es siempre con una alegría celestial, aun cuando sea pobre y solo. Ni siquiera la muerte lo hace prisionero, porque no tiene culpas ni remordimientos que lo hagan temer el encuentro con Dios, y no tiene ningún sentimiento por lo que deja sobre la tierra. Sabe que en el cielo está su tesoro, y a la manera de alguien que va a recibir la herencia que le corresponde, una herencia santa, va alegre, presto, al encuentro de la muerte que le abre las puertas del reino donde está su tesoro.
Haceos pronto vuestro tesoro, empezad ya desde la juventud, vosotros que sois jóvenes; trabajad incansablemente, vosotros ancianos que, por la edad, tenéis más próxima la muerte. Y ya que muerte significa un plazo desconocido, y frecuentemente cae el niño antes que el anciano, no dejéis de trabajar por haceros con un tesoro de virtudes y de buenas obras para la otra vida, de modo que no os sorprenda la muerte sin que hayáis colocado un tesoro de méritos en el cielo. Muchos son los que dicen: "¡Oh, soy joven y fuerte! Por ahora gozaré de la tierra, después me convertiré". ¡Gran error!

PARÁBOLA DEL RICO NECIO

Escuchad esta parábola. Los campos de un cierto hombre le habían producido muchos frutos, una cosecha, digamos, milagrosa. Contempla toda esa abundancia que se acumula en sus campos y eras, y que no encuentra lugar en sus graneros y que debe colocar en trojes provisionales y hasta en habitaciones de la casa. Dice: "He trabajado como un esclavo y la tierra no me engañó. Trabajé durante diez cosechas, y ahora quiero descansar otras tantas. ¿Cómo haré para arreglar toda esta cosecha? No quiero venderla porque me obligaría a trabajar para que el año siguiente tuviese otra cosecha. Haré así: destruiré mis graneros, los haré más extensos, de modo que quepa toda mi cosecha junto a mis bienes. Y luego diré a mi corazón: 'Corazón mío, tienes ahora muchos bienes para muchos años. Descansa, pues. Come, bebe y goza' ". Este, como otros muchos, confundía el cuerpo con el alma, y mezclaba lo sagrado con lo profano, porque realmente en las glotonerías y en el ocio el alma no goza sino languidece, y también él, como otros muchos, después de la primera cosecha en los campos del bien, se para, pareciéndole que hizo mucho.
¿Pero no sabéis que una vez puesta la mano en el arado es menester perseverar uno, diez y cien años, cuanto dure la vida, porque detenerse es un crimen contra sí mismo, a quien se niega una gloria mayor; es retroceder porque quien se detiene generalmente no sólo no adelanta más, sino vuelve atrás? Para que sea bueno el tesoro del cielo debe aumentar año por año. Pues si habrá misericordia para quien tuvo pocos años para forjar el tesoro, no la habrá para los flojos que después de una vida larga, han hecho poco. El tesoro del cielo es un tesoro en continuo aumento, de otro modo no será un tesoro fructífero, sino un tesoro muerto, lo que redunda en detrimento de la paz del cielo. Dios dijo al necio: "Hombre necio que confundes el cuerpo y los bienes de la tierra con lo que es espíritu, y te haces un mal de una gracia de Dios, ten en cuenta esta noche misma se te pedirá el alma y se te quitará, y el cuerpo yacerá sin vida. Cuanto has preparado ¿de quién será? ¿Te lo llevarás contigo? No. Te verás desnudo de cosas terrenas y de obras espirituales ante mi presencia y será pobre en la otra vida. Mejor te hubiera sido haber hecho con tus cosechas obras de misericordia al prójimo y a ti mismo. Porque siendo misericordioso con los demás, lo eres para con tu alma. Y en vez de haber nutrido pensamientos de ociosidad, hubieras tratado de cultivar una actividad de la que pudieses sacar utilidad para tu cuerpo y grande mérito para tu alma, hasta que Yo te hubiese llamado". Aquel hombre murió esa noche y fue severamente juzgado.
En verdad os digo que así sucede a quien atesora para sí y no se enriquece a los ojos de Dios. Ahora podéis iros y haceos un tesoro de la doctrina que os he dado. La paz sea con vosotros."
Jesús bendice y se retira a un lugar tupido del bosque con los apóstoles y discípulos para tomar sus alimentos y descansar. Pero mientras están comiendo, El continúa hablando de la lección que acaba de dar, repitiendo un tema que ya ha dicho a los apóstoles muchas veces y creo que no será suficiente el repetirlo, porque el hombre frecuentemente es presa de temores sin fundamento.

ES MENESTER PREOCUPARSE DE ENRIQUECERSE 
SÓLO DE VIRTUDES

"Creedme" dice, "que es menester preocuparse de enriquecerse sólo de virtudes. Y ved bien: que vuestra preocupación no tenga ni angustia ni intranquilidad. El bien es enemigo de las inquietudes, miedos, prisas que tienen todavía el sabor de avaricia, celos, desconfianza humana.
Que vuestro trabajo sea constante, lleno de confianza, de paz, sin empiezos bruscos y bruscas paradas.Así se comportan los burros salvajes, pero nadie los emplea a no ser que sea un necio, para hacer un viaje seguro. Tened paz en las victorias, paz en las derrotas. Aun el llanto por algún error cometido, y que os duele porque con él habéis desagradado a Dios, debe tener paz, confrontado con humildad y confianza. El abatimiento, la ira hacia sí mismo es siempre síntoma de soberbia y de desconfianza. Si uno es humilde sabe que es un hombre sujeto a las miserias de la carne que algunas veces triunfa. Si no es humilde tiene confianza no tanto en sí cuanto en Dios, y guarda la calma aun en las derrotas diciendo: "Perdóname, Padre. Conoces mi debilidad que ahora ha vencido. Creo que me compadeces. Tengo confianza que me ayudarás en lo futuro mucho más que antes, no obstante que en bien poco te pueda satisfacer".
No seáis ni apáticos, ni avaros de los bienes de Dios. Dad cuanto tenéis de sabiduría y virtud. Sed laboriosos en el espíritu como los hombres lo son por las cosas de la carne. Y respecto a esta no imitéis a los del mundo que tiemblan siempre por el mañana, por miedo de que les falte lo superfluo, por miedo de que se enfermen, de que les sobrevenga la muerte, de que los enemigos puedan hacerles daño y así en lo demás.
Dios sabe de lo que tenéis necesidad. No tengáis miedo por el mañana. Libertaos de ese miedo que es tan pesado, como pesadas son las cadenas para el galeote. No os preocupéis por vuestra vida, ni por la comida, ni por la bebida, ni por el vestir. La vida del espíritu vale más que la del cuerpo y el cuerpo vale más que el vestido, porque vivís no con el vestido sino con el cuerpo y con mortificar el cuerpo ayudáis al espíritu a conseguir la vida eterna. Dios sabe hasta cuándo dejará que el alma esté en el cuerpo, y hasta cuándo os dará lo necesario. Lo da a los cuervos, animales impuros que se alimentan de cadáveres y que tiene su razón de ser porque tienen ese trabajo de librar de putrefacciones ¿y no os lo dará a vosotros? Ellos no tienen alacenas, ni graneros y con todo Dios los alimenta. Vosotros sois hombres y no cuervos, y por ahora sois la flor de los hombres porque sois discípulos del Maestro, los evangelizadores del mundo, y siervos de Dios. ¿Y podéis imaginar que Dios que tiene cuidado de los lirios de los valles y que los hace crecer y los viste con tales vestiduras que ni siquiera Salomón tuvo, sin que ellos tengan otro trabajo que perfumar, puede dejaros sin el vestido?
Vosotros sí que no podéis poneros un diente en la boca, ni alargar un geme a la pierna tullida, ni dar fuerza a la pupila nublada. Y si no podéis hacer estas cosas ¿podéis pensar que sois capaces de apartar de vosotros las miserias y enfermedades y sacar comida del polvo? No podéis. No seáis gente de poca fe. Tendréis siempre lo que es necesario. No os aflijáis como la gente del mundo que se atarea por proveerse de objetos que no puede gozar. Tenéis a vuestro Padre que sabe de lo que tenéis necesidad. Debéis sólo buscar, y que sea vuestra primera preocupación, el reino de Dios y su justicia, y todo lo demás se os dará.
No temáis, vosotros, pequeña grey mía. El Padre se ha complacido en llamaros al reino para que lo poseáis. Podéis, pues, aspirar a él y ayudar al Padre con vuestra buena voluntad y santa laboriosidad. Vended vuestros bienes, haced con ellos limosna, si sois solos. Dad a los vuestros lo que os pertenece por seguirme, porque no es justo quitar el pan a los hijos y a la esposa. Y si no podéis sacrificar las riquezas, sacrificad la riqueza del afecto. También esta es moneda que Dios valúa en lo que es: oro más puro que cualquier otro; perla más preciosa que la que se arrebata a los mares, y rubí más raro del que se extrae de las entrañas de la tierra. Porque renunciar a la familia por Mí es caridad más perfecta que oro sin impureza alguna, es perla hecha de llanto, y rubí hecho de sangre que llora por la herida del corazón, que está desgarrado por la separación del padre, y madre, esposa e hijos.
Estas bolsas de dinero no se gastan, este tesoro nunca disminuye. Los ladrones no penetran en el cielo, el comején no corroe lo que allí se deposita. Tened el cielo en el corazón y el corazón en él cerca de vuestro tesoro, porque el corazón, tanto en el bueno como en el malvado, está donde está el tesoro que más se quiere. Por esto, como el corazón está allí donde está el tesoro (en el cielo), así el tesoro está allí donde está el corazón (esto es, en vosotros), mejor dicho, el tesoro está en el corazón y con el tesoro de los santos está en el corazón el cielo de los santos.
Estad siempre prontos, como quien está a punto de emprender un viaje o en espera del patrón. Sois siervos de Dios-Patrón. A cualquier hora os puede llamar a donde está, o venir a donde estáis. Por eso estad siempre prontos a ir o a presentarle los honores estando siempre con los cinturones puestos para el viaje o trabajo, y con las linternas encendidas en las manos. Al salir de una fiesta de nupcias con uno que os haya precedido en los cielos y en la consagración a Dios sobre la tierra, Dios puede acordarse de vosotros que estáis esperando y puede decir. "Vamos a donde están Esteban o Juan, o bien donde está Santiago, Pedro, etc.". Dios es veloz en venir y decir: "Ven". Por eso estad siempre prontos para partir si os llamare.

BIENAVENTURADOS LOS SIERVOS 
QUE EL PATRÓN ENCONTRARE VIGILANDO

Bienaventurados los siervos que el Patrón, al llegar, encontrare vigilando. En verdad, para premiarlos por la fiel espera, El se ceñirá el vestido y haciéndolos sentar a la mesa, se pondrá a servirles. Puede llegar a la primera vigilia, como a la segunda y tercera. No lo sabéis. Por eso estad siempre vigilantes. Bienaventurados si lo fuereis y así os encontrare el Patrón. No os hagáis ilusiones diciendo: "Hay tiempo. Esta noche no viene". Sería un mal para vosotros. No lo sabéis. Si uno supiese cuándo viene el ladrón no dejaría sin vigilar la casa para que el bandido no forzase la puerta y cerrojos. También vosotros estad preparados, porque cuando menos lo penséis vendrá el Hijo del hombre diciendo: "Es la hora". "
Pedro, que hasta se olvidó de terminar su comida por escuchar al Señor, al verlo se calla, pregunta: ¿Dices esto por nosotros o por todos?"
"Es por vosotros y por todos. Más bien, es por vosotros, porque sois como mayordomos del Patrón puestos a la cabeza de siervos y tenéis doble trabajo: de estar prontos, como mayordomos y como simples fieles. ¿Qué debe ser el mayordomo colocado a la cabeza de los familiares del Patrón para darles a cada uno a su tiempo su justa parte? Debe ser sagaz y fiel: para cumplir con su deber propio, para hacer que los que le están sujetos, cumplan con su deber. De otro modo padecerían menoscabo los intereses del patrón que paga al mayordomo para que haga sus veces y guarde sus intereses durante su ausencia. Bienaventurado el siervo que el patrón, al volver a su casa, encontrase que trabaja fielmente, con diligencia y justicia. En verdad os digo que lo hará mayordomo aun de otras propiedades suyas, de todos sus bienes, y descansará y se alegrará en su corazón porque está seguro del siervo.
Pero si el siervo dice: "¡Oh, qué bien! El patrón está lejos y me escribió que tardará en regresar, por eso puedo hacer lo que me parece y cuando previere que está por llegar, proveeré". Y empieza a beber hasta embriagarse, a dar órdenes de ebrio, y como los siervos buenos, que le está sujetos, rehúsan cumplir sus órdenes para no causar daño al patrón, se pone a golpearlos, y hasta hacerlos caer enfermos o débiles. Piensa en ser feliz y dice: "Finalmente llego a saborear lo que es ser patrón y que le teman a uno". Pero ¿qué sucederá? Sucederá que cuando menos se lo espere, llegará el patrón, y puede ser que hasta lo sorprenda cuando se echa dinero en la bolsa o corrompe a uno de los siervos más débiles. Entonces, os lo digo, el patrón lo arrojará del lugar de mayordomo y hasta del número de sus siervos, porque no es lícito tener infieles y traidores en medio de gente honrada. Y tanto más será castigado cuanto más el patrón lo amaba antes y le había instruido.
Porque quien conoce mejor la voluntad y el pensar del patrón, tanto más está obligado a realizarlos con exactitud. Si no hace como el patrón le explicó, con toda amplitud, más que a ningún otro, será castigado fuertemente; entre tanto que el siervo inferior, que poco sabe, y se equivoca creyendo hacer bien, tendrá un castigo menor. A quien mucho se dio, mucho se pedirá, y él que tuvo mucho bajo su cuidado, mucho deberá devolver, porque a mis mayordomos se les pedirá cuenta aun del alma de un niño que acaba de nacer.

MI ELECCIÓN NO ES UN FRESCO DESCANSO 
EN UN BOSQUE FLORIDO.

Mi elección no es un fresco descanso en un bosque florido. Vine a traer fuego sobre la tierra; y ¿qué puedo desear sino que arda? Por esta razón me fatigo y quiero que os fatiguéis hasta la muerte y hasta que la tierra sea una hoguera de fuego celestial.
Debo ser bautizado con un bautismo. ¡Y cuánto sufriré hasta que no se realice! ¿No preguntáis el por qué? Porque con él os haré portadores del Fuego, agitadores que muevan en todas las capas sociales y contra todas, para lograr una sola cosa: la grey de Cristo.
¿Creéis que vine a traer paz sobre la tierra? ¿y según el modo de ver de la tierra? No. Sino más bien discordia y separación. Porque de ahora en adelante, y hasta que la tierra no sea una sola grey, de cinco que haya en una casa dos serán contra tres, y el padre estará contra el hijo, y este en contra su padre, y la madre contra las hijas, y estas contra ella, y las suegras y nueras tendrán un motivo de más para no entenderse, porque habrá un lenguaje nuevo en sus labios, y será igual que una Babel, porque una agitación profunda sacudirá el reino de los afectos humanos y sobrehumanos. Pero luego llegará la hora en que todo se unifique en una sola lengua nueva, que hablarán todos los salvados del Nazareno, y se purificarán las aguas de sentimientos, yendo al fondo las escorias, y brillando en la superficie las límpidas ondas de lagos celestiales.
En verdad que no es reposo el servirme, según el hombre entiende esta palabra. Es necesario heroísmo y no cansarse jamás. Yo os digo: al fin estará Jesús, el mismo Jesús que se ceñirá su vestido para serviros, y luego se sentará con vosotros en el banquete eterno, y se olvidarán la fatiga y el dolor.
Ahora, como nadie nos buscó, vayamos al lago. Descansaremos en Mágdala. En los jardines de María de Lázaro hay lugar para todos, y ella puso su casa a disposición del Peregrino y de sus amigos. No es necesario que os diga que María Magdalena ha muerto con su pecado y ha renacido por su arrepentimiento María de Lázaro, discípula de Jesús de Nazaret. Lo sabéis, porque la noticia se extendió cual fuego en una floresta. Pero os diré lo que no sabéis: que todos los bienes personales de María de Lázaro son para los siervos de Dios y para los pobres de Cristo. Vamos..."
V.890-900

A. M. D. G. et B.V.M.