Nuovo articolo della speciale coppia cattolica Gnocchi-Palmaro - "il Foglio" - 6 novembre 2013
«In questi cinquant’anni ho pensato che si stiano avvicinando tempi di diffusa infedeltà, e durante questi anni le acque, infatti, sono salite come quelle di un diluvio […] i leaders cattolici dovranno intraprendere grandi iniziative e raggiungere scopi importanti, e avranno bisogno di molta saggezza e di molto coraggio, se la Santa Chiesa deve liberarsi da questa terribile calamità, e, sebbene qualunque prova che cada su di lei sia soltanto temporanea, può essere straordinariamente dura nel suo decorso», queste parole, così piene di allarme, vennero pronunciate dal Cardinale John Henry Newman nel 1877. Oggi stiamo vivendo quella «diffusa infedeltà» che bene individua ancora una volta la speciale e cattolica coppia Gnocchi e Palmaro nell’articolo pubblicato ieri su “il Foglio”: è un altro tassello che va ad accrescere i commenti allibiti di chi vede ogni giorno di più segni ben poco rassicuranti, come quello di separare le mani giunte di un bambino che serve all’altare… Possibile che nessun Pastore (leaders) abbia la forza («molta saggezza e molto coraggio») di parlare chiaramente della crisi («terribile calamità») della Chiesa, lasciando ai fedeli tale incombenza?
Cristina Siccardi
Epater le bourgeois catholique
L’abbraccio sinuoso e ammaliante di P F dà corda
a un tipo di cattolico a suo agio nel mondo e nel mondano.
La catechesi della desistenza, le mani incollate del bambino che prega
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
Prima che la traduzione in lingua volgare ne diluisse il fervore in una insipida contiguità mondana, verso la fine delle Litanie dei santi si recitava l’invocazione “Ut domnum Apostolicum et omnes ecclesiasticos ordines in sancta religione conservare digneris: Te rogamus, audi nos”. In un latino affilato e inequivocabile, i vecchi cattolici chiedevano al Signore di conservare il papa e la gerarchia tutta nella santa religione e nella retta dottrina. Non uno di quei candidi baciapile sospettava di essere irrispettoso nei confronti del Bianco Padre, della sua corte e poi giù fino all’ultimo dei diaconi e dei suddiaconi sparsi per l’Orbe cattolico. Eppure confidavano al buon Dio il timore che persino il Sommo pontefice potesse mettere il piede in fallo in occasioni ben più gravi che un’omelia a Santa Marta o un’intervista vuoi alla stampa cattolica, vuoi a quella volterriana. Secoli di buona dottrina fatta, solo per far dei nomi, di Atanasio, Tommaso, Caetano, Suarez, Bellarmino, Gueranger, Billot, avevano depositato nella loro fede l’idea che il papa è fallibile, ragion per cui non avrebbero trovato nulla di scandaloso se qualcuno si fosse preso la briga di denunciare eventuali falli. Per parte loro, si sarebbero sentiti in colpa per non aver messo tutto il fervore che richiedeva la gravità di quella particolare invocazione delle Litanie.
Qualche decennio e un Concilio dopo, un cattolicesimo che si presenta sulla scena forte del disincanto sortito dall’abbraccio col mondo incespica là dove i suoi vecchi non avrebbero incontrato alcun inciampo. Bastano un titolo e un articolo di giornale per gridare allo scandalo.
Ritrosi come figlie di Maria senza averne il verecondo incanto, i pronipoti dei paolotti del bel tempo andato vorrebbero che i media si occupassero delle loro questioni ma senza urtarne le coscienzucce. Tanto più se la quiete viene turbata da gente di casa. Passino le provocazioni del mondo, di cui anzi sono ghiotti: da decenni le stanno rincorrendo nell’inutile tentativo di superare un fastidioso complesso di inferiorità. Ma guai se qualcuno in famiglia ha da dire sull’argenteria esibita in favore di telecamera.
Certi temi, anche se si finge di esecrare i toni, finiscono fatalmente per épater le bourgeois catholique, che è quasi sempre mondano e di sinistra anche quando pensa di essere tutt’altro. Gli si può toccare ogni certezza, ma non il superdogma della pacificazione tra Cristo e il mondo, per il quale contempla solo adesione o anatema. Ciò che lo affascina tanto in pF è l’abbraccio accogliente allo spirito mondano. Vi legge una rassicurante, unilaterale dichiarazione di pace che, una volta per tutte, possa spazzare via quei tremendi e poco borghesi concetti di lotta e di martirio.
Ma l’intimità del vivere cristiano è consustanziale alla disposizione a versare il sangue, ed è esattamente il suo venir meno che ha inquietato tante anime sante. Nel 1974, a proposito della deriva seguita al Vaticano II, don Divo Barsotti annotava nel suo diario che l’ambiguità della “Gaudium et spes” si manifestava nella rinuncia a risolvere nel martirio il rapporto tra chiesa e mondo.
Agli inizi del Novecento, Robert Hugh Benson, che avrebbe narrato nel “Padrone del mondo” la figurazione dell’anticristo, confidava di aver chiaramente percepito in una visione “una grande figura mistica distesa nel mondo. La testa, coronata di spine, riposa a Roma. Il corpo è ferito, mutilato, spogliato delle sue brillanti vesti, ma vivo, steso per terra. Le braccia e i piedi si spingono attraverso i mari e i continenti, le dita delicate cercano anime fino in Cina, il cuore palpitante comunica un sangue comune di preghiera e di fede a tutte le nazioni (…). Quest’essere immenso è vecchio di diciannove secoli. Le membra che da mille anni s’agitano nella febbre giacciono calme sotto il controllo d’un cervello infallibile. E il mondo, che prende gusto a torturarle, si stupisce della loro vitalità”.
Solo il cristiano che accetti il conflitto con lo spirito mondano può permettersi di essere misericordioso. Amare davvero il mondo, desiderare la sua salvezza, diceva Gilbert Keith Chesterton, equivale a combatterlo: “Amare qualcosa senza desiderare di combattere per averla non è amore, ma lussuria”. Dove si rinuncia all’alterità urticante della verità e della ragione, non c’è più misericordia: rimane l’esibizione e il compiacimento della propria bontà, roba poveretta buona per il palcoscenico mondano.
Avere intimamente a cuore il papa significa difenderlo dal mondo. Dall’aggressione maramaldesca e infingarda subita da Benedetto XVI e, più ancora, dall’abbraccio sinuoso e ammaliante che F sembra ricambiare senza remore. Ma questi due approcci non sono gli estremi di una stessa questione poiché tra l’uno e l’altro non vi è continuità. Mentre papa Ratzinger si è fatto nemico il mondo ribadendo il rigore della ragione l’intangibilità della norma liturgica, il suo successore ne ha conquistato il consenso palesando la desistenza dell’una e dell’altra.
Pare quasi che negli atti di F vi sia una sorta di catechesi della desistenza, come è avvenuto lo scorso 2 novembre nelle Grotte Vaticane, davanti alle telecamere dei tg. Volgendosi a un piccolo chierichetto che teneva le mani giunte in atteggiamento orante, il papa gliele ha aperte chiedendogli se gli si fossero incollate. Ma il bambino, evidentemente abituato a “dire le preghiere” ed educato alla lode del Signore e all’adorazione le ha prontamente offerte a maggior gloria di Dio ricongiungendole così come gli è stato insegnato.
Non potrebbe catechizzare diversamente un papa che sembra puntare tutta la sua forza persuasiva sul discorso e sul sermone derubricandolo sempre più a chiacchierata mondana. Una sorta di narrazione feriale che porta qualche gradino più in basso anche il minimo gesto rituale. Se vi sono conversioni dovute alla sapienza di certe prediche, ve ne sono tante altre, più radicali e più durature, sortite dalla scintilla di un gesto liturgico perfetto, da un inchino tra due monaci, dal genuflettersi del sacerdote davanti all’Ostia consacrata, dal giungere le mani di un bambino.
Mette i brividi pensare che, con l’ultimo ricomponimento di due piccole mani oranti, potrebbe sparire dalla terra l’ultimo gesto degno di venerazione. Ma, ora che la chiesa è divenuta un ospedale campo, questa prospettiva sembra non inquietare quasi nessuno. La carità e la misericordia paiono affari mondani di chi, non rubricando e non cantando, non ha tempo da perdere con la liturgia. Eppure, fino a non troppo tempo fa, la chiesa era popolata di preti che sapevano carezzare con la misericordia perché sapevano sciabolare di dottrina e rigore liturgico. Li si trovava quasi sempre davanti all’altare a dire le preghiere, a recitare il breviario o salmodiare il rosario. Stavano lì, pronti a farsi carico di quanto avesse nel cuore anche l’ultimo dei barabba. La narrativa cattolica, che allora aveva ancora il senso del peccato e quindi sapeva raccontare storie esemplari, ne ha tratto splendide figure letterarie. Il don Camillo di Giovannino Guareschi è una di queste, forse la più famosa, certo la più didascalica nell’interpretare il sodalizio tutto cristiano tra inflessibilità e misericordia.
Questo parroco dalla dottrina ferma e dall’approccio ruvido, quando il sindaco comunista Peppone entra di nascosto in chiesa e offre cinque candele per chiedere la guarigione del figlio che sta morendo, non esita a inginocchiarsi davanti alla Vergine per compiere il rito di mediazione tra terra e cielo. E poi, in riparazione del torto compiuto da Peppone ai danni del Crocifisso, esce di corsa per tornare con altre cinque candele: “’Ve l’avevo detto?’ gridò sciorinando un pacco davanti alla balaustra. ‘Mi ha portato cinque candele da accendere anche a voi! Cosa ne dite? (…) Si direbbe persino che mandino più luce delle altre’. E veramente mandavano più luce delle altre perché erano cinque candele che don Camillo era corso a comprare in paese facendo venir giù dal letto il droghiere e dando soltanto un acconto perché don Camillo era povero in canna. E tutto questo il Cristo lo sapeva benissimo e non disse niente, ma una lacrima scivolò giù dai suoi occhi e rigò di un filo d’argento il legno nero della croce. E questo voleva dire il bambino di Peppone era salvo. E così fu”.
Un saggio di pura, affilata, soprannaturale carità, dove non c’è la minima concessione alla tenerezza poiché il narratore ha sapientemente tolto di scena il possibile oggetto di un sentimento così umano: Peppone è scomparso nella notte e, nel silenzio della chiesa, a esaltare il sacerdozio di don Camillo non vi è altro testimone che il Cristo crocifisso. E’ questo cristianissimo sottrarsi al mondo e ai suoi testimoni che induce il Signore dell’universo a donare quella lacrima che riga il legno nero della croce. Specchio di una ineludibile lotta tra la gravità del mondo e la levità della Grazia, quel filo d’argento si manifesta per mostrare quanta efficacia abbia nella vita quotidiana il rito.
Per uno di quei celesti paradossi che ne testimoniano l’origine divina, la religione cattolica ha sempre insegnato che, per attrarre il mondo bisogna ritrarsene. Per questo la sua lex credendi, il suo credo, ha sempre trovato corrispondenza ed efficacia nella lex orandi, la sua liturgia. E per questo ha sempre saputo parlare agli uomini di ogni tempo, che sono creature razionali e, quindi, liturgiche. Nella vita della chiesa, generazioni di sacerdoti hanno conteso al mondo le pecore del loro gregge, risonando di buona dottrina e profumando di nardo e incenso. Lo hanno fatto i preti delle parrocchie più sperdute ogni volta che, rivestendosi con camici, pianete, stole e piviali, divenivano presso gli uomini ragionevoli messaggeri di un altro mondo. Lo hanno fatto i vescovi che, con le loro cerimonie, erigevano ponti tra l’umano e il divino. Lo ha fatto il papa che, nel corso dei secoli, ha persino umiliato il suo corpo dentro un cerimoniale che anticipava la liturgia celeste.
A fronte di tutto questo, il minimalismo rituale inaugurato da papa Francesco può difficilmente essere visto come qualcosa di diverso da una decostruzione. L’identificazione tra la persona di J M B e il ruolo del pontefice, che grazie a i media si fa sempre più perfetta, sta finendo di smontare la tradizionale immagine del papa. I media, inabili a comprendere l’istituzione divina, sono voraci della fisicità del pontefice. Non sanno che farsene della medievaleggiante e impersonale “persona papae”, della “persona del papa”, preferiscono cibarsi di una postmoderna corporeità priva di simboli che rimandino a un mondo ulteriore.
Quella gran macchina istituzionale e rituale che è la “persona papae”, oggi additata da un malinteso senso dell’umiltà come inutile sovrastruttura superata dai tempi, nasce da una vera e propria sottomissione della persona fisica all’istituzione. “Nessun altro sovrano medievale e moderno” scrive Agostino Paravicini Bagliani in un saggio sul “Potere del Papa” “è stato sottomesso ad una così complessa e continua creatività retorica e rituale di caducità, destinata a ricordare al pontefice romano che la potestas che gli è stata affidata cessa con la sua morte. E per nessun altro sovrano medievale e moderno fu messa in opera un’ecclesiologia, una ritualità e una inventività simbolica avente l’obbiettivo di costruire una ‘supra-persona’, ossia la ‘persona papae’”.
A partire da Pier Damiani con la sua lettera “De brevitate vitae pontificum Romanorum” per arrivare fino a Egidio Romano, teologo di Bonifacio VIII, i medievali hanno messo a punto un sapiente dispositivo di autoumiliazione che, ricoprendolo di abiti, di simboli e di riti, annullava l’uomo fisico eletto al soglio di Pietro per erigere la “persona del papa”. A nessun altro cristiano era chiesto un simile sacrificio e anche cerimoniali come quello delle ceneri avevano elementi di ulteriore umiliazione nei confronti del pontefice romano. Ma era proprio attraverso il massimo dell’umiliazione della persona fisica che poteva risplendere la figura del Vicario di Cristo. Nel 1178, il cardinale Bosone, narrando il ritorno trionfale di papa Alessandro III a Roma dopo la vittoria sull’imperatore Federico Barbarossa, scriveva “Allora tutti guardarono il suo volto come il volto di Cristo di cui egli fa le veci in terra”.
Lo splendore rituale e istituzionale di questa macchina celeste ha affascinato i raffinati uomini medievali e ha permesso ai cattolici di ogni tempo di gridare “Viva il papa” chiunque fosse il papa. Per questo piace poco al mondo che, non comprendendone la natura, tenta di renderla inoperante disabilitando i destinatari del messaggio: è difficile immaginare che anche una minima parte dei dieci milioni di follower di papa Francesco pensino di cinguettare con la “persona papae”.
Ma all’opera del mondo, per quanto tenace e capillare, sopravvive sempre, qualche vestigia celeste, il segno di un amore insopprimibile, perché la carne della “persona del papa”, a differenza di quella dei singoli pontefici, è quasi spirituale e non può morire.
Questa certezza si è sempre trasmessa oltre le grandi celebrazioni per arrivare intatta con tutta la sua forza sino ai più semplici gesti privati, come mostra Chesterton raccontando il suo incontro con Pio XI: “In realtà avevo un tale turbine nel cervello che non so davvero dire di che cosa fosse frutto ogni mia parola. Poi fece un gesto e ci mettemmo tutti in ginocchio e nelle sue parole che seguirono compresi per la prima volta quello che diede origine all’uso del pronome plurale di cerimonia e all’improvviso vidi il significato di quella che m’era apparsa un’abitudine regale priva di significato. Con una voce forte che non pareva più la sua incominciò a dire: ‘Nous vous bénissons’, e io compresi di trovarmi di fronte a qualcosa che trascende infinitamente l’individuo, compresi che nel ‘Noi’ sono veramente inclusi Pietro e Gregorio e Ildebrando e tutta la dinastia che non muore. Poi, mentre egli proseguiva, ci rizzammo in piedi, uscimmo dal palazzo tra gruppi di svizzeri e di guardie papali e ci ritrovammo all’aperto. Dissi al dignitario ecclesiastico: ‘Ho avuto paura più di quanto ne ho mai avuta nella mia vita’ e il dignitario ecclesiastico rise di me”.
Quel gran cattolico di Chesterton la sua paura se l’è gustata per tutta la vita come fa un bambino con il balocco più prezioso. Ma se l’avesse confessata oggi, nella chiesa della tenerezza e della misericordia, qualcuno gli avrebbe nascosto il giocattolo chissà dove: per aiutarlo a diventare adulto e almeno un po’ mondano.
«il Foglio», 6 novembre 2013