LA VITA DI SAN GERARDO
Gerardo Maiella, Missionario Redentorista, è invocato in tutto il mondo come il Santo delle mamme e dei bambini. Spentosi a Materdomini il 16 ottobre del 1755 alla giovane età di 29 anni, la sua breve esistenza sarà nota come la "Vita meravigliosa di san Gerardo Maiella"
Al pari di qualsiasi altro personaggio, san Gerardo Maiella bisogna prenderlo così com'è: una copia del Cristo sofferente, un fanatico della volontà di Dio, un carismatico cacciatore di anime, un mistico spesso in estasi, un seminatore di miracoli. Nascondere i suoi miracoli sarebbe come rifiutare la storia e scrivere un romanzo. Sarebbe come negare, in Gerardo, la virtù che fu poi la fonte di tutte le altre: "una fede capace di trasportare le montagne", secondo la promessa del Signore (Mt 17,20). Certo l'entusiasmo che un taumaturgo lascia dietro di sé si ingrossa e si allarga sempre di più. Come in ogni altro Santo, è evidente che la luce irradiata da Gerardo non è autonoma: egli è solo luce riflessa del Cristo. La sua vita non ci parla d'altro che della forza del Redentore, il quale, con il dono dello Spirito, ci libera, ci guarisce, ci rinnova; il suo insegnamento è eco fedele del Vangelo; gli orizzonti, verso i quali ci proietta, sono quelli aperti dalla croce e dalla risurrezione del Cristo. Riferirsi a Gerardo significa voler fissare lo sguardo, in maniera sempre più intensa, su Cristo; riconoscere in lui il solo nostro maestro (cf Mt 23,10); ripetergli con Pietro: «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).
l'infanzia e l'adolescenza
Il «fratello inutile» era nato il 6 aprile 1726. Domenico Maiella e Benedetta Galella al battesimo lo chiamarono Gerardo. Ebbe un'infanzia difficile. La povertà era l'unica cosa che non mancava mai nella sua casa, e quando mancava il necessario egli andava a rifugiarsi nella cappella della Vergine a Capodigiano. «Il Figlio di quella bella Signora» pensava a Gerardo, e spesso si staccava dalle ginocchia della Mamma per donare al piccolo amico un panino bianco. Il fatto del pane bianco si ripeté più volte, «per molto tempo». Solo più tardi, da religioso, Gerardo dirà a sua sorella Brigida: «Ora so che quel fanciullo che mi regalava quel pane era lo stesso Gesù».
L'incontro con Gesù presente nell'Eucaristia
Il dono del pane bianco lo aveva indotto a scoprire un altro pane, anch’esso bianco, benché più piccolo. Lo scorgeva in chiesa, alla messa, quando i fedeli si accostavano alla balaustra. Qui aveva capito anzitempo che si trattava di Gesù. Andò anch’egli una mattina, ma il prete lo vide piccolo e lo rimandò a sedere. A otto anni, in quel tempo, si era piccoli per l’eucarestia, ma Gerardo s’era incamminato da tempo verso la conoscenza del suo Signore. Le lacrime versate in chiesa continuarono a bagnare il lettino scarno della sua povera stanzetta. Il prete aveva detto no, ma Gesù avrebbe risposto sì al suo piccolo amico. Di notte gli inviò l’arcangelo Michele a porgergli il pane consacrato. Al mattino seguente, felice e trionfante, confessava candidamente: «Ieri il prete mi ha rifiutato la comunione, questa notte l’arcangelo san Michele me l’ha portata». Anche questo episodio, apparentemente fantastico, verrà confermato dallo stesso Gerardo vent’anni dopo.
L'esperienza del lavoro
Il murese monsignor Albini cercava un domestico. Ne aveva avuti tanti, ma nessuno aveva resistito. Il carattere del prelato scoraggiava chiunque. Al contrario entusiasmò Gerardo. Forse non sapeva cosa l'aspettava, ma egli cercava l'imitazione del Crocifisso, e per lui, sacrifici e rimproveri erano grazia. All'episcopio di Lacedonia ne trovò in abbondanza. Alle occasioni che gli offre monsignore aggiunge digiuni, flagellazioni, notti di preghiera: pallido e vacillante, ma sempre sereno e sorridente. Anche quando per una malaugurata distrazione si lascia sfuggire di mano la chiave dell'appartamento, mentre attinge acqua dal pozzo. «Cosa dirà monsignore?».
Imperturbato nella sua serenità, sfreccia verso la cattedrale, stacca da una nicchia una statuetta di Gesù bambino e la lega al posto del secchio. Poi ordina: «Va' giù, e riportami la chiave!». Gesù obbedisce a Gerardo, e torna con la chiave in mano. Per i presenti, accorsi ammirati, quello sarà «il pozzo di Gerardiello».
Presso monsignor Albini impiegò tre anni di assiduo servizio, felice di essere impegnato e vilipeso per il carattere poco dolce del suo pastore. Alla sua morte lo pianse sinceramente, forse lui soltanto, per «aver perduto il miglior amico». Ciò che effettivamente aveva perduto era l'occasione quotidiana di essere maltrattato e maltrattarsi. Tornato a Muro e fallito il progetto di farsi cappuccino, tentò con un amico l'esperienza del romitaggio. La solitudine e l'indigenza fecero ritirare il compagno sprovveduto, e Gerardo, rimasto solo, fu costretto anche lui al ritiro.
Di nuovo sarto
Si ricordò di essere stato sarto. Aprì bottega da solo. Non era bravo nel mestiere, e il desiderio della preghiera era più forte di quello del lavoro. Divenne noto come «il sarto fate voi», per la sua ridotta capacità e per il suo scarsissimo profitto. Alla sua poca abilità però sopperiva con i prodigi: buono a nulla forse, ma santo. Perché le ore le trascorreva più in chiesa che in bottega. Doveva farsi violenza per strapparsi dal suo Gesù, «prigioniero» del tabernacolo. Quando non poteva passare con lui le ore del giorno, approfittava della notte, sacrificando il sonno per conversare con il suo Amico. Una volta dal tabernacolo uscì una voce misteriosa di dolce rimprovero: «Pazzerello!». E Gerardo spontaneo: «Più pazzo siete voi, Signore, che per amore ve ne state prigioniero nel tabernacolo».
Pazzia d'amore che si manifestò in altra circostanza. La terza domenica di maggio, a Muro, si preparava la solenne processione della statua dell'Immacolata. Gli occhi della gente erano puntati sulla dolce immagine. Anche quelli di Gerardo, immobile ed estatico. Improvvisamente, egli saltò sulla pedana del trono, si tolse l'anello che aveva al dito e lo infilò al dito della Vergine, esclamando ad alta voce: «Mi sono fidanzato alla Madonna!». Per attuare il suo progetto di santità l'ambiente di Muro non gli bastava.
Gerardo conosce i Missionari Redentoristi
Ai primi di agosto 1748 due religiosi redentoristi - abito talare ornato di una lunga corona alla cintura e collarino bianco - attraversata la Sella di Conza, salirono a Castelgrande e si diressero verso Muro Lucano. Ai loro occhi apparve una bianca cascata di case picchiettate di verde: qualcosa di fiabesco.
Dopo una pausa breve di ingenuo stupore, padre Francesco Garzilli e fratel Onofrio Ricca cominciarono a bussare alle porte questuando offerte per il santuario di Materdomini, a Caposele. Era in costruzione una nuova casa della Congregazione del Santissimo Redentore.
I Redentoristi erano stati ideati da Alfonso Maria de Liguori nel 1732 a Scala, sull’altopiano di Amalfi. Lassù, a oltre 1000 metri, questo nobile napoletano, già avvocato a sedici anni, poi sacerdote e missionario, nella solitudine di una chiesetta montana, Santa Maria dei Monti, ripensò alla sua città, teatro di sfarzi e di cultura, e sperimentò l’abbandono dei pastori in terre povere e desolate. L’impatto fra due realtà tanto stridenti fu l’ultima spinta alla sua «conversione». La Congregazione nascente avrebbe dovuto avere come scopo la cura delle anime più abbandonate, prive di qualsiasi soccorso spirituale. Furono costruiti così i collegi di Ciorani, Pagani, Deliceto. Ora si pensava a Caposele. L’arcivescovo di Conza, monsignor Giuseppe Nicolai, aveva offerto ad Alfonso il romitorio e la chiesetta di Materdomini per farne un centro di spiritualità nella diocesi. Continuando il loro giro, i due ambasciatori di Alfonso de Liguori e della Vergine Materdomini, inconsapevoli apportatori di un messaggio divino, si imbatterono in un giovane alto e gracile, dalla testa grossa e dagli occhi profondi, che agucchiava nella sua botteguccia di sarto. Quel giovane, contro qualsiasi previsione umana, un giorno sarebbe stato redentorista.
Il 13 aprile 1749 alcuni Missionari Redentoristi intrapresero nella cittadina lucana una sacra missione. Scoccò l’ora della chiamata definitiva. L’ideale di santità vivente in quei missionari era il suo ideale: sentì che quella era la sua strada, la sua vocazione. Però la sua richiesta ufficiale trovò l’ostacolo della sua gracile costituzione fisica. Padre Paolo Cafaro, uomo di virtù e d’intelligenza, lo fissò e fu inesorabile: «La nostra vita non è per te». Anche mamma Benedetta, per diverso motivo, era contraria alla decisione del figlio, e ne parlò al superiore della missione. Conoscendo bene la testardaggine del figlio, lo serrò in casa il giorno della partenza dei missionari. Poteva una porta chiusa fermare la volontà di Dio?
VADO A FARMI SANTO
Le campane di tutte le chiese suonavano a gloria il commiato del popolo di Muro agli evangelizzatori partenti. La gente si riversava sulle vie, porgeva un ultimo saluto, chiedeva l’ultima benedizione. Solo in casa, recluso, il giovane cercatore di Dio, dalla finestra al piano superiore ascoltava il tripudio delle campane e il brusio della folla. Smaniava. Ogni minuto rappresentava una distanza sempre più grande fra lui e i missionari. Due obbedienze combattevano nel suo animo: alla madre o a Dio? Il bivio tremendo esigeva pronta soluzione. Scrisse su un foglio: «Mamma, perdonami. Non pensare a me. Vado a farmi santo!». Annodò due lenzuola, scavalcò il davanzale e fu in strada, correndo da disperato. I missionari avevano lasciato l’abitato e si avviavano verso Rionero in Vulture.
Appena scorse i missionari, senza fermarsi, egli cominciò a gridare: «Padri, aspettatemi!». In mezzo alla via, nel sole e nella polvere, rinnovò la domanda. Padre Cafaro, dal canto suo, rinnovò il rifiuto: «Figliuolo, torna a casa; tu non puoi riuscire nel nostro Istituto». «Sperimentatemi, e poi mi licenzierete», insisteva logicamente il postulante. L’insistenza aprì la mente al santo missionario che scelse una via di mezzo: lo spedì al superiore di Deliceto con questo foglio di presentazione: «Vi mando un fratello inutile, riguardo alla fatica, perché è molto gracile di conformazione; per altro non ho potuto farne a meno, attesa la di lui insistenza e il credito di giovane virtuoso che gode nella città di Muro».
Gerado entra nei Redentoristi
Da redentorista la sua vita cambiò. Entrato nella casa di Deliceto, in Puglia, vero eremitaggio, a Gerardo parve di entrare nell’anticamera del paradiso. L’accoglienza che ebbe non fu incoraggiante: tutti, a vederlo, scrollarono il capo. Che ne avrebbero fatto di un soggetto che pareva reggere l’anima coi denti? Ma egli aveva chiesto di essere sperimentato; e il padre D’Antonio, che reggeva quella comunità, lo mise alla prova. Al bosco, alla cucina, al refettorio, al forno, alle costruzioni, alle pulizie, dovunque si faticasse, invariabilmente giocondo e volenteroso, era presente Gerardo. Un grande miracolo di volontà e di energia, durato sei mesi, quanti bastarono per far cambiare opinione ai confratelli sul suo conto. Come se avesse previsto breve il corso della sua vita, cercò di guadagnare in intensità ciò che poteva costruirsi in lunghi anni. Scelse il rigido padre Cafaro come modello e moderatore nella virtù. Ecco i suoi primi impegni:
«Primo proposito: posuit me Deus in paradiso voluptatis. Sappi, o Gerardo, che Dio ha strappato te dal mondo e ti ha posto qual novello Adamo in questo paradiso della Congregazione, al solo fine che operi e che metta in esecuzione i precetti e i consigli del suo santo Vangelo, che hai nelle regole. Misero te, se le trascuri. Secondo proposito: avrò cura d’essere minuto osservatore d’ogni cosa delle regole, di perseverare e crescere nel bene, di impegnarmi principalmente nell’unione con Dio».
Nonostante questi propositi, ai confratelli Gerardo sembrò molte volte interprete libero delle regole della Congregazione. Egli era guidato dalla legge dello Spirito, che spesso lo liberava da quella scritta. Egli però riteneva di non essere ancora abbastanza sottomesso allo Spirito, quindi ce la metteva tutta per pregare e mortificarsi. Il suo direttore padre Cafaro insegnava: «Per farsi santo bisogna agonizzare e agonizzare sempre, attenendosi a mortificarsi in tutto, nel cibarsi, nel bere, nel dormire, e in ogni altra cosa». E Gerardo risolutamente si proponeva: «Una volta sola ho l’occasione di farmi santo; se la perdo, la perdo per sempre». Lo aiutarono in questo sforzo di imitazione del Maestro le circostanze ambientali. Già a Muro i ragazzi di strada avevano trovato in lui l’esca del divertimento. In seguito fu una guardia campestre del duca di Bovino a malmenarlo col calcio del fucile e a colpirlo fino ad offendergli una costola. I confratelli, che poco credettero alla sua santità, lo derisero chiamandolo fannullone e pazzo. Per non dire dell’abbandono in cui veniva lasciato, della solitudine dello spirito o dell’aridità. Il padre Antonio Tannoia, suo biografo e contemporaneo, racconta che si faceva stendere su una croce, a somiglianza di Gesù; che nella settimana santa si straziava con cardi, catenelle, discipline a sangue, veglie notturne e digiuni; che la sera di giovedì pareva entrare in un’agonia interna misteriosa e torturante. La sua cella, con un saccone riempito di sassi per giaciglio e teschi di morto intorno, era il suo paradiso, dove si flagellava con punte di ferro e dormiva fasciato da cilizi.
Obbedienza eroica
Tutto questo eroismo ha una spiegazione: Gerardo aveva indirizzato la sua vita su questa massima: «Amare assai Iddio, unito sempre a Dio. Far tutto per Dio. Amare tutto per Dio. Conformarmi sempre al suo santo volere. Patire assai per Dio. È pena infinita patire; e non patire per Dio. Patire tutto e patirlo per Dio, è niente». Proprio così: quell’esemplare fratello era pervenuto a tal grado di rinunzia da non possedere più una volontà propria, ma da far vivere ed operare in lui la volontà di Dio. Di qui un’obbedienza cieca, alla lettera, fino a rasentare l’incredibile, l’impossibile.
Ecco a riguardo un altro suo proposito: «Dio mio, per amor vostro, io obbedirò ai miei superiori come mirassi in essi Voi stesso ed ubbidissi alla vostra divina persona. E sarò come non fossi più mio, ma quello che voi stesso siete nell’intelletto e nella volontà di chi mi comanda». Una decisione così radicale doveva sfociare in un’obbedienza eroica. E Dio rispondeva con i miracoli. Poiché il suo pensiero assiduo era il Signore, lo si vedeva assorto e spesso estatico in contemplazione, tanto da sembrare trascurato e distratto. Però, ad un cenno del superiore, scattava come una molla: «Fratel Gerardo, mettiti subito in viaggio per Ascoli Satriano». E Gerardo parte immediatamente, vestito come si trova: uno straccio di tonaca e un paio di ciabatte che trascina per i pavimenti della casa.
Vita da Missionario
È così che padre Cafaro lo incarica alla portineria con questa consegna: «Appena senti suonare, lascia tutto e corri ad aprire». Ed ecco, dalla cantina dove si trova a spillare il vino, il suono del campanello della portineria. Con la brocca in mano corre alla porta. «Dove vai con quell'arnese?», dice padre Cafaro. «Hanno suonato e corro ad aprire». «Ma vatti ad infornare!». Una cosa per volta, pensa Gerardo. Prima va ad aprire, poi va a rannicchiarsi nel forno. Lo scopre, tra cenere e fumo, il fratello panettiere. «Cosa fai lì dentro?». «Ordine del Superiore!». Occorre un nuovo intervento del padre Cafaro per stanarlo da quel buco. A proposito. E la botte aperta? Tutti si precipitano in cantina. «Dio scherza con fratello Gerardo», esclama il Superiore. Infatti, la botte è senza zipolo, ma neppure una goccia di vino è stata versata.
Padre Cafaro andò oltre nello sperimentare l'obbedienza del suo novizio: impartiva ordini a distanza, e Gerardo, puntuale, a coglierli e a eseguirli. Lo sperimentò anche il suo successore, padre Fiocchi. Mandò Gerardo a Lacedonia per recapitare una lettera, ma dimenticò di inserire una notizia importante. «Se potessi farlo ritornare!», pensò. Passarono pochi minuti, ed ecco Gerardo tornare alla porta: «Altri ordini, padre?». La fama di santità di Gerardo raggiunse l'episcopio di Melfi. Monsignor Teodoro Basta, conversando un giorno con padre Fiocchi, espresse il desiderio di conoscere il santo fratello. «Un po' di pazienza, monsignore - dice padre Fiocchi - e Gerardo sarà qui». In quell'istante Gerardo si presenta al vicerettore di Deliceto e dice: «Devo partire; il rettore mi chiama a Melfi». Quando arriva al palazzo episcopale, padre Fiocchi finge di non sapere nulla. «Gerardo, perché sei qui?». «Perché vostra riverenza mi ha chiamato». «Ma non ti ho inviato nessun corriere». «So che Monsignore vuole vedermi. Ma cosa vuole vedere? Un verme di terra, un peccatore, un miserabile bisognoso della misericordia di Dio?». Certo è che monsignor Basta rimase estasiato dalla conversazione con fratello Gerardo. Lo trattenne per più giorni.
Domatore di demoni
Poi, dovette partire. Il tempo piovoso, l'ora tarda, la nebbia fitta... non importa. L'obbedienza obbliga. E giù per la valle fino all'Ofanto, verso Lacedonia. Ma proprio sulle rive dell'Ofanto straripato l'attende l'insidia del nemico. Gerardo prega, trema dal freddo, colpito da scrosci d'acqua. All'improvviso un'ombra; no, qualcuno. Il cavallo sobbalza, uno sghignazzare frenetico e una voce dall'abisso: «Ora non puoi più niente. Sei nelle mie mani». «Ah, sei tu, bestia d'inferno! Nel nome della Trinità ti ordino di prendere le briglie e guidarmi fino a Lacedonia». Ruggendo e digrignando, il demonio trascina tra selve e impervi sentieri il suo domatore fino all'ingresso del paese, dove sorge una cappella dedicata alla Santissima Trinità, appunto.
Altre volte Gerardo provoca l'apparizione del demonio per strappare le anime al peccato. Siamo a Deliceto. Un gentiluomo, che all'apparenza sembra di tutto rispetto e devozione, ma che nell'intimo nasconde passioni e peccati, viene avvicinato da Gerardo che smaschera il suo perbenismo. Alla difesa strenua della sua condotta, il Santo oppone un elenco interminabile di misfatti, fino a fargli vedere il demonio pronto a trascinarlo all'inferno. A un altro che nascondeva i peccati nella confessione toccò la stessa spaventosa visione. Leggeva nelle coscienze, riusciva a prevedere i pericoli, interveniva con la forza dello Spirito Santo.
Apostolo a Corato
Nella primavera del 1753 lo troviamo a Corato, in Puglia. Sarà ospite della famiglia Papaleo, ma Gerardo non la conosce, né sa dove abita. Come sempre si affida al buon Dio e al suo... cavallo. Infatti, abbandona le briglie e lascia che la bestia trovi la casa. Incredibile. Il cavallo, dopo aver attraversato diversi vicoli, si ferma davanti ad una porta. Gerardo domanda: «Don Felice Papaleo?». «Sì, abita qui».
È tempo di Quaresima e nella chiesa si prepara la Pasqua. Il clero di Corato si contende fratello Gerardo; è una missione prolungata. Il sacerdote don Francesco Saverio Scoppa, scrivendo a padre Fiocchi, dirà: «Reverendo Padre, non potete immaginarvi la folla che seguiva fratel Gerardo per la città. Il popolo non tralasciava di stargli vicino e di portarlo in trionfo come se egli fosse un santo disceso dal cielo. Poiché non bastavano le giornate per trattenersi con lui, calata la sera, la casa del signor Felice Papaleo si riempiva di una folla di preti, di gentiluomini e di altri che, per il desiderio di ascoltare il santo fratello, non lo abbandonavano fino alle sei e alle sette di sera, stimolando sempre il buon fratello a parlare di Dio. Non so come spiegarvelo, caro padre, ma tutte le parole uscite dalle labbra di Gerardo, andavano diritte al cuore degli ascoltatori. Mentre parlava di Dio, tutti tacevano e si sentivano solo profondi sospiri. Nessuno possiede, come lui, il dono di intenerire e di toccare le anime più indurite».
Due fatti in particolare caratterizzarono il suo soggiorno coratino. Intervenne con coraggio per fare murare una finestra del monastero delle Domenicane, occasione di distrazione continua per le religiose, e liberò con un segno di croce un campo infestato da topi, che costituivano la disperazione dei contadini.
Il pellegrino di San Michele
È ancora la Puglia il campo d'azione di Gerardo. Deliceto è il faro d'irradiazione. Questa volta la spinta parte dall'interno. Sono i giovani studenti della sua comunità a chiedere l'intervento di Gerardo. Hanno espresso al superiore il desiderio di recarsi in pellegrinaggio al monte Gargano, per venerare il celebre santuario di San Michele. Le difficoltà sono sempre le stesse, quelle economiche. Nella cassa comune sono disponibili solo trenta carlini. E allora? Affidarsi a fratello Gerardo; lui ha una certa dimestichezza con la Provvidenza. Organizzarsi e partire: tredici persone, per nove giorni, con trenta carlini. Si suddivide il viaggio in tre tappe. Fino a Foggia è una bazzecola. Da Foggia a Manfredonia si comincia a sentire la stanchezza; è necessario noleggiare un carro. Così i carlini se ne vanno quasi tutti, e con i pochi rimasti comincia il gioco di Gerardo con la Provvidenza. Compera pochi garofani e invita la comitiva a salutare Gesù eucaristia. Rivolto al tabernacolo, dice: «Signore, noi abbiamo pensato a voi, voi pensate a questi giovani». Lo hanno ascoltato due sacerdoti. Uno offre la cena e l'alloggio per la notte, l'altro un buon gruzzolo.
Si scalano a piedi gli 843 metri di montagna e ci si immerge nel silenzio e nella preghiera davanti a San Michele. Stanchi, ma felici. Per Gerardo è un incontro con un caro amico. Ricorda la sua prima comunione, e va in estasi. Sulla via del ritorno si fermano per dissetarsi a un pozzo di campagna. In Puglia l'acqua vale oro. Il contadino ha nascosto secchio e catena, e senza scrupoli, allontana i pellegrini assetati. «Se tu neghi l'acqua al prossimo, il pozzo la negherà a te», ammonisce Gerardo e si allontana. Il pozzo secca a vista d'occhio. «Per carità, tornate; attingerò io stesso l'acqua per voi», implora il contadino. L'acqua ritorna e il contadino disseta uomini e bestie. Poi Gerardo l'esorta: «Fratello, sii buono e generoso, se vuoi che Dio lo sia con te!».
Messaggero di pace
Messaggero di pace, trovava modo di penetrare nella coscienza dei più duri. A Castelgrande, in Basilicata, riuscì a pacificare due famiglie in lotta per l'uccisione di un giovane, ricorrendo a uno stratagemma da consumato missionario. Dopo aver parlato di perdono per ore e notata la durezza di cuore delle parti, divenute sempre più rigide per l'aizzare dei parenti, Gerardo con voce autorevole e occhi lampeggianti ordinò: «O per amore, o per forza, voi dovete perdonare. Prima venni qui mandato da altri, ora è Dio che mi manda». Gli astanti lo guardavano cominciando a tremare. Egli si inginocchiò, trasse dalla cintola il suo Crocifisso, lo pose in terra, e disse al gruppo familiare: «Avanti, calpestatelo!». E poiché quelli indietreggiavano, incalzò: «Non c'è via di mezzo: o perdonare, o calpestare Gesù; perché conservare odio è come mettersi sotto i piedi Colui che ha comandato il perdono». La vittoria fu sua; i nemici si abbracciarono.
A Castelgrande Gerardo lasciò un'impronta indelebile. Padre Tannoia riassume i frutti spirituali della sua sosta: «La sua gita colà fu una missione per tutti. Assistendolo il dono di Dio, non lasciò di mettere avanti a tutti lo stato della loro coscienza. Furono così efficaci le sue parole, che in tutti si vide una mutazione. Fra l'altro convinse e guadagnò a Gesù Cristo quindici giovinastri, che col loro scandalo, rovinavano gli altri, e perché prepotenti, non facevano conto di alcuno». Li convinse e li guidò lui stesso al santuario di Materdomini per farli confessare. I circa trenta chilometri che separano Castelgrande da Materdomini furono poi percorsi lietamente dal gruppo dei quindici giovani che scortavano il santo fratello. Strano e originale corteo che all'arrivo al santuario commosse il padre Cafaro e gli fece esclamare: «Dove arriva costui, porta la rivoluzione!».
Un quinto voto e tanta umiltà
Impegnato a tempo pieno nel servizio del Signore, sempre attento alla volontà dei Superiori, riusciva a conservare lo spirito di orazione anche disbrigando gli impieghi più umili e laboriosi. Era convinto di quanto si era proposto: «Da ora metti giudizio e pensa che non ti faresti santo con lo stare solo in continua orazione e contemplazione. La migliore orazione è stare come piace a Dio: essere attento al divino volere, cioè in continui impieghi per Dio. Veramente quanto si fa per Dio solo, tutto è orazione». A questo suo proposito egli rispose non soltanto con l'osservanza dei tre voti di consacrazione religiosa, povertà, castità e obbedienza, e col voto di perseveranza nella Congregazione, ma aggiungendone un quinto, quello «di scegliere il più perfetto in ogni cosa davanti a Dio». Apprezzava la consacrazione religiosa come un particolare dono dell'amore di Dio. La viveva con generosità ed eroismo, e ne parlava con entusiasmo: «Che bella cosa essere tutto di Dio! Lo sanno quelle benedette e beate anime che lo provano: provatelo voi pure e poi me lo direte. Che serve amare il mondo, se non per provare continuamente triboli ed amarezze? Or via, non ci vuol altro; il vostro cuore, da oggi avanti, ha da essere tutto di Dio ed in esso non ci ha da abitare altro che Dio solo; e quando vedete che ci vuole entrare qualche altra passione o altra cosa che non è di Dio, dite fra voi stesso: Il mio cuore è preso, se l'ha pigliato Dio, il mio caro».
Per amore sole per amore
Ad una religiosa scriveva: «Considerate, vi prego, la brevità del mondo e la lunghezza dell’eternità; e riflettete che ogni cosa finisce. Finisce ogni cosa a chi visse nel mondo, come se mai fosse stato del mondo. Dunque a che serve appoggiarsi su di che non può sostenere? Ahi, tutte quelle cose che non ci portano a Dio, tutte sono vanità, che non ci possono servire per l’eternità. Povero chi confida nel mondo e non in Dio». E Dio, da parte sua, rispondeva con i prodigi alla generosità del suo servo. «Signore, tu operi molte cose per mezzo di me peccatore; ma poi, perché le fai sapere a tutti quanti?», lamentava Gerardo la fama che la sua santità diffondeva dovunque passava.
Un giorno arrivò a Deliceto un giovane con una cancrena a una gamba; lo accompagnavano i suoi genitori che imploravano la guarigione da fratello Gerardo. Fu proprio lui, il Santo, ad aprire la porta. «Vogliamo vedere fratello Gerardo». «Cosa desiderate da lui?». «Veniamo a domandare di guarire nostro figlio». Gerardo scopre la piaga: uno spettacolo raccapricciante. La tenerezza per quell’ammalato lo improvvisa infermiere. Lava, medica, benda, bacia quella gamba e invita il giovane a riposare. Poi scompare. Poche ore dopo anche il male è sparito e il giovane non riesce ad incontrare più il provvidenziale infermiere per ringraziare. Riconoscendosi ultimo tra i confratelli, era sollecito ad ogni servizio di comunità. Sceglieva sempre l’ultimo posto e la camera più angusta e disadorna; il pagliericcio conteneva più pietre che paglia.
Il grande gioco della croce
Ma fu la prova di una calunnia atroce, che lo vide mortificato e castigato dal fondatore sant’Alfonso, a fornire a Gerardo l’occasione di esprimere la sua umiltà e la capacità di silenzio sofferto e offerto. Il desiderio di vedere amato «il suo caro Dio» gli comunicava un particolare zelo per le anime consacrate. Quando notava un germe di vocazione monastica in qualche giovanetta, si prodigava a coltivarlo, impegnandosi perfino nel procurarle la dote per l’ingresso in monastero. Tra le Benedettine di Corato, le Carmelitane di Ripacandida, le Redentoriste di Foggia si trovavano ragazze guidate dallo zelo di Gerardo. Tra queste ultime, una certa Nerea Caggiano. Non era fatta per il monastero: resistette tre settimane, e furono molte. Bisognava giustificare il suo ritorno in famiglia, a Lacedonia: le suore... e quel benedetto fratello Gerardo... L’insinuazione fece nascere il sospetto; la gelosia completò l’iniquo disegno. Nerea accusava Gerardo di tenerezza per una sua coetanea, Nicoletta Cappucci. Anche don Benigno Benincasa credette a Nerea. Una lettera raggiunse sant’Alfonso. «Non è possibile!», esclamò il fondatore. Però la controfirma dell’amico sacerdote Benincasa faceva fede. Davanti a sant’Alfonso, Gerardo restò estasiato: «Padre, voi avete una faccia di paradiso!», gli disse, ma non sapeva cosa lo aspettava. Alla lettura della lettera, segue un grande silenzio. «Non ti dimetto, ma ti proibisco di parlare e di scrivere a chiunque, e ti proibisco di ricevere l’eucaristia». Gerardo tace ancora.
L'innocenza riconosciuta
A Ciorani, nella casa di noviziato, dove fu inviato per punizione, tutti guardavano «il colpevole», e si meravigliavano per la sua imperturbabilità. La vera sofferenza è restare senza l’eucaristia. Un sacerdote lo invita a servire la messa: «No, padre - dice Gerardo - vi strapperei l’ostia dalle mani!». Qualcuno, conoscendolo bene, lo invita a manifestare la sua innocenza al fondatore: «Si muoia sotto il torchio della volontà di Dio - risponde Gerardo - io mi sono affidato ad un avvocato più potente». Ed ecco la verità. Nerea Caggiano e don Benigno Benincasa riscrivono a sant’Alfonso. La prima, tormentata dai rimorsi per aver calunniato un santo, il secondo, confuso per la sua imprudenza.
Questa volta è il fondatore a chiedere scusa all’umile fratello: «Ma perché non mi hai parlato?». «Padre mio, come avrei potuto farlo? La regola non ammette che ci scusiamo davanti ai Superiori». Sant’Alfonso, che non era uno sprovveduto, comprese che stava trattando con un eccezionale eroe di santità.
Alla morte di Gerardo sarà lo stesso fondatore a ordinare di raccogliere notizie sulla vita e le virtù del Maiella.
Gli ultimi mesi di vita
Nel mese di giugno del 1754 il Santo viene inviato a Materdomini. La minuscola borgata aveva assunto il nome della Vergine «Madre del Signore», alla quale era dedicato un piccolo santuario costruito quasi a picco sulle sorgenti del Sele, fiume che alimenta l'Acquedotto Pugliese. Sant'Alfonso, inviandolo a Materdomini, pensò di fargli dimenticare i giorni tristi della «calunnia». Intanto padre Francesco Margotta, procuratore della Congregazione, dovendo trattenersi a Napoli per affari amministrativi, condusse con sé fratello Gerardo. Da Napoli Gerardo scriveva: «Io mi trattengo in Napoli per compagnia di padre Margotta, e ora più che mai me la scialo col mio caro Dio!» (cioè me la spasso). Passava di chiesa in chiesa, dove si celebravano le Quarantore, e sostava ore e ore in preghiera. Il resto del tempo lo passava nella visita agli ammalati dell'ospedale «Incurabili», già frequentato da sant'Alfonso.
E giunse anche il giorno del trionfo
Nella baia di Napoli imperversava una tempesta. Gerardo era uscito di casa per le spese necessarie alla giornata. Al largo della «Pietra del pesce» un gruzzolo di gente urla e si dispera, attirando l'attenzione dei passanti e richiamando altra gente. «Sarà successo qualcosa di grave», pensa Gerardo. In effetti, una barca di pescatori fa fatica a raggiungere la riva, travolta da onde impetuose, che minacciano di capovolgerla. Nessuno immagina come portare aiuto. Ci pensa fratello Gerardo. Una preghiera silenziosa, occhi al cielo, un segno di croce, il mantello sul braccio, e via: «In nome della Santissima Trinità» dice. Corre, camminando sull'acqua, e «con due ditelle» - come dirà lui stesso a padre Margotta - afferra la prua della barca e la trascina a riva. La folla delira; dimentica barca e pescatori e va dietro al Santo, scandendo ad alta voce il suo nome. Ma Gerardo s'è già dileguato tra i vicoli del quartiere. La notizia del miracolo volò sulle ali del vento, e Gerardo non riusciva più a mettere piede in strada, perché tutti gli correvano dietro.
Ritirandosi a casa, sostava nelle botteghe degli artisti a San Biagio dei Librai. Apprese così a usar la cartapesta e, una volta ritornato a Materdomini, si esibì in un celebre Ecce Homo e in alcuni Crocifissi: immagini che si conservano come reliquie. Queste opere, forse poco artistiche, riflettono lo stato d'animo dell'autore. Il Cristo appassionato era stampato nel cuore di Gerardo fin dal tempo di Muro Lucano. Da giovane aveva già impersonato il Crocifisso in una rappresentazione del venerdì santo a Muro, suscitando commozione e lacrime negli astanti. In seguito, da religioso, si era impegnato con tutte le forze a trasformarsi progressivamente nell'immagine del Redentore. A Napoli, questa crocifissione mistica raggiunge i vertici. Aridità di spirito, desolazione interiore, abbandono, forse il ricordo della calunnia subita, certamente le sofferenze di una malattia che comincia a manifestarsi...
Gerardo a Materdomini: Il padre dei poveri
Trascorso velocemente il soggiorno a Napoli, ritornò a Materdomini. Qui Gerardo trovò un cantiere di lavoro che completava la fabbrica del collegio, e insieme religiosi e laici, ritirati in esercizi spirituali. Il superiore, padre Gaspare Caione, trovò subito l'impiego a fratello Gerardo: gli consegnò le chiavi della portineria. «Queste chiavi devono aprirmi le porte del Paradiso», profetizzò Gerardo. E Materdomini divenne un faro di fede e di carità. Correvano dai cento paesi della Valle del Sele per ascoltare la sua voce, perché aveva «una bocca di Paradiso», che consolava e infondeva speranza; correvano sacerdoti e gentiluomini per consigli e preghiere; correvano soprattutto i poveri. Come il Maestro, passava facendo del bene. «La carità si deve fare sempre», esclamava, privando se stesso e la comunità per dare ai poveri. Il rimprovero del superiore e dei confratelli trovava immancabilmente questa risposta sulle sue labbra: «Dio provvederà». E provvedeva il Signore, come a Capodigiano, come a Monte Sant'Angelo, come tante volte, spalancando i granai dei benefattori al passaggio dell'umile fratello.
Durante l'inverno 1754-1755 a Materdomini «erano caduti tre palmi di neve», e i braccianti, pagati a giornata, restarono senza lavoro per diverse settimane. In quel terribile inverno sbocciò eroica la carità di Gerardo. Alla portineria del convento giungevano a frotte uomini, donne e bambini coperti di stracci, i piedi affondati nella neve. Anche il superiore della comunità restò toccato da quello spettacolo che si ripeteva ogni mezzogiorno. Diede licenza a Gerardo di pensare ai poveri. Non occorreva altro. Il santo portinaio cominciò a svestirsi dei suoi indumenti e, pian piano, svuotò il guardaroba e la dispensa. C'era qualcosa per tutti. I piccoli intenerivano maggiormente il suo cuore: «Noi abbiamo peccato - diceva - e questi innocenti ne portano la pena».
I confratelli notavano la sensibile diminuzione delle provviste e lanciarono l'allarme: «Qui manca tutto e i poveri aumentano!». E Gerardo con tono sicuro rispondeva: «Voi avete il cuore piccolo e non sapete quanto è grande Dio e quanto onnipotente è la sua mano. Se ne dubitate, mettiamolo alla prova: offriamo un pranzo di festa ai poveri, poi vedrete che cosa egli sa fare». Il giovedì seguente Gerardò chiamò a raccolta più di cento poveri. La sua carità aveva contagiato i confratelli che gioiosi servivano a mensa. Al pari del profeta Elia, moltiplicò farina e olio, che non mancò per i confratelli, e i poveri continuarono ad affluire numerosi. Quell'umile fratello era diventato per quanti bussavano alla portineria di Materdomini «il padre dei poveri». Il suo motto era: «Dobbiamo sacrificare tutto per il povero che è l'immagine di Gesù Cristo». Dove non arrivava con le provvigioni, arrivava con le parole, con la presenza affabile e confortatrice.
Teologo improvvisato
Dio lo guidava per la strada ardua, e lo rendeva simile a sé. Ricevette il carisma della profezia, riuscì a tirare peccatori sulla via del bene rivelando i segreti del cuore, e a guidare alla vita monastica e alla perfezione anime consacrate. Anche sacerdoti e teologi più scettici ammisero che la scienza di Gerardo era frutto della sapienza vera, alla quale lo Spirito lo aveva iniziato e alla quale lo guidava per la comprensione dei misteri di Dio. Aveva scritto nei suoi propositi: «Io mi eleggo lo Spirito Santo per unico mio consolatore e protettore del tutto. Egli sia il mio difensore e vincitore di tutte le mie difese. E tu, unica mia gioia, Immacolata Vergine Maria, tu ancora mi sii unica, seconda protettrice e consolatrice in tutto quello che mi accadrà. E sii sempre l'unica mia avvocata appresso Dio».
Al di là di carismi particolari, egli aveva buoni talenti. Durante una discussione con un reverendo di Muro, rivelò con franchezza: «Paesano, avete studiato teologia, ma non siete teologo: questa scienza si acquista con umiltà e orazione». Si capisce meglio così che la teologia in Gerardo, essendo dono che conserva tutto il dinamismo della fede, diventava azione di carità operante e anche azione pastorale. Ciò rendeva la sua opera di fratello coadiutore infaticabile; e faceva anche parte dell'opera pastorale dei padri Redentoristi, che venivano a lui per consigli e per direzione di coscienza.
Il medico Nicola Santorelli ci dà questa testimonianza, raccolta dal Tannoia: «Quando il fratello Gerardo si metteva a parlare dei divini misteri, usciva di sé. Le cose più difficili si rendevano facili in bocca sua e le cose più oscure chiare faceva vedere e capibili. Io, trattandolo, restavo fuori di me, considerando come un povero laico e senza lettere, poteva entrare in sì profondi arcani, spiegarsi e farsi capire». Il segreto? Una fede vissuta in comunione col suo caro Dio, che provocava l'amore e lo guidava ad amare le creature e il mondo. Scriveva così: «Fede ci vuole ad amare Dio; ché, chi manca di fede, manca a Dio. Io son già risoluto a vivere e morire impastato di santa fede. La fede mi è vita, e la vita mi è fede. Oh Dio, e chi vuol vivere senza la santa fede? Ed io vorrei sempre esclamare, e che fossi inteso per tutto l'universo mondo e così dire sempre: evviva la nostra fede del nostro caro Dio! Dio solo merita di essere amato. E come potrò vivere se manco al mio Dio?». Con letture ascetiche e meravigliose contemplazioni arricchì il patrimonio delle proprie cognizioni. La mano scarna, abituata all'ago o alla scopa, fu costretta alla penna. Prima bisogni personali, poi ragioni di apostolato, lo indussero a scrivere; e scrisse inconsapevolmente sulla carta tesori interiori.
Apostolato epistolare
Oltre al Regolamento di vita, scritto da Gerardo a Materdomini nel luglio del 1754 per ordine del padre Francesco Giovenale, conosciamo numerose sue lettere a candide anime claustrali, a peccatori nel vortice del mondo, a venerandi sacerdoti impegnati nel ministero della confessione, a confratelli.Particolarmente ebbe scambio di corrispondenza con le Benedettine di Atella, le Domenicane di Corato, le Clarisse di Muro Lucano, le Monache del Santissimo Salvatore di Foggia, prediligendo il monastero delle Teresiane di Ripacandida, cui non mancava una settimana che dirigesse, o da esse ricevesse, lettere spirituali, accendendosi e stimolandosi reciprocamente all'amore di Dio e all'acquisto della più eroica santità. Il padre Tannoia nota un vasto raggio di azione quando asserisce: «Tante e tante anime dell'uno e dell'altro sesso, già infangate nel vizio e da lui convertite a Dio, dirette da lui, non vivevano che una vita tutta santa. Non potendo di persona, anche per lettera le animava al bene, e sentendo taluno deviato non lasciava mezzo per raddrizzarlo».
In un manoscritto inedito, il padre Landi, altro contemporaneo, rivela: «Scriveva continuamente lettere ad anime tribolate e tentate, ed era meraviglioso il conforto che quelle anime ricevevano dalle sue risposte, le quali erano piene di una singolare devozione e di una dottrina appresa unicamente alla scuola dell'orazione». Le lettere e i frammenti epistolari pervenutici sono appena quarantasette, datati tra il 1751 e il 1755. Il numero esatto o approssimativo di quelle scritte è impossibile stabilirlo, essendo andate le altre disperse o distrutte; ma il chiaro riferimento dei contemporanei dice abbastanza che lo scrivere fu per Gerardo un aspetto particolare della sua missione, un'altra vocazione impostagli dal Signore.
La bella volontà di Dio
Dai suoi scritti, carichi di dialettismi, traspare una dottrina umile e profonda, di un'anima serafica, ed è evidente l'immediatezza con cui riesce a comunicare il suo pensiero e ad essere ascoltato. Ma soprattutto emerge quella sua spiccata nota spirituale che lo rende singolare ed eroico: l'uniformità alla volontà di Dio. «Tutta la nostra perfezione consiste nell'amare il nostro amabilissimo Dio. Ma poi tutta la perfezione dell'amore consiste nell'unire la nostra alla sua santissima volontà», aveva scritto sant'Alfonso. Gerardo, iniziando il suo cammino di consacrato redentorista, formula questo proposito: «Mio caro ed unico amor mio e vero Dio, oggi e per sempre mi rassegno alla vostra divina volontà; e così in tutte le tentazioni e tribolaziòni dirò: Fiat voluntas tua. Terrò sempre gli occhi al cielo per adorare le vostre divine mani che spargono su di me gemme preziose del suo divino volere».
Un santo incolto, che però diventa coltissimo mettendosi in docile ascolto della Parola, imparando a leggerla e interpretarla, e a percepire la gradualità delle infinite esigenze che essa comporta. Gerardo sempre, nella sua vita, con modalità tipiche, esprime la sua passione nel ricercare la volontà di Dio. In ogni sua lettera la invoca, esorta a cercarla, la descrive come «tesoro nascosto e senza prezzo». Per Gerardo «gran cosa è la volontà di Dio», perché in essa si racchiude l'essenza dell'essere cristiano e della santità. Nello sforzo continuo di ricercare la volontà di Dio, egli riesce gradualmente a spogliarsi di tutto e a «stare indifferentissimo in tutto»; libero, povero e felice, gode di una grande pace che gli offre la «bella volontà di Dio».
Il questuante infermo
Sotto il torrido sole d'agosto del 1755 Gerardo era di nuovo in cammino per le aride vie polverose e gli acquitrini ronzanti di zanzare lungo la Valle del Sele per raccogliere fondi alle costruende casa e chiesa di Materdomini. Pallido e sparuto come sempre, non lamentava i suoi malanni, anzi vi scherzava per non destare apprensione. Durante la giornata aveva espettorati sanguigni, sintomi d'etisia che non erano sfuggiti al medico, Nicola Santorelli. A lui Gerardo medesimo aveva annunziato: «Non lo sai che burlando burlando quest'anno me ne muoio tisico?».
Quello che operò di bene e di prodigi durante la sua marcia può suonare esagerato, ma le testimonianze dei contemporanei, mitigando lo spirito critico del nostro tempo, possono far scoprire la potenza di Dio nell'uomo trasformato in sua immagine perfetta. La questua procedette bene fino alla sera del 21 agosto, malgrado la tosse e l'affanno; ma mentre stava inginocchiato nella chiesa di San Gregorio Magno ebbe uno sbocco forte di sangue. Salassato alla tempia da un medico inesperto, non vedendo miglioramento, pensò di far ritorno a Caposele. Arrivò a Buccino la sera dopo, il 22 agosto. Per trascorrere la notte riuscì a trascinarsi in canonica. Assalito ancora dalla tosse violenta, ebbe il secondo sbocco di sangue, e due medici lo salassarono al piede, consigliando subito il cambiamento d'aria. Raggiunse con sforzo Oliveto Citra. Dalla casa dell'arciprete Arcangelo Salvadore, informava il rettore padre Gaspare Caione: «Sappia vostra Riverenza che, mentre stavo inginocchiato nella chiesa di S. Gregorio, mi venne un butto di sangue. Andai con segretezza a ritrovare un medico e gli raccontai quanto era accaduto. Egli mi assicurò che il sangue non veniva dal petto, ma dalla gola; mi osservò che non avevo febbre, né dolore di testa, e perciò mi replicò con molte espressioni che non era niente; mi fece salassare alla vena della testa, mentre io non mi sentivo veruno incomodo. Ieri sera, giunto a Buccino, mi venne la solita tosse e buttai sangue nella stessa maniera. Mandarono a chiamare i medici, i quali mi ordinarono certi medicamenti e fra l'altro mi fecero salassare il piede. Il sangue che buttai lo buttai senza dolori e senza incomodi. Mi dissero ancora che non viene dal petto, e mi ordinarono che subito, la mattina seguente, che è stata questa mattina, fossi partito da quell'aria sottile e mi consigliarono che mi fossi ritirato a Oliveto, tanto per l'aria, quanto per parlare col signor don Giuseppe Salvadore, uomo insigne per medicina. Io non l'ho trovato, ma mi dice l'arciprete suo fratello che viene questa sera. Tutto questo l'avviso a Vostra Riverenza per sapere come fare. Se volete che seguiti la questua, io la continuerò senza incomodo; perché circa il petto io mi sento meglio di quando stavo in casa. Tosse non ne ho più. Or via, mandatemi un'ubbidienza forte, e sia come sia. Mi dispiace che Vostra Riverenza si metta in apprensione. Allegramente, Padre mio caro, non è niente. Raccomandatemi a Dio, che mi faccia far sempre la sua divina volontà e il suo gusto divino».
Questo documento-relazione, calmo, misurato, preciso, cui non si può né aggiungere né togliere una parola, è una cronaca abbagliante. Rispecchia tutto intero Gerardo Maiella, che rivestito di cinque voti di perfezione, batte la sua strada inchiodato alla volontà di Dio, cadendo improvviso sotto la croce, ed esausto domanda la forza di riprendere il cammino.
Incontro alla morte
A padre Caione, che vedendolo - al ritorno a Materdomini - smunto e arso dalla febbre, non poté trattenere le lacrime, disse: «Padre mio, è volontà di Dio; perciò state allegramente, perché la divina volontà deve farsi sempre allegramente». All'esterno della sua porta fece appendere una tabella con la scritta: «Qui si sta facendo la volontà di Dio, come vuole Dio e per tutto il tempo che piace a Dio». Tra le quattro anguste pareti l'estasi della sofferenza lo innalzava a vertici di amore: «Se mi trovassi su un'alta montagna, vorrei incendiare il mondo con i miei sospiri», esclamava. E ancora a padre Caione: «Padre mio, io mi figuro che questo letto sia la volontà di Dio, e che io vi stia inchiodato come se stessi inchiodato alla medesima volontà di Dio: anzi mi figuro io e la volontà di Dio siamo diventati la stessa cosa». Ecco un breve testamento pronunziato davanti a Cristo viatico: «Mio Dio, voi sapete che quanto ho fatto e detto, tutto l'ho fatto e detto per gloria vostra. Muoio contento, nella speranza di aver cercato solo la vostra gloria e la vostra santissima volontà».
Ma le ultime ore del crocifisso con Cristo non erano senza sofferenze. Il dolore e il lamento rassegnato del Figlio di Dio riecheggiavano sulle labbra morenti dell'uomo: «Signore, aiutatemi in questo purgatorio in cui mi avete posto!... Sto sempre dentro le piaghe di Gesù Cristo, e le piaghe di Gesù Cristo stanno dentro di me!... Patisco continuamente le pene e i dolori della passione di Gesù Cristo!... Patisco assai, ma tutto è poco, o mio Dio, per voi che moriste per me!». Le ultime parole udite furono: «Mio Dio, mi pento... Voglio morire per fare la vostra volontà!». Aveva desiderato morire abbandonato da tutti, e l'aveva ottenuto. Per una casuale coincidenza il confratello che lo assisteva s'era allontanato per prendere dell'acqua da lui richiesta. Gli altri di comunità non prevedevano imminente la fine. Quando il fratello ritornò con l'acqua, Gerardo boccheggiava, piegato su un fianco. Era l'una e mezza di notte del 16 ottobre 1755.
La notizia della scomparsa del santo fratello volò sulle ali del vento. Una grande folla assalì la chiesetta e si strinse intorno al feretro. Si piangeva per impetrare protezione con la certezza di avere un nuovo protettore in cielo. Piangeva di commozione fratel Carmine Santaniello, incaricato di suonare le campane a morto; alla vista di tale spettacolo di fede lo tradì la commozione e dalle sue mani uscirono scampanii di gloria che si diffusero echeggianti nella vallata del Sele. Con quel suono iniziava una nuova alba pasquale.
Quello che conosciamo di san Gerardo Maiella lo dobbiamo ai suoi confratelli, ma anche alle numerose testimonianze di amici e devoti che lo conobbero in vita o sperimentarono il suo patrocinio dopo la morte. Il suo sepolcro divenne subito meta di pellegrini.
Insieme alla tomba si cominciò a venerare la sua stanza, testimone di preghiere, di penitenze, di sofferenze, di estasi e della visione confortatrice della Vergine Maria prima di volare al cielo. Padre Francesco Santoli la descrive così: «Piccola e disadorna: misurava m. 4 di lunghezza e 3 di larghezza e di altezza. Al lato sinistro un lettino formato da due cavalletti di ferro, sormontati da due rozze tavole di castagno e un duro pagliericcio (saccone di cartocci di granturco). In un altro angolo un tavolo dozzinale con lucerna ad olio e qualche libro spirituale. Un paio di sedie in legno ed un catino per l’acqua. Alle pareti sospese quattro immagini cartacee... Fra la mobilia di Fr. Gerardo non mancava anche un teschio da morto sul tavolo, per il ricordo continuo di sorella morte temporale».
AMDG et DVM