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lunedì 4 febbraio 2019

Quando Wojtyla e Ratzinger difesero Ecclesia Dei e la Messa antica



Quando Wojtyla e Ratzinger difesero Ecclesia Dei e la Messa antica

“Il Popolo di Dio ha bisogno di vedere nei sacerdoti e nei diaconi un comportamento pieno di riverenza e di dignità, capace di aiutarlo a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole e spiegazioni. Nel Messale Romano, detto di San Pio V, vi sono bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il più profondo senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi Misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualsiasi Liturgia.” (Giovanni Paolo II Lettera al Culto Divino 21.9.2001)

Lo spiega molto bene anche il card. Ratzinger nella sua autobiografia:

“rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Pio V e non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano rielaborato questo messale, in un processo continuativo di crescita storica e di purificazione, in cui, pero’, la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C’è stata la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica. Dopo il concilio di Trento, per contrastare l’irruzione della riforma protestante che aveva avuto luogo soprattutto nella modalità di “riforme” liturgiche (si veda qui), tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano difficili da definire. In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di una normativa unitaria e dall’imperante pluralismo liturgico eredito dal tardo medioevo, il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima. Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro”
(J. Ratzinger La mia vita pp. 111-112).

Dopo la recente e drammatica, per certi versi, notizia della chiusura dell’Ecclesia Dei: Chiude Ecclesia Dei e si rafforza il Coro Musicale della Sistina, vogliamo proporvi un intervento illuminante dell’allora cardinale Ratzinger, anche a conferma di ciò che voleva e pensava Giovanni Paolo II sull’argomento.


«Forme liturgiche diverse non sono contro l’unità»
Liturgie diverse. Una ricchezza per l’unica Chiesa

«…la presenza dell’antica liturgia non turba né minaccia l’unità, ma è piuttosto un dono destinato a costruire il corpo di Cristo del quale tutti noi siamo servitori» (card. J.Ratzinger)

L’intervento del cardinale Joseph Ratzinger al convegno sui 10 anni di Ecclesia Dei, nell’anno 1998

Quale bilancio possiamo fare oggi, a dieci anni dalla pubblicazione del motu proprio Ecclesia Dei?

Penso che prima di tutto sia un’occasione per esprimere il nostro ringraziamento. Le varie comunità sorte grazie a questo documento pontificio hanno regalato alla Chiesa un gran numero di vocazioni sacerdotali e religiose che con zelo e gioia e in comunione profonda con il Papa rendono servizio al Vangelo in quest’epoca storica. Grazie ad esse, molti fedeli hanno rafforzato o hanno conosciuto per la prima volta la gioia di poter prendere parte alla liturgia e l’amore verso la Chiesa. In numerose diocesi sparse per il mondo tali comunità servono la Chiesa collaborando attivamente con i vescovi e instaurando un rapporto positivo e fraterno con i fedeli che si sentono a loro agio nella forma rinnovata della liturgia. Tutto ciò non può che suscitare oggi la nostra gratitudine.
Tuttavia, sarebbe irrealistico tacere che in molti luoghi non mancano le difficoltà, allora come adesso, perché alcuni vescovi, sacerdoti e fedeli considerano l’attaccamento alla vecchia liturgia (quella dei testi liturgici del 1962) come un elemento di divisione che turba la pace della comunità ecclesiale e lascia supporre una certa riserva nell’accettazione del Concilio e, più in generale, nell’obbedienza dovuta ai pastori legittimi della Chiesa. Le domande che dobbiamo porci sono dunque le seguenti: come si possono superare tali difficoltà? Come possiamo creare il clima di fiducia necessario per far sì che i gruppi e le comunità legati alla vecchia liturgia si inseriscano pacificamente e proficuamente nella vita della Chiesa? Queste questioni però ne sottintendono un’altra: qual è la ragione profonda di questa diffidenza o, addirittura, del rifiuto del proseguimento della vecchia liturgia? Vi sono senza dubbio delle ragioni preteologiche legate al temperamento dei singoli individui, al contrasto tra i diversi caratteri o ad altre circostanze esterne. Ma certamente esistono anche altre cause, più profonde e meno fortuite.
Sono due le ragioni che più spesso vengono addotte: la non obbedienza al Concilio che ha riformato i testi liturgici e la rottura dell’unità derivante dall’esistenza di forme di liturgia diverse. È relativamente semplice confutare ambedue i ragionamenti. Non è stato propriamente il Concilio a riformare i testi liturgici, esso ne ha ordinato la revisione e, a tal fine, ha fissato alcune linee fondamentali. Il Concilio ha dato soprattutto una definizione di liturgia che fissa la misura interna delle singole riforme e, contemporaneamente, stabilisce il criterio valido per ogni legittima celebrazione liturgica. L’obbedienza al Concilio verrebbe violata nel caso in cui non fossero rispettati tali criteri fondamentali interni e venissero messe da parte le normae generales, formulate ai numeri 34-36 della Costituzione sulla sacra liturgia. Bisogna giudicare secondo tali criteri le celebrazioni liturgiche, siano esse basate sui vecchi o sui nuovi testi. Il Concilio non ha, infatti, come già accennato, prescritto o abolito dei testi, bensì ha dato delle norme di base che tutti i testi devono rispettare. In tale contesto giova ricordare quanto dichiarato dal cardinale Newman: la Chiesa nel corso della sua storia non ha mai abolito o vietato forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa. Una liturgia ortodossa, ossia che è espressione della vera fede, infatti, non è mai una semplice raccolta di cerimonie diverse fatta sulla base di criteri pragmatici, delle quali si può disporre in maniera arbitraria, oggi in un modo e domani in un altro. Le forme ortodosse di un rito sono realtà viventi, nate dal dialogo d’amore tra la Chiesa e il suo Signore. Sono espressioni della vita della Chiesa, in cui si condensano la fede, la preghiera e la vita stessa delle generazioni e nelle quali si sono incarnate in una forma concreta e in uno stesso momento l’azione di Dio e la risposta dell’uomo. Tali riti possono estinguersi se sparisce storicamente il soggetto che ne è stato il portatore o se questo soggetto si è inserito con la sua eredità in un altro contesto di vita. In situazioni storiche diverse, l’autorità della Chiesa può definire e limitare l’uso dei riti, ma non li vieta mai tout-court. Così, il Concilio ha ordinato una riforma dei testi liturgici e, di conseguenza, delle manifestazioni rituali, ma non ha messo al bando i vecchi libri. Il criterio espresso dal Concilio è al contempo più ampio e più esigente: esso invita tutti a un esame di coscienza.

JPII in Trastevere2Su questo punto ritorneremo più tardi. Nel frattempo è necessario prendere in esame l’altro argomento, quello della – presunta – rottura dell’unità. A questo proposito bisogna distinguere l’aspetto teologico da quello pratico della questione. Per quanto concerne la componente teoretica e fondamentale, dobbiamo constatare che del rito latino sono sempre esistite più forme che sono progressivamente cadute in disuso a causa dell’unificazione degli spazi di vita in Europa. Fino all’epoca del Concilio, accanto al rito romano convivevano quello ambrosiano, quello mozarabico di Toledo, il rito dei Domenicani e forse molti altri ancora a me sconosciuti. Nessuno si è mai scandalizzato per il fatto che i Domenicani, spesso presenti nelle nostre parrocchie, non celebrassero la messa come i parroci, bensì seguissero un rito proprio. Tutti noi sapevamo che il loro rito era cattolico al pari di quello romano e andavamo fieri della ricchezza di tante tradizioni diverse. Inoltre, non bisogna dimenticare che spesso si abusa della libertà di spazio che il nuovo Ordo Missae lascia alla creatività e che la differenza tra i vari modi in cui la liturgia viene di fatto messa in pratica e celebrata nei diversi luoghi sulla base dei nuovi testi, spesso è maggiore rispetto a quella tra vecchia e nuova liturgia. Un cristiano privo di una cultura liturgica particolare distingue a malapena una messa cantata in latino secondo il vecchio Messale da una cantata in latino secondo il nuovo, mentre può essere enorme la differenza tra una liturgia celebrata rispettando fedelmente i dettami del Messale di Paolo VI e le varie forme di celebrazioni liturgiche in lingua viva, ampiamente diffuse, che lasciano largo spazio alla creatività e all’inventiva.
Con queste considerazioni siamo passati dalla teoria alla pratica dove, ovviamente, le cose si complicano perché abbiamo a che fare con persone vive e reali che entrano in relazione tra di loro.
A me sembra che i contrasti a cui abbiamo accennato sono di considerevole entità perché si tende a mettere in relazione le due forme di celebrazione con due diversi atteggiamenti spirituali, ossia due modi diversi di comprendere la Chiesa e l’essere cristiani.

Le ragioni di tale atteggiamento sono molteplici, ma ciò è dovuto soprattutto al fatto che si giudicano le due forme liturgiche a partire da elementi esterni e si arriva così ad avere due opposti atteggiamenti di base. Il cristiano medio considera essenziale nella nuova liturgia che essa sia celebrata in lingua viva e rivolti ai fedeli, che consenta ampio spazio alla creatività e che in essa i laici svolgano una funzione attiva. Nella vecchia liturgia, al contrario, considera essenziale che essa sia celebrata dal sacerdote in latino e rivolto all’altare, che il rito segua una prescrizione severa e che i fedeli seguano la messa in silenziosa preghiera senza avere una funzione attiva. Nell’accogliere la liturgia si dà dunque un’importanza decisiva alla sua fenomenologia e non a ciò che la liturgia stessa considera come essenziale. Ma in fin dei conti dovevamo aspettarci che i fedeli avrebbero interpretato la liturgia a partire da forme concrete visibili, che sarebbero stati determinati spiritualmente da quelle forme e che non sarebbero stati in grado di penetrare facilmente nelle profondità della liturgia.

Vespri Avvento 2010- 2

Vespri Avvento 2010- 2Le contraddizioni e i contrasti a cui abbiamo or ora accennato non sono in alcun modo da imputare allo spirito del Concilio né a quanto scritto nei testi conciliari. Nella stessa Costituzione sulla sacra liturgia non si accenna minimamente al fatto se si debba celebrare la messa rivolti all’altare o ai fedeli e, per quanto concerne la lingua, essa dice che il latino deve essere mantenuto pur dando uno spazio maggiore alla lingua viva, «specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti» (n. 36 § 2). Quanto alla partecipazione dei laici, la Costituzione inizialmente ribadisce in generale che la liturgia nella sua essenza riguarda l’intero corpo di Cristo, capo e membra (n. 7). Di conseguenza, la sua celebrazione appartiene «all’intero corpo mistico della Chiesa» (n. 26) e comporta «una celebrazione comunitaria con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli» (n. 27). Il testo poi precisa: «Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o fedele, svolgendo il proprio ufficio, compia soltanto e tutto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza» (n. 28). E ancora: «Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni del popolo, le risposte, la salmodia, le antifone, i canti come pure le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, il sacro silenzio» (n. 30).
Tutti dobbiamo riflettere su queste direttive del Concilio. Alcuni liturgisti moderni hanno la tendenza a rifarsi all’impostazione conciliare ma purtroppo ne sviluppano le idee in una sola direzione, ribaltando così le intenzioni stesse del Concilio. Il ruolo del prete è ridotto da alcuni a qualcosa di puramente funzionale. Il fatto che il soggetto della liturgia sia l’intero corpo di Cristo viene spesso stravolto a tal punto che la comunità locale diventa il vero soggetto della liturgia e ne distribuisce i diversi ruoli. Vi è poi un altro atteggiamento preoccupante che tende a minimizzare il carattere sacrificale della messa e a fare sparire quasi completamente il mistero e, in generale, il sacro, con il pretesto di una maggiore comprensibilità. Infine, constatiamo la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo in rilievo esclusivamente il carattere comunitario dell’ufficio divino. La liturgia diventa così appannaggio della comunità che distribuisce i ruoli.

Fortunatamente però è presente al contempo anche una forte avversione per i razionalismi e i pragmatismi banali tipici di alcuni liturgisti e si nota un decisivo ritorno al mistero, all’adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come testimonia la Oxford-Declaration on Liturgy del 1996. D’altra parte, bisogna riconoscere che la celebrazione della vecchia liturgia spesso si era trasformata in un qualcosa di troppo individualistico e privato e che, di conseguenza, la comunione tra prete e popolo era insufficiente. Provo un grande rispetto per i nostri vecchi che durante la liturgia recitavano le loro orazioni leggendole dai libri di preghiere, ma certamente ciò non può essere visto come la forma ideale della celebrazione liturgica. Queste forme ridotte di celebrazione sono forse la ragione profonda per cui in molti Paesi la scomparsa dei vecchi testi liturgici non è stata percepita come un fatto determinante. Non c’era mai stato, infatti, un vero e proprio contatto con la liturgia. D’altra parte, là dove il Movimento liturgico (si veda qui) aveva saputo suscitare un amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio, come per esempio la partecipazione di tutti nella preghiera all’evento liturgico, il dolore causato da una riforma liturgica intrapresa con eccessiva fretta e limitata spesso al solo aspetto esteriore è stato grande. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito, la riforma è stata accolta senza traumi. I problemi sono sorti in maniera sporadica là dove una creatività del tutto arbitraria aveva fatto sparire il mistero.
Ecco perché è importante attenersi ai criteri essenziali della Costituzione sulla sacra liturgia anche durante la celebrazione della liturgia secondo i vecchi testi. Nel momento in cui tale liturgia tocca profondamente i fedeli per la sua bellezza, allora sarà amata e non sarà più in opposizione inconciliabile con la nuova liturgia. A condizione che i criteri vengano applicati così come ha voluto il Concilio.
Naturalmente, continueranno ad esistere accenti spirituali e teologici differenti, ma non saranno più visti come due maniere opposte di essere cristiani, piuttosto saranno il patrimonio di una sola e unica fede.
Quando alcuni anni fa qualcuno aveva proposto un “nuovo Movimento liturgico” per evitare che le due forme di liturgia si allontanassero troppo l’una dall’altra e per mettere in risalto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno temuto che ciò fosse solo uno stratagemma o un’astuzia per poter infine fare piazza pulita della vecchia liturgia. Queste paure dovrebbero cessare di esistere una buona volta. Se in ambedue le forme di celebrazione emergono chiaramente l’unità della fede e l’unicità del mistero, ciò non può essere altro che motivo di gioia profonda e di ringraziamento. Quanto più noi crediamo, viviamo e agiamo secondo tali motivazioni, tanto più riusciremo a convincere i vescovi che la presenza dell’antica liturgia non turba né minaccia l’unità ma è piuttosto un dono destinato a costruire il corpo di Cristo del quale tutti noi siamo servitori.
Vorrei esortare voi tutti, cari amici, a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere nella liturgia la forza necessaria per dare testimonianza al Signore in questa nostra epoca.



19780900_89  UN BRANO DI GIOVANNI PAOLO I

«Vorrei che Roma desse il buon esempio»

«Vorrei pure che Roma desse il buon esempio in fatto di liturgia celebrata piamente e senza “creatività” stonate. Taluni abusi in materia liturgica hanno potuto favorire, per reazione, atteggiamenti che hanno portato a prese di posizione in se stesse insostenibili e in contrasto col Vangelo. Nel fare appello, con affetto e con speranza, al senso di responsabilità di ognuno di fronte a Dio e alla Chiesa, vorrei poter assicurare che ogni irregolarità liturgica sarà diligentemente evitata» (Omelia pronunciata da Giovanni Paolo I il 23 settembre 1978 in occasione della presa di possesso della cattedra di vescovo di Roma nella Basilica di San Giovanni in Laterano).
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Ad onor del vero, aggiungiamo qui ora, noi, fu purtroppo sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II che tutti gli abusi espressi negli Anni ’70 trovarono con lui TRISTE CONFERMA, ad opera di mons. Piero Marini al quale fu lasciato di distruggere quel poco che era rimasto della Messa pontificia, come a mons. Bugnini da parte di Paolo VI, che si arrivò non solo a dare il pessimo e il peggiore degli esempi e testimonianze con messe pontificie ridicole e rasenti il peggior gusto e senza più sacralità…. ma anche un senso di legittimità ad ogni ridicola creatività liturgica fin dentro le parrocchie. Fu Benedetto XVI che a partire dal 2007 col Summorum Pontificum prima e dal 2008 con l’aiuto di mons. Guido Marini, a tentare di riportare la sacralità e la compostezza nella Messa pontificale, quale esempio e testimonianza da divulgare nell’Urbe e nell’Orbi…. Fu questo uno dei motivi per cui Benedetto XVI venne ostacolato dai Vescovi in tutti i modi, l’Ecclesia Dei messa a tacere, fino ad essere stata oggi tolta dalla sua autonomia e dipendente da un gesuita modernista!

Per studiare tutto l’excursus della CRISI LITURGICA, si acceda in questa sezione, grazie.

Darío Castrillón Hoyos

Sul vero significato di questo documento pontificio, Summorum Pontificum, e sulla realtà dell’Ecclesia Dei, Giovanni Peduto ha raccolto la riflessione del cardinale Darío Castrillón Hoyos, nel 2007 presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei e per molti anni prefetto della Congregazione per il Clero:

R. – Io direi che già Giovanni Paolo II voleva dare ai fedeli che amavano l’antico rito – alcuni dei quali erano passati al movimento dell’arcivescovo Lefebvre, ma che poi lo avevano lasciato per mantenere la piena unità con il Vicario di Cristo – l’opportunità di celebrare il rito che era più vicino alla loro sensibilità. Il Santo Padre Benedetto XVI ha partecipato sin dall’inizio a tutta la questione Lefebvre ed ha quindi conosciuto benissimo il problema che creava a quei fedeli la riforma liturgica. Il Papa ha un amore speciale per la liturgia. Un amore che si traduce anche in capacità di studio, di approfondimento della Liturgia stessa. Ecco perché Benedetto XVI considera un tesoro inestimabile la Liturgia anteriore alla Riforma del Concilio. Il Papa non vuole tornare indietro. E’ importante sapere e sottolineare che il Concilio non ha proibito la Liturgia di San Pio V e bisogna inoltre dire che i Padri del Concilio hanno celebrato la Messa di San Pio V. Non è come alcuni sostengono, perché non conoscono la realtà, un tornare indietro. Al contrario: il Concilio ha voluto dare ampia libertà ai fedeli. Una di queste libertà è proprio quella di prendere questo tesoro – come dice il Papa – che è la Liturgia, per mantenerlo vivo.

D. – Cosa cambia, in realtà, con questo Motu Proprio?

R. – Con questo Motu Proprio, in realtà, il cambiamento non è tanto grande. La cosa principale è che in questo momento i sacerdoti possono decidere, senza permesso né da parte della Santa Sede né da parte del vescovo, se celebrare la Messa nel rito antico. E questo vale per tutti i sacerdoti. I parroci sono essi stessi che in parrocchia devono aprire la porta a quei sacerdoti che, avendo le facoltà, vanno a celebrare. Non è, quindi, necessario chiedere nessun altro permesso.

D. – Eminenza, questo documento è stato accompagnato da polemiche e timori: ma cosa non è vero di quanto è stato detto o letto?

R. – Non è vero, per esempio, che sia stato tolto ai vescovi il potere sulla Liturgia, perché già il Codice dice chi deve dare il permesso per dire Messa e non è il vescovo: il vescovo dà il celebret, la potestà di poter celebrare, ma quando un sacerdote ha questa potestà, sono il parroco e il cappellano che devono offrire l’altare per celebrare. Se qualcuno lo impedisce, tocca allora alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei prendere misure, a nome del Santo Padre, affinché questo diritto – che è un diritto ormai chiaro dei fedeli – venga rispettato.

D. – Alla vigilia dell’entrata in vigore del Motu Proprio, quali sono i suoi auspici?

R. – I miei auspici sono questi: l’Eucaristia è la cosa più grande che noi abbiamo, è la manifestazione più grande dell’amore, dell’amore redentore di Dio che ci vuole accompagnare con questa presenza eucaristica. Questo non deve essere mai un motivo di discordia: lì ci deve essere solo l’amore. Io auspico che questo possa essere un motivo di gioia per tutti coloro che amano la tradizione, un motivo di gioia per tutte quelle parrocchie che non avranno più divisioni, ma avranno – al contrario – una molteplicità di santità con un rito che è stato certamente il fattore e lo strumento di santificazione per più di mille anni. Ringraziamo, quindi, il Santo Padre che ha recuperato per la Chiesa questo tesoro. Non viene imposto niente agli altri. Il Papa non impone l’obbligo; il Papa impone però di offrire questa possibilità laddove i fedeli lo richiedono. Se ci fosse un conflitto, perché umanamente due gruppi possono entrare in contrasto, l’autorità del vescovo – come dice il Motu Proprio – deve intervenire per evitarlo, ma senza cancellare il diritto che il Papa ha dato a tutta la Chiesa.



Chapel_of_Pius_V_Santi_Giovanni_e_Paolo_(Venice)_-_Pope_Pius_V_by_Bartolomeo_LetteriniaaaaaS. Pio V Bolla “QUO PRIMUM TEMPORE”
Pius Episcopus servus servorum dei ad perpetuam dei memoria
Bolla con la quale san Pio V decretò l’unicità del Messale Romano al quale oggi si da erroneamente il nome “Messa san Pio V”, la Messa NON è di san Pio V, Egli si limitò esclusivamente a decretare il MESSALE ROMANO da usarsi nella Messa DI SEMPRE e che oggi è ritornata, seppur nella forma Straordinaria, grazie ad un gesto coraggioso di Benedetto XVI dopo che era stata abusivamente (come scrive il Papa nel MP sopra) vietata….

Questo ciò che scrisse nel MP san Pio V e che non è mai decaduto:



     I. Fin dal tempo della Nostra elevazione al sommo vertice dell’apostolato, abbiamo rivolto l’animo, i pensieri e tutte le Nostre forze alle cose riguardanti il culto della Chiesa, per conservarlo puro, e, a tal fine, ci siamo adoperati con tutto lo zelo possibile a preparare e, con l’aiuto di Dio, mandare ad effetto i provvedimenti opportuni. E poiché, tra gli altri decreti del sacro Concilio di Trento, ci incombeva di eseguire quelli di curare l’edizione emendata dei Libri Santi, del Messale, del Breviario e del Catechismo avendo già, con l’approvazione divina, pubblicato il Catechismo, destinato all’istruzione del popolo, e corretto il Breviario, perché siano rese a Dio le lodi dovuteGli, ormai era assolutamente necessario che pensassimo quanto prima a ciò che restava ancora da fare in questa materia, cioè, pubblicare il Messale, e in tal modo che rispondesse al Breviario: cosa opportuna e conveniente, poiché nella Chiesa di Dio uno solo è il modo di salmodiare, così sommamente conviene che uno solo sia il rito di celebrare la Messa.

     II. Per la qual cosa, abbiamo giudicato di dover affidare questa difficile incombenza a uomini di eletta dottrina. E questi, infatti, dopo aver diligentemente collazionato tutti i codici raccomandabili per la loro castigatezza e integrità — quelli vetusti della Nostra Biblioteca Vaticana e altri ricercati da ogni luogo — e avendo inoltre consultato gli scritti di antichi e provati autori, che ci hanno lasciato memorie sul sacro ordinamento dei medesimi riti, hanno infine restituito il Messale stesso nella sua antica forma secondo la norma e il rito dei Santi Padri.

     III. Pertanto, dopo matura considerazione, abbiamo ordinato che questo Messale, già così riveduto e corretto, venisse quanto prima stampato in Roma, e, stampato che fosse, pubblicato, affinché da una tale intrapresa e da un tale lavoro tutti ne ricavino frutto: naturalmente, perché i sacerdoti comprendano di quali preghiere, di qui innanzi, dovranno servirsi nella celebrazione della Messa, quali riti e cerimonie osservare, perciò affinché tutti e dovunque adottino e osservino le tradizioni della santa Chiesa Romana, Madre e Maestra delle altre Chiese, ordiniamo che nelle chiese di tutte le Provincie dell’Orbe cristiano: nelle Patriarcali, Cattedrali, Collegiate e Parrocchiali del clero secolare, come in quelle dei Regolari di qualsiasi Ordine e Monastero, maschile e femminile, nonché in quelle degli Ordini militari, nelle private o cappelle, dove a norma di diritto e per consuetudine si celebra secondo il rito della Chiesa Romana, in avvenire e senza limiti di tempo, la Messa, sia quella conventuale cantata presente il coro, sia quella semplicemente letta a bassa voce, non potrà essere cantata o recitata in altro modo da quello prescritto dall’ordinamento del Messale Noi pubblicato e ciò anche se le summenzionate chiese, comunque esenti, usufruissero di uno speciale indulto della Sede Apostolica, di una legittima consuetudine, di un privilegio fondato su dichiarazione giurata e confermato dall’Autorità apostolica, e di qualsivoglia altra facoltà.

     IV. Non intendiamo tuttavia in alcun modo, privare del loro ordinamento quelle tra le summenzionate Chiese che, o dal tempo della loro istituzione, approvata dalla Sede Apostolica, o in forza di una consuetudine, possono dimostrare un proprio rito ininterrottamente osservato per oltre duecento anni. Tuttavia, se anche queste Chiese preferissero far uso del Messale, che abbiamo ora pubblicato, Noi permettiamo che esse possano celebrare le Messe secondo il suo ordinamento alla sola condizione che si ottenga il consenso del Vescovo, o dell’Ordinario, e di tutto il Capitolo.

     V. Invece, mentre con la presente nostra Costituzione, da valere in perpetuo, priviamo tutte le summenzionate Chiese dell’uso dei loro Messali, che ripudiamo in modo totale e assoluto stabiliamo e comandiamo, sotto pena della nostra indignazione che a questo Nostro Messale, recentemente pubblicato nulla mai possa venire aggiunto, detratto, cambiato…

Dunque, ordiniamo a tutti e singoli i Patriarchi e Amministratori delle suddette Chiese, e a tutti gli ecclesiastici, rivestiti di qualsiasi dignità, grado e preminenza, non escluso i Cardinali che Santa Romana Chiesa, facendone loro severo obbligo in virtù di santa obbedienza, che, in avvenire abbandonino del tutto e completamente rigettino tutti gli altri ordinamenti e riti, senza alcuna eccezione, contenuti negli altri Messali, per quanto antichi essi siano e finora soliti ad essere usati, e cantino e leggono la Messa secondo il rito, la forma e la norma, che noi abbiamo prescritto nel presente Messale; e, pertanto, non abbiano l’audacia di aggiungere altre cerimonie o recitare altre preghiere che quelle contenute in questo messale.

     VI. Anzi, in virtù dell’autorità Apostolica noi concediamo, a tutti i sacerdoti, a tenore della presente, l’lndulto Perpetuo di poter seguire, in modo generale, in qualunque Chiesa, senza scrupolo alcuno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena, giudizio o censura, questo stesso Messale, di cui avranno la piena facoltà di servirsi liberamente e lecitamente, cosi che Prelati, Amministratori, Canonici, Cappellani e tutti gli altri Sacerdoti secolari, qualunque sia il loro grado, o i Regolari, a qualunque Ordine appartengano, non siano tenuti a celebrare la Messa in maniera differente da quella che Noi abbiamo prescritta ne d’altra parte. possano venir costretti e spinti da alcuno a cambiare questo Messale.

     VII. Similmente, decretiamo e dichiariamo che le presenti Lettere in nessun tempo potranno venir revocate o diminuite, ma stabili sempre e valide dovranno perseverare nel loro vigore. E ciò non ostanti: precedenti costituzioni e decreti, tanto generali che particolari, pubblicati in Concili sia Provinciali che Sinodali; qualunque stauto e consuetudine in contrario, nonché l’uso delle predette Chiese, fosse pur sostenuto da prescrizione lunghissima e immemorabile, ma non superiore ai duecento anni.

     VIII. Inoltre, vogliamo, e con la medesima Autorità, decretiamo che, avvenuta la promulgazione della presente Costituzione, e seguita l’edizione di questo Messale, tutti siano tenuti a conformarvisi nella celebrazione della Messa cantata e letta: i Sacerdoti della Curia Romana, dopo un mese; quelli che sono di qua dai monti, dopo tre mesi quelli che sono di la dei monti, dopo sei mesi, o appena sarà loro proposto in vendita.

     IX. Affinché poi questo Messale sia ovunque in tutta la terra preservato incorrotto e intatto da mende ed errori, ingiungiamo a tutti gli stampatori di non osare o presumere di stamparlo, metterlo in vendita o riceverlo in deposito, senza la Nostra autorizzazione o la speciale licenza del Commissario Apostolico, che Noi nomineremo espressamente nei diversi luoghi a questo scopo: ciò, se prima detto Commissario non avrà fatto all’editore piena fede che l’esemplare, che deve servire di norma per imprimere gli altri, e stato collazionato con il Messale stampato in Roma secondo la grande edizione, e che gli e conforme ed in nulla ne discorda; sotto pena, in caso contrario, della perdita dei libri e dell’ammenda di duecento ducati d’oro da devolversi ipso facto alla Camera Apostolica, per gli editori che sono nel Nostro territorio e in quello direttamente o indirettamente soggetto a Santa Romana Chiesa: della scomunica latae sententiae e di altre pene a Nostro arbitrio, per quelli che risiedono in qualsiasi altra parte della terra.

     X. Data però la difficoltà di trasmettere le presenti Lettere nei vari luoghi dell’orbe cristiano, e di portarle alla conoscenza di tutti il più presto possibile. Noi prescriviamo che esse vengano affisse e pubblicate come di consueto alle porte della Basilica del Principe degli Apostoli e della Cancelleria Apostolica, e in piazza di Campo dei Fiori, dichiarando che sia nel mondo intero accordata pari e indubitata fede agli esemplari delle medesime, anche stampati, purché sottoscritti per mano di pubblico notaio e muniti del sigillo di persona costituita in dignità ecclesiastica, come se queste Lettere fossero mostrate ed esibite.

     XI. Nessuno dunque, e in nessun modo, si permetta con temerario ardimento di violare e trasgredire questo Nostro documento: facoltà, statuto, ordinamento, mandato, precetto, concessione, indulto dichiarazione, volontari, decreto e inibizione. Che se qualcuno avrà l’audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo.

     Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno quattordici di luglio, nell’anno mille cinquecento settanta, quinto del Nostro Pontificato.

FEBBRAIO 2019


martedì 24 aprile 2012

Come non lasciarsi boicottare il Mutu Proprio: Summorum Pontificum



FACTA LEX INVENTA FRAUS (Come non lasciarsi boicottare il Mutu Proprio)


FACTA LEX INVENTA FRAUS (Come non lasciarsi boicottare il Mutu Proprio)

Fatta la legge, trovato l’inganno. Questo adagio compendia l’opera di chi non intende sottomettersi alla mens, cioè allo spirito della legge, ma simula una farisaica obbedienza alla lettera. Talvolta l’obbedienza è soltanto apparente, e nei fatti la legge è sostanzialmente infranta. Non fanno eccezione le leggi della Chiesa, specialmente quelle che obbligano e vincolano il reverendo Clero: non è un caso se in passato la saggezza dei Pastori accompagnava i sacri canoni con le pene per chi li avesse infranti: ad esempio, il chierico che partecipava al Carnevale era colpito da scomunica, e da una ammenda in denaro. Così, o per sacro timor di Dio, o per non dover pagar la multa, la disciplina era praticata dai più. D’altra parte, nullum jus sine poena: promulgare una norma che non preveda una sanzione equivale a non darle forza cogente. Per questo motivo, quando Giovanni Paolo II promulgò una legge che obbligava i sacerdoti all’uso dell’abito ecclesiastico, il card. Oddi ebbe a dirgli che, non essendo prevista alcuna sanzione canonica comminata ai trasgressori, difficilmente avrebbe trovato pronta esecuzione. E difatti oggi è raro veder sacerdoti e prelati in clergyman, ancor più raro in veste talare.

Anche il Motu Proprio è una legge della Chiesa, promulgata con tutte le caratteristiche di un documento in cui si esprime il Magistero Apostolico del Sommo Pontefice. Ciò dovrebbe essere sufficiente per portare ogni chierico, in uno spontaneo slancio di fedeltà al Vicario di Cristo in terra, ad obbedirvi senza esitazione, sapendo cogliere l’intenzione dell’augusto Legislatore. Se non fosse che l’autorità del Papa e dei Vescovi è messa in discussione da chiunque, non appena si discosta di un et dal superdogma conciliare ed ecumenico. E mentre non si esita a tramutare in articoli de fide anche le opinioni private e personalissime del Papa se le si trova di proprio gusto – e questo, occorre dirlo, è un atteggiamento assolutamente bipartisan – ecco che anche un atto del Supremo Magistero viene fatto oggetto di mille distinguo, o completamente ignorato, se non addirittura pubblicamente contestato, quando non coincide con le proprie convinzioni.

Ad ogni modo, premesso che l’obbedienza dei chierici secolari non è mai stata una delle virtù in cui amassero cimentarsi, non stupisce che anche il Motu Proprio si sia dovuto infrangere quasi sempre contro la pertinacia dei suoi avversari. I più dichiarati non simulano nemmeno di obbedire, e affermano ore rotundo di non avere alcuna intenzione di applicarlo: i casi sono noti a tutti e finiscono per sortire effetti controproducenti. Infatti, se un Vescovo fa strame della Summorum Pontificum e vieta la Messa Romana 
 in tutte le chiese della propria Diocesi, la Commissione Ecclesia Dei non può esimersi dall’intervenire, con maggiore o minore diplomazia. In ogni caso, la lettera in cui la Santità di Nostro Signore accetta le dimissioni di quel Prelato per raggiunti limiti di età è già pronta sul Sacro Tavolo. Chi fa la voce grossa serve soprattutto a chi si guarda bene dall’emularlo mettendosi in mostra: al massimo si potrà deplorare con qualche confratello – sorbendo il caffé dopo una riunione dell’Episcopato – il clima di epurazione e di intimidazione di questo Pontificato.

I più astuti, invece, si mostrano a parole tra i più accondiscendenti, salvo poi imporre la propria volontà contro la volontà sovrana del Papa, a cui pure sono immediatamente soggetti. Arriva dunque il giorno che il segretario particolare, con aria imbarazzata, porge al Presule la lettera, regolarmente protocollata dalla Cancelleria, in cui un gruppo stabile di fedeli, ai sensi e per gli effetti degli articoli tale e talaltro del Motu Proprio Summorum Pontificum, chiede all’Ecc.mo Ordinario la celebrazione della Messa secondo l’edizione del Missale Romanum del 1962 promulgato dal beato Giovanni XXIII.
Errore: non ci si deve MAI rivolgere all’Ordinario, ma al proprio Parroco. In primo luogo perché così stabilisce il MP; in secondo luogo perché si dimostra di conoscere i propri diritti, e si dà la possibilità al Parroco di acconsentire generosamente senza che l’ordine gli venga dall’alto. Il Parroco non deve chiedere nessun permesso al Vescovo, visto che la celebrazione della Messa tridentina è un diritto del fedele. Ed ancor meno dovrà chiedere il permesso per celebrarla privatamente, dal momento che anch’esso è un diritto riconosciuto dal Papa a tutti i sacerdoti. Quindi all’Ordinario non si deve chiedere alcunché. Al massimo lo si potrà informare, a cose fatte, ammesso che non ne sia già al corrente grazie alla rete di informatori di cui dispone. Che se poi vorrà intervenire, con un abuso, impedendo l’esercizio di tale diritto, dovrà farlo autonomamente, e senza trovarsi nella condizione di potersi organizzare preventivamente dissuadendo, temporeggiando, intimidendo, cercando scuse. Agli ecclesiastici, massime ai Prelati, non piace dover prendere iniziative, sollevando polemiche sulla stampa e attirando l’attenzione dei Superiori. Quindi, se il Vescovo vorrà proprio proibire la Messa antica, dovranno farlo dopo che il Parroco sarà stato interpellato dai fedeli. Valuterà i pro e i contra e si muoverà di conseguenza.

Alla prima lettera di solito non viene dato seguito. Si vuol vedere se il coetus fidelium è veramente convinto e determinato. E infatti dopo alcune settimane giunge una seconda lettera, che non è più possibile ignorare. Viene quindi convocato in Curia il rappresentante del gruppo stabile. Giunto il giorno fatidico, ecco il nostro delegato, col vestito della festa, in anticamera. Una mezz’ora almeno di attesa serve sempre ad ricordargli che certi usi rinascimentali della Corte Papale vigono anche nel postconcilio. Finalmente il laico viene fatto entrare ed è accolto dal Vescovo in veste filettata, che di buon grado si lascia baciare l’anello, e che con sorrisi e gesti benevolenti fa accomodare l’intimidito interlocutore. Le domande iniziano vaghe e generiche: come sta il suo parroco, come va la famiglia, e tutto il repertorio dei convenevoli che preannunciano un terzo grado.

Si viene quindi sottoposti ad un fuoco di fila di domande incalzanti: chi siete? cosa volete? perché proprio adesso? in che rapporti siete con i lefebvriani? avete persone politicamente impegnate a destra nel vostro gruppo? Ovviamente il poveretto è semplicemente il primo firmatario della richiesta di altri semplici conoscenti, tutte persone normalissime, padri di famiglia, studenti, qualche persona anziana. E a queste domande il nostro delegato risponde imbarazzato, in modo impreciso e dicendo di non conoscere le idee politiche degli altri fedeli.
Errore: il coetus fidelium non è una associazione o un sodalizio, ma un semplicissimo gruppo stabile di persone con l’unico immediato interesse in comune di avere la celebrazione della Messa tridentina. Quindi non si è tenuti in alcun modo a fornire né elenchi di aderenti, né referenze, né patenti di irreprensibilità politica. Ma si suppone che effettivamente i membri del gruppo siano persone per bene, politicamente moderate e che non vogliono usare la Messa come alibi per altri scopi. Secondo alcuni pareri autorevoli, il gruppo può essere composto da pochi fedeli: tre o quattro persone possono bastare, ma quando si ha a che fare con chi cerca pretesti è più prudente raccogliere almeno una ventina di adesioni.

Altro caso: il delegato è in effetti membro di un’associazione laicale e risponde dando referenze, indicazioni sui ruoli di ciascuno del gruppo, sul suo lavoro e via elencando.
Errore: una associazione laicale, a rigore, dovrebbe rivolgersi al proprio Cappellano, per analogia con quanto deve fare un normale fedele con il proprio Parroco, ossia con colui alla cui cura pastorale egli è affidato. Quindi si dovrà evitare meticolosamente di sovrapporre le cose: se una associazione chiede la Messa antica, le verrà assegnata probabilmente una chiesa non parrocchiale, dove i suoi membri potranno seguirla in quanto membri dell’associazione. Esattamente come i Carismatici, i Focolarini, i Ciellini, gli Alleantini ecc. Viceversa, se la Messa viene chiesta al Parroco dai suoi fedeli, i membri dell’associazione potranno rivolgersi ognuno nella propria chiesa, raccogliendo qualche conoscente, e moltiplicando esponenzialmente il numero di Messe richieste. Si tenga presente che – anche alla luce dell’esperienza di questi anni – molto spesso vi sono fedeli che scoprono quasi per caso l'usus antioquior vedendolo celebrare nella propria parrocchia, e quanti inziano ad assistervi magari per curiosità quasi sempre diventano assidui e partecipi a questo rito. Quindi è più che opportuno non considerare la Messa come appannaggio di un gruppo, ma al contrario favorirne la diffusione nel maggior numero di Parrocchie della Diocesi. E si dovrà fare in modo che i fedeli non si sentano membri coaptati di un’organizzazione particolare, ma semplicemente normali parrocchiani. La ghettizzazione è una tentazione cui cedono in molti: da un lato quanti mirano a separare i corpi estranei, i nostalgici del rito antico; da un altro proprio quegli strani, che con quella scusa possono far quel che credono, a dritto e a rovescio, confermando troppo spesso le riserve dei loro oppositori. Ogni Diocesi conta qualche eccentrico che smania di risponder cerimoniosamente Ad Deum, qui lætificat juventutem meam in veste e cotta, con enfatici salamelecchi e petulanti correzioni al povero inesperto celebrante, che si arabatta col foglietto non ancora mandato a memoria. Questa schiera di infelici è croce e delizia utriusque ritus, e pure i progressisti se li devono sorbire a declamare È parola di Dio arrampicati all'ambone o a vagare in presbiterio per sistemare i microfoni. E mentre la Messa in parrocchia consente anche ai chierichetti di conoscere i tesori dell’antica liturgia, la Messa di un’associazione rischia di diventare palcoscenico di stravaganti, esteti ed appassionati de’ begli arredi. Il tutto a discredito della buona causa e a vantaggio dei detrattori, ai quali viene offerta su un piatto d’argento la testa del povero sacerdote attorno al quale costoro dondolano il turibolo o intonano il Graduale.

Il Vescovo non risponde mai immediatamente. Di solito la risposta si fa attendere parecchio, con la speranza che – al pari delle lezioni scolastiche – si arrivi abbastanza vicino alle ferie per poter rimandare tutto all’autunno successivo, o all’anno dopo. Certo è che, quando un Prelato risponde Vedremo ci si può già metter l’animo in pace, perché in linguaggio curiale questo è un No. Si deve tener conto che ogni decisione importante è preceduta da una consultazione dei notabili di Curia e, non di rado, dell’intero Presbiterio, ossia di tutti i sacerdoti della Diocesi, o quantomeno dei Parroci. Di questi chiari di luna, va da sé che su cento sacerdoti almeno novanta sono contrari al MP e faranno di tutto per significarlo a Sua Eccellenza. Anzi: quanto più il loro numero dovesse essere esiguo, tanto maggiore sarà lo strepito che faranno. I favorevoli o gli indifferenti, da bravi chierici, si guardano bene dal dirlo e tacciono come San Pietro nel cortile del Pretorio, ut videret finem, per vedere come va a finire.
Ecco un altro motivo per il quale non è opportuno rivolgersi al Vescovo: si permette una levata di scudi da parte degli oppositori del MP mentre, se si chiede la Messa al Parroco, questi verrebbero eventualmente coinvolti solo dopo, e a cose fatte. E non ci si lasci intimidire con l’accusa di organizzare colpi di mano: l’esercizio di un diritto non esclude di ricorrere ad una strategia che consenta, nei confini della liceità e della correttezza, di raggiungere lo scopo che ci si prefigge. Se si vuole invece fare una semplice battaglia di principio, ci si scontrerà inesorabilmente contro l’autorità dell’Ordinario – ancorché esercitata abusivamente – e non si otterrà l’applicazione del MP.

Alla fine la lettera del Vescovo arriva. Sulla carta pregiata campeggia lo stemma di Sua Eccellenza, col numero di protocollo e tutti i crismi di un documento di Curia, perfino il sigillo e la firma del Cancelliere. La prima eventualità è che l’Ordinario non accolga la richiesta: ed ecco confermato il motivo per cui non si deve chiedere il permesso di esercitare un diritto a chi non solo non è competente a concederlo – dal momento che un’Autorità a lui superiore l’ha già fatto – ma che, una volta interpellato, ha la possibilità de facto di negarlo. È proprio nel momento in cui ci si è rivolti al proprio Vescovo che gli si è riconosciuta la potestà di decidere, in deroga al dettato del MP.

La seconda eventualità è che temporeggi. Anche in questo caso, chiedendo al Parroco si sarebbero evitati questi problemi.

La terza eventualità è che Sua Eccellenza si degni acconsentire, destinando una chiesa non parrocchiale alla celebrazione della Messa, in determinate circostanze e a certi orari, per coloro che l’hanno chiesta. Una Messa festiva – o prefestiva con validità di precetto – magari ogni due domeniche. Nella più rosea delle ipotesi, Messa tutte le domeniche e feste comandate. Ed ecco i firmatari della petizione a gioire
anch’io festevole e a diramare comunicati stampa alla gazzetta locale e su tutti i siti tradizionalisti di internet. Una conquista per la Tradizione! Un gesto che rivela lo zelo pastorale del Vescovo!
Errore: la designazione di una chiesa non parrocchiale non è conforme al MP, ma all’Indulto che Giovanni Paolo II promulgò nel 1988 e che è stato abolito dalla Summorum Pontificum. L'Istruzione applicativa prevede la mera possibilità di questo, ma la via ordinaria è la richiesta al Parroco. Quindi chi crede di aver ottenuto qualcosa nel momento in cui gli viene accordata una riserva liturgica in cui godersi la Messa tridentina si sbaglia: viene ghettizzato, e si rende ben più difficile la diffusione di altre Messe nella Diocesi. Se infatti la Messa antica viene celebrata in una parrocchia per i suoi fedeli, si può coerentemente replicare anche nelle altre, in cui vi siano altri fedeli intenzionati ad avvalersi di quel diritto. Ma se ci si fa destinare una chiesa a parte, questa esaurirà quasi sicuramente ogni ulteriore richiesta, e qualsiasi fedele potrà esservi indirizzato. E si noti che questa ghettizzazione è quanto di più alieno possa esservi dallo spirito dell’antica liturgia, che è romana, cioè della Chiesa di Roma a cui apparteniamo, e non monopolio di un gruppo. Il Cattolico rifugge dalle sette, e giustamente: egli vuole solo la Messa, nella chiesa in cui è stato battezzato, in cui ha imparato il Catechismo, in cui si è sposato, in cui è conosciuto dal proprio Parroco, ma dove comunque non si sente escluso o separato dai suoi amici e conoscenti. Troppo tardi, a questo punto, chiedere che il Vescovo torni sui propri passi: l’errore iniziale ha compromesso tutto e se si protesta si verrà facilmente accusati di essere incontentabili, di avere troppe pretese, di non tener conto delle esigenze pastorali ecc.

Quando un Vescovo, senza che vi siano palesi violazioni delle condizioni previste dal MP, rifiuta di accordare la Messa tridentina, ci si può rivolgere alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ora incorporata nel Sant’Uffizio – pardon – nella Congregazione per la Dottrina della Fede. Come sempre, il prestigio del Prelato è pari al suo peso dinanzi alla Commissione, per cui è raro che giungano intimazioni o ordini perentori a un Cardinale o un Arcivescovo. Di solito il primo passo è una telefonata di cortesia da parte di un qualche Monsignore, con cui si prega Sua Eccellenza di voler dar seguito alle richieste dei suoi fedeli. Se l’Ordinario è un porporato, lo chiamerà il Presidente della Commissione, anch’egli Cardinale e Prefetto di Congregazione. Quando le difficoltà aumentano, parte la lettera riservata. Raramente vengono prese misure ulteriori. Di per sé, essendo ora un organo del Sant’Uffizio, la Commissione opera come un Dicastero Papale, ma se un Vescovo disobbedisce apertamente al Papa, probabilmente non avrà scrupoli a disobbedire anche a chi parla a nome del Papa. In ogni caso non si scatena certo una guerra per quattro laici che vogliono l’antica liturgia. E intanto il tempo passa.

Ipotizziamo ora che i fedeli si accontentino di una chiesina del centro, in cui appagare il proprio bisogno di liturgia romana. Chi sarà il celebrante? Nove volte su dieci è un sacerdote che non celebra la Messa antica da quarant’anni, e forse non l’ha mai vista celebrare nemmeno da piccolo. Se non ha mai celebrato la forma straordinaria quand’era ordinaria, avrà imparato a celebrare alla bell'e meglio il Novus Ordo in italiano, senza alcuna formazione rituale e cerimoniale. Probabilmente non sa nemmeno il latino, e questo è un problema ulteriore e molto grave, poiché è indispensabile che il sacerdote capisca immediatamente ciò che legge sul Messale. Se invece è stato ordinato prima del Concilio, si ricorderà qualcosa, con le mille variazioni indotte dal nuovo rito. Chi vuole boicottare il MP si diverte un mondo a mettere in riga qualche pretino indocile, affidandogli questo ingrato incarico. Quindi sarà arduo insegnargli qualcosa, anche ammesso che si sia in grado di imparare.
Errore: non è compito dei fedeli insegnare al Clero come dir Messa secondo l’antico rito. Di per sé si dovrebbe pretendere dal Vescovo che dia indicazioni al celebrante affinché, prima di iniziare la celebrazione, la studi nei minimi dettagli e ne impari bene tutte quelle parti che si devono sapere sub gravi a memoria. Se poi, per spirito di collaborazione, c’è chi può aiutare in quest’opera di formazione liturgica, ben venga: ma si valuti attentamente che sia effettivamente una persona competente e di provata capacità, altrimenti si aggiunge errore a errore. In ogni caso, dovrebbe esser buona norma che fossero altri sacerdoti, magari di qualche Istituto legato alla liturgia tridentina, a farsi carico di insegnare al celebrante a dir Messa correttamente.

Se si pensa alla sacralità del Santo Sacrificio, verrà naturale fare in modo che tutto il rito segua scrupolosamente le norme e le disposizioni della Chiesa. Eppure qualcuno, sotto l’influenza nefasta del libertinaggio rituale di gran moda, dirà che all’inizio si può esser tolleranti sul modo in cui viene celebrata la Messa antica. Fotocopie per le preghiere ai piedi dell’altare, inchini assenti, Canone letto ad alta voce, genuflessioni omesse, dita disgiunte dopo la Consacrazione e via elencando. Tutto tollerato – all’inizio, s’intende – come tutto è tollerato nella Messa riformata.
Errore: gli adattamenti – in un senso come nell’altro – sono assolutamente arbitrari e non sono previsti dal MP, il quale ha riportato in vigore il rito del 1962, non quello di Pio XII né quella congerie di experimenta che si sono susseguiti fino al nuovo rito. Quindi sarà opportuno dotarsi di un manuale di liturgia aggiornato al 1962 e non dar libero sfogo alla propria creatività. E visto che tra gli zelatori del tempio abbondano coloro che vorrebbero pontificare anche la recita delle Preci Leonine, è il caso che ci si ricordi che è ben preferibile una decorosa Messa letta celebrata correttamente secondo le Rubriche, piuttosto di una Messa in terzo piena di pasticci e di abusi, non ultimo un laico a far da suddiacono con berretta e manipolo. Iniziare con la Messa letta permette al celebrante di prender sicurezza, per poi passare magari alla Messa cantata, e infine a quella solenne solo quando ci siano Ministri e inservienti preparati. Per i pontificali serve sempre un cerimoniere in sacris che conosca alla perfezione il rito in tutte le sue parti, oltre ad una serie cospicua di chierici esperti. E occorrono anche tutti i paramenti e le vesti prescritte, che una volta si chiedevano in Cattedrale e che oggi con ogni probabilità sono irreperibili o inutilizzabili. I laici addetti al servizio sono certamente lodevoli, e possono aiutare non poco nel limite delle proprie competenze. Ma non dovranno mai svolgere ruoli propri e specifici del Clero. E comuque si preferisca, specialmente nelle piccole comunità, la sobrietà di una Messa letta o dialogata agli sfarzi improvvisati che nulla hanno di romano. Anche nel senso opposto, si ricordi che la Messa inizia in sacrestia con la Præparatio, e che in sacrestia finisce con la Gratiarum actio, quindi non si aggiunga e non si tolga nulla a tutto quello che è indicato nelle Rubriche. E se ad esempio il Messale dice che il sacerdote deve uscire dalla sacrestia a capo coperto, nessuno è autorizzato ad abolire la berretta solo perché la deve indossare due minuti. Inutile dire che la veste talare è ancor oggi prescritta sub gravi nel senso che chi non la mette compie peccato mortale per l’amministrazione dei Sacramenti, quindi a fortiori si dovrà pretendere che il celebrante venga in veste e non in clergyman, anche se il camice copre tutto. La liturgia romana è scuola di stile, di disciplina e di contegno: spesso chi impara a celebrare il rito straordinario è portato spontaneamente ad una maggiore compostezza anche nel rito ordinario. Non si permetta che accada il contrario, e che le rilassatezze della liturgia moderna contaminimo anche l’antica.

In taluni casi l’Ordinario designerà un sacerdote che già conosce il rito antico, e questo semplificherà molto le cose. In altri casi, non volendo nominare un solo celebrante per evitargli l’infamante marchio di tradizionalista, il Vescovo darà questo incarico a cinque o dieci sacerdoti, che dovranno alternarsi nella celebrazione della forma straordinaria. Una scelta che potrebbe apparire positiva, perché in questo modo si avvicinano più chierici al rito antico; ma che di fatto è solo un altro modo per garantire una sostanziale ingestibilità all’iniziativa. Dovendo celebrare una volta ogni mese o addirittura ogni due o tre mesi, ogni sacerdote non fa in tempo ad imparare qualcosa che già la dimentica, e ad ogni Messa si dovrà quasi ricominciar daccapo. Inoltre, la presenza di più celebranti rende di fatto impossibile avere una continuità liturgica, per cui i responsabili del gruppo stabile finiranno per diventare gli unici referenti, col rischio di monopolizzare la chiesa in cui la Messa viene celebrata.
Errore: affidare l’organizzazione delle celebrazioni ad un gruppo o ad una associazione conferisce una caratterizzazione – non solo in senso liturgico – che non è assolutamente prevista dal MP. Infatti, se la Messa è celebrata in parrocchia, essa rimane parte della vita parrocchiale, senza creare divisioni, sotto il controllo del Parroco. Se invece i fedeli possono organizzarsi come meglio credono in una chiesa separata dalla parrocchia, andranno a costituire una comunità a sé stante, con tutti i rischi del caso. Primo fra tutti, lo svilupparsi di quelle dinamiche elitarie che portano a personalizzazioni del rito estranee allo spirito romano. Così l’incauto fedele che si avventura alla Messa festiva verrà squadrato dagli appartenenti del coetus come un corpo estraneo, riservandosi il diritto di accoglierlo o escluderlo dalla loro comunità sulla base di criteri a dir poco opinabili. Non è raro il caso di associazioni che considerano la Messa come una proprietà inviolabile, non fosse che per il fatto di averla ottenuta dal Vescovo, e che ritengono che chiunque vi si accosti debba in qualche modo aderire anche alle finalità che esse si prefiggono. Ma è ben chiaro che, posto il diritto di un fedele di avere la celebrazione nella forma straordinaria, tale diritto si può e si deve esercitare senza alcuna restrizione, specialmente se essa contraddice lo spirito del MP. Infine, la tanto decantata dimensione comunitaria della vita parocchiale viene meno, creando da una parte lo sparuto gruppo di ben identificabili integralisti, e dall’altra la ben più nutrita schiera dei normali. Un vero favore per chi non vuole la diffusione della Messa tridentina e al tempo stesso può additarne i sostenitori come dei settari.

Il fenomeno dei gestori della forma straordinaria è una piaga che non si finirà mai di deplorare: in nessuna epoca si è data una tale invasione del santuario da parte dei laici, e quello che certi tradizionalisti rimproverano ai Carismatici o ai Neocatecumenali si ripropone pedissequamente anche sul campo opposto con danni incalcolabili per la causa della Tradizione. Al di là dell’autonomia di cui godono gli Istituti di Diritto Pontificio – che come tali hanno tutto il diritto di avere una propria spiritualità – ci sono gruppi e gruppuscoli tradizionalisti che coltivano il proprio particulare con caparbietà, a colpi di pontificali e di Messe solennissime con annessa indulgenza plenaria. Ma quel che può esser legittimo in una comunità dotata di un proprio statuto non può e non deve diventare legge comune della Chiesa, costringendo chierici e laici a subire i diktat di presunti Gran Maestri di fantomatici ordini cavallereschi, che alla prova dei fatti risultano esser semplici presidenti di pii sodalizi. Intelligenti pauca.

Lo stesso dicasi per gli ubiqui di certe associazioni che oggi si impongono, senza alcuna investitura e nessun titolo, a mediatori della causa tradizionalista con le Curie e i Vescovi. Li si trova dovunque, sempre pronti ad intervenire per mediare, e non si capisce se costoro abbiano veramente a cuore la Messa tridentina o piuttosto assecondino un irrefrenabile desiderio di mettersi in mostra. I teorici del cosiddetto infiltrismo hanno dimostrato che, lungi dall’aver saputo svolgere una vera politica di occupazione delle casematte del potere ecclesiastico, si sono invece lasciati contaminare dallo spirito progressista, o piuttosto dalla mera ambizione, alla quale hanno asservito ogni propria azione. A causa di questi onnipresenti inframettitori, non è possibile alcuna iniziativa senza il loro placet, che giunge dall’alto come una grazia, dopo essersi imposti come non richiesti mediatori con Sua Eccellenza. E ci si chiede – non senza ragione – per quale motivo la reverenda Curia attribuisca loro un ruolo che nessuno ha mai accordato, se non per avvalersi dei loro servigi come quinta colonna. Ovviamente i singoli fedeli, alieni alle meschine lotte di potere interne ai movimenti cosiddetti tradizionalisti, sopportano queste ingerenze come un fatto ineluttabile.
Errore: a nessuno, laico o chierico, il MP accorda ruoli preminenti. Anzi si dovrebbe pretendere che il coetus fidelium previsto dal documento papale non venga subdolamente identificato con organizzazioni ed associazioni, dando potere decisionale a figure intermedie che a nessun titolo sono previste. Se esiste un portavoce dinanzi alla Curia (o, più correttamente, dinanzi al Parroco), questi dev’esserlo solo ed esclusivamente come esponente del gruppo stabile che chiede la Messa in forma straordinaria; e se un’associazione intende avvalersi del MP, lo farà a titolo personale e senza interferire con la normale applicazione della Summorum Pontificum nelle parrocchie.

Laddove la chiesa sia sprovvista di suppellettili e paramenti, si provveda a farla dotare di tutto il necessario. Anche in questo caso si dovrà chiedere per tempo al Vescovo di dare disposizioni in merito, evitando ai laici di dover integrare a proprie spese ciò che certamente è già disponibile in qualche chiesa della Diocesi. Non spetta ai laici farsi carico della parte logistica delle funzioni, che sono di stretta spettanza del Clero: al massimo si potrà pretendere che essa si adegui alle Rubriche, senza adattamenti arbitrari.

Può accadere che il gruppo stabile, anziché rivolgersi al Vescovo, chieda direttamente al proprio Parroco la celebrazione della Messa e che questa venga accordata di buon grado. In questo caso il MP è seguito alla lettera, e in teoria non dovrebbero esserci problemi. Se non che la notizia giunge al Vescovo, il quale, esercitando abusivamente un potere che non gli è assolutamente riconosciuto dal diritto, vieta al Parroco di celebrare la Messa tridentina. E il Parroco, intimidito, obbedisce.
Errore: il divieto imposto dall’Ordinario è nullo, e come tale non vincola il celebrante. Il quale potrà comunicare al Vescovo, in via informale, che avendo il Papa autorizzato ogni sacerdote cattolico a celebrare nella forma straordinaria, ed ogni fedele cattolico ad aver celebrata la Messa in questo rito, non può obbedirgli, perché disobbedirebbe al Pontefice Romano.

Purtroppo la pavidità del Clero, o la minaccia di un trasferimento nella più remota pieve della Diocesi, fanno sì che la Messa venga sospesa. Alla richiesta di scrivere a Roma, il Parroco temporeggia, e solo raramente dà prova di coraggio affrontando di petto le irricevibili richieste del proprio Vescovo.

Se il Vescovo permette la Messa, non di rado insiste su un elemento che, a chi conosce la liturgia romana, pare a dir poco scontato: la comprensibilità dei riti da parte dei fedeli. In particolare, si chiederà che le letture vengano proclamate in lingua vernacolare e non in latino. Si giungerà addirittura a chiedere che l’omelia sia tenuta in italiano.
Errore: la proclamazione in lingua volgare dell’Epistola e del Vangelo non deve sostituire quella in latino, ma può accompagnarsi ad essa o, limitatamente alla Messa letta, può sostituirla (Istruzione Universæ Ecclesiæ, n. 26). Il motivo è più che evidente: la liturgia romana, in quanto azione pubblica ed ufficiale della Chiesa, si esprime nella lingua sacra, specialmente nella sua forma solenne e pontificale. Sarebbe inimmaginabile, oltreché ridicolo, cantare l’Epistola in volgare. In una società multietnica, in cui in ogni città si trovano ormai fedeli di diverse lingue, sarebbe oltretutto inutile imporre le letture in una lingua nazionale a discapito del latino, rendendo ancor più caotica la comprensione. Inoltre, a sfatare uno dei tanti miti diffusi sull’antico rito, non è fuori luogo ricordare che sin dagli anni Quaranta del Novecento, è invalso l’uso del Messalino per i fedeli, in cui tutte le parti dell’Ordinario e del Proprio del Messale sono riportate in latino con la traduzione in italiano a fronte, accompagnata da commenti e spiegazioni di natura pratica, pastorale e spirituale, cosa che viceversa è praticamente scomparsa, con grave danno, nel nuovo rito. Non è quindi indispensabile tradurre le letture, se i fedeli le possono leggere nella propria lingua. Ma se proprio lo si vuol fare, che questo avvenga a parte, finito il Vangelo e prima dell’omelia, come si faceva un tempo.
Sappiano i critici dell’usus antiquior che mai, in alcuna comunità del mondo, si è tenuta la predica in lingua latina, visto che il Concilio di Trento l’ha resa obbligatoria proprio per istruire il popolo. Fino al Vaticano II vi erano anzi comunità, specialmente rurali, in cui era normale che la predica fosse tenuta nel dialetto locale: un esempio che dovrebbe esser tenuto in considerazione da quanti, nella liturgia vernacolare, infarciscono le proprie omelie di dimensione escatologica, soteriologia, eucologia ed altre espressioni incomprensibili a più.

In altri casi qualcuno ricorre a pretesti o ad accuse: il tal sacerdote celebrerebbe i riti della Settimana Santa secondo il rito precedente alla riforma di Pio XII, o si reciterebbe il secondo Confiteor prima della Comunione, o ancora si consacrerebbero le Sacre Specie per i fedeli presenti, anziché distribuire la riserva eucaristica presente nel tabernacolo (e presumibilmente consacrata nel corso di una Messa riformata). Dinanzi a tali accuse, ogni abuso da parte della Curia troverebbe giustificazione. Ed in un certo senso non ci si potrebbe lamentare: il MP prevede esclusivamente l’applicazione del rito del 1962, e non autorizza nessuno a forme di libero esame liturgico. Ci si guardi bene dal dare adito ad accuse, adottando forme di celebrazione non conformi alle Rubriche; ed anche se tutti sanno che il discutibilissimo Ordo Hebdomadæ Sanctæ è parto degli stessi a cui si deve la successiva riforma liturgica, non si può e non si deve utilizzare il rito precedente. Quanto al Confiteor, si potrebbe teoricamente tollerarlo come consuetudine, ma è preferibile adeguarsi di buon grado al rito di Giovanni XXIII anziché prestare il fianco a critiche da parte di chi non aspetta altro che un nostro errore.

Per quanto riguarda la questione della riserva eucaristica, andrebbe aperto invece un discorso più ampio. I progressisti sono i primi a consacrare le ostie necessarie ai fedeli presenti, perché le loro convinzioni moderniste sono vicine a quelle dei Luterani, per i quali il pane eucaristico si benedice e si consuma nella santa cena. I Cattolici invece credono che la Presenza Reale si mantenga anche dopo la consacrazione, e per questo conservano nel tabernacolo un numero di ostie sufficiente ad amministrare la Comunione fuori della Messa, o per portare il Santo Viatico ai moribondi. Così per un sacerdote è più che naturale consacrare solo l’ostia della Messa, e prendere la pisside col Santissimo per comunicare i fedeli. Ma qui sorge il problema. Alcuni temono che l’intentio di chi, nel corso di una Messa riformata, consacra le Specie Eucaristiche possa esser messa in dubbio: così sostengono pochi temerari. Ma sarebbe un errore gravissimo dar seguito a simili congetture, a meno che non ci sia la certezza assoluta che chi ha consacrato le ostie riposte nel tabernacolo sia un sacerdote eretico: caso quantomai raro, fortunatamente. Si deve quindi ritenere che le Sacre Specie nel tabernacolo siano effettivamente tali, e non c’è alcun bisogno di consacrare delle ostie per i fedeli della Messa, a meno che la riserva non sia assente – cosa peraltro non rara in certe chiese. Non si dimentichi che i novatori, tanto larghi di maniche con i più sfrontati abusi nel nuovo rito, sanno essere più implacabili di un inquisitore domenicano allorché si tratta di far le pulci ai tradizionalisti, dei quali conoscono benissimo i lati vulnerabili. Se nella celebrazione eucaristica è permessa ogni stravaganza, nella forma straordinaria si moltiplicano i controlli, per aver il pretesto di interdirla. E non ci si stupisca se certe informazioni tendenziose vengono riferite in Curia proprio da chi, all’interno del gruppo stabile, si è sentito esautorato e ritiene di poter fare le proprie vendette improvvisandosi delatore. Così gli sforzi lodevoli per aver la Messa tridentina sono frustrati da sciocchi errori che danno modo al Vescovo di intervenire con una severità a dir poco sconcertante, non fosse che per la propria unilateralità.

Un’altra stravaganza riscontrabile nelle comunità in cui si celebra la liturgia antica è la suscettibilità di alcuni nei confronti della partecipazione al Santo Sacrificio da parte di altri. Se ad una Messa interviene un laico che prima frequentava la Fraternità San Pio X, ecco levarsi il solito censore – di norma amministratore unico del gruppo stabile – a fulminare scomuniche a destra e a manca, ad interdire l’accesso in chiesa al reprobo, a denunziarlo dinanzi al sinedrio dei suoi degni sodali. Non mancano episodi in cui tali forme di intolleranza sono rivolte ad una persona con la quale si sono avuti dissensi personali, o che i pettegoli del gruppo hanno preso di mira per meschine rivalità. Come osa costui ad assistere alla nostra Messa? Chi gliene dà il diritto? Che sia scacciato con ignominia dal tempio!
Errore: a nessuno, per nessun motivo, è consentito stabilire chi abbia o meno diritto di assistere alla celebrazione di una Messa cattolica, in qualsiasi rito e in qualsiasi forma, a meno che non sia stata pronunziata contro di esso una pubblica sentenza di condanna ed egli non sia stato dichiarato scomunicato vitandus. In quel caso – ma pare che dai tempi di Loisy non vada più di moda – la celebrazione dovrebbe proseguire in forma di Messa letta e con due sole candele sull’altare. Come si vede, si tratta di un caso estremo, la cui valutazione è comunque riservata al celebrante, e non certo a un laico petulante in vena di revanchismi. Ecco un’altra ragione per cui non si può assolutamente tollerare che un laico diventi arbitro delle celebrazioni. In questo i sacerdoti dovrebbero essere estremamente severi, dal momento che la Messa è un atto pubblico della Chiesa, al quale ha diritto di assistere ogni battezzato non impedito dal Diritto. E quando si dice che la Messa è un atto pubblico si intende esattamente questo: nessuno si azzardi a farne l’espressione di una parte, di un gruppo, di un movimento. Anche la Messa detta privata è tale solo perché il celebrante la celebra senza fedeli che vi assistano, ma è comunque pubblica e diversamente non potrebbe essere. Lasciamo ai Neocatecumenali le proprie indecorose liturgie, cui sono pervicacemente abbarbiccati nonostante i decreti papali, nel corso delle quali si asserragliano nel tempio come adepti di una setta. Noi Cattolici Romani siamo orgogliosi di poter assistere alla luce del sole alle nostre liturgie, senza atteggiamenti da iniziati.

A tal proposito, andrebbe ricordato che in taluni casi l’Ordinario ritiene che la Messa in forma straordinaria non meriti di esser celebrata su un altare in chiesa, ma vada confinata nel più oscuro sacello, per cui il fedele che volesse assistervi è costretto a vagolare per le navate e le cappelle, finché non si decide ad andare in sacrestia, dove scopre il nascondiglio. Che strana combinazione! Anche la più disertata Messa riformata feriale merita l’altar maggiore, nei rigori dell’inverno più nero, ma la Messa antica dev’essere occultata e segregata, con la scusa di favorire il raccoglimento.
Errore: se una Messa può esser celebrata, non spetta al Vescovo stabilire l’altare o il luogo specifico all’interno della chiesa, né decidere se si possono dare i segnali di campane, o suonare l’organo, o in che forma possa esser detta. Quindi, se vi è servizio preparato e sufficiente, si potrà celebrare la Messa cantata o solenne, sempre che si rispettino le Rubriche. Se poi si vorrà invitare un Prelato, si dovrà darne notizia – per cortesia, non per averne approvazione – alla Curia. Nel caso dei Cardinali di Santa Romana Chiesa, è buona norma invitare l’Ordinario, il quale dovrà presenziare, eventualmente assieme al Capitolo, per rispetto ad un membro del Senato del Papa. In teoria un Cardinale ha il diritto di usare la cattedra del Vescovo, ma al giorno d’oggi è preferibile evitare di imporre un pontificale tridentino in Cattedrale. L’importante è che ci si attenga scrupolosamente alle prescrizioni dei libri liturgici in vigore nel 1962 e che, per non suscitare le ire di certi progressisti, si faccia in modo di limitare al massimo quanto è lasciato alla discrezionalità del giudizio: cappemagne e galeri possono apparire come una provocazione, e non è il caso di forzare le cose per assecondare le stravaganze di qualcuno. Non si dimentichi infine che il rispetto verso il Prelato che si invita impone che gli si evitino situazioni imbarazzanti, non ultima il dover riesumare impacciati famigli in ferraiolo in una Diocesi in cui il Vescovo veste abitualmente in clergyman con la croce pettorale nel taschino.

Se poi gli organizzatori del coetus desiderano invitare il proprio Vescovo ad una Messa in forma straordinaria, e questi accetterà, si dovrà fare in modo che tutto si svolga perfettamente. Non si lasci nulla al caso, e se Sua Eccellenza non conosce il rito antico, si preferisca farlo assistere in trono, come previsto dal Cæremoniale Episcoporum. Sarebbe controproducente, oltreché scortese, imporre al Prelato una celebrazione piena di errori e improvvisazioni, solo per togliersi la soddisfazione di vedergli indossare le chiroteche o una pianeta preziosa. E sarebbe un gesto altrettanto scortese voler presentare il proprio Ordinario, dinanzi all’opinione pubblica, come un paladino della Tradizione, laddove siano ben note le sue posizioni in materia. Basta la semplice assistenza per testimoniare la piena comunione esistente tra i fedeli di differente sensibilità liturgica e il loro Vescovo. Anzi, in punta di diritto non vi è alcun bisogno che il Vescovo prenda parte alle celebrazioni in forma straordinaria, dal momento che le permette il Papa. È tuttavia innegabile che, sotto un profilo politico, un simile gesto aiuterebbe i più timorosi.

Un’altra particolarità delle Messe celebrate in forma straordinaria è data dalla predilezione degli organizzatori per una fraintesa solennità. Contagiati dall’uso della forma ordinaria, alcuni solgono improvvisare la Messa cantata o addirittura solenne, omettendo tutto il Proprio e limitandosi all’Ordinario, ossia Kyrie, Gloria, Credo ecc. L’introito, il graduale, l’Alleluja, l’Offertorio e il Communio sono omessi o sostituiti arbitrariamente da altri canti o inni. E quasi sempre si ricorre alla ormai abusata Missa De Angelis, per il semplice fatto che la san tutti.
Errore: se si vuol cantare la Messa, vanno cantate tutte le parti prescritte, anche quelle del sacerdote e dei Sacri Ministri. Se il sacerdote non sa cantare, o se non ci sono cantori che conoscono il Proprio, che celebri la Messa letta. Non c’è niente di peggio che dar prova di improvvisazione, tagliando qua e là le parti che il rito prescrive in canto. Questa non è solennità, ma fatua presunzione, a scapito della santità della Messa e del rispetto per le norme liturgiche. A dispetto dell’uso monocorde del Kyriale Romanum, non sarà superfluo ricordare che ci sono molte Messe, alcune di rara bellezza, e che se i progressi possono apparire inizialmente lenti, col passare degli anni i fedeli imparano volentieri altre Messe. L’importante è avere alcuni cantori che possano accompagnare le funzioni. Ed esistono anche edizioni più semplici del Proprio, che si possono usare nelle chiese minori (ad esempio: Chants abrégés des Graduels, des Alleluias et des Traits pour toute l'année, Desclée, 1930).

In senso opposto, non mancano coloro che, ahimé contagiati dal nuovo rito, si credono concelebranti e, forti del loro messalino, affiancano il sacerdote nelle parti di sua spettanza, talora addirittura anticipandolo con stentorei Aufer a nobis, Unde et memores, Nobis quoque e via elencando. Sono gli stessi che alla Messa in vernacolo rispondono ostinatamente Et cum spiritu tuo, come se intorno ad essi il mondo non esistesse. Quelli che, durante la Messa cantata, si inginocchiano come alla Messa letta, prescindendo da quanto avviene intorno a loro. Finché non disturbano più di tanto la celebrazione, si può portar pazienza e tollerare le loro intemperanze; ma se dovessero seriamente distrarre il raccoglimento degli altri fedeli, sarà il caso che il Parroco li riporti caritatevolmente al silenzio, se non alla realtà.

Questi sono i nostri suggerimenti. Se poi qualche tradizionalista vorrà far naufragare miseramente ogni tentativo di diffondere la venereanda liturgia romana, sarà sufficiente che segua questi consigli al contrario: vedrà quanto può essere semplice boicottare l’usus antiquior con scelte opinabili, iniziative arbitrarie, eccessi evitabili.
Baronio

LAUDETUR  JESUS  CHRISTUS!
LAUDETUR  CUM  MARIA!
SEMPER  LAUDENTUR!