La croce dell’informe – Breve storia critica del Crocefisso nell’arte
Con quest’articolo continua la pubblicazione in varie puntate (qui la prima, qui la seconda, qui la terza, qui la quarta e qui la quinta) di una “Breve storia critica del Crocifisso nell’arte” a cura di Luca Fumagalli, socio fondatore e membro storico di Radio Spada.
di Luca Fumagalli
La Croce nel XVII secolo
Il 1600 continua naturalmente l’evoluzione in atto nel secolo precedente. Alla crisi della maniera segue il grande periodo barocco caratterizzato dal fasto e dall’abbondanza che, specialmente nelle architetture, ha regalato notevoli esempi d’arte sacra. Coerentemente alle disposizioni del Concilio di Trento che, parlando della devozione al Cristo Redentore, vuole che si evidenzia vittoria e il trionfo sulla morte, i Crocifissi di quest’epoca sono rappresentati con lo splendore del volto che fuga le tenebre. Nasce un nuovo modello di Cristo trionfante che sconfigge non solo la morte ma che allontana, grazie alla benigna aurea luminosa del viso, l’errore e l’eresia.
Simili esempi sono riscontrabili nelle crocifissioni di Annibale Carracci (1560-1609), dove il Cristo è circondato da un aureola radiosa e da lampi di luce che si stagliano in tutto il loro fulgore vivacizzati da uno sfondo cupo e tenebroso. Precursori di questo nuovo modo di intendere la crocifissione nell’arte sono Tintoretto (1518-1594) e Veronese (1528-1588): in particolare il primo presenta sempre un Gesù agonizzante che emana dal corpo, nonostante la morte imminente, una luce molto intensa[1]. L’aureola lucente esalta nell’atroce sofferenza della Croce la rivincita del Redentore che sconfigge la morte come la luce fuga le tenebre sullo sfondo.
El Greco (1541-1614), pittore con uno stile unico ed inconfondibile, riprende invece uno schema più spiccatamente michelangiolesco[2] identificabile dalla sobrietà della composizione (che presenta solo pochi personaggi essenziali) e dalla posizione plastica e sinuosa di Gesù che mostra un corpo levigato e pulito, illuminato da un’intensa luce bianca che ne risalta le forme e la centralità compositiva.
Una via di mezzo tra queste due linee pittoriche appena viste può essere quella spagnola (ma anche francese) incarnata da Velázquez (1599-1660) e dallo Zurbaran (1598-1664). In questi casi, alla semplicità dell’organizzazione scenica (Cristo è ritratto solo in Croce su un fondale nero) e alla cura anatomica delle parti, si aggiunge la luminosità emanata dal corpo di Gesù che staglia la sua figura sulla superficie e ne esalta ulteriormente le forme. Nell’impostazione del Cristo crocifisso(1631 ca.) di Velázquez, emerge inoltre un’eco classicheggiante derivato dai pittori italiani. L’opera è «nota non solo per la sua valenza emozionale ed estetica, ma anche per le leggende attorno alla sua origine […]: si narra che Filippo IV l’avesse fatta realizzare come ex voto di penitenza di un amore sacrilego provato per una giovane religiosa»[3]
Un ulteriore tipologia è quella inaugurata dal Gesù crocifisso di Guido Reni (1575-1642) «col viso estatico, il corpo privo di sofferenza, rilassato, con gli occhi aperti in atteggiamento orante verso l’alto»[4]. Il Crocifisso più famoso di Guido è sicuramente quello dipinto nel 1639 per l’oratorio detto del Sacramento e delle Cinque Piaghe di Reggio e da dove lo prelevò per il proprio museo personale il duca di Modena Francesco III. Il Redentore appeso al sacro legno «è tutto solo, sull’aspro Calvario, sul cielo tenebroso, ad attendere la morte liberatrice, il bel volto incorniciato di spine, gli occhi volti all’alto da cui viene la gran luce»[5]. Questo nuovo modo di intendere il Crocifisso avrà seguito nel corso del secolo come attestano artisti del calibro del Guercino (1591-1666), Alessandro Algardi (1598-1654) e Simon Vouet (1590-1649).
Nel XVII secolo parrebbero affacciarsi anche esempi del cosiddetto “Cristo giansenista”. Di questi Crocifissi ce ne offrono molti il Girardon (1628-1715), Jordaens (1593-1678), Duquesnoy (1597-1674) e Giulio Carpioni (1613-1679). La peculiarità di questa tipologia è che Gesù non è raffigurato con le braccia completamente distese ma piuttosto riunite in alto. Questa sembrerebbe essere dunque la figurazione del notorio errore giansenista che vuole Nostro Signore morto per la salvezza non di tutta ma di una piccola parte dell’umanità. In realtà pare non ci sia alcun legame: la nuova figurazione è figlia delle stravaganze barocche come ad esempio quella di voler scolpire il Crocifisso in un solo pezzo di legno o avorio. Inoltre «A. Grazier cita vari Crocifissi stampati su libri di carattere assolutamente giansenista, i quali però hanno le braccia allargate secondo la forma ordinaria» [6].
[1] A titolo d’esempio cfr. TINTORETTO, Crocifissione, 1565, Scuola Grande di S. Rocco, Venezia.
[2] P. GIGLIONI, La Croce e il Crocifisso nella tradizione e nell’arte, Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 2000, p. 38.
[3] M. A. ASTURIAS, Velázquez, Milano, Skira, 2003, p. 100 [“I classici dell’ arte”].
[4] GIGLIONI, La Croce e il Crocifisso, p. 38.
[5] F. MALAGUZZI VALERI, Guido Reni, Firenze, Le Monnier, 1929, p. 62.
[6] COSTANTINI, Il crocifisso nell’arte, p. 145.