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giovedì 25 gennaio 2018

Se ogni conversione... è opera della grazia divina, quella di Paolo lo è in sommo grado.

Omelia di Giovanni Paolo II 

in occasione della festa 

della Conversione di san Paolo







CELEBRAZIONE EUCARISTICA NELLA FESTIVITÀ

DELLA CONVERSIONE DI SAN PAOLO


OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Venerdì, 25 gennaio 1985

“Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 133, 1).



1. Con questi sentimenti di ammirazione e di letizia, espressi dal salmista, mi rivolgo a tutti voi, qui riuniti per incontrare il Signore nella sua parola e nel suo corpo. Ci incontriamo con lui, nostro unico Salvatore, nostro unico Maestro, ma ci incontriamo anche fra di noi, in questa celebrazione conclusiva della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
La gioia di questo incontro con il Signore e fra i fratelli è reso più vivo dalla presenza dei pastori e di numerosi fedeli delle altre Chiese e comunità ecclesiali presenti a Roma. A loro tutti il mio speciale saluto e il mio ringraziamento per avere voluto prendere parte a questo intenso momento di unione spirituale.

Uniti quindi spiritualmente con tutte le Chiese locali del mondo, nelle quali in questo Ottavario è stata intensificata la preghiera e la riflessione fraterna tra i fedeli di diverse confessioni, e uniti come membri della diocesi di Roma, concludiamo insieme questo itinerario di diverse iniziative di preghiera e di incontri fraterni qui, nella basilica dell’apostolo Paolo, dopo opportune iniziative alle quali in modo particolare hanno preso parte i giovani, impegnandosi anche in concreti gesti di carità a favore dei fratelli bisognosi, specialmente di quelli privi di un tetto e di una famiglia, che hanno sofferto per il freddo e la neve degli scorsi giorni.

Queste iniziative sono state sostenute dalla quotidiana preghiera, resa più intensa in questa basilica dall’adorazione Eucaristica quotidiana, che ha avuto inizio con questa Settimana di preghiere e che continuerà per il futuro, grazie alla partecipazione di monaci, religiosi, famiglie, gruppi parrocchiali del settore Sud di Roma; iniziative, alle quali esprimo oggi tutto il mio più vivo compiacimento ed incoraggiamento.

2. Per felice consuetudine, la conclusione della Settimana di preghiere per l’unità dei cristiani viene celebrata in questa basilica nella festa della conversione di San Paolo, evento centrale non solo per l’apostolo, ma per tutta la Chiesa delle origini. Siamo perciò sollecitati a fissare il nostro sguardo sulla figura di Paolo di Tarso, sulla Settimana di preghiera e, infine, sulla relazione dell’uno e dell’altra con l’impegno solenne assunto dalla Chiesa cattolica di lavorare instancabilmente alla ricomposizione dell’unità di tutti i cristiani.
Nella prima lettura (At 22, 3-16) abbiamo ascoltato Paolo narrare, nel tempio di Gerusalemme, ai suoi fratelli ebrei, la vicenda sconvolgente della sua conversione. Come affermano gli altri due racconti dell’evento, contenuti nel libro degli Atti (At 9, 1-8; 26, 2-18) Saulo-Paolo attribuisce la propria radicale trasformazione alla visione di Gesù Nazareno, che egli si accaniva a perseguitare e che gli si para davanti, sulla strada verso Damasco.
Se ogni conversione, o metànoia, è opera della grazia divina, cioè dell’intervento immediato e radicale di Dio nel cuore dell’uomo, quella di Paolo lo è in sommo grado. Il Signore Gesù si è mostrato a Paolo e ha preso a dialogare con lui, che, già convinto fariseo, impreparato a questa manifestazione e ad essa ostile, non ha potuto opporvi resistenza. Abbiamo ascoltato nella lettura la voce stessa di Paolo, che avvia lo straordinario dialogo: “Che devo fare, o Signore?”. La risposta di Gesù, non ancora esplicita ma già risolutiva, lo incita a dirigere i suoi passi verso la Chiesa di Damasco: “Là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia” (At 22, 10).
Questa esperienza, che trasforma Saulo in Paolo apostolo, ci insegna, ancora una volta, come i grandi eventi, determinanti per la vita della Chiesa, scaturiscano dalla grazia del Signore, il quale interviene nella nostra vita personale, nei nostri cuori, plasma la storia della Chiesa, come e quando egli vuole. Così, contrariamente ad ogni aspettativa e a quelle dello stesso Paolo, la vicenda della sua conversione è celebrata da secoli, nella liturgia della Chiesa, come avvenimento miracoloso.

3. Durante questa Settimana e dappertutto nel mondo, si è pregato per la piena unità e la perfetta comunione di tutti i credenti in Cristo. Si è pregato traendo ispirazione dalle stesse parole dell’apostolo, con il testo scelto dal Segretariato per l’unione dei cristiani e dal Consiglio ecumenico delle Chiese, quale tema della Settimana di quest’anno: “Dalla morte alla vita con Cristo” (cf. Ef 2, 4-10). Dal brano, sopra citato, che ha guidato la nostra riflessione durante la Settimana, sorgono verità fondamentali, come il passaggio dalla morte alla vita, che Dio solo può operare in noi.
Solo la misericordia del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo potrà concedere l’ineffabile grazia della piena comunione ai cristiani, che, rinati per il tramite del Battesimo, dalla morte alla vita, professano Cristo figlio di Dio e Salvatore, anche se non vivono ancora in piena comunione di fede e di vita cristiana. Questa comunione perfetta è dono divino: per essa Gesù ha pregato, come abbiamo ascoltato dal Vangelo (Gv 17, 20-26) appena proclamato.

4. Il fatto che l’unità sia esclusivamente dono divino non vanifica il nostro slancio, anzi lo fonda, lo giustifica e gli conferisce vero significato. Le nostre azioni per il ristabilimento dell’unità possono sembrare non adeguate e i nostri sforzi impari per raggiungerla; i mezzi possono apparire inadeguati, e deboli i risultati raggiunti. Così può sembrare lento il ritmo impresso all’opera a favore dell’unità, specie se paragonato al tempo di rapidi cambiamenti in cui siamo chiamati a vivere, in questo scorcio del XX secolo.
Impressione non del tutto falsa. Infatti, le iniziative varie, i dialoghi intrapresi, le relazioni nuovamente instaurate, un certo modo di crescere insieme come Chiesa, e persino la comune testimonianza data al nome dell’unico Cristo per la salvezza dell’umanità, per fronteggiare i problemi e le necessità del mondo di oggi, pur essendo indispensabili e forieri dell’unità futura, e pur derivando da una comunione già esistente, sono di per sé insufficienti a raggiungere tale unità.
Lo stupendo “edificio”, la “casa” evocata dal salmista e nella quale sarà “dolce” e “gioioso” per “i fratelli essere insieme” (Sal 133(132), 1), sarà “edificata” solo dal Signore (Sal 127(126), 1). La liturgia di oggi ci sollecita, pertanto, in modo del tutto speciale, a elevare la nostra umile e fervida supplica per ottenere questa grazia suprema dell’unità per mezzo di Cristo, nostro unico mediatore, che offre il suo unico sacrificio nella celebrazione eucaristica.

5. Se il significato della Settimana di preghiere è esattamente compreso e vissuto, la preghiera quotidiana per l’unità deve occupare il primo posto non solo durante la Settimana ad essa dedicata, ma ogni giorno della nostra vita. Ogni cristiano, convinto che l’impegno per l’unità è primario nel suo cammino verso Cristo, e volendo restare fedele a questo impegno, sa bene che qualsiasi azione intrapresa, individualmente o assieme agli altri, ha di per sé bisogno della preghiera al comune Signore, affinché fecondi ogni parola e ogni gesto, in modo che questi ricevano da lui il loro vero valore e possano farci progredire verso l’unità.
La Settimana di preghiere deve costituire il culmine di una preghiera ininterrotta. Poiché è preghiera comune, fatta dai cristiani ancora divisi, ma già uniti dallo stesso Battesimo e dalla comune fede in Cristo, unico Salvatore, essa è, ogni anno, un passo avanti nel cammino dell’unità, una felice anticipazione di quel traguardo supremo; è, infine, testimonianza della comune convinzione che l’unità è dono gratuito del Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo.

6. A conclusione di questa Settimana di preghiere, durante la quale abbiamo voluto rivivificare e ritemprare il nostro impegno ecumenico di fronte al Signore, non è inutile ribadire tale principio.
L’unità a cui aspiriamo, per la quale operiamo e soffriamo e soprattutto preghiamo, rivolgendoci con umile supplica alla santissima Trinità, è l’unità perfetta, improntata all’esempio e al modello della suprema unità divina, nella distinzione delle tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. È unità nella fede, unità nei sacramenti, unità di magistero, unità di guida pastorale.

Unità delle menti e dei cuori, ma anche unità visibile. Unità tra i cristiani, ma anche tra le Chiese e comunità ecclesiali. L’unità più radicale e più profonda che ci sia mai concessa nell’opacità e tra le debolezze di questa nostra storia.
Questa unità, che abbiamo connotato, non deve essere confusa con l’uniformità, con l’appiattimento dell’individualità e dell’identità di ciascuna legittima tradizione cristiana. L’unità che ricerchiamo non consiste nell’identificazione di una tradizione con un’altra; nell’accomodamento di una tradizione all’altra. Essa è tensione verso il raggiungimento, per dono di Dio, di quella totale fedeltà a tutto il suo disegno, così come è espresso nei Vangeli, come ci parla attraverso la grande tradizione ecclesiale, come si professa nell’unica fede, nella celebrazione degli stessi sacramenti, nella comunione con tutti i vescovi stabiliti per pascere il popolo di Dio (cf. At 20, 28) e uniti tra loro intorno al successore di Pietro. E tutto ciò nel rispetto dei valori e delle ricchezze di ogni tradizione particolare e di ogni cultura, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II nel decreto sull’ecumenismo, di cui ricordiamo il ventennale della promulgazione.

7. Cari fratelli e care sorelle, ho voluto ricercare con voi, in questa circostanza, il volto dell’unità per cui oggi preghiamo, rievocando l’esperienza e meditando l’esempio dell’apostolo Paolo, del quale celebriamo oggi l’ingresso nella Chiesa.
In questo giorno conclusivo della Settimana di preghiere per l’unità, la celebrazione dell’Eucaristia ci riconduce al cuore stesso del mistero della nostra riconciliazione con il Padre e della riconciliazione degli uni con gli altri.

Sentiamo ancora più dolorosamente gli ostacoli, che non ci permettono di partecipare insieme a questa Eucaristia e rinnoviamo la nostra volontà di fare tutto quanto è in nostro potere perché si avvicini il giorno benedetto in cui tutti i credenti in Cristo potranno trarre nutrimento dalla stessa sorgente d’unità. Facciamo nostra la preghiera di Gesù, che è stata appena proclamata e che egli ci ha lasciato nel Vangelo dell’apostolo Giovanni: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola.
Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 20-21). Amen.
*
Al termine di questa celebrazione eucaristica nella festività della conversione di San Paolo, che ci vede riuniti presso il trofeo glorioso dell’apostolo, a conclusione dell’Ottavario di preghiere per l’unione dei cristiani, un ricordo si affaccia impellente alla coscienza di tutti noi.

Quest’anno cade il ventesimo anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, il cui primo annuncio, come ben ricordiamo, fu dato dal mio predecessore Giovanni XXIII di venerata memoria proprio da questa basilica e in questo stesso giorno, il 25 gennaio 1959. Il Vaticano II resta l’avvenimento fondamentale nella vita della Chiesa contemporanea: fondamentale per l’approfondimento delle ricchezze affidatele da Cristo, il quale in essa e per mezzo di essa prolunga e partecipa agli uomini il “mysterium salutis”, l’opera della redenzione; fondamentale per il contatto fecondo col mondo contemporaneo al fine dell’evangelizzazione e del dialogo a tutti i livelli e con tutti gli uomini di retta coscienza. Per me, poi – che ho avuto la grazia speciale di parteciparvi e di collaborare attivamente al suo svolgimento – il Vaticano II è stato sempre, ed è in modo particolare in questi anni del mio pontificato, il costante punto di riferimento di ogni mia azione pastorale, nell’impegno consapevole di tradurre le direttive in applicazione concreta e fedele, a livello di ogni Chiesa e di tutta la Chiesa.

Occorre incessantemente rifarsi a quella sorgente. E tanto più quando date tanto significative, come quella di quest’anno, si avvicinano e riaccendono ricordi ed emozioni di quell’evento veramente storico. Pertanto oggi, festività della conversione di San Paolo, con intima gioia e commozione indìco un’assemblea generale straordinaria del Sinodo dei vescovi, che si celebrerà dal 25 novembre all’8 dicembre del corrente anno, e alla quale parteciperanno i patriarchi e alcuni arcivescovi delle Chiese orientali e i presidenti di tutte le Conferenze episcopali dei cinque continenti.

Lo scopo dell’iniziativa è non solo quello di commemorare il Concilio Vaticano II a vent’anni di distanza dalla sua chiusura, ma anche e soprattutto: rivivere in qualche modo quell’atmosfera straordinaria di comunione ecclesiale, che caratterizzò l’assise ecumenica, nella vicendevole partecipazione delle sofferenze e delle gioie, delle lotte e delle speranze, che son proprie del corpo di Cristo nelle varie parti della terra; scambiarsi e approfondire esperienze e notizie circa l’applicazione del Concilio a livello di Chiesa universale e di Chiese particolari; favorire l’ulteriore approfondimento e il costante inserimento del Vaticano II nella vita della Chiesa, alla luce anche delle nuove esigenze.

Attribuisco a questa assemblea straordinaria del Sinodo un’importanza particolare. Per tale motivo ne ho voluto dare oggi pubblica notizia da questa basilica, ove risuonò per la prima volta l’annuncio del Concilio ecumenico del nostro secolo. L’intento che mi muove si colloca nella scia di quello dei miei venerati predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI: contribuire a quel “rinnovamento di pensieri, di attività, di costumi e di forza morale, di gaudio e di speranza, ch’è stato lo scopo stesso del Concilio” (Insegnamenti di Paolo VI, III [1965] 746).

Affido fin d’ora la realizzazione del Sinodo straordinario dei vescovi alle preghiere della Chiesa e alla potente intercessione dei santi Pietro e Paolo; e con voi soprattutto imploro la Vergine Immacolata, Madre della Chiesa, affinché ci assista in quest’ora e ci ottenga quella fedeltà a Cristo, della quale ella è modello incomparabile per la sua disponibilità di “serva del Signore”, per la sua costante apertura alla parola di Dio (cf. Lc 1, 38; 2, 19.51). In questa fedeltà totale e perseverante la Chiesa di oggi vuol proseguire il suo cammino verso il terzo millennio della storia, in mezzo agli uomini e insieme come partecipe delle loro stesse speranze e attese, seguendo la via tracciata dal Vaticano II, e sempre in ascolto di “quanto lo Spirito dice alle chiese” (Ap 2, 7.11.17.26; 3, 5.13).
Conversion on the Way to Damascus-Caravaggio (c.1600-1).jpg
Conversione di San Paolo
di Michelangelo Merisi da Caravaggio
1600-1601, olio su tela 230x175 cm
Santa Maria del Popolo, Roma
AMDG et DVM

lunedì 25 gennaio 2016

Panegirico di san Paolo, apostolo: Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo


Dalle «Omelie» di 
san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo; PG 50,477-480)
Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo

    Che cosa sia l'uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3,13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invitava tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil 2,18). 

Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12,10). 

Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. 

Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2,14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l'altrui freddezza e le ingiurie che l'onore, di cui invece noi siamo così avidi. 
Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l'offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.


    Godere dell'amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l'amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l'ultimo di tutti, anzi un condannato però con l'amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro.



    Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l'unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.



    Il godere dell'amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All'infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.

RESPONSORIO         Cfr. 1 Tm 1,13-14; 1 Cor 15,9
R. Dio mi ha usato misericordia, perché agivo senza saperlo. * La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.

V. Non merito di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
R. La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.



ORAZIONE

    O Dio, che hai illuminato tutte le genti con la parola dell'apostolo Paolo, concedi anche a noi, che oggi ricordiamo la sua conversione, di camminare sempre verso di te e di essere testimoni della tua verità. Per il nostro Signore Gesù Cristo. 

Caravaggio: La conversione di San Paolo


Caravaggio: La conversione di San Paolo
di Alessio Varisco

La conversione di San Paolo, Caravaggio, 
1600/01 - olio su tela, 230x175 cm
Roma, Santa Maria del Popolo 


Il famoso dipinto “La conversione di San Paolo” eseguito da Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, è stato realizzato dal pittore all’età di trent’anni ed è custodito presso la Chiesa di Santa Maria del Popolo in Roma, all’interno della Cappella Cerasi.
La tela, di grandi dimensioni, è stata dipinta poco dopo quella presso la Chiesa di San Luigi dei Francesi in Roma, per la Cappella Contarelli ove l’elemento luce squarcia la penombra del locale mettendo in evidenza la povertà e lo squallore. Non dimentico di quest’atmosfera di luce, a circa un anno di distanza, gli viene commissionata un’altra conversione, non più del Discepolo –Matteo-, bensì dell’«Apostolo delle Genti»: Saulo di Tarso. Il modo scattante ed intimamente personalistico di trattare il dato religioso ne fanno un esempio significativo ed un continuum della descrittività mistica della luce nelle scene sacre.
La grande tela (2.30x1.75 mt) propone la conversione sulla via per Damasco[i].

Inconsueta l’ambientazione: la scena è una semplice stalla, una postazione poco prima la città cui Saulo era diretto.Testimoni della vicenda soprannaturale: il cavallo, che occupa più della metà del dipinto, un anziano palafreniere che appena s’intravede sulla destra del dipinto, dietro il muscoloso collo possente del destriero. Paolo, invece, è riverso a terra, rappresentato nell’istante successivo a quella «luce del cielo – che [n.d.r.] - gli folgoreggiò intorno» abbattendolo al suolo.

L’ambientazione poverissima, come la “Vocazione di Matteo”, è scabra, spoglia tanto da parere ai suoi contemporanei perfino blasfema; invece è la luce la vera ed autentica costruzione del dipinto che fa la protagonista principale del teatro della vicenda

Manifestazione della divinità, una sorta di teofanìa nel compiersi meccanico, coatto, di semplici azioni quotidiane; è un farsi prossimo del Dio nella storia nella semplicità. In questa tela proviene dall’alto, una sorta di folgore divina, che squarcia la tenebra del paganesimo, dell’indifferente, del persecutore, del calunniatore. 

Quest’elemento cardine colpisce Saulo che cade; tutto è specchio di quella Fonte, ogni superficie, il bel mantello porpora di Saulo, il mantello pezzato del cavallo, i piedi nudi dell’anziano scudiero. Tutto si impressiona di quella luce, riverbera di quella potenza. 

Ma non è il mero significato simbolico che impressiona, bensì l’inquietante realismo di un corpo non ancora completamente caduto. Si scorge il moto ancora attivo delle gambe, inclinate, le braccia alzate, gli occhi accecati dalle palpebre chiuse in segno di difesa da quel bagliore. E’ un crescendo: la spada alla sinistra affrancata alla cinta è lontana, non può difenderlo, è lì al suo fianco predata come il padrone. 

Sbigottiti per lo stupore gli attori di questa scena e anche noi osservatori, dal pathos evocativo caravaggesco.
Il cavallo è in una posa singolare: l’anteriore destro è rialzato, d’istinto per non calpestare il cavaliere caduto. Mentre il palafreniere è anch’egli accecato dalla folgore divina che ha colpito Saulo, l’unico testimone, cosciente ma  impossibilitato
 a comunicare la dinamica dei fatti, è il cavallo con l’occhio aperto e rivolto al suo cavaliere[ii].

Nella prima versione del dipinto, rifiutata dai committenti, la scena presentava il Salvatore nel momento in cui chiedeva «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Mentre nella versione ultima, quella a noi giunta la presenza della divinità è ancora
 più accorata, resa nell’assenza[iii],  che ci fa percepire la fragilità di Paolo [iv] di fronte alla soprannaturale maestosità della Manifestazione celeste.




 


[i] La conversione di Saulo è descritta dall’evangelista Luca in At 9, 1-9  e 26, 1-23 ove si narra che questo persecutore diretto in Siria, verso la città di Damasco, viene folgorato da una luce divina che lo scaraventa a terra e lo rende cieco per tre giorni. Saulo ebbe così modo di conoscere la potenza del Cristo, personalmente, che lo rimprovera per la sua condotta verso i cristiani. Di qui la conversione, l’adesione e la ferma attività di proselito presso le “genti”. Paolo, così si farà chiamare, sarà testimone-annunciatore fra i più convinti del Signore. L’iconografia cristiana ce lo propone solitamente imbracciante spada e scudo in atto di difesa della fede cristiana.
[ii] E’ impressionante come Caravaggio conosca i fenomeni dell’ottica percettiva negli esseri viventi: l’uomo ha un campo visivo di 120-180° mentre il cavallo ha un campo più complesso bioculare e non vede ciò che può vedere un uomo, quindi anche dinanzi a fonti luminose accecanti per l’uomo può reagire in altro modo.
[iii] Vera ed esasperata ridondante presenza, urlata nell’urlo afono della “non presenza”.
[iv] Questa “fragilità” è l’emblema dell’umanità che ancora non conosce Dio.



*

VERSIONE ODESCALCHI

Quest’altra versione è stata realizzata sempre nello stesso lasso di tempo in cui è stata dipinta la prima versione di cui ci siamo occupati nel paragrafo precedente, ed oggi fa parte della collezione della famiglia romana Odescalchi, da cui prende il nome di “Caravaggio Odescalchi”.

“Conversione di San Paolo” (Collezione Odescalchi) 
Michelangelo Merisi da Caravaggio
Data di produzione: 1600-1601 Dimensioni: 237 x 189 cm 
Dove si trova: Collezione privata Odescalchi, Roma
In questa versione alternativa realizzata da Caravaggio, il momento che viene rappresentato è lo stesso della versione di cui abbiamo parlato precedentemente. L’unica differenza è che qui Gesù viene rappresentato in carne ed ossa, il quale viene sorretto da un angelo, mentre Saulo, li quale è caduto da cavallo si sta coprendo gli occhi per il bagliore ed accanto a lui, Caravaggio inserisce anche un vecchio.
Differentemente dall’oscurità dell’altra versione, qui è presente anche un fiume, ovvero l’Aniene, che arricchisce l’ambiente in cui è collocata la scena.


AMDG et BVM