Card. Alfons. M. Stickler
Il celibato ecclesiastico.
La sua storia e i suoi fondamenti teologici
La sua storia e i suoi fondamenti teologici
Card. Alfons M. Stickler
INDICE
Introduzione [1]
I. Concetto e metodo [2]
1. Il senso del concetto di celibato: la continenza [3]
2. Le norme di ricerca su origine e sviluppo del celibato ecclesiastico [4]
3. Le origini del recente dibattito circa l’origine del celibato [5]
4. La trasmissione orale del diritto [6]
5. Il postulati del dato teologico [7]
2. Le norme di ricerca su origine e sviluppo del celibato ecclesiastico [4]
3. Le origini del recente dibattito circa l’origine del celibato [5]
4. La trasmissione orale del diritto [6]
5. Il postulati del dato teologico [7]
II. Sviluppo della continenza nella Chiesa Latina [8]
1. Concilio di Elvira [9]
2. La coscienza della tradizione del celibato nei concili africani [4]
3. La testimonianza della Chiesa di Roma [5]
4. La testimonianza dei Padri e degli scrittori ecclesiastici [6]
5. Evoluzione dell’argomento nei secoli successivi [10]
6. La riforma gregoriana [11]
7. Il celibato nel diritto canonico classico [12]
8. La continuità della dottrina della Chiesa nell’epoca moderna [13]
2. La coscienza della tradizione del celibato nei concili africani [4]
3. La testimonianza della Chiesa di Roma [5]
4. La testimonianza dei Padri e degli scrittori ecclesiastici [6]
5. Evoluzione dell’argomento nei secoli successivi [10]
6. La riforma gregoriana [11]
7. Il celibato nel diritto canonico classico [12]
8. La continuità della dottrina della Chiesa nell’epoca moderna [13]
III. Il celibato nella disciplina delle Chiese di Oriente [14]
1. La testimonianza di Epifanio di Salamina [15]
2. San Girolamo [16]
3. La questione dell’eremita Paphnuzio [17]
4. Frammentazione del sistema disciplinare in Oriente [18]
5. La legislazione del II Concilio Trullano [19]
6. Motivazioni della nuova disciplina adottata: il cambiamento dei testi [20]
2. San Girolamo [16]
3. La questione dell’eremita Paphnuzio [17]
4. Frammentazione del sistema disciplinare in Oriente [18]
5. La legislazione del II Concilio Trullano [19]
6. Motivazioni della nuova disciplina adottata: il cambiamento dei testi [20]
IV. I fondamenti teologici della disciplina del celibato [21]
1. Il rapporto sacerdotale con Cristo [22]
2. Fondamento storico dottrinale [23]
3. L’insegnamento dell’Antico Testamento [24]
4. La teologia del celibato sacerdotale [25]
2. Fondamento storico dottrinale [23]
3. L’insegnamento dell’Antico Testamento [24]
4. La teologia del celibato sacerdotale [25]
Conclusione [26]
Nella discussione sul celibato dei ministri della Chiesa cattolica, che ritorna costantemente e che si è intensificata in questi ultimi tempi, si devono costatare delle opinioni assai diverse, soprattutto sulla sua origine e sul suo sviluppo nella Chiesa Occidentale ed Orientale. Esse vanno dalla convinzione di una origine divina fino ad una mera istituzione ecclesiastica soprattutto della disciplina più stretta della Chiesa Latina. Per quest’ultima si afferma spesso che un tale obbligo si possa accertare solo dal quarto secolo in poi; per altri è stato introdotto solo all’inizio del secondo millennio soprattutto dal secondo Concilio Lateranense del 1139.
Queste opinioni, tanto distanti tra di loro, ma più ancora le ragioni e le prove che si fanno valere per esse fanno capire che esiste una notevole incertezza nella conoscenza dei rispettivi fatti e delle disposizioni ecclesiastiche al riguardo, ma più ancora nelle motivazioni del celibato ecclesiastico. Una tale incertezza si deve costatare, alla base delle rispettive dichiarazioni, negli stessi ambienti, alti e bassi, ecclesiastici.
Pare, perciò, necessario chiarire i fatti e le disposizioni della Chiesa dagli inizi fino ad oggi e esplorare le motivazioni teologiche per ottenere una retta cognizione di questa discussa istituzione. Ciò può avvenire, evidentemente, solo sulla base di una conoscenza aggiornata delle fonti e della bibliografia in materia, se la nostra esposizione desidera avere una credibilità scientificamente valida.
A questo riguardo si deve costatare proprio per ciò che si riferisce alla storia del celibato ecclesiastico in Occidente ed in Oriente che si hanno dei risultati importanti, maturati proprio in questi ultimi tempi, i quali o non sono ancora entrati nella coscienza generale o vengono taciuti se sono atti a influenzare questa coscienza in una maniera non desiderata [1]. Questa nostra esposizione sintetica sarà accompagnata da un apparato scientifico che si limita all’essenziale e che permette sia il controllo delle affermazioni fatte sia un ulteriore approfondimento delle medesime.
Alla descrizione dello sviluppo storico nella Chiesa Occidentale e poi in quella Orientale sarà premessa una prima parte nella quale si chiarirà anzitutto il concetto del celibato ecclesiastico che sta alla base dei rispettivi obblighi che impone, per poi indicare il metodo che una retta trattazione di questo argomento esige per arrivare a delle conclusioni sicure. L’ultima parte sarà dedicata ai presupposti o fondamenti teologici di tale celibato, che si reclamano con sempre maggiore insistenza.
Il presupposto primo e più importante della conoscenza dello sviluppo storico di qualsiasi istituzione è la genuina individuazione del senso dei concetti su cui essa si basa. Per il celibato ecclesiastico viene dato in maniera insuperabilmente chiara e concisa da uno dei più grandi Decretisti, ossia commentatori del Decreto di Graziano, che, composto attorno al 1140, raccoglie e spiega tutto il materiale della tradizione giuridica ecclesiastica del primo millennio della Chiesa. Questo Decretista è Uguccio di Pisa, il quale nella sua Somma al detto Decreto, composta attorno al 1190, inizia il commento alla trattazione del celibato in esso contenuto con queste parole: «In questa Distinzione comincia (Graziano) a trattare specialmente dellacontinentia clericorum quella cioè che essi debbono osservare in non contrahendo et in non utendo contracto».
In queste parole appare con ogni desiderabile chiarezza un duplice obbligo: di non sposarsi e di non usare più un matrimonio precedentemente contratto. Da ciò risulta chiaramente che ancora in quell’epoca, cioè alla fine del secolo XII dopo Cristo, esistevano chierici maggiori che erano sposati prima di ricevere l’ordine sacro.
Infatti ci risulta dalla stessa Sacra Scrittura che l’ordinazione di uomini sposati era una cosa normale se san Paolo prescrive ai suoi discepoli Tito e Timoteo che tali candidati dovevano essere stati sposati solo una volta [3]. Di san Pietro almeno sappiamo di certo che era sposato; forse lo erano anche altri apostoli giacché Pietro disse al Maestro: «Ecco noi abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque avremo noi?». A questa domanda Gesù rispose: «In verità vi dico: non vi è nessuno che abbia abbandonato casa, genitori, fratelli, moglie figli per il regno di Dio che non riceva molto di più in questo tempo e nel secolo avvenire la vita eterna» [4].
Qui appare già il primo obbligo del celibato ecclesiastico di allora, vale a dire la continenza da ogni uso del matrimonio dopo líordinazione e che da essa obbligatoriamente deriva. In questo obbligo consiste realmente il senso del celibato che oggi è quasi comunemente dimenticato ma che in tutto il primo millennio, e anche oltre, era noto a tutti: la completa continenza da ogni generazione di figli anche da quella permessa, anzi doverosa nel matrimonio.
Difatti, tutte le prime leggi scritte sul celibato parlano di questa proibizione, cioè di una ulteriore generazione di figli, come documenteremo con ogni desiderabile chiarezza nella seconda parte. Ciò dimostra che, a causa della moltitudine di chierici sposati antecedentemente, questo obbligo doveva essere richiesto con decisione e che il divieto di sposarsi era all’inizio piuttosto di importanza secondaria ed emerse solamente da quando e quanto più la Chiesa preferì, e poi impose i candidati celibi, da cui venivano reclutati quasi o del tutto esclusivamente i candidati agli ordini sacri.
Per completare questo primo senso del celibato ecclesiastico, il quale sin dall’ inizio veniva giustamente chiamato «continenza», dobbiamo avvertire subito che i candidati sposati potevano accedere agli ordini sacri e rinunciare all’uso del matrimonio solamente col consenso della moglie, poiché essa aveva, a motivo del sacramento ricevuto, un diritto per sé inalienabile da altri all’uso del matrimonio contratto e consumato, essendo esso indissolubile. Sul complesso dei problemi risultanti da tale rinuncia reciproca torneremo nella parte seconda.
In queste parole appare con ogni desiderabile chiarezza un duplice obbligo: di non sposarsi e di non usare più un matrimonio precedentemente contratto. Da ciò risulta chiaramente che ancora in quell’epoca, cioè alla fine del secolo XII dopo Cristo, esistevano chierici maggiori che erano sposati prima di ricevere l’ordine sacro.
Infatti ci risulta dalla stessa Sacra Scrittura che l’ordinazione di uomini sposati era una cosa normale se san Paolo prescrive ai suoi discepoli Tito e Timoteo che tali candidati dovevano essere stati sposati solo una volta [3]. Di san Pietro almeno sappiamo di certo che era sposato; forse lo erano anche altri apostoli giacché Pietro disse al Maestro: «Ecco noi abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque avremo noi?». A questa domanda Gesù rispose: «In verità vi dico: non vi è nessuno che abbia abbandonato casa, genitori, fratelli, moglie figli per il regno di Dio che non riceva molto di più in questo tempo e nel secolo avvenire la vita eterna» [4].
Qui appare già il primo obbligo del celibato ecclesiastico di allora, vale a dire la continenza da ogni uso del matrimonio dopo líordinazione e che da essa obbligatoriamente deriva. In questo obbligo consiste realmente il senso del celibato che oggi è quasi comunemente dimenticato ma che in tutto il primo millennio, e anche oltre, era noto a tutti: la completa continenza da ogni generazione di figli anche da quella permessa, anzi doverosa nel matrimonio.
Difatti, tutte le prime leggi scritte sul celibato parlano di questa proibizione, cioè di una ulteriore generazione di figli, come documenteremo con ogni desiderabile chiarezza nella seconda parte. Ciò dimostra che, a causa della moltitudine di chierici sposati antecedentemente, questo obbligo doveva essere richiesto con decisione e che il divieto di sposarsi era all’inizio piuttosto di importanza secondaria ed emerse solamente da quando e quanto più la Chiesa preferì, e poi impose i candidati celibi, da cui venivano reclutati quasi o del tutto esclusivamente i candidati agli ordini sacri.
Per completare questo primo senso del celibato ecclesiastico, il quale sin dall’ inizio veniva giustamente chiamato «continenza», dobbiamo avvertire subito che i candidati sposati potevano accedere agli ordini sacri e rinunciare all’uso del matrimonio solamente col consenso della moglie, poiché essa aveva, a motivo del sacramento ricevuto, un diritto per sé inalienabile da altri all’uso del matrimonio contratto e consumato, essendo esso indissolubile. Sul complesso dei problemi risultanti da tale rinuncia reciproca torneremo nella parte seconda.
Il secondo presupposto di una retta conoscenza dell’origine e dello sviluppo del celibato ecclesiastico – che, dopo il concetto chiarito possiamo chiamare semplicemente “continenza” sessuale – è tanto più importante in quanto la molteplicità delle opinioni proprio sull’origine e sui primi sviluppi dell’obbligo della continenza si può e si deve spiegare con l’inosservanza del giusto metodo nella ricerca e nell’esposizione di tale problema.
A questo scopo occorre anzitutto osservare in modo generale che ogni campo di scienza ha la sua autonomia di fronte agli altri e ciò sulla base del proprio oggetto e del proprio metodo postulato da quest’ultimo. È vero che esistono per le scienze affini regole comuni da osservarsi nella ricerca scientifica. Così non si può, per esempio, in qualsiasi ricerca storica rinunciare alle regole di una critica preliminare delle fonti, che deve accertare la loro autenticità ed integrità, per occuparsi poi su questa base del loro valore intrinseco cioè della loro credibilità e del loro valore probativo.
Proprio in questo senso occorre la capacità e la volontà di comprendere e di usare nel modo giusto gli stessi documenti e le loro testimonianze. Soltanto su questa base sicura – autenticità, integrità, credibilità e valore – può essere sviluppata una retta ermeneutica o interpretazione delle fonti.
A questo scopo occorre anzitutto osservare in modo generale che ogni campo di scienza ha la sua autonomia di fronte agli altri e ciò sulla base del proprio oggetto e del proprio metodo postulato da quest’ultimo. È vero che esistono per le scienze affini regole comuni da osservarsi nella ricerca scientifica. Così non si può, per esempio, in qualsiasi ricerca storica rinunciare alle regole di una critica preliminare delle fonti, che deve accertare la loro autenticità ed integrità, per occuparsi poi su questa base del loro valore intrinseco cioè della loro credibilità e del loro valore probativo.
Proprio in questo senso occorre la capacità e la volontà di comprendere e di usare nel modo giusto gli stessi documenti e le loro testimonianze. Soltanto su questa base sicura – autenticità, integrità, credibilità e valore – può essere sviluppata una retta ermeneutica o interpretazione delle fonti.
Oltre a queste premesse metodologiche generali occorre poi applicare il metodo specifico richiesto da ogni scienza speciale. Per cui una storiografia competente della filosofia presuppone una conoscenza adeguata della filosofia, la storiografia teologica la conoscenza della teologia; la storiografia della medicina e matematica esige una conoscenza sufficiente di queste due scienze e, finalmente, alla storiografia giuridica non può mancare la conoscenza del diritto e delle sue esigenze metodologiche proprie.
In conformità con il fin qui detto bisogna tener conto del fatto che la storia del celibato ecclesiastico implica il diritto della Chiesa e la teologia cattolica riguardo ai contenuti e agli sviluppi. Perciò, chiunque voglia fare una retta ermeneutica delle rispettive testimonianze storiche (fatti e documenti) non può fare a meno del metodo proprio del diritto canonico e della teologia. Vorrei esemplificare subito il senso e la necessità di queste osservazioni, che a prima vista possono sembrare astratte, applicandole in maniera concreta al nostro assunto.
In conformità con il fin qui detto bisogna tener conto del fatto che la storia del celibato ecclesiastico implica il diritto della Chiesa e la teologia cattolica riguardo ai contenuti e agli sviluppi. Perciò, chiunque voglia fare una retta ermeneutica delle rispettive testimonianze storiche (fatti e documenti) non può fare a meno del metodo proprio del diritto canonico e della teologia. Vorrei esemplificare subito il senso e la necessità di queste osservazioni, che a prima vista possono sembrare astratte, applicandole in maniera concreta al nostro assunto.
Alla fine del secolo passato ha avuto luogo un’aspra discussione sull’origine del celibato ecclesiastico, che è nota ed operante ancora oggi. Gustav Bickell, figlio di un giurista e lui stesso orientalista, assegnava tale origine ad una disposizione apostolica, appellandosi soprattutto a testimonianze orientali. A lui rispondeva Franz X. Funk, noto cultore della storia ecclesiastica antica, dicendo che Ciò non si poteva affermare poiché la prima legge su tale celibato possiamo trovarla solo all’inizio del IV secolo dopo Cristo. Successivamente ad un doppio duello di scritti in materia, il Bickell tacque mentre il Funk ripeté ancora una volta sinteticamente i suoi risultati senza ricevere risposta dal suo avversario. In cambio ricevette importanti consensi da due altri studiosi eminenti quali erano E. F. Vacandard e H. Leclercq. La loro autorità e l’influsso delle loro opinioni, diffuse da mezzi di comunicazione di larga divulgazione (Dizionari), fruttarono alla tesi di Funk un notevole consenso che perdura fino ad oggi [5].
Ora, considerando ciò che si è appena detto sui presupposti principi metodologici per una tale ricerca, bisogna costatare che F. X. Funk nell’elaborazione delle sue conclusioni non ha tenuto conto prima di tutto dei canoni generali della critica delle fonti, ciò che per uno studioso altamente qualificato, quale egli era senza dubbio, è veramente strano. Egli prese per buono uno dei suoi argomenti principali contro l’opinione del Bickell, il racconto spurio sul vescovo1monaco Paphnutius d’Egitto al Concilio di Nicea del 325. E ciò contro la fondamentale critica esterna delle fonti che già prima di lui aveva ripetutamente affermato la non1autenticità di tale episodio; cosa oggi accertata come sarà documentato in seguito quando si parlerà, nella quarta parte, del Concilio di Nicea riguardo al nostro tema. Un maggior errore metodologico il Funk commise, per quanto in questo meno colpevole, quando voleva ammettere un obbligo ufficiale per il celibato solo con una legge scritta. Lo stesso deve dirsi dello storico di Teologia Vacandard e dello storico dei Concili Leclercq.
Ora, considerando ciò che si è appena detto sui presupposti principi metodologici per una tale ricerca, bisogna costatare che F. X. Funk nell’elaborazione delle sue conclusioni non ha tenuto conto prima di tutto dei canoni generali della critica delle fonti, ciò che per uno studioso altamente qualificato, quale egli era senza dubbio, è veramente strano. Egli prese per buono uno dei suoi argomenti principali contro l’opinione del Bickell, il racconto spurio sul vescovo1monaco Paphnutius d’Egitto al Concilio di Nicea del 325. E ciò contro la fondamentale critica esterna delle fonti che già prima di lui aveva ripetutamente affermato la non1autenticità di tale episodio; cosa oggi accertata come sarà documentato in seguito quando si parlerà, nella quarta parte, del Concilio di Nicea riguardo al nostro tema. Un maggior errore metodologico il Funk commise, per quanto in questo meno colpevole, quando voleva ammettere un obbligo ufficiale per il celibato solo con una legge scritta. Lo stesso deve dirsi dello storico di Teologia Vacandard e dello storico dei Concili Leclercq.
Ogni storico del diritto sa ciò che uno dei più autorevoli teorici del diritto di questo secolo, Hans Kelsen, ha esplicitamente affermato: che è errata una identificazione tra diritto e legge, ius et lex. Diritto (ius) è ogni norma giuridica obbligatoria, sia essa stata data solo oralmente e tramandata attraverso una consuetudine o sia stata espressa già per iscritto. Legge (lex) invece è ogni disposizione data per iscritto e promulgata in forma legittima.
È una particolarità tipica del diritto ciò che ogni storia giuridica ci dice e cioè che l’origine di ogni ordinamento giuridico consiste nelle tradizioni orali e nella trasmissione di norme consuetudinarie le quali soltanto lentamente ricevono una forma fissata per iscritto. Così i Romani, che sono l’espressione del più perfetto genio giuridico, solamente dopo secoli hanno avuto la legge scritta delle Dodici Tavole per ragioni sociologiche. Tutti i popoli germanici hanno redatto per iscritto i loro ordinamenti giuridici popolari e consuetudinari dopo molti secoli della loro esistenza. Il loro diritto era fino a quel tempo non scritto e veniva trasmesso solo oralmente.
Nessuno oserà affermare che per questo motivo un tale ius non fosse obbligante e la sua osservanza fosse lasciata alla libera volontà del singolo.
Come ogni ordinamento giuridico di comunità considerevoli, così anche quello della giovane Chiesa consisteva in buona parte in disposizioni ed obblighi tramandati solo oralmente; tanto più perché durante i tre secoli di persecuzioni, anche solo intermittenti, difficilmente essi potevano essere fissati per iscritto. La Chiesa aveva pero, già più di altre società giovani, degli elementi scritti di diritto primevo. Ne abbiamo perfino una prova nella Sacra Scrittura. San Paolo scrive infatti nella sua seconda lettera ai Tessalonicesi (2,15): «Orsù dunque, o fratelli, state saldi e tenete le tradizioni che avete imparate sia a viva voce sia per la nostra lettera».
Si tratta qui senza dubbio di disposizioni obbligatorie che sono state impartite, come è detto esplicitamente, non solo per iscritto ma anche solo oralmente e che anche così venivano tramandate. Chi dunque ammette solo quelle disposizioni obbligatorie per le quali si possono trovare leggi scritte non rende giustizia al metodo conoscitivo nel campo della storia degli ordinamenti giuridici.
È una particolarità tipica del diritto ciò che ogni storia giuridica ci dice e cioè che l’origine di ogni ordinamento giuridico consiste nelle tradizioni orali e nella trasmissione di norme consuetudinarie le quali soltanto lentamente ricevono una forma fissata per iscritto. Così i Romani, che sono l’espressione del più perfetto genio giuridico, solamente dopo secoli hanno avuto la legge scritta delle Dodici Tavole per ragioni sociologiche. Tutti i popoli germanici hanno redatto per iscritto i loro ordinamenti giuridici popolari e consuetudinari dopo molti secoli della loro esistenza. Il loro diritto era fino a quel tempo non scritto e veniva trasmesso solo oralmente.
Nessuno oserà affermare che per questo motivo un tale ius non fosse obbligante e la sua osservanza fosse lasciata alla libera volontà del singolo.
Come ogni ordinamento giuridico di comunità considerevoli, così anche quello della giovane Chiesa consisteva in buona parte in disposizioni ed obblighi tramandati solo oralmente; tanto più perché durante i tre secoli di persecuzioni, anche solo intermittenti, difficilmente essi potevano essere fissati per iscritto. La Chiesa aveva pero, già più di altre società giovani, degli elementi scritti di diritto primevo. Ne abbiamo perfino una prova nella Sacra Scrittura. San Paolo scrive infatti nella sua seconda lettera ai Tessalonicesi (2,15): «Orsù dunque, o fratelli, state saldi e tenete le tradizioni che avete imparate sia a viva voce sia per la nostra lettera».
Si tratta qui senza dubbio di disposizioni obbligatorie che sono state impartite, come è detto esplicitamente, non solo per iscritto ma anche solo oralmente e che anche così venivano tramandate. Chi dunque ammette solo quelle disposizioni obbligatorie per le quali si possono trovare leggi scritte non rende giustizia al metodo conoscitivo nel campo della storia degli ordinamenti giuridici.
Per ciò che riguarda il giusto metodo per la conoscenza dei fondamenti teologici della continenza dei chierici si deve richiamare il fatto che per essi, accanto alla materia disciplinare, e perciò giuridica, bisogna tener conto anche della teologia in quanto si tratta di un carisma che è collegato intimamente con la Chiesa e con Cristo, il quale perciò può essere conosciuto e scrutato solo alla luce della rivelazione e della elaborazione teologica.
A questo riguardo si sa oggi che la teologia medievale ha trattato poco, in modo appropriato, le materie riguardanti il diritto e la disciplina, ma ha fatto proprie, in questi campi, le discussioni e i rispettivi risultati della canonistica classica, allora assai fiorente, detta anche dei glossatori. Di ciò gli storici della teologia medievale hanno espressamente preso atto da tempo [6] e uno sguardo nell’opera del principe della scolastica medievale lo conferma sufficientemente. Questa realtà può essere considerata anche la ragione principale del fatto che la continenza degli ecclesiastici non è stata trattata soddisfacentemente da parte della stessa teologia, ossia con il suo proprio metodo di motivazione presa dalla rivelazione e dalle fonti proprie di essa. Tale mancanza è stata già parzialmente recuperata: ma oggi si richiede con sempre maggior insistenza, particolarmente per il nostro argomento, un approfondimento dei fondamenti propriamente teologici. Nell’ultima parte si cercherà di tener conto di una tale esigenza più che legittima.
A questo riguardo si sa oggi che la teologia medievale ha trattato poco, in modo appropriato, le materie riguardanti il diritto e la disciplina, ma ha fatto proprie, in questi campi, le discussioni e i rispettivi risultati della canonistica classica, allora assai fiorente, detta anche dei glossatori. Di ciò gli storici della teologia medievale hanno espressamente preso atto da tempo [6] e uno sguardo nell’opera del principe della scolastica medievale lo conferma sufficientemente. Questa realtà può essere considerata anche la ragione principale del fatto che la continenza degli ecclesiastici non è stata trattata soddisfacentemente da parte della stessa teologia, ossia con il suo proprio metodo di motivazione presa dalla rivelazione e dalle fonti proprie di essa. Tale mancanza è stata già parzialmente recuperata: ma oggi si richiede con sempre maggior insistenza, particolarmente per il nostro argomento, un approfondimento dei fondamenti propriamente teologici. Nell’ultima parte si cercherà di tener conto di una tale esigenza più che legittima.
Dopo questi presupposti necessari, cioè di concetto e di metodo di ricerca e di esposizione, seguiamo in primo luogo lo sviluppo della continenza degli ecclesiastici nella Chiesa Latina.
Delle testimonianze di vario genere che riguardano questo tema si deve invocare per prima quella del Concilio di Elvira. Nel primo decennio del secolo IV dopo Cristo si sono radunati vescovi e sacerdoti della Chiesa di Spagna nel centro diocesano di Elvira presso Granada per sottoporre ad una regolamentazione comune le condizioni ecclesiastiche della Spagna appartenente alla parte occidentale dell’Impero Romano, la quale sotto il Cesare Costanzo godeva di una pace religiosa relativamente buona. Nel periodo precedente, durante le persecuzioni dei cristiani, si erano verificati degli abusi in più di un settore della vita cristiana che aveva subito dei danni seri nell’osservanza della disciplina ecclesiastica. In 81 canoni conciliari si emanarono dei provvedimenti riguardo a tutti i campi più importanti della vita ecclesiastica che richiedevano dei chiarimenti e dei rinnovamenti, allo scopo di riaffermare la disciplina antica e di sancire le nuove norme resesi necessarie.
Il can. 33 di questo Concilio contiene dunque la, già nota, prima legge sul celibato. Sotto la rubrica: “Sui vescovi e i ministri (dell’altare) che devono cioè essere continenti dalle loro consorti” sta il testo dispositivo seguente: “Si è d’accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell’altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale”. Già il canone 27 aveva insistito sulla proibizione che donne estranee abitassero insieme con i vescovi ed altri ecclesiastici. Essi potevano tenere con sé solo una sorella o una figlia consacrata vergine, ma per nessun motivo una donna estranea [7].
Da questi primi importanti testi legali si deve dedurre quanto segue: molti, se non la maggior parte, dei chierici maggiori della Chiesa spagnola di allora erano viri probati vale a dire uomini sposati prima della loro ordinazione a diaconi, sacerdoti, vescovi. Essi pero erano obbligati, dopo aver ricevuto l’ordine sacro, ad una completa rinuncia di ogni ulteriore uso del matrimonio, di osservare cioè completa continenza. Alla luce delle finalità del Concilio di Elvira, del diritto e della storia del diritto nel grande Impero Romano di cultura giuridica che dominava in quell’epoca anche nella Spagna, non è possibile vedere nel canone 33 (assieme con il canone 27) una legge nuova. Esso appare invece chiaramente quale reazione contro una non1osservanza ormai largamente invalsa di un obbligo tradizionale ben noto, al quale ora si annette anche la sanzione: o osservanza dell’obbligo assunto o rinuncia all’ufficio clericale. Una novità in questo campo con una tale generale retroattività della sanzione contro diritti già ben acquisiti dal tempo dell’ordinazione avrebbe causato una tempesta di proteste contro una tale evidente violazione di un diritto in un mondo tutt’altro che digiuno di diritto. Ciò ha percepito chiaramente già Pio XI quando, nella sua Enciclica sul sacerdozio, ha affermato che questa legge scritta suppone una prassi precedente [8].
Il can. 33 di questo Concilio contiene dunque la, già nota, prima legge sul celibato. Sotto la rubrica: “Sui vescovi e i ministri (dell’altare) che devono cioè essere continenti dalle loro consorti” sta il testo dispositivo seguente: “Si è d’accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell’altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale”. Già il canone 27 aveva insistito sulla proibizione che donne estranee abitassero insieme con i vescovi ed altri ecclesiastici. Essi potevano tenere con sé solo una sorella o una figlia consacrata vergine, ma per nessun motivo una donna estranea [7].
Da questi primi importanti testi legali si deve dedurre quanto segue: molti, se non la maggior parte, dei chierici maggiori della Chiesa spagnola di allora erano viri probati vale a dire uomini sposati prima della loro ordinazione a diaconi, sacerdoti, vescovi. Essi pero erano obbligati, dopo aver ricevuto l’ordine sacro, ad una completa rinuncia di ogni ulteriore uso del matrimonio, di osservare cioè completa continenza. Alla luce delle finalità del Concilio di Elvira, del diritto e della storia del diritto nel grande Impero Romano di cultura giuridica che dominava in quell’epoca anche nella Spagna, non è possibile vedere nel canone 33 (assieme con il canone 27) una legge nuova. Esso appare invece chiaramente quale reazione contro una non1osservanza ormai largamente invalsa di un obbligo tradizionale ben noto, al quale ora si annette anche la sanzione: o osservanza dell’obbligo assunto o rinuncia all’ufficio clericale. Una novità in questo campo con una tale generale retroattività della sanzione contro diritti già ben acquisiti dal tempo dell’ordinazione avrebbe causato una tempesta di proteste contro una tale evidente violazione di un diritto in un mondo tutt’altro che digiuno di diritto. Ciò ha percepito chiaramente già Pio XI quando, nella sua Enciclica sul sacerdozio, ha affermato che questa legge scritta suppone una prassi precedente [8].
Dopo questa legge importante di Elvira dobbiamo considerarne subito un’altra, ancora più importante per la nostra questione e che incontreremo ancora più tardi quale punto di riferimento cruciale. Si tratta di una dichiarazione vincolante, che è stata fatta nel secondo Concilio Africano dell’anno 390 e ripetuta nei successivi per essere poi inserita nel Codice dei canoni della Chiesa Africana (e nei canoni in causa Apiarii), formalizzato nell’importante Concilio dell’anno 419. Sotto la rubrica: “Che la castità dei Leviti e sacerdoti deve essere custodita” il testo recita: “Il vescovo Epigonio disse: Siccome nel concilio precedente è stato trattato della continenza e castità, i tre gradi i quali per motivo dell’ordinazione sono legati ad un certo obbligo di castità – vale a dire il vescovo, il sacerdote e il diacono – devono essere più completamente istruiti sulla conservazione della castità. Il vescovo Genetlio continuo: “Come è stato detto sopra, conviene che i sacri presuli, i sacerdoti di Dio e i Leviti, ossia tutti coloro che servono ai divini sacramenti, siano continenti in tutto per cui possano senza difficoltà ottenere ciò che chiedono dal Signore; affinché così anche noi custodiamo ciò che hanno insegnato gli apostoli e che tutto il passato ha conservato “. ” A ciò i vescovi risposero unanimemente: Noitutti siamo d’accordo che vescovi, sacerdoti e diaconi, custodi della castità, si astengano anch’essi stessi dalle loro mogli, affinché in tutto e da tutti coloro che servono all’altare sia conservata la castità” [9].
Da questa dichiarazione dei Concili di Cartagine risulta che anche nella Chiesa Africana una gran parte, se non la maggioranza, del clero superiore era sposato prima dell’ordinazione e che dopo di essa tutti dovevano vivere in continenza. Qui un tale obbligo viene attribuito espressamente all’ordine sacro ricevuto ed al servizio dell’altare. Inoltre lo si riporta esplicitamente ad un insegnamento degli apostoli e all’osservanza praticata in tutto il passato (antiquitas) e la si inculca con la conferma decisa unanimemente da tutto l’episcopato Africano.
Da una controversia con Roma, che fu trattata anche in queste assemblee conciliari Africane, si può ora conoscere quanto cosciente e viva fosse in questa Chiesa la tradizione della Chiesa antica. Il sacerdote Apiario era stato scomunicato dal suo vescovo.
Egli appellò a Roma, ove si accetto questo ricorso riferendosi ad un canone di Nicea il quale avrebbe autorizzato tali appelli. I vescovi Africani si dichiararono solidali con il loro collega affermando di non conoscere un tale canone niceno. In varie adunanze di questi vescovi, alle quali parteciparono anche i delegati di Roma, si discusse questa questione di cui ci sono ancora conservati i canoni in causa Apiarii [10]. Gli Africani asserirono di non avere nella loro lista dei canoni niceni una siffatta disposizione e inviarono legati ad Alessandria, Antiochia e Costantinopoli per avere delle informazioni a tale scopo. Ma anche in questi centri orientali non si sapeva nulla di un tale canone niceno. L’errore da parte di Roma si spiego poi con il fatto che là ai canoni di Nicea erano stati aggiunti quelli del Concilio di Sardica, tenutosi nell’anno 342, di nuovo sulla questione Ariana e sotto lo stesso presidente che aveva presieduto anche il Concilio di Nicea, Hosio di Cordoba. Per questo motivo nell’archivio di Roma i canoni disciplinari di Sardica erano stati aggiunti a quelli di Nicea e considerati poi tutti come niceni. Ora a Sardica si era realmente deciso questo canone (can. 3). La Chiesa Africana non ebbe difficoltà di provare a Papa Zosimo questa erronea attribuzione al Concilio di Nicea.
Nella seduta principale che tratto tale questione e che si tenne il 25 maggio del 419 il vescovo Aurelio di Cartagine fungeva da Presidente. Vi partecipavano il Legato di Roma, Faustino di Fermo, con due presbiteri Romani, Filippo ed Azello, poi 240 vescovi Africani tra cui Agostino di Ippona ed Alipio di Tagaste. Il Presidente introdusse le discussioni con queste parole: “Abbiamo qui davanti a noi gli esemplari delle disposizioni che i nostri Padri hanno portato con sé da Nicea. Conserviamo la loro forma invariata e custodiamo anche le successive delibere da noi sottoscritte”. Segue il simbolo della fede nella Santissima Trinità pronunciato da tutti i padri conciliari.
Al terzo posto è stato ripetuto il testo riguardante la continenza degli ecclesiastici del Concilio del 390, sopra riferito, che allora era stato recitato da Epigonio e Genetlio e che viene ora pronunciato da Aurelio. Il delegato papale, Faustino, sotto la rubrica: “Dei gradi degli ordini sacri che devono astenersi dalle loro mogli”, aggiunse: «Noi siamo d’accordo che vescovo, sacerdote e diacono, vale a dire tutti coloro che toccano i sacramenti quali custodi della castità devono astenersi dalle loro spose». A ciò tutti i vescovi risposero: “Siamo d’accordo che in tutti e da tutti coloro che servono all’altare deve essere custodita la castità” [11].
Tra le norme successive che da tutto il patrimonio tradizionale della Chiesa Africana vennero rilette o nuovamente decise si trova al 25° posto il testo detto dal presidente Aurelio: «Noi, cari fratelli, aggiungiamo qui ancora: quando è stato riferito riguardo alla incontinenza dalle proprie mogli da parte di alcuni chierici che erano solo lettori, è stato deciso ciò che anche in vari altri concili è stato confermato: i suddiaconi, che toccano i santi misteri ed i diaconi, i sacerdoti ed i vescovi devono, secondo le norme per loro vigenti, astenersi anche dalle proprie consorti, cosicché sono da tenersi come se non ne avessero; se non si attengono a questo, devono essere allontanati dal loro servizio ecclesiastico. Gli altri chierici non ne sono tenuti se non in età più matura. Dopo di ciò tutto il Concilio rispose: ciò che vostra santità ha detto in maniera giusta e ciò che è santo e che piace a Dio noi confermiamo [12]».
Abbiamo riportato queste testimonianze della Chiesa Africana della fine del secolo IV e dell’inizio del secolo V così dettagliatamente a causa della loro importanza fondamentale. Da questi testi risulta una chiara coscienza di una tradizione che si basava non solo su una persuasione generale, che da nessuno veniva messa in dubbio, ma anche su documenti ben conservati. Si trovavano in quegli anni nell’archivio della Chiesa Africana ancora gli atti originali che i Padri avevano portato con sé dal Concilio Niceno. Norme contrastanti il celibato ecclesiastico così come risulta qui affermato sarebbero state respinte nello stesso modo come l’errore o la svista della Chiesa Romana riguardo ai canoni di Sardica attribuiti a Nicea.
Da tutto questo risulta anche la coscienza di una tradizione comune della Chiesa Universale, le varie parti della quale sono in viva comunione fra di loro. ciò che dalla Chiesa Africana veniva tanto esplicitamente e ripetutamente affermato riguardo all’origine apostolica ed all’osservanza, tramandata dall’antichità, della continenza degli ecclesiastici insieme con le sanzioni contro i contravventori, non sarebbe certamente stato accettato tanto generalmente e pacificamente se non avesse avuto l’avallo di un fatto generalmente noto. Abbiamo, anzi, per questo perfino delle testimonianze esplicite anche da parte della Chiesa Orientale, sulle quali torneremo ancora.
Da questa dichiarazione dei Concili di Cartagine risulta che anche nella Chiesa Africana una gran parte, se non la maggioranza, del clero superiore era sposato prima dell’ordinazione e che dopo di essa tutti dovevano vivere in continenza. Qui un tale obbligo viene attribuito espressamente all’ordine sacro ricevuto ed al servizio dell’altare. Inoltre lo si riporta esplicitamente ad un insegnamento degli apostoli e all’osservanza praticata in tutto il passato (antiquitas) e la si inculca con la conferma decisa unanimemente da tutto l’episcopato Africano.
Da una controversia con Roma, che fu trattata anche in queste assemblee conciliari Africane, si può ora conoscere quanto cosciente e viva fosse in questa Chiesa la tradizione della Chiesa antica. Il sacerdote Apiario era stato scomunicato dal suo vescovo.
Egli appellò a Roma, ove si accetto questo ricorso riferendosi ad un canone di Nicea il quale avrebbe autorizzato tali appelli. I vescovi Africani si dichiararono solidali con il loro collega affermando di non conoscere un tale canone niceno. In varie adunanze di questi vescovi, alle quali parteciparono anche i delegati di Roma, si discusse questa questione di cui ci sono ancora conservati i canoni in causa Apiarii [10]. Gli Africani asserirono di non avere nella loro lista dei canoni niceni una siffatta disposizione e inviarono legati ad Alessandria, Antiochia e Costantinopoli per avere delle informazioni a tale scopo. Ma anche in questi centri orientali non si sapeva nulla di un tale canone niceno. L’errore da parte di Roma si spiego poi con il fatto che là ai canoni di Nicea erano stati aggiunti quelli del Concilio di Sardica, tenutosi nell’anno 342, di nuovo sulla questione Ariana e sotto lo stesso presidente che aveva presieduto anche il Concilio di Nicea, Hosio di Cordoba. Per questo motivo nell’archivio di Roma i canoni disciplinari di Sardica erano stati aggiunti a quelli di Nicea e considerati poi tutti come niceni. Ora a Sardica si era realmente deciso questo canone (can. 3). La Chiesa Africana non ebbe difficoltà di provare a Papa Zosimo questa erronea attribuzione al Concilio di Nicea.
Nella seduta principale che tratto tale questione e che si tenne il 25 maggio del 419 il vescovo Aurelio di Cartagine fungeva da Presidente. Vi partecipavano il Legato di Roma, Faustino di Fermo, con due presbiteri Romani, Filippo ed Azello, poi 240 vescovi Africani tra cui Agostino di Ippona ed Alipio di Tagaste. Il Presidente introdusse le discussioni con queste parole: “Abbiamo qui davanti a noi gli esemplari delle disposizioni che i nostri Padri hanno portato con sé da Nicea. Conserviamo la loro forma invariata e custodiamo anche le successive delibere da noi sottoscritte”. Segue il simbolo della fede nella Santissima Trinità pronunciato da tutti i padri conciliari.
Al terzo posto è stato ripetuto il testo riguardante la continenza degli ecclesiastici del Concilio del 390, sopra riferito, che allora era stato recitato da Epigonio e Genetlio e che viene ora pronunciato da Aurelio. Il delegato papale, Faustino, sotto la rubrica: “Dei gradi degli ordini sacri che devono astenersi dalle loro mogli”, aggiunse: «Noi siamo d’accordo che vescovo, sacerdote e diacono, vale a dire tutti coloro che toccano i sacramenti quali custodi della castità devono astenersi dalle loro spose». A ciò tutti i vescovi risposero: “Siamo d’accordo che in tutti e da tutti coloro che servono all’altare deve essere custodita la castità” [11].
Tra le norme successive che da tutto il patrimonio tradizionale della Chiesa Africana vennero rilette o nuovamente decise si trova al 25° posto il testo detto dal presidente Aurelio: «Noi, cari fratelli, aggiungiamo qui ancora: quando è stato riferito riguardo alla incontinenza dalle proprie mogli da parte di alcuni chierici che erano solo lettori, è stato deciso ciò che anche in vari altri concili è stato confermato: i suddiaconi, che toccano i santi misteri ed i diaconi, i sacerdoti ed i vescovi devono, secondo le norme per loro vigenti, astenersi anche dalle proprie consorti, cosicché sono da tenersi come se non ne avessero; se non si attengono a questo, devono essere allontanati dal loro servizio ecclesiastico. Gli altri chierici non ne sono tenuti se non in età più matura. Dopo di ciò tutto il Concilio rispose: ciò che vostra santità ha detto in maniera giusta e ciò che è santo e che piace a Dio noi confermiamo [12]».
Abbiamo riportato queste testimonianze della Chiesa Africana della fine del secolo IV e dell’inizio del secolo V così dettagliatamente a causa della loro importanza fondamentale. Da questi testi risulta una chiara coscienza di una tradizione che si basava non solo su una persuasione generale, che da nessuno veniva messa in dubbio, ma anche su documenti ben conservati. Si trovavano in quegli anni nell’archivio della Chiesa Africana ancora gli atti originali che i Padri avevano portato con sé dal Concilio Niceno. Norme contrastanti il celibato ecclesiastico così come risulta qui affermato sarebbero state respinte nello stesso modo come l’errore o la svista della Chiesa Romana riguardo ai canoni di Sardica attribuiti a Nicea.
Da tutto questo risulta anche la coscienza di una tradizione comune della Chiesa Universale, le varie parti della quale sono in viva comunione fra di loro. ciò che dalla Chiesa Africana veniva tanto esplicitamente e ripetutamente affermato riguardo all’origine apostolica ed all’osservanza, tramandata dall’antichità, della continenza degli ecclesiastici insieme con le sanzioni contro i contravventori, non sarebbe certamente stato accettato tanto generalmente e pacificamente se non avesse avuto l’avallo di un fatto generalmente noto. Abbiamo, anzi, per questo perfino delle testimonianze esplicite anche da parte della Chiesa Orientale, sulle quali torneremo ancora.
Nel contesto di questa testimonianza Africana sul celibato abbiamo già ascoltato una voce assai autorevole da parte di Roma: il Legato Pontificio Faustino ha manifestato a Cartagine la piena concordanza di Roma su questa questione, ivi solo incidentalmente sollevata.
Roma infatti aveva già sotto Papa Siricio inviato una lettera ai vescovi dell’Africa, nella quale si rendevano loro note le decisioni del sinodo romano dell’anno 386 nelle quali si inculcavano nuovamente alcune importanti disposizioni apostoliche. Questa lettera era stata comunicata durante il Concilio di Telepte dell’anno 418. L’ultima parte di essa tratta (can. 9) precisamente della continenza degli ecclesiastici [13].
Con questo documento veniamo ad un secondo gruppo di testimonianze sul celibato, il quale ha senza dubbio il peso più forte non solo per la coscienza circa la tradizione osservata nella Chiesa Universale, ma anche per lo sviluppo ulteriore e l’osservanza del celibato clericale. Esse sono contenute nelle disposizioni dei Romani Pontefici a tale riguardo.
Un’affermazione generale sull’importanza della posizione di Roma per ogni questione, e perciò anche per quella sul celibato, ci viene da sant’Ireneo il quale, essendo discepolo di san Policarpo, era collegato con la tradizione giovannea, che egli tramandava, come vescovo di Lione dall’anno 178, anche alla Chiesa d’Europa. Se nella sua opera principale Contro le eresiedice che la tradizione apostolica viene conservata nella Chiesa di Roma che è stata fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, per cui tutte le altre Chiese debbono convenire con essa [14], possiamo ben dire che ciò vale anche per la tradizione della continenza degli ecclesiastici.
Le prime testimonianze esplicite a questo riguardo ci sono state date dai due Papi: Siricio ed Innocenzo I.
Al predecessore del primo, Papa Damaso, il vescovo Himerio di Tarragona aveva posto alcune questioni alle quali solo il successore, cioè Siricio, ha dato la risposta. Alla domanda riguardante l’obbligo della continenza dei chierici maggiori il Papa risponde nella lettera «Directa» [15] del 385 dicendo che i molti sacerdoti e i diaconi che anche dopo l’ordinazione generano dei bambini agiscono contro una legge irrinunciabile che lega i chierici maggiori dall’inizio della Chiesa. Il loro appello all’Antico Testamento, quando i sacerdoti e leviti potevano usare il loro matrimonio fuori del tempo del loro servizio nel Tempio, viene confutato dal Nuovo Testamento, nel quale i chierici maggiori devono prestare il loro sacro servizio ogni giorno, e pertanto dal giorno della loro ordinazione devono vivere continuamente nella continenza.
Una seconda lettera dello stesso Pontefice riguardante la stessa questione è quella già menzionata sopra, inviata ai vescovi Africani nel 386, nella quale vengono comunicate le deliberazioni di un sinodo romano. Questa lettera è particolarmente illuminante per il celibato. Il Papa dice, anzitutto, che i punti trattati nel sinodo non riguardano obblighi nuovi ma sono piuttosto punti della fede e della disciplina che, a causa della pigrizia e dell’inerzia di alcuni, sono stati trascurati. Essi devono essere riattivati, trattandosi di disposizioni dei padri apostolici secondo le parole della Sacra Scrittura: «State saldi e osservate le nostre tradizioni che avete ricevute sia a viva voce sia per iscritto» (2 Ts 2,15).
Il Concilio Romano è dunque ben cosciente che anche tradizioni ricevute solo per trasmissione orale sono vincolanti. Tenendo conto del giudizio divino, tutti i vescovi cattolici devono dunque osservare le seguenti nove disposizioni.
La nona viene esposta diffusamente: i sacerdoti ed i leviti non devono aver rapporti sessuali con le loro spose essendo essi occupati quotidianamente nel loro ministero sacerdotale. San Paolo ha scritto ai Corinzi di astenersi per dedicarsi alla preghiera. Se ai laici si impone la continenza affinché vengano esauditi nella loro preghiera, quanto più il sacerdote deve essere pronto in ogni momento ad offrire in castità sicura il sacrificio e ad amministrare il battesimo. Dopo alcune altre considerazioni ascetiche, dagli 80 vescovi radunati viene – qui per la prima volta per quanto io sappia – respinta in Occidente la obiezione, ancor oggi viva, che voleva provare la continuazione dell’uso del matrimonio con le parole dell’apostolo san Paolo secondo cui deve essere stato sposato una volta sola chi è candidato all’ordinazione sacra. Ciò non vuol dire, dicono i vescovi, che possa continuare a vivere nella concupiscenza di generare figli, ma ciò è stato detto a favore della continenza futura. Con ciò veniamo edotti ufficialmente – e lo si ripeterà poi continuamente – che il bisogno di risposarsi oppure il matrimonio con una vedova non danno la garanzia per una sicura continenza futura.
La lettera si conclude con una pressante esortazione di ubbidire a queste disposizioni che sono sostenute dalla tradizione [16].
Il successivo Romano Pontefice che si è occupato ampiamente della continenza degli ecclesiastici è Innocenzo I (401-417). Una lettera, che veniva attribuita già a Damaso e poi a Siricio, è probabilmente sua. A motivo di una domanda rivoltagli dai vescovi della Gallia, in un sinodo romano si esaminarono una serie di questioni pratiche e si comunicarono i risultati o le risposte nella lettera «Dominus inter» dell’inizio del secolo IV. La terza delle 16 domande riguarda la «castità e purezza dei sacerdoti». Nell’introduzione il Papa si rende conto che «molti vescovi in varie chiese particolari si sono affrettati in umana temerità di cambiare le tradizioni dei padri per cui sono incappati nel buio dell’eresia preferendo così l’onore presso gli uomini ai meriti presso Dio».
Siccome il richiedente cerca di avere dall’autorità della Sede Apostolica la conoscenza sia delle leggi che delle tradizioni, spinto non da curiosità ma dal desiderio di sicurezza nella fede, gli si comunica, con un linguaggio semplice ma di contenuto sicuro, ciò che deve sapere per poter correggere tutte le differenze che l’arroganza umana ha causato.
Alla terza questione proposta si dà poi il seguente responso: «In primo luogo è stato deciso riguardo ai vescovi, sacerdoti e diaconi che debbono partecipare ai sacrifici divini, attraverso le mani dei quali viene comunicata la grazia del battesimo e offerto il Corpo di Cristo, che vengono costretti non solo da noi ma dalle scritture divine alla castità: ai quali anche i padri hanno ingiunto di conservare la continenza corporale». Segue poi una motivazione ampia di tale comandamento soprattutto dalla Sacra Scrittura che oggi non è meno degna di segnalazione. Concludendo si dice che anche solo per la venerazione dovuta alla religione non si deve affidare il mistero di Dio ai disubbidienti [17].
Tre altre lettere dello stesso Pontefice ripetono solo i concetti del suo predecessore Siricio, ai quali egli si associa pienamente: la lettera a Victricius di Rouen del 15 febbraio 404; quella indirizzata a Exsuperius di Tolosa del 20 febbraio 405 e quella ai vescovi Massimo e Severo della Calabria di data incerta [18].
È importante notare che sempre si chiedono qui le sanzioni contro gli impenitenti: essi devono essere allontanati dal ministero clericale.
I Romani Pontefici si impegnarono anche in seguito a conservare la stretta osservanza della tradizionale continenza dei chierici. Ci basta ricordare le testimonianze di due tra i più importanti rappresentanti di questi secoli.
Leone Magno scrive a questo riguardo nel 456 al vescovo Rustico di Narbonne: «La legge della continenza è la stessa per i ministri dell’altare (diaconi) come per i sacerdoti e i vescovi. Quando erano ancora laici e lettori era loro permesso di sposarsi e di generare figli. Ma assurgendo ai gradi suddetti è cominciato per loro il non essere più lecito ciò che lo era prima. Affinché perciò il matrimonio carnale diventasse un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandassero via ma che si avessero come se non le avessero, affinché così rimanesse salvo l’amore coniugale ma cessasse allo stesso tempo anche l’uso del matrimonio» [19].
Con ciò, questo Papa conferma anche l’altro punto collegato con la continenza dogli sposati, che nella legislazione precedente viene anche menzionato, che cioè le spose dei chierici maggiori dopo l’ordinazione dei mariti dovevano essere mantenute dalla Chiesa. Una coabitazione ulteriore con i mariti, che ora erano tenuti alla continenza, generalmente non viene tollerata per il pericolo di venir meno all’obbligo assunto. Essa è solo permessa ove tale pericolo è escluso. Ogni testo contro l’abbandono delle spose è da intendersi in questo senso come risulta chiaramente da questo brano di Leone Magno.
Bisogna inoltre dire che già questo papa ha esteso l’obbligo di continenza dopo l’ordinazione sacra anche ai suddiaconi, cosa che finora non era chiara a causa del dubbio se l’ordine suddiaconale appartenesse o no agli ordini maggiori [20].
Gregorio Magno (590-604) fa capire, almeno indirettamente nelle sue lettere, che la continenza degli ecclesiastici veniva sostanzialmente osservata nella Chiesa Occidentale. Egli dispose semplicemente che anche l’ordinazione a saddiacono portasse con sé, definitivamente e per tutti, l’obbligo della continenza perfetta. Inoltre Si impegnava ripetutamente, affinché la convivenza tra chierici maggiori e donne a ciò non autorizzate rimanesse proibita a tutti i costi e venisse perciò impedita. Siccome le spose non appartenevano normalmente alla categoria delle autorizzate, egli dava con ciò una significativa interpretazione al rispettivo canone 3 del Concilio di Nicea [21].
Da quanto fin qui detto si può dedurre una prima constatazione assai importante: nella Chiesa Occidentale, ossia in Europa e nelle regioni dell’Africa che appartenevano al Patriarcato di Roma, l’unità di fede era e rimaneva sempre viva, insieme anche all’unità di disciplina, cosa che si manifesta attraverso una comunicazione più o meno intensa, ma mai interrotta tra le varie Chiese regionali. così rappresentanti di altre regioni erano accettati nei Concili regionali. Ad Elvira, per esempio, era presente tra gli altri il sacerdote Eutyches quale rappresentante di Cartagine e al Concilio di Cartagine del 418, che tratto la questione dei Pelagiani, erano presenti anche vescovi della Spagna [22].
Una tale coscienza di unità e della sostanziale uniformità la troviamo affermata espressamente negli atti conciliari del tempo [23]. Essa era pero attuata e tradotta in pratica dal principio di unità, il primato romano, il quale divento sempre più operativo dal tempo in cui finirono le persecuzioni. Quest’opera si manifesta soprattutto nelle questioni tanto essenziali della fede per tutta la Chiesa Universale. Ma la possiamo anche costatare nelle materie della disciplina soprattutto nell’ambiente del patriarcato romano.
Una prova di prim’ordine di questa unità disciplinare è presente proprio nel problema della continenza del clero maggiore, di cui ci stiamo occupando. Accanto alla prassi conciliare, che opera sin dall’inizio efficacemente per la sua affermazione e conservazione, emerge l’opera orientatrice e la cura conservatrice universale dei Romani Pontefici, cominciando da Papa Siricio. Se il celibato ecclesiastico, rettamente inteso, si è conservato nella sua coscienza di origine e di tradizione antica in tutta la sua chiarezza e nonostante tutte le difficoltà sempre e dappertutto risorgenti, lo dobbiamo senza dubbio alla sollecitudine ininterrotta dei Papi. Un’altra prova a contrario di questa affermazione ci darà la storia del celibato nella Chiesa Orientale.
Roma infatti aveva già sotto Papa Siricio inviato una lettera ai vescovi dell’Africa, nella quale si rendevano loro note le decisioni del sinodo romano dell’anno 386 nelle quali si inculcavano nuovamente alcune importanti disposizioni apostoliche. Questa lettera era stata comunicata durante il Concilio di Telepte dell’anno 418. L’ultima parte di essa tratta (can. 9) precisamente della continenza degli ecclesiastici [13].
Con questo documento veniamo ad un secondo gruppo di testimonianze sul celibato, il quale ha senza dubbio il peso più forte non solo per la coscienza circa la tradizione osservata nella Chiesa Universale, ma anche per lo sviluppo ulteriore e l’osservanza del celibato clericale. Esse sono contenute nelle disposizioni dei Romani Pontefici a tale riguardo.
Un’affermazione generale sull’importanza della posizione di Roma per ogni questione, e perciò anche per quella sul celibato, ci viene da sant’Ireneo il quale, essendo discepolo di san Policarpo, era collegato con la tradizione giovannea, che egli tramandava, come vescovo di Lione dall’anno 178, anche alla Chiesa d’Europa. Se nella sua opera principale Contro le eresiedice che la tradizione apostolica viene conservata nella Chiesa di Roma che è stata fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, per cui tutte le altre Chiese debbono convenire con essa [14], possiamo ben dire che ciò vale anche per la tradizione della continenza degli ecclesiastici.
Le prime testimonianze esplicite a questo riguardo ci sono state date dai due Papi: Siricio ed Innocenzo I.
Al predecessore del primo, Papa Damaso, il vescovo Himerio di Tarragona aveva posto alcune questioni alle quali solo il successore, cioè Siricio, ha dato la risposta. Alla domanda riguardante l’obbligo della continenza dei chierici maggiori il Papa risponde nella lettera «Directa» [15] del 385 dicendo che i molti sacerdoti e i diaconi che anche dopo l’ordinazione generano dei bambini agiscono contro una legge irrinunciabile che lega i chierici maggiori dall’inizio della Chiesa. Il loro appello all’Antico Testamento, quando i sacerdoti e leviti potevano usare il loro matrimonio fuori del tempo del loro servizio nel Tempio, viene confutato dal Nuovo Testamento, nel quale i chierici maggiori devono prestare il loro sacro servizio ogni giorno, e pertanto dal giorno della loro ordinazione devono vivere continuamente nella continenza.
Una seconda lettera dello stesso Pontefice riguardante la stessa questione è quella già menzionata sopra, inviata ai vescovi Africani nel 386, nella quale vengono comunicate le deliberazioni di un sinodo romano. Questa lettera è particolarmente illuminante per il celibato. Il Papa dice, anzitutto, che i punti trattati nel sinodo non riguardano obblighi nuovi ma sono piuttosto punti della fede e della disciplina che, a causa della pigrizia e dell’inerzia di alcuni, sono stati trascurati. Essi devono essere riattivati, trattandosi di disposizioni dei padri apostolici secondo le parole della Sacra Scrittura: «State saldi e osservate le nostre tradizioni che avete ricevute sia a viva voce sia per iscritto» (2 Ts 2,15).
Il Concilio Romano è dunque ben cosciente che anche tradizioni ricevute solo per trasmissione orale sono vincolanti. Tenendo conto del giudizio divino, tutti i vescovi cattolici devono dunque osservare le seguenti nove disposizioni.
La nona viene esposta diffusamente: i sacerdoti ed i leviti non devono aver rapporti sessuali con le loro spose essendo essi occupati quotidianamente nel loro ministero sacerdotale. San Paolo ha scritto ai Corinzi di astenersi per dedicarsi alla preghiera. Se ai laici si impone la continenza affinché vengano esauditi nella loro preghiera, quanto più il sacerdote deve essere pronto in ogni momento ad offrire in castità sicura il sacrificio e ad amministrare il battesimo. Dopo alcune altre considerazioni ascetiche, dagli 80 vescovi radunati viene – qui per la prima volta per quanto io sappia – respinta in Occidente la obiezione, ancor oggi viva, che voleva provare la continuazione dell’uso del matrimonio con le parole dell’apostolo san Paolo secondo cui deve essere stato sposato una volta sola chi è candidato all’ordinazione sacra. Ciò non vuol dire, dicono i vescovi, che possa continuare a vivere nella concupiscenza di generare figli, ma ciò è stato detto a favore della continenza futura. Con ciò veniamo edotti ufficialmente – e lo si ripeterà poi continuamente – che il bisogno di risposarsi oppure il matrimonio con una vedova non danno la garanzia per una sicura continenza futura.
La lettera si conclude con una pressante esortazione di ubbidire a queste disposizioni che sono sostenute dalla tradizione [16].
Il successivo Romano Pontefice che si è occupato ampiamente della continenza degli ecclesiastici è Innocenzo I (401-417). Una lettera, che veniva attribuita già a Damaso e poi a Siricio, è probabilmente sua. A motivo di una domanda rivoltagli dai vescovi della Gallia, in un sinodo romano si esaminarono una serie di questioni pratiche e si comunicarono i risultati o le risposte nella lettera «Dominus inter» dell’inizio del secolo IV. La terza delle 16 domande riguarda la «castità e purezza dei sacerdoti». Nell’introduzione il Papa si rende conto che «molti vescovi in varie chiese particolari si sono affrettati in umana temerità di cambiare le tradizioni dei padri per cui sono incappati nel buio dell’eresia preferendo così l’onore presso gli uomini ai meriti presso Dio».
Siccome il richiedente cerca di avere dall’autorità della Sede Apostolica la conoscenza sia delle leggi che delle tradizioni, spinto non da curiosità ma dal desiderio di sicurezza nella fede, gli si comunica, con un linguaggio semplice ma di contenuto sicuro, ciò che deve sapere per poter correggere tutte le differenze che l’arroganza umana ha causato.
Alla terza questione proposta si dà poi il seguente responso: «In primo luogo è stato deciso riguardo ai vescovi, sacerdoti e diaconi che debbono partecipare ai sacrifici divini, attraverso le mani dei quali viene comunicata la grazia del battesimo e offerto il Corpo di Cristo, che vengono costretti non solo da noi ma dalle scritture divine alla castità: ai quali anche i padri hanno ingiunto di conservare la continenza corporale». Segue poi una motivazione ampia di tale comandamento soprattutto dalla Sacra Scrittura che oggi non è meno degna di segnalazione. Concludendo si dice che anche solo per la venerazione dovuta alla religione non si deve affidare il mistero di Dio ai disubbidienti [17].
Tre altre lettere dello stesso Pontefice ripetono solo i concetti del suo predecessore Siricio, ai quali egli si associa pienamente: la lettera a Victricius di Rouen del 15 febbraio 404; quella indirizzata a Exsuperius di Tolosa del 20 febbraio 405 e quella ai vescovi Massimo e Severo della Calabria di data incerta [18].
È importante notare che sempre si chiedono qui le sanzioni contro gli impenitenti: essi devono essere allontanati dal ministero clericale.
I Romani Pontefici si impegnarono anche in seguito a conservare la stretta osservanza della tradizionale continenza dei chierici. Ci basta ricordare le testimonianze di due tra i più importanti rappresentanti di questi secoli.
Leone Magno scrive a questo riguardo nel 456 al vescovo Rustico di Narbonne: «La legge della continenza è la stessa per i ministri dell’altare (diaconi) come per i sacerdoti e i vescovi. Quando erano ancora laici e lettori era loro permesso di sposarsi e di generare figli. Ma assurgendo ai gradi suddetti è cominciato per loro il non essere più lecito ciò che lo era prima. Affinché perciò il matrimonio carnale diventasse un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandassero via ma che si avessero come se non le avessero, affinché così rimanesse salvo l’amore coniugale ma cessasse allo stesso tempo anche l’uso del matrimonio» [19].
Con ciò, questo Papa conferma anche l’altro punto collegato con la continenza dogli sposati, che nella legislazione precedente viene anche menzionato, che cioè le spose dei chierici maggiori dopo l’ordinazione dei mariti dovevano essere mantenute dalla Chiesa. Una coabitazione ulteriore con i mariti, che ora erano tenuti alla continenza, generalmente non viene tollerata per il pericolo di venir meno all’obbligo assunto. Essa è solo permessa ove tale pericolo è escluso. Ogni testo contro l’abbandono delle spose è da intendersi in questo senso come risulta chiaramente da questo brano di Leone Magno.
Bisogna inoltre dire che già questo papa ha esteso l’obbligo di continenza dopo l’ordinazione sacra anche ai suddiaconi, cosa che finora non era chiara a causa del dubbio se l’ordine suddiaconale appartenesse o no agli ordini maggiori [20].
Gregorio Magno (590-604) fa capire, almeno indirettamente nelle sue lettere, che la continenza degli ecclesiastici veniva sostanzialmente osservata nella Chiesa Occidentale. Egli dispose semplicemente che anche l’ordinazione a saddiacono portasse con sé, definitivamente e per tutti, l’obbligo della continenza perfetta. Inoltre Si impegnava ripetutamente, affinché la convivenza tra chierici maggiori e donne a ciò non autorizzate rimanesse proibita a tutti i costi e venisse perciò impedita. Siccome le spose non appartenevano normalmente alla categoria delle autorizzate, egli dava con ciò una significativa interpretazione al rispettivo canone 3 del Concilio di Nicea [21].
Da quanto fin qui detto si può dedurre una prima constatazione assai importante: nella Chiesa Occidentale, ossia in Europa e nelle regioni dell’Africa che appartenevano al Patriarcato di Roma, l’unità di fede era e rimaneva sempre viva, insieme anche all’unità di disciplina, cosa che si manifesta attraverso una comunicazione più o meno intensa, ma mai interrotta tra le varie Chiese regionali. così rappresentanti di altre regioni erano accettati nei Concili regionali. Ad Elvira, per esempio, era presente tra gli altri il sacerdote Eutyches quale rappresentante di Cartagine e al Concilio di Cartagine del 418, che tratto la questione dei Pelagiani, erano presenti anche vescovi della Spagna [22].
Una tale coscienza di unità e della sostanziale uniformità la troviamo affermata espressamente negli atti conciliari del tempo [23]. Essa era pero attuata e tradotta in pratica dal principio di unità, il primato romano, il quale divento sempre più operativo dal tempo in cui finirono le persecuzioni. Quest’opera si manifesta soprattutto nelle questioni tanto essenziali della fede per tutta la Chiesa Universale. Ma la possiamo anche costatare nelle materie della disciplina soprattutto nell’ambiente del patriarcato romano.
Una prova di prim’ordine di questa unità disciplinare è presente proprio nel problema della continenza del clero maggiore, di cui ci stiamo occupando. Accanto alla prassi conciliare, che opera sin dall’inizio efficacemente per la sua affermazione e conservazione, emerge l’opera orientatrice e la cura conservatrice universale dei Romani Pontefici, cominciando da Papa Siricio. Se il celibato ecclesiastico, rettamente inteso, si è conservato nella sua coscienza di origine e di tradizione antica in tutta la sua chiarezza e nonostante tutte le difficoltà sempre e dappertutto risorgenti, lo dobbiamo senza dubbio alla sollecitudine ininterrotta dei Papi. Un’altra prova a contrario di questa affermazione ci darà la storia del celibato nella Chiesa Orientale.
Prima di dedicarci a questa dobbiamo pero seguire ancora altre fasi dello sviluppo nella Chiesa Occidentale.
Alla categoria dei testimoni più importanti della fede e della tradizione, nei primi periodi della storia della Chiesa, appartengono i Padri e gli scrittori ecclesiastici. Per la continenza del clero è opportuno sentire per primo sant’Ambrogio. Nella sua sede milanese in qualità di Consularis Aemiliae et Liguriae, eletto vescovo, Ambrogio è diventato presto uno degli uomini più importanti nella Chiesa dell’Occidente. Per quanto concerne il nostro argomento questo pastore, particolarmente sensibile per gli obblighi giuridici a motivo del suo precedente ufficio civile, aveva delle idee molto chiare. Egli dice che anche i ministri dell’altare che erano sposati prima di essere tali non dovevano dopo la loro ordinazione continuare l’uso del matrimonio, anche se quest’obbligo non era sempre osservato come avrebbe dovuto essere nelle regioni più remote. Di fronte all’Antico Testamento si tratta di un nuovo comandamento del Nuovo Testamento perché i sacerdoti di questo sono obbligati ad una preghiera ed a un ministero santo, costante e continuo [24].
San Girolamo conosceva bene la tradizione sia dell’Occidente come anche dell’Oriente e ciò per esperienza personale. Egli dice, nella sua confutazione di Gioviniano, che è del 393, senza insinuare alcuna distinzione tra Oriente ed Occidente, che l’apostolo san Paolo, nel noto passo della sua lettera a Tito, ha detto che un candidato all’ordine sacro sposato doveva aver contratto matrimonio una volta sola, doveva aver educato bene i suoi figli, ma non poteva più generare altri figli in seguito. Doveva pertanto sempre dedicarsi alla preghiera e al servizio divino e, di conseguenza, non solo per un tempo limitato, come nell’Antico Testamento: Si semper orandum et ergo semper carendum matrimonio [25].
Nella sua dissertazione «Adversus Vigilantium» del 406 san Girolamo ripete l’obbligo dei ministri dell’altare di vivere sempre continenti. A questo proposito dice che questa è la prassi della Chiesa dell’Oriente, dell’Egitto e della Sede Apostolica, dove si accettano solo chierici che sono celibi e continenti oppure che, se sposati, hanno prima rinunciato alla vita matrimoniale [26]. Già nel suo “Apologeticum ad Pammachium” aveva detto che anche gli apostoli erano vel virgines vel post nuptias continentes [27]; e:Presbiteri, episcopi, diaconi aut virgines eliguntur aut vidui aut certe post sacerdotium in aeternum pudici [28].
Sant’Agostino, dal 395/6 vescovo di Ippona, non solo conosceva bene l’obbligo generale del clero maggiore alla continenza, ma aveva partecipato ai Concili di Cartagine ove tale obbligo era stato ripetutamente affermato, riconducendolo agli stessi apostoli e ad una tradizione costante del passato. Nessun suo dissenso manifestato in queste occasioni è noto. Nella sua dissertazione «De coniugiis adulterinis» afferma che anche uomini sposati, se improvvisamente e perciò quasi contro le loro volontà sono stati chiamati a far parte del clero maggiore ed ordinati, sono tenuti alla continenza diventando così un esempio per i laici che devono vivere lontani dalle loro mogli e sono perciò esposti alla tentazione di commettere adulterio [29].
Del quarto grande padre della Chiesa Occidentale, Gregorio Magno, quale testimone della continenza dei ministri sacri abbiamo già parlato, esaminando le testimonianze dei Romani Pontefici.
Dalla prassi disciplinare occidentale finora accertata consegue che la continenza dei tre ultimi gradi del ministero clericale nella Chiesa si manifesta quale obbligo che viene riportato agli inizi della Chiesa e che è stato accolto e trasmesso come patrimonio della tradizione orale. Dopo il tempo delle persecuzioni e soprattutto a causa delle conversioni sempre più numerose che esigevano anche numerose ordinazioni, avvengono anche delle trasgressioni più generali di un tale obbligo contro le quali pero i concili e le sollecitudini dei Romani Pontefici procedono con sempre maggior insistenza per mezzo di leggi e disposizioni scritte. In esse compaiono subito anche le conseguenze contro i trasgressori, che consistono nella sospensione o espulsione dal ministero sacro.
Tutto ciò non appare mai come innovazione, ma viene riferito piuttosto alle origini della Chiesa. Siamo perciò autorizzati a considerare una tale prassi, conformemente alle regole del giusto metodo giuridico storico, come vero obbligo vincolante, tramandato dalla tradizione orale anche prima che venisse fissato da leggi scritte. Chi volesse affermare il contrario non solo peccherebbe contro un metodo scientifico cogente, ma taccerebbe di bugiardi tutti i testi unanimi che abbiamo ascoltato poiché di ignoranza non li si potrebbero accusare.
Alla categoria dei testimoni più importanti della fede e della tradizione, nei primi periodi della storia della Chiesa, appartengono i Padri e gli scrittori ecclesiastici. Per la continenza del clero è opportuno sentire per primo sant’Ambrogio. Nella sua sede milanese in qualità di Consularis Aemiliae et Liguriae, eletto vescovo, Ambrogio è diventato presto uno degli uomini più importanti nella Chiesa dell’Occidente. Per quanto concerne il nostro argomento questo pastore, particolarmente sensibile per gli obblighi giuridici a motivo del suo precedente ufficio civile, aveva delle idee molto chiare. Egli dice che anche i ministri dell’altare che erano sposati prima di essere tali non dovevano dopo la loro ordinazione continuare l’uso del matrimonio, anche se quest’obbligo non era sempre osservato come avrebbe dovuto essere nelle regioni più remote. Di fronte all’Antico Testamento si tratta di un nuovo comandamento del Nuovo Testamento perché i sacerdoti di questo sono obbligati ad una preghiera ed a un ministero santo, costante e continuo [24].
San Girolamo conosceva bene la tradizione sia dell’Occidente come anche dell’Oriente e ciò per esperienza personale. Egli dice, nella sua confutazione di Gioviniano, che è del 393, senza insinuare alcuna distinzione tra Oriente ed Occidente, che l’apostolo san Paolo, nel noto passo della sua lettera a Tito, ha detto che un candidato all’ordine sacro sposato doveva aver contratto matrimonio una volta sola, doveva aver educato bene i suoi figli, ma non poteva più generare altri figli in seguito. Doveva pertanto sempre dedicarsi alla preghiera e al servizio divino e, di conseguenza, non solo per un tempo limitato, come nell’Antico Testamento: Si semper orandum et ergo semper carendum matrimonio [25].
Nella sua dissertazione «Adversus Vigilantium» del 406 san Girolamo ripete l’obbligo dei ministri dell’altare di vivere sempre continenti. A questo proposito dice che questa è la prassi della Chiesa dell’Oriente, dell’Egitto e della Sede Apostolica, dove si accettano solo chierici che sono celibi e continenti oppure che, se sposati, hanno prima rinunciato alla vita matrimoniale [26]. Già nel suo “Apologeticum ad Pammachium” aveva detto che anche gli apostoli erano vel virgines vel post nuptias continentes [27]; e:Presbiteri, episcopi, diaconi aut virgines eliguntur aut vidui aut certe post sacerdotium in aeternum pudici [28].
Sant’Agostino, dal 395/6 vescovo di Ippona, non solo conosceva bene l’obbligo generale del clero maggiore alla continenza, ma aveva partecipato ai Concili di Cartagine ove tale obbligo era stato ripetutamente affermato, riconducendolo agli stessi apostoli e ad una tradizione costante del passato. Nessun suo dissenso manifestato in queste occasioni è noto. Nella sua dissertazione «De coniugiis adulterinis» afferma che anche uomini sposati, se improvvisamente e perciò quasi contro le loro volontà sono stati chiamati a far parte del clero maggiore ed ordinati, sono tenuti alla continenza diventando così un esempio per i laici che devono vivere lontani dalle loro mogli e sono perciò esposti alla tentazione di commettere adulterio [29].
Del quarto grande padre della Chiesa Occidentale, Gregorio Magno, quale testimone della continenza dei ministri sacri abbiamo già parlato, esaminando le testimonianze dei Romani Pontefici.
Dalla prassi disciplinare occidentale finora accertata consegue che la continenza dei tre ultimi gradi del ministero clericale nella Chiesa si manifesta quale obbligo che viene riportato agli inizi della Chiesa e che è stato accolto e trasmesso come patrimonio della tradizione orale. Dopo il tempo delle persecuzioni e soprattutto a causa delle conversioni sempre più numerose che esigevano anche numerose ordinazioni, avvengono anche delle trasgressioni più generali di un tale obbligo contro le quali pero i concili e le sollecitudini dei Romani Pontefici procedono con sempre maggior insistenza per mezzo di leggi e disposizioni scritte. In esse compaiono subito anche le conseguenze contro i trasgressori, che consistono nella sospensione o espulsione dal ministero sacro.
Tutto ciò non appare mai come innovazione, ma viene riferito piuttosto alle origini della Chiesa. Siamo perciò autorizzati a considerare una tale prassi, conformemente alle regole del giusto metodo giuridico storico, come vero obbligo vincolante, tramandato dalla tradizione orale anche prima che venisse fissato da leggi scritte. Chi volesse affermare il contrario non solo peccherebbe contro un metodo scientifico cogente, ma taccerebbe di bugiardi tutti i testi unanimi che abbiamo ascoltato poiché di ignoranza non li si potrebbero accusare.
Su questa base accertata dalla prassi della Chiesa Antica possiamo ora seguire lo sviluppo del celibato ecclesiastico nei successivi secoli e in un primo momento nell’Occidente.
Non vi può essere dubbio che anche nei successivi tempi venissero ancora scelti molti sacri ministri tra gli uomini sposati. I numerosi Concili della Spagna e della Gallia lo dimostrano, poiché essi insistono ripetutamente e senza interruzione sull’obbligo della continenza per tali ministri [30].
Le sanzioni diventano talvolta più miti: così, per esemplo, quando nel Concilio di Tour del 461 non si infligge più la scomunica a vita ma solamente l’esclusione dal servizio ecclesiastico [31].
D’altra parte si accentua sempre di più la preoccupazione della Chiesa di provvedere con candidati celibi per gli ordini maggiori e di ridurre sempre di più quelli sposati, perché l’esperienza aveva dimostrato il pericolo permanente della debolezza umana di fronte all’obbligo assunto proprio da parte di questi ultimi candidati.
Un’altra disposizione che si doveva continuamente ricordare e rinnovare era il divieto di coabitazione tra ogni sorta di chierici maggiori e donne che non davano il pieno affidamento di osservanza della continenza.
Assai significative per un giudizio complessivo sulla disciplina celibataria nell’Europa medievale sono le rispettive disposizioni della Chiesa Insulare (Irlanda1Britannia). I Libri Penitenziali che rispecchiano fedelmente vita e disciplina vigenti in questa Chiesa, sono molti aspetti particolare, dimostrano senza lasciare spazio a dubbi, gli stessi obblighi anche per il clero maggiore insulare in antecedenza sposato. Chi di loro continuava l’uso del matrimonio con la sposa veniva ritenuto colpevole di adulterio e punito adeguatamente [32]. Se questi obblighi tanto gravosi venivano richiesti ed osservati sostanzialmente anche nella Chiesa Insulare nella quale vigevano i rudi costumi della gente di cui gli stessi Libri Penitenziali ci danno una viva dimostrazione, abbiamo un’ottima prova che il celibato era anche là possibile, ma probabilmente solo a motivo di una venerabile tradizione che nessuno metteva in dubbio.
Accanto ai pericoli generali ordinari che minacciavano sempre e dappertutto la continenza degli ecclesiastici, ci sono nella storia della Chiesa tempi, circostanze e regioni ove emergono pericoli straordinari, che provocavano in modo del tutto particolare le autorità della Chiesa. Difficoltà di questo genere erano causate ripetutamente da eresie alquanto diffuse. Un esempio è l’arianesimo dei Visigoti operante ancora anche dopo la loro conversione al cattolicesimo nel loro regno nella penisola iberica. Il Concilio di Toledo del 569 e di Saragozza del 592 hanno dato delle norme esplicite in questo senso per i chierici provenienti dall’arianesimo [33].
Non vi può essere dubbio che anche nei successivi tempi venissero ancora scelti molti sacri ministri tra gli uomini sposati. I numerosi Concili della Spagna e della Gallia lo dimostrano, poiché essi insistono ripetutamente e senza interruzione sull’obbligo della continenza per tali ministri [30].
Le sanzioni diventano talvolta più miti: così, per esemplo, quando nel Concilio di Tour del 461 non si infligge più la scomunica a vita ma solamente l’esclusione dal servizio ecclesiastico [31].
D’altra parte si accentua sempre di più la preoccupazione della Chiesa di provvedere con candidati celibi per gli ordini maggiori e di ridurre sempre di più quelli sposati, perché l’esperienza aveva dimostrato il pericolo permanente della debolezza umana di fronte all’obbligo assunto proprio da parte di questi ultimi candidati.
Un’altra disposizione che si doveva continuamente ricordare e rinnovare era il divieto di coabitazione tra ogni sorta di chierici maggiori e donne che non davano il pieno affidamento di osservanza della continenza.
Assai significative per un giudizio complessivo sulla disciplina celibataria nell’Europa medievale sono le rispettive disposizioni della Chiesa Insulare (Irlanda1Britannia). I Libri Penitenziali che rispecchiano fedelmente vita e disciplina vigenti in questa Chiesa, sono molti aspetti particolare, dimostrano senza lasciare spazio a dubbi, gli stessi obblighi anche per il clero maggiore insulare in antecedenza sposato. Chi di loro continuava l’uso del matrimonio con la sposa veniva ritenuto colpevole di adulterio e punito adeguatamente [32]. Se questi obblighi tanto gravosi venivano richiesti ed osservati sostanzialmente anche nella Chiesa Insulare nella quale vigevano i rudi costumi della gente di cui gli stessi Libri Penitenziali ci danno una viva dimostrazione, abbiamo un’ottima prova che il celibato era anche là possibile, ma probabilmente solo a motivo di una venerabile tradizione che nessuno metteva in dubbio.
Accanto ai pericoli generali ordinari che minacciavano sempre e dappertutto la continenza degli ecclesiastici, ci sono nella storia della Chiesa tempi, circostanze e regioni ove emergono pericoli straordinari, che provocavano in modo del tutto particolare le autorità della Chiesa. Difficoltà di questo genere erano causate ripetutamente da eresie alquanto diffuse. Un esempio è l’arianesimo dei Visigoti operante ancora anche dopo la loro conversione al cattolicesimo nel loro regno nella penisola iberica. Il Concilio di Toledo del 569 e di Saragozza del 592 hanno dato delle norme esplicite in questo senso per i chierici provenienti dall’arianesimo [33].
Ma una delle crisi più gravi colpì la continenza degli ecclesiastici in tutte le regioni della Chiesa Cattolica Occidentale che furono coinvolte nei disordini che hanno reso necessaria la Riforma Gregoriana. Erano le regioni di quelle parti dell’Europa ove era penetrato più o meno diffusamente il cosiddetto sistema beneficiale ecclesiastico, che dominava poi sostanzialmente tutta la vita pubblica e in seguito anche quella privata nella Chiesa e nella società ecclesiastica.
I beni patrimoniali del beneficio ecclesiastico, che erano collegati con tutti gli uffici sia superiori che inferiori della Chiesa, rendevano il detentore del beneficio e perciò anche dell’ufficio largamente indipendente economicamente e con ciò spesso anche professionalmente, poiché anche l’ufficio che seguiva il beneficio non poteva più essere tolto se non con grande difficoltà. Il conferimento del beneficio1ufficio, che avveniva spesso attraverso laici che ne avevano il diritto – proveniente dalla chiesa propria in senso stretto e lato, – portava negli uffici ecclesiastici, vescovi ed abati fino ai parroci, candidati spesso impreparati o addirittura indegni. La concessione e assegnazione degli uffici da parte di laici potenti, che in questo affare badavano di più ai propri interessi secolari e profani che a quelli spirituali e religiosi della Chiesa, portava agli altri due mali fondamentali nella vita ecclesiastica di allora: la simonia, ossia la compera degli uffici, e il nicolaismo, vale a dire la larga violazione del celibato ecclesiastico.
Dopo il fallimento di riforme regionali, i Papi cominciarono a occuparsi di questa situazione calamitosa nella Chiesa su base europea. Essi riuscirono, soprattutto con l’impegno decisivo di Gregorio VII, a venire a capo di questo grave pericolo che aveva coinvolto tutti gli alti gradi della gerarchia ecclesiastica [34].
Così proprio questo pericolo diventò un impulso non solo di reintegrazione dell’antica disciplina celibataria, ma anche di un tentativo efficace di domarlo attraverso una scelta e una formazione migliore dei candidati per cui si limitava sempre maggiormente l’accettazione di uomini sposati, cercando cos’ di tornare ad una generale osservanza di questo obbligo di continenza.
Un’altra conseguenza importante di questa riforma è la disposizione, decisa solennemente nel secondo Concilio Lateranense dell’anno 1139, che i matrimoni contratti dai chierici maggiori, come anche quelli dei consacrati attraverso voti di vita religiosa non fossero più solamente illeciti ma anche invalidi [35]. Ciò ha causato un fraintendimento ancor oggi molto diffuso, e cioè che il celibato ecclesiastico fosse stato introdotto solo dal Concilio Lateranense II. In realtà si è reso solo invalido ciò che era già sempre proibito. Questa sanzione nuova conferma dunque piuttosto un obbligo esistente da molti secoli.
I beni patrimoniali del beneficio ecclesiastico, che erano collegati con tutti gli uffici sia superiori che inferiori della Chiesa, rendevano il detentore del beneficio e perciò anche dell’ufficio largamente indipendente economicamente e con ciò spesso anche professionalmente, poiché anche l’ufficio che seguiva il beneficio non poteva più essere tolto se non con grande difficoltà. Il conferimento del beneficio1ufficio, che avveniva spesso attraverso laici che ne avevano il diritto – proveniente dalla chiesa propria in senso stretto e lato, – portava negli uffici ecclesiastici, vescovi ed abati fino ai parroci, candidati spesso impreparati o addirittura indegni. La concessione e assegnazione degli uffici da parte di laici potenti, che in questo affare badavano di più ai propri interessi secolari e profani che a quelli spirituali e religiosi della Chiesa, portava agli altri due mali fondamentali nella vita ecclesiastica di allora: la simonia, ossia la compera degli uffici, e il nicolaismo, vale a dire la larga violazione del celibato ecclesiastico.
Dopo il fallimento di riforme regionali, i Papi cominciarono a occuparsi di questa situazione calamitosa nella Chiesa su base europea. Essi riuscirono, soprattutto con l’impegno decisivo di Gregorio VII, a venire a capo di questo grave pericolo che aveva coinvolto tutti gli alti gradi della gerarchia ecclesiastica [34].
Così proprio questo pericolo diventò un impulso non solo di reintegrazione dell’antica disciplina celibataria, ma anche di un tentativo efficace di domarlo attraverso una scelta e una formazione migliore dei candidati per cui si limitava sempre maggiormente l’accettazione di uomini sposati, cercando cos’ di tornare ad una generale osservanza di questo obbligo di continenza.
Un’altra conseguenza importante di questa riforma è la disposizione, decisa solennemente nel secondo Concilio Lateranense dell’anno 1139, che i matrimoni contratti dai chierici maggiori, come anche quelli dei consacrati attraverso voti di vita religiosa non fossero più solamente illeciti ma anche invalidi [35]. Ciò ha causato un fraintendimento ancor oggi molto diffuso, e cioè che il celibato ecclesiastico fosse stato introdotto solo dal Concilio Lateranense II. In realtà si è reso solo invalido ciò che era già sempre proibito. Questa sanzione nuova conferma dunque piuttosto un obbligo esistente da molti secoli.
Quasi allo stesso tempo iniziano vita ed attività della scienza del diritto della Chiesa. Il monaco camaldolese Giovanni Graziano ha composto attorno al 1142 a Bologna la sua «Concordia discordantium canonum» chiamata poi semplicemente Decreto di Graziano, nel quale egli ha raccolto tutto il materiale giuridico del primo millennio della Chiesa e ha messo d’accordo, o ha almeno cercato di farlo, le varie e differenti norme. Con lui si inizia la scuola del diritto della Chiesa che si associa a quella parallela del diritto romano e che si chiamerà la scuola dei glossatori, vale a dire degli interpreti delle raccolte di diritto ecclesiastico (e del diritto romano) e dei suoi testi legali [36].
In questo Decreto di Graziano si tratta naturalmente anche della questione e dell’obbligo della continenza dei chierici e lo si fa precisamente nelle Distinzioni (della prima parte del Decreto) dalla 26 alla 34 e poi ancora dalla 81 alla 84. Lo stesso avviene anche nelle altre parti del Corpus Iuris (Canonici) che ora viene formandosi, in occasione della promulgazione delle rispettive leggi.
Per poter comprendere bene le spiegazioni che i canonisti hanno dato di queste leggi dobbiamo considerare da una parte che essi, così come anche i loro colleghi romanisti, non hanno sviluppato una ricerca e conoscenze storico-giuridiche – cosa che si è fatta solo in seguito nella scuola dei culti, cioè nella scuola giuridica umanistica dal secolo XVI in poi. Non dobbiamo perciò meravigliarci se i glossatori ossia la scuola giuridica dassica non ha, neanche nella canonistica, conosciuto una critica, in senso proprio, delle fonti e dei testi.
Per il nostro tema questa consapevolezza è importante poiché in Graziano ci imbattiamo subito con il fatto che nella questione del celibato ecclesiastico egli ha accettato quale fatto veramente accaduto al Concilio di Nicea la favola storica di Paphnutius e che egli, insieme al canone 13 del Concilio Trullano II del 691, ha accettato acriticamente la differenza tra la prassi celibataria della Chiesa Occidentale e Orientale. Mentre essa non costituisce per lui nessun motivo di giustificazione per la prassi differente nella Chiesa Latina, egli e la scuola classica di diritto canonico riconoscono la motivazione principale dell’obbligo differente in materia di continenza del clero maggiore Orientale. Ritorneremo su questa differenza nella trattazione storica del celibato nella Chiesa Orientale.
Ora dobbiamo dire che, proprio a causa di questa noncuranza critica, i dubbi già esistenti allora in Occidente riguardo a tale invenzione, che già Gregorio VII ed altri riformatori ed al loro seguito, soprattutto Bernoldo di Costanza, avevano riconosciuta, non hanno fatto una impressione decisiva sulla scuola canonistica, la quale, del resto, ha riconosciuto anche le deliberazioni del Concilio Trullano II come pienamente valide per la Chiesa Orientale; nello stesso Concilio, come vedremo, è stata fissata la disciplina celibataria della Chiesa Bizantina e delle sue dipendenze.
Non esiste, pero, per i canonisti medievali, come già detto, nessun dubbio sulla obbligatorietà, per la Chiesa Occidentale, della continenza di tutto il clero maggiore. E ciò certamente perché erano ben conosciuti da loro i documenti esaminati sopra dei Concili occidentali, soprattutto dei Concili Africani (Graziano non dimostra pero di conoscere il can. 33 di Elvira), dei Romani Pontefici e dei Padri. Tutti i canonisti sono generalmente d’accordo che la proibizione di sposarsi per i ministri maggiori sia da attribuirsi agli apostoli, al loro esempio ma, in parte, anche alla loro disposizione. Alcuni attribuiscono il divieto dell’uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione agli apostoli, altri a disposizioni legislative posteriori, soprattutto ai Pontefici Romani cominciando da Siricio. Essi cercano di spiegare su quali ragioni si basa tale divieto, pero con motivazioni in parte contrastanti. Alcuni lo riferiscono ad un voto, espresso o tacito, o all’ordine annesso o solennizzato dalla legittima autorità. Di fronte alla difficoltà che nessuno può imporre ad alcuno un votum si cerca di trovare la soluzione nella constatazione che non lo si impone alla persona ma all’ufficio che ha annesso una tale condizione; che la Chiesa possa fare ciò non vi è nessun dubbio da parte di tutti i canonisti, che lo spiegano anche con ragionamenti assai interessanti e convincenti.
La dottrina che convince più facilmente dice che attraverso una legge questa disposizione può essere unita, soprattutto dai Romani Pontefici, all’ordine sacro e che ciò è stato realmente fatto: per i vescovi, per i sacerdoti e per i diaconi, sin dai primi tempi della Chiesa, dai Concili e dai Romani Pontefici. Per i suddiaconi è stato deciso definitivamente solo da Papa Gregorio I. Nessuno dei canonisti medievali dubita che questo obbligo vincola illimitatamente sin dal momento della sua introduzione. Si noti particolarmente il fatto che alcuni glossatori si riferiscono esplicitamente a norme puramente tradizionali quali fonti di obbligo della continenza clericale, le quali erano già esistenti prima della loro prescrizione legislativa, e che una dispensa da un obbligo proveniente da un voto non era possibile neanche per il Papa. Per questo molti si decidevano per la teoria della causa efficiente che proveniva da una legge perché da una legge generale il Papa potrebbe dispensare. Un buon numero di loro è pero del parere che una tale dispensa possa essere data solo in singoli casi ma non per tutti, perché ciò equivarrebbe all’abolizione di una obbligazione contro lo status ecclesiae, cosa che anche al Papa non sarebbe possibile [37].
Dopo questa sintetica esposizione del pensiero dei glossatori sul celibato ecclesiastico, rettamente inteso, vigente nella Chiesa Occidentale, gioverà riferire almeno qualche testo importante sul nostro tema che possa considerarsi particolarmente rappresentativo della loro dottrina.
Ce lo dà Raymundo da Peñafort, il quale ha composto anche il Liber Extra di Papa Gregorio IX, parte centrale del Corpus Iuris Canonici, e può perciò essere assunto quale uomo di fiducia del Pontefice ed insieme rappresentante qualificato della scienza canonistica, già abbastanza matura, di allora. Per quello che riguarda origine e contenuto dell’obbligo di continenza di uomini sposati prima dell’ordinazione sacra egli dice: «I vescovi, i sacerdoti e i diaconi devono osservare la continenza anche con le loro spose (di prima). Questo hanno insegnato gli apostoli con il loro esempio e anche con le loro disposizioni come dicono alcuni secondo i quali la parola “insegnamento” (Dist. 84, can. 3) può essere interpretata in maniera varia. ciò è stato rinnovato nel Concilio di Cartagine, come nella citata disposizione cum in merito di Papa Siricio» [38]. Dopo le altre spiegazioni riassuntive Raymundo viene a parlare delle ragioni dell’introduzione di tale obbligo: «La ragione era duplice: sia la purezza sacerdotale, affinché così possano ottenere in tutta sincerità ciò che con la loro preghiera chiedono a Dio (Dist. 84, cap. 3 e dict. p.c. 1 Dist. 31); la seconda ragione è che possano pregare senza impedimenti (1 Cor 7,5) ed esercitare il loro ufficio; perché non possono fare le due cose insieme: cioè servire la moglie e la Chiesa» [39].
In questo Decreto di Graziano si tratta naturalmente anche della questione e dell’obbligo della continenza dei chierici e lo si fa precisamente nelle Distinzioni (della prima parte del Decreto) dalla 26 alla 34 e poi ancora dalla 81 alla 84. Lo stesso avviene anche nelle altre parti del Corpus Iuris (Canonici) che ora viene formandosi, in occasione della promulgazione delle rispettive leggi.
Per poter comprendere bene le spiegazioni che i canonisti hanno dato di queste leggi dobbiamo considerare da una parte che essi, così come anche i loro colleghi romanisti, non hanno sviluppato una ricerca e conoscenze storico-giuridiche – cosa che si è fatta solo in seguito nella scuola dei culti, cioè nella scuola giuridica umanistica dal secolo XVI in poi. Non dobbiamo perciò meravigliarci se i glossatori ossia la scuola giuridica dassica non ha, neanche nella canonistica, conosciuto una critica, in senso proprio, delle fonti e dei testi.
Per il nostro tema questa consapevolezza è importante poiché in Graziano ci imbattiamo subito con il fatto che nella questione del celibato ecclesiastico egli ha accettato quale fatto veramente accaduto al Concilio di Nicea la favola storica di Paphnutius e che egli, insieme al canone 13 del Concilio Trullano II del 691, ha accettato acriticamente la differenza tra la prassi celibataria della Chiesa Occidentale e Orientale. Mentre essa non costituisce per lui nessun motivo di giustificazione per la prassi differente nella Chiesa Latina, egli e la scuola classica di diritto canonico riconoscono la motivazione principale dell’obbligo differente in materia di continenza del clero maggiore Orientale. Ritorneremo su questa differenza nella trattazione storica del celibato nella Chiesa Orientale.
Ora dobbiamo dire che, proprio a causa di questa noncuranza critica, i dubbi già esistenti allora in Occidente riguardo a tale invenzione, che già Gregorio VII ed altri riformatori ed al loro seguito, soprattutto Bernoldo di Costanza, avevano riconosciuta, non hanno fatto una impressione decisiva sulla scuola canonistica, la quale, del resto, ha riconosciuto anche le deliberazioni del Concilio Trullano II come pienamente valide per la Chiesa Orientale; nello stesso Concilio, come vedremo, è stata fissata la disciplina celibataria della Chiesa Bizantina e delle sue dipendenze.
Non esiste, pero, per i canonisti medievali, come già detto, nessun dubbio sulla obbligatorietà, per la Chiesa Occidentale, della continenza di tutto il clero maggiore. E ciò certamente perché erano ben conosciuti da loro i documenti esaminati sopra dei Concili occidentali, soprattutto dei Concili Africani (Graziano non dimostra pero di conoscere il can. 33 di Elvira), dei Romani Pontefici e dei Padri. Tutti i canonisti sono generalmente d’accordo che la proibizione di sposarsi per i ministri maggiori sia da attribuirsi agli apostoli, al loro esempio ma, in parte, anche alla loro disposizione. Alcuni attribuiscono il divieto dell’uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione agli apostoli, altri a disposizioni legislative posteriori, soprattutto ai Pontefici Romani cominciando da Siricio. Essi cercano di spiegare su quali ragioni si basa tale divieto, pero con motivazioni in parte contrastanti. Alcuni lo riferiscono ad un voto, espresso o tacito, o all’ordine annesso o solennizzato dalla legittima autorità. Di fronte alla difficoltà che nessuno può imporre ad alcuno un votum si cerca di trovare la soluzione nella constatazione che non lo si impone alla persona ma all’ufficio che ha annesso una tale condizione; che la Chiesa possa fare ciò non vi è nessun dubbio da parte di tutti i canonisti, che lo spiegano anche con ragionamenti assai interessanti e convincenti.
La dottrina che convince più facilmente dice che attraverso una legge questa disposizione può essere unita, soprattutto dai Romani Pontefici, all’ordine sacro e che ciò è stato realmente fatto: per i vescovi, per i sacerdoti e per i diaconi, sin dai primi tempi della Chiesa, dai Concili e dai Romani Pontefici. Per i suddiaconi è stato deciso definitivamente solo da Papa Gregorio I. Nessuno dei canonisti medievali dubita che questo obbligo vincola illimitatamente sin dal momento della sua introduzione. Si noti particolarmente il fatto che alcuni glossatori si riferiscono esplicitamente a norme puramente tradizionali quali fonti di obbligo della continenza clericale, le quali erano già esistenti prima della loro prescrizione legislativa, e che una dispensa da un obbligo proveniente da un voto non era possibile neanche per il Papa. Per questo molti si decidevano per la teoria della causa efficiente che proveniva da una legge perché da una legge generale il Papa potrebbe dispensare. Un buon numero di loro è pero del parere che una tale dispensa possa essere data solo in singoli casi ma non per tutti, perché ciò equivarrebbe all’abolizione di una obbligazione contro lo status ecclesiae, cosa che anche al Papa non sarebbe possibile [37].
Dopo questa sintetica esposizione del pensiero dei glossatori sul celibato ecclesiastico, rettamente inteso, vigente nella Chiesa Occidentale, gioverà riferire almeno qualche testo importante sul nostro tema che possa considerarsi particolarmente rappresentativo della loro dottrina.
Ce lo dà Raymundo da Peñafort, il quale ha composto anche il Liber Extra di Papa Gregorio IX, parte centrale del Corpus Iuris Canonici, e può perciò essere assunto quale uomo di fiducia del Pontefice ed insieme rappresentante qualificato della scienza canonistica, già abbastanza matura, di allora. Per quello che riguarda origine e contenuto dell’obbligo di continenza di uomini sposati prima dell’ordinazione sacra egli dice: «I vescovi, i sacerdoti e i diaconi devono osservare la continenza anche con le loro spose (di prima). Questo hanno insegnato gli apostoli con il loro esempio e anche con le loro disposizioni come dicono alcuni secondo i quali la parola “insegnamento” (Dist. 84, can. 3) può essere interpretata in maniera varia. ciò è stato rinnovato nel Concilio di Cartagine, come nella citata disposizione cum in merito di Papa Siricio» [38]. Dopo le altre spiegazioni riassuntive Raymundo viene a parlare delle ragioni dell’introduzione di tale obbligo: «La ragione era duplice: sia la purezza sacerdotale, affinché così possano ottenere in tutta sincerità ciò che con la loro preghiera chiedono a Dio (Dist. 84, cap. 3 e dict. p.c. 1 Dist. 31); la seconda ragione è che possano pregare senza impedimenti (1 Cor 7,5) ed esercitare il loro ufficio; perché non possono fare le due cose insieme: cioè servire la moglie e la Chiesa» [39].
La continua vita sacrificata di un tale gravoso impegno può essere vissuta solo se nutrita da una fede viva poiché la debolezza umana si fa anche continuamente sentire. La motivazione soprannaturale può venire compresa in continuità solo da una tale fede, sempre coscientemente vissuta. Dove viene meno la fede diminuisce anche la forza di perseveranza, dove muore la fede muore anche la continenza.
Prove sempre nuove di questa verità sono tutti i movimenti eretici e scismatici che si susseguono nella Chiesa. Una delle prime conseguenze presso i loro seguaci è sempre la rinuncia alla continenza clericale. perciò non può meravigliare il fatto che anche nelle grandi eresie e defezioni dall’unità della Chiesa Cattolica del sec. XVI, ossia dai Luterani, Calvinisti, Zwingliani, Anglicani si rinuncia subito al celibato ecclesiastico. Gli sforzi di riforma del Concilio di Trento per ristabilire la vera fede e la buona disciplina nella Chiesa Cattolica dovettero perciò occuparsi anche degli attacchi alla continenza dei ministri sacri.
Dalla storia di questo Concilio si sa già con certezza che soprattutto imperatori, re, principi ma anche rappresentanti della stessa Chiesa si sono impegnati per ottenere un alleggerimento o una dispensa da questo obbligo nella buona intenzione di recuperare i ministri sacri che avevano lasciato la Chiesa Cattolica. Ma una commissione istituita dai Romani Pontefici per trattare questa questione venne, a motivo di tutta la tradizione precedente, alla conclusione di dover mantenere senza compromessi questo impegno celibatario: la Chiesa non potrebbe rinunciare ad un obbligo, valido sin dall’inizio e poi sempre rinnovato[40].
Per motivi pastorali si diede l’autorizzazione speciale per la Germania e per l’Inghilterra che i sacerdoti apostati, dopo la rinuncia ad ogni convivenza ed uso matrimoniale, potevano essere assolti e reintegrati nel loro ministero nella Chiesa Cattolica. Se rifiutavano questo ritorno poteva essere sanata l’invalidità del loro matrimonio, ma essi rimanevano sempre esclusi da ogni ministero sacro [41].
È da notare che i Padri del Concilio di Trento non solo rinnovarono tutti gli obblighi rispettivi, ma si rifiutarono anche di di chiarare la legge del celibato della Chiesa Latina una legge puramente ecclesiastica [42], come si erano anche rifiutati di comprendere la Madonna nella legge universale del peccato originale.
Ma la decisione più radicale del Concilio di Trento per la salvaguardia del celibato ecclesiastico fu la fondazione dei seminari per l’educazione dei sacerdoti, che è stata decisa dal noto canone 18 della Sessione XXIII ed imposta a tutte le diocesi. In questi seminari dovevano essere scelti i giovani per il sacerdozio, formati e fortificati per questo ministero [43].
Questa prescrizione provvidenziale, che veniva lentamente attuata ovunque, ha offerto alla Chiesa tanti candidati celibi per i gradi superiori del ministero dell’ordine sacro che da allora in poi si è potuto fare a meno di ordinare gli sposati: ciò che era stato il desiderio espresso da molti padri del Concilio [44].
Da allora il consenso finora dominante del celibato che comportava per l’ordinato sia l’obbligo di continenza completa dall’uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione come anche il divieto di nozze future, molto diffuso nella mentalità dei fedeli, si è ristretto a quest’ultimo, sicché oggi si intende sono il celibato ecclesiastico comunemente solo la proibizione di sposarsi.
La Chiesa è sempre stata ferma nel conservare la sua tradizione riguardo al suo celibato anche nei tempi duri successivi. Una chiara testimonianza ne è la Rivoluzione della fine del secolo XVIII e dell’inizio del secolo XIX. Anche qui si è di nuovo adottata la prassi del secolo XVI: i sacerdoti che si erano sposati durante la Rivoluzione dovevano decidersi: o rinunciare al matrimonio civile invalidamente contratto oppure far sanare dalla Chiesa l’invalidità. Nel primo caso potevano essere riammessi al ministero sacro, nel secondo erano esclusi per sempre da questo ministero come aveva già deciso la prima legge scritta in materia a noi nota, quella del Concilio di Elvira.
La Chiesa si oppose anche a tutti gli altri tentativi che si fecero per abolire il celibato dei ministri sacri, come gli sforzi fatti nel Baden1Würtemberg sotto Gregorio XVI [45] oppure dal movimento Jednota della Boemia sono Benedetto XV [46].
Significativa è di nuovo l’abolizione immediata del celibato presso i Vecchi Cattolici dopo il Concilio Vaticano I. Non meno chiara è l’opposizione della Chiesa contro i tentativi sempre più rinnovati dopo il Concilio Vaticano II di ordinare sacerdoti «viri probati» cioè uomini sposati senza esigere la rinuncia all’uso del matrimonio oppure di permettere il matrimonio dei preti.
Prove sempre nuove di questa verità sono tutti i movimenti eretici e scismatici che si susseguono nella Chiesa. Una delle prime conseguenze presso i loro seguaci è sempre la rinuncia alla continenza clericale. perciò non può meravigliare il fatto che anche nelle grandi eresie e defezioni dall’unità della Chiesa Cattolica del sec. XVI, ossia dai Luterani, Calvinisti, Zwingliani, Anglicani si rinuncia subito al celibato ecclesiastico. Gli sforzi di riforma del Concilio di Trento per ristabilire la vera fede e la buona disciplina nella Chiesa Cattolica dovettero perciò occuparsi anche degli attacchi alla continenza dei ministri sacri.
Dalla storia di questo Concilio si sa già con certezza che soprattutto imperatori, re, principi ma anche rappresentanti della stessa Chiesa si sono impegnati per ottenere un alleggerimento o una dispensa da questo obbligo nella buona intenzione di recuperare i ministri sacri che avevano lasciato la Chiesa Cattolica. Ma una commissione istituita dai Romani Pontefici per trattare questa questione venne, a motivo di tutta la tradizione precedente, alla conclusione di dover mantenere senza compromessi questo impegno celibatario: la Chiesa non potrebbe rinunciare ad un obbligo, valido sin dall’inizio e poi sempre rinnovato[40].
Per motivi pastorali si diede l’autorizzazione speciale per la Germania e per l’Inghilterra che i sacerdoti apostati, dopo la rinuncia ad ogni convivenza ed uso matrimoniale, potevano essere assolti e reintegrati nel loro ministero nella Chiesa Cattolica. Se rifiutavano questo ritorno poteva essere sanata l’invalidità del loro matrimonio, ma essi rimanevano sempre esclusi da ogni ministero sacro [41].
È da notare che i Padri del Concilio di Trento non solo rinnovarono tutti gli obblighi rispettivi, ma si rifiutarono anche di di chiarare la legge del celibato della Chiesa Latina una legge puramente ecclesiastica [42], come si erano anche rifiutati di comprendere la Madonna nella legge universale del peccato originale.
Ma la decisione più radicale del Concilio di Trento per la salvaguardia del celibato ecclesiastico fu la fondazione dei seminari per l’educazione dei sacerdoti, che è stata decisa dal noto canone 18 della Sessione XXIII ed imposta a tutte le diocesi. In questi seminari dovevano essere scelti i giovani per il sacerdozio, formati e fortificati per questo ministero [43].
Questa prescrizione provvidenziale, che veniva lentamente attuata ovunque, ha offerto alla Chiesa tanti candidati celibi per i gradi superiori del ministero dell’ordine sacro che da allora in poi si è potuto fare a meno di ordinare gli sposati: ciò che era stato il desiderio espresso da molti padri del Concilio [44].
Da allora il consenso finora dominante del celibato che comportava per l’ordinato sia l’obbligo di continenza completa dall’uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione come anche il divieto di nozze future, molto diffuso nella mentalità dei fedeli, si è ristretto a quest’ultimo, sicché oggi si intende sono il celibato ecclesiastico comunemente solo la proibizione di sposarsi.
La Chiesa è sempre stata ferma nel conservare la sua tradizione riguardo al suo celibato anche nei tempi duri successivi. Una chiara testimonianza ne è la Rivoluzione della fine del secolo XVIII e dell’inizio del secolo XIX. Anche qui si è di nuovo adottata la prassi del secolo XVI: i sacerdoti che si erano sposati durante la Rivoluzione dovevano decidersi: o rinunciare al matrimonio civile invalidamente contratto oppure far sanare dalla Chiesa l’invalidità. Nel primo caso potevano essere riammessi al ministero sacro, nel secondo erano esclusi per sempre da questo ministero come aveva già deciso la prima legge scritta in materia a noi nota, quella del Concilio di Elvira.
La Chiesa si oppose anche a tutti gli altri tentativi che si fecero per abolire il celibato dei ministri sacri, come gli sforzi fatti nel Baden1Würtemberg sotto Gregorio XVI [45] oppure dal movimento Jednota della Boemia sono Benedetto XV [46].
Significativa è di nuovo l’abolizione immediata del celibato presso i Vecchi Cattolici dopo il Concilio Vaticano I. Non meno chiara è l’opposizione della Chiesa contro i tentativi sempre più rinnovati dopo il Concilio Vaticano II di ordinare sacerdoti «viri probati» cioè uomini sposati senza esigere la rinuncia all’uso del matrimonio oppure di permettere il matrimonio dei preti.
Di fronte ad un atteggiamento ritenuto sin dall’inizio più liberale si è mosso il rimprovero alla Chiesa Latina di essere diventata sempre più stretta e severa nella sua disciplina celibataria. Quale prova di questa asserzione ci si appella alla prassi della Chiesa Orientale che avrebbe conservato l’originale disciplina generale della Chiesa Primitiva. Per questo motivo anche la Chiesa Latina dovrebbe tornare alla disciplina originale soprattutto di fronte al grave peso che il celibato costituisce oggi per la situazione pastorale nella Chiesa Universale.
La risposta a questa affermazione e alla rispettiva proposta dipende dalla verità o meno dell’affermata condizione nella Chiesa primitiva. Il risultato del nostro esame storico della reale prassi celibataria occidentale suscita fondati dubbi sulla pretesa esattezza di tale opinione. Dobbiamo perciò arrivare ad una chiarificazione dello sviluppo vero del celibato nella Chiesa Orientale, cosa che cercheremo di fare in questa quarta parte della nostra esposizione.
La risposta a questa affermazione e alla rispettiva proposta dipende dalla verità o meno dell’affermata condizione nella Chiesa primitiva. Il risultato del nostro esame storico della reale prassi celibataria occidentale suscita fondati dubbi sulla pretesa esattezza di tale opinione. Dobbiamo perciò arrivare ad una chiarificazione dello sviluppo vero del celibato nella Chiesa Orientale, cosa che cercheremo di fare in questa quarta parte della nostra esposizione.
Nella sua difesa dell’origine apostolica del celibato C. Bickell si è appellato soprattutto a testimonianze orientali. Non possiamo ora, seguendo la storia celibataria dell’Oriente nelle grandi linee, esaminare tutte le testimonianze esistenti [47]. Ma da quanto si è detto e da ciò che qui vogliamo ancora aggiungere, potrebbe risultare un quadro accettabile della vera situazione in quella Chiesa.
Un testimone importante è il vescovo Epifanio di Salamina, più tardi chiamata Constantia, nell’isola di Cipro (3151403). Egli è ben noto quale conoscitore e difensore dell’ortodossia e della tradizione della Chiesa, che durante la sua lunga vita di 86 anni, che abbracciano quasi tutto il secolo IV, aveva potuto conoscere assai bene. Anche se sotto alcuni aspetti, soprattutto nelle lotte delle idee, come per esempio nella questione di Origene, ha dimostrato uno zelo meno illuminato, le sue testimonianze su fatti e condizioni del suo tempo soprattutto riguardanti la disciplina della Chiesa non si possono facilmente mettere in dubbio.
Circa la questione del celibato, ossia della continenza dei ministri sacri, ci dà un tipico racconto dei fatti: nella sua opera principale, chiamata Panarion, scritta nella seconda metà del secolo IV, egli dice che il Dio del mondo ha mostrato il carisma del sacerdozio nuovo per mezzo di uomini i quali hanno rinunciato all’uso dell’unico matrimonio contratto prima dell’ordinazione, o che hanno vissuto da sempre come vergini. Ciò è, dice, la norma stabilita dagli apostoli in sapienza e santità [48].
Ma ancora più importante è la constatazione che fa nella «Espositio fidei» aggiunta all’opera principale. La Chiesa, dice, ammette al ministero episcopale e sacerdotale nonché a quello diaconale soltanto coloro che rinunciano, in continenza, alla propria sposa o che sono diventati vedovi. Così almeno, continua, si agisce là dove vengono osservate fedelmente le disposizioni della Chiesa. Si può pero anche costatare che in vari luoghi i sacerdoti, i diaconi e i suddiaconi continuano a generare figli. Ciò però non avviene in conformità con la norma vigente, ma è una conseguenza della debolezza umana che segue sempre ciò che è più facile. E più avanti spiega ancora una volta che i sacerdoti vengono scelti soprattutto tra coloro che sono celibi o monaci. Se tra di loro non si trovano candidati a sufficienza, verrebbero presi anche tra gli sposati, i quali pero hanno rinunciato all’uso del matrimonio, o tra coloro che, dopo il loro unico matrimonio, sono diventati vedovi [49].
Queste affermazioni di una personalità che, conoscendo molte lingue, ha viaggiato molto nel primo secolo di libertà della Chiesa nell’Oriente già diviso tra molte dottrine, sono una testimonianza sia della norma comune come anche della situazione di fatto nella prassi del celibato nella Chiesa Orientale dei primi secoli.
Un testimone importante è il vescovo Epifanio di Salamina, più tardi chiamata Constantia, nell’isola di Cipro (3151403). Egli è ben noto quale conoscitore e difensore dell’ortodossia e della tradizione della Chiesa, che durante la sua lunga vita di 86 anni, che abbracciano quasi tutto il secolo IV, aveva potuto conoscere assai bene. Anche se sotto alcuni aspetti, soprattutto nelle lotte delle idee, come per esempio nella questione di Origene, ha dimostrato uno zelo meno illuminato, le sue testimonianze su fatti e condizioni del suo tempo soprattutto riguardanti la disciplina della Chiesa non si possono facilmente mettere in dubbio.
Circa la questione del celibato, ossia della continenza dei ministri sacri, ci dà un tipico racconto dei fatti: nella sua opera principale, chiamata Panarion, scritta nella seconda metà del secolo IV, egli dice che il Dio del mondo ha mostrato il carisma del sacerdozio nuovo per mezzo di uomini i quali hanno rinunciato all’uso dell’unico matrimonio contratto prima dell’ordinazione, o che hanno vissuto da sempre come vergini. Ciò è, dice, la norma stabilita dagli apostoli in sapienza e santità [48].
Ma ancora più importante è la constatazione che fa nella «Espositio fidei» aggiunta all’opera principale. La Chiesa, dice, ammette al ministero episcopale e sacerdotale nonché a quello diaconale soltanto coloro che rinunciano, in continenza, alla propria sposa o che sono diventati vedovi. Così almeno, continua, si agisce là dove vengono osservate fedelmente le disposizioni della Chiesa. Si può pero anche costatare che in vari luoghi i sacerdoti, i diaconi e i suddiaconi continuano a generare figli. Ciò però non avviene in conformità con la norma vigente, ma è una conseguenza della debolezza umana che segue sempre ciò che è più facile. E più avanti spiega ancora una volta che i sacerdoti vengono scelti soprattutto tra coloro che sono celibi o monaci. Se tra di loro non si trovano candidati a sufficienza, verrebbero presi anche tra gli sposati, i quali pero hanno rinunciato all’uso del matrimonio, o tra coloro che, dopo il loro unico matrimonio, sono diventati vedovi [49].
Queste affermazioni di una personalità che, conoscendo molte lingue, ha viaggiato molto nel primo secolo di libertà della Chiesa nell’Oriente già diviso tra molte dottrine, sono una testimonianza sia della norma comune come anche della situazione di fatto nella prassi del celibato nella Chiesa Orientale dei primi secoli.
Un secondo teste ci è già noto: San Girolamo è stato ordinato sacerdote nell’Asia Minore circa l’anno 379 e ha poi conosciuto nello spazio di sei anni uomini di Chiesa, comunità di monaci ed anche le dottrine e la disciplina dell’Oriente. Dopo aver dimorato per tre anni a Roma ritorno, attraverso l’Egitto, nella Palestina ove rimase fino alla morte avvenuta attorno al 420. Egli si teneva sempre in stretto e vivo contatto con la vita di tutta la Chiesa, essendosene reso capace in modo straordinario attraverso la sua familiarità con molti uomini contemporanei importanti nell’Oriente e nell’Occidente, anche grazie alla sua conoscenza estesa di molte lingue.
Le sue testimonianze esplicite sulla continenza del clero sono già state riportate nella seconda parte. Qui sia nuovamente ricordata la sua opera «Adversus Vigilantium» nella quale, contro il sacerdote della Gallia meridionale che disprezzava il celibato, si è appellato alla prassi delle Chiese dell’Oriente, dell’Egitto e della Sede Apostolica, le quali tutte accettano, afferma, solo chierici vergini, continenti e, se sposati, coloro che hanno rinunciato all’uso del matrimonio [50]. Con ciò abbiamo una testimonianza sulla posizione ufficiale anche della Chiesa Orientale nei riguardi della continenza dei ministri sacri.
Riguardo alla legislazione dei sinodi orientali è da osservare che i concili regionali prima di Nicea, ossia quello di Ancira e Neocesarea e quello postniceno di Gangra parlano si di ministri maggiori sposati, ma non ci danno una sicura informazione sulla liceità di una vita non continente, dopo l’ordinazione sacra, che superi qualche situazione eccezionale [51].
Anche nei sinodi particolari delle varie Chiese scismatiche dell’Oriente, che si sono stabilite in seguito alle controversie cristologiche e nelle quali si può costatare una sicura deviazione dalla continenza nella prassi della disciplina celibataria, come nell’Occidente, troviamo piuttosto una testimonianza per l’atteggiamento ufficiale contrario all’ortodossia.
Le sue testimonianze esplicite sulla continenza del clero sono già state riportate nella seconda parte. Qui sia nuovamente ricordata la sua opera «Adversus Vigilantium» nella quale, contro il sacerdote della Gallia meridionale che disprezzava il celibato, si è appellato alla prassi delle Chiese dell’Oriente, dell’Egitto e della Sede Apostolica, le quali tutte accettano, afferma, solo chierici vergini, continenti e, se sposati, coloro che hanno rinunciato all’uso del matrimonio [50]. Con ciò abbiamo una testimonianza sulla posizione ufficiale anche della Chiesa Orientale nei riguardi della continenza dei ministri sacri.
Riguardo alla legislazione dei sinodi orientali è da osservare che i concili regionali prima di Nicea, ossia quello di Ancira e Neocesarea e quello postniceno di Gangra parlano si di ministri maggiori sposati, ma non ci danno una sicura informazione sulla liceità di una vita non continente, dopo l’ordinazione sacra, che superi qualche situazione eccezionale [51].
Anche nei sinodi particolari delle varie Chiese scismatiche dell’Oriente, che si sono stabilite in seguito alle controversie cristologiche e nelle quali si può costatare una sicura deviazione dalla continenza nella prassi della disciplina celibataria, come nell’Occidente, troviamo piuttosto una testimonianza per l’atteggiamento ufficiale contrario all’ortodossia.
Il Concilio che per il nostro tema ci deve occupare più diffusamente è il primo Concilio Ecumenico che si è tenuto a Nicea nel 325.
L’unica disposizione di questo primo sinodo della Chiesa Universale che riguarda il celibato dei ministri è il can. 3 il quale vieta ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a tutti i chierici di avere con sé nella casa delle donne che si sono introdotte di sotterfugio. L’unica eccezione fanno la madre, la sorella, la zia e altre che sono al di sopra di ogni sospetto [52]. Ora, tra le donne alle quali è permessa la convivenza nella casa non figurano le spose. Possiamo domandarci se questo è un argomento sicuro per il fatto che tra i Padri del Concilio era viva la persuasione dell’obbligo della continenza anche perché al primo posto degli ecclesiastici soggetti al divieto di coabitazione figura il vescovo per il quale valeva sempre anche nella Chiesa Orientale la continenza dall’uso di un matrimonio precedente e che vale anche in Oriente fino ad oggi?
Per una convinzione e rispettiva situazione contraria riguardo ai sacerdoti, ai diaconi e ai suddiaconi si invoca una notizia su un eremita e vescovo del deserto nell’Egitto di nome Paphnuzio, il quale si sarebbe alzato per dissuadere i Padri dal sancire un obbligo generale di continenza. Ciò si dovrebbe lasciare, suggeriva, alla decisione delle Chiese particolari. Tale consiglio sarebbe stato accettato dall’assemblea.
Mentre il noto storiografo della Chiesa, Eusebio di Cesarea, il quale era presente come Padre Conciliare ed era anche favorevole agli Ariani, non riferisce nulla su questo episodio, certo di non poca importanza per tutta la Chiesa, sentiamo per la prima volta di questo dopo più di cento anni passati dal Concilio e ciò dai due scrittori ecclesiastici bizantini, Socrate e Sozomeno. Socrate indica come sua fonte un uomo molto vecchio che sarebbe stato presente al Concilio e che gli aveva raccontato vari episodi su fatti e personaggi di esso. Se si pensa che Socrate, nato attorno al 380, ha sentito questo racconto quando era lui stesso assai giovane da uno che nel 325 non poteva essere molto più di un bambino e non poteva essere preso quale testimone ben cosciente dei fatti del Concilio, anche la più elementare critica delle fonti deve avere seri dubbi sulla autenticità di questa narrazione che avrebbe bisogno di avalli ben più certi.
L’unica disposizione di questo primo sinodo della Chiesa Universale che riguarda il celibato dei ministri è il can. 3 il quale vieta ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a tutti i chierici di avere con sé nella casa delle donne che si sono introdotte di sotterfugio. L’unica eccezione fanno la madre, la sorella, la zia e altre che sono al di sopra di ogni sospetto [52]. Ora, tra le donne alle quali è permessa la convivenza nella casa non figurano le spose. Possiamo domandarci se questo è un argomento sicuro per il fatto che tra i Padri del Concilio era viva la persuasione dell’obbligo della continenza anche perché al primo posto degli ecclesiastici soggetti al divieto di coabitazione figura il vescovo per il quale valeva sempre anche nella Chiesa Orientale la continenza dall’uso di un matrimonio precedente e che vale anche in Oriente fino ad oggi?
Per una convinzione e rispettiva situazione contraria riguardo ai sacerdoti, ai diaconi e ai suddiaconi si invoca una notizia su un eremita e vescovo del deserto nell’Egitto di nome Paphnuzio, il quale si sarebbe alzato per dissuadere i Padri dal sancire un obbligo generale di continenza. Ciò si dovrebbe lasciare, suggeriva, alla decisione delle Chiese particolari. Tale consiglio sarebbe stato accettato dall’assemblea.
Mentre il noto storiografo della Chiesa, Eusebio di Cesarea, il quale era presente come Padre Conciliare ed era anche favorevole agli Ariani, non riferisce nulla su questo episodio, certo di non poca importanza per tutta la Chiesa, sentiamo per la prima volta di questo dopo più di cento anni passati dal Concilio e ciò dai due scrittori ecclesiastici bizantini, Socrate e Sozomeno. Socrate indica come sua fonte un uomo molto vecchio che sarebbe stato presente al Concilio e che gli aveva raccontato vari episodi su fatti e personaggi di esso. Se si pensa che Socrate, nato attorno al 380, ha sentito questo racconto quando era lui stesso assai giovane da uno che nel 325 non poteva essere molto più di un bambino e non poteva essere preso quale testimone ben cosciente dei fatti del Concilio, anche la più elementare critica delle fonti deve avere seri dubbi sulla autenticità di questa narrazione che avrebbe bisogno di avalli ben più certi.
Questi dubbi sono stati effettivamente mossi già relativamente presto. Nell’Occidente, come già accennato, dal Papa Gregorio VII e da Bernoldo di Costanza. Nel tempo più recente merita attenzione il commento che Valesius, editore delle opere di Socrate e di Sozomeno, ha fatto a questa narrazione nel 1668 e che il Migne ha stampato nella sua Patrologia Greca, vol. 67. L’umanista de Valois, membro di una famiglia di dotti, dice espressamente che tale racconto su Paphnutius sarebbe sospetto perché tra i Padri del Concilio provenienti dall’Egitto non comparirebbe mai un tale vescovo. E al rispettivo passo della storia del Sozomenos ripete che la storia del Paphnutius sarebbe una favola inventata, soprattutto perché tra i Padri che hanno sottoscritto gli Atti del Concilio di Nicea non vi è nessuno che abbia questo nome [53]. Nella traduzione latina di Cassiodoro-Epiphanio (Historia tripartita) di questo episodio si dà solo un estratto di sedici righe dalla Storia del Sozomenos [54].
Recentemente ha indagato su questo racconto lo studioso tedesco Friedhelm Winckelmann, ed egli viene alla conclusione, che si può considerare definitiva, che si tratta di un fatto inventato, perché la persona di Paphnuzio è stata tirata fuori solo più tardi, il suo nome appare solo nei manoscritti tardivi degli Atti del Concilio e perché scritti del IV secolo lo conoscono solo quale confessore della fede; solamente più tardi leggende agiografiche lo innalzano a taumaturgo e Padre del Concilio di Nicea [55].
Ma l’argomento più persuasivo contro l’autenticità di questo racconto ci sembra essere il fatto che proprio la Chiesa Orientale che avrebbe avuto il maggior interesse in esso o non ne era a conoscenza o non ha in nessun documento ufficiale fatto uso di esso, appunto perché convinta della sua falsità E lo stesso si può dire se né gli scritti polemici sul celibato dei ministri sacri né i grandi commentatori del secolo XII del Syntagma canonum adauctum, ossia del grande codice del diritto della Chiesa Orientale, definito dal Concilio Trullano del 691, che sono Aristenus, Zonaras, Balsamon, ne fanno menzione e neanche usano il racconto su Paphnuzio, benché ciò sarebbe stato assai più semplice che ricorrere a manipolazioni di testi storici ben noti, come vedremo fra poco.
Solo nel secolo XIV tale racconto appare nel Syntagma alfabeticum di Matthaeus Blastares, il quale pero sembra averlo ritenuto interessante per l’Oriente solo attraverso il Decreto di Graziano.
Nell’Occidente si è accolta tale falsificazione del tutto acriticamente, almeno nella canonistica che basava su di essa anche, almeno in parte, il riconoscimento della disciplina celibataria particolare, differente rispetto alla Chiesa Orientale [56]. Il Concilio Trullano II nel fissare ufficialmente le regole del celibato valide per il futuro nella Chiesa Orientale non si è riferito a Paphnuzio.
Con questo accenno siamo arrivati al punto centrale della storia del celibato dei ministri sacri nella Chiesa bizantina e nelle Chiese associate alla sua ubbidienza nei Riti Orientali.
Alcune considerazioni preliminari ci possono aiutare a comprenderla rettamente. Abbiamo potuto costatare in tutto lo sviluppo del celibato della Chiesa finora considerato che un impegno così gravoso, umanamente parlando, ha dovuto sempre pagare il suo tributo alla debolezza umana. Già sant’Ambrogio di Milano ne è testimone quando afferma che la pratica non corrisponde sempre al precetto soprattutto nelle regioni più remote, anche nell’Occidente. Lo stesso ci ha detto anche Epifanio di Salamina per l’Oriente. Da ciò si vede chiaramente che occorre un controllo e un sostegno costante per mantenere una tale prassi. Nell’Occidente i Concili regionali e i Papi sono sempre intervenuti per richiamare all’osservanza e per sostenerla in tutti i modi e per vigilare sull’adempimento di questo impegno assunto e necessario.
Questa cura costante è invece venuta a mancare nell’ Oriente, come tutto lascia supporre. Da una parte lo attesta la storia dei Concili regionali orientali. È vero che si può notare l’effetto benefico di un impegno comune della Chiesa Universale nei Concili Ecumenici che si sono tenuti nel primo millennio nell’Oriente. Ma un tale impegno si riferisce soprattutto alle questioni di fede e di dottrina. I problemi di disciplina e di natura pratico-pastorale si rimettono alle assemblee delle Chiese particolari non solo perché si tratta di tenere conto delle condizioni differenti nelle varie regioni, ma anche e soprattutto a causa dell’organizzazione patriarcale (Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, Gerusalemme) che dava e implicava una certa autonomia di governo, ancora assai accentuata dalla separazione di non poche Chiese particolari più o meno vittime di eresie soprattutto cristologiche che hanno turbato tutto l’Oriente. Così l’Oriente come tale non poteva più arrivare ad un’opera concordata sistematicamente nelle questioni di disciplina, neanche nelle questioni comuni di disciplina generale ecclesiastica, quale era il celibato dei ministri sacri. Ogni Chiesa particolare emanava norme proprie, spesso differenti secondo le proprie convinzioni diverse.
Mancava pero e soprattutto un’autorità generale riconosciuta come tale per tutto l’Oriente che potesse efficacemente provvedere a questo coordinamento della disciplina più generale e che potesse prendere dei provvedimenti efficaci di controllo, di vigilanza e di esecuzione.
Questa situazione si rispecchia in modo più chiaro nelle raccolte di norme della Chiesa Orientale che contengono le prescrizioni dei Concili Ecumenici e anche dei Concili particolari dei primi secoli. Ma la legislazione dei secoli successivi non veniva più accolta nella raccolta comune precedentemente formata, il Syntagma canonum. Al posto delle disposizioni Pontificie, che tanta parte avevano per concordare la disciplina generale dell’Occidente, venivano accolti brani dogli scritti dei principali Padri Orientali che erano più di natura ascetica, e le leggi imperiali in materia ecclesiastica, frutto del Cesaropapismo regnante nella Chiesa bizantina, ma che erano veramente norme vincolanti che provvedevano ancora ad una certa uniformità nei punti disciplinari da loro trattati.
Della disciplina Occidentale, sia generale che particolare, l’Oriente ha accettato, nella sua raccolta più comune di diritto ecclesiastico, solo quella della Chiesa d’Africa che era quella più nota e più vicina nonostante appartenesse all’Occidente romano: anzi, la raccolta più importante ed estesa di essa, il Codex canonum Ecclesiae Africanae oppure il Codex in causa Apiarii, per la quale l’Oriente era stato interpellato, fu inserita nel suoSyntagma.Per la posizione e l’influsso esercitato in Oriente dagli Imperatori esistono i cosiddetti Nomocanones, raccolte nelle quali erano riunite leggi ecclesiastiche e statali in materia ecclesiastica, sull’osservanza delle quali vegliava anche l’Imperatore fin dove i territori orientali della Chiesa gli erano ancora soggetti.
Con questa situazione esistente nella Chiesa Orientale si spiega ora anche la mancanza di un’azione generale efficace contro l’immancabile cedimento nell’osservanza dell’obbligo celibatario di tutti i ministri sacri. Mentre si riusciva a mantenere quasi in tutto l’Oriente almeno per i vescovi l’antica tradizione di completa continenza, anche di coloro che erano stati sposati prima dell’ordinazione – anche perché molti furono scelti tra i monaci -, l’uso del matrimonio dei preti, dei diaconi e dei suddiaconi contratto prima dell’ordinazione, sempre più invalso, veniva lentamente giudicato non più arrestabile e meno ancora recuperabile l’obbligo della continenza completa. Ciò significa che ci si arrendeva alla situazione di fatto.
Non è da meravigliarsi se le prime leggi a sanzionare questa situazione furono le leggi imperiali, poiché, non ispirandosi certamente a considerazioni teologiche, cercavano di regolare le condizioni civili connesse con il ministero sacro. Infatti, mentre il Codice Theodosiano (a. 434) fa ancora capire che la continenza può essere salvaguardata anche se si permette alla sposa di abitare con il marito anche dopo l’ordinazione sacra, poiché l’amore alla castità non permette di metterla sulla strada ed il comportamento di lei prima dell’ordinazione del marito l’ha mostrata degna di lui [57], la legislazione dell’Imperatore Giustiniano I in materia ecclesiastica sia nel Codice (a. 534) che nelle Novelle (535-565) mostra già un atteggiamento diverso. Da una parte si sostiene ancora la proibizione di ammettere all’ordine sacro chi era stato sposato più di una volta e quella di sposarsi un’altra volta dopo l’ordinazione e ciò per tutti i gradi dal suddiaconato in su; ma la coabitazione con la moglie è ora permessa per i sacerdoti, i diaconi e i suddiaconi, affinché possano continuare l’uso del matrimonio di prima se questo era stato celebrato solo una volta e con una vergine [58].
Alcune considerazioni preliminari ci possono aiutare a comprenderla rettamente. Abbiamo potuto costatare in tutto lo sviluppo del celibato della Chiesa finora considerato che un impegno così gravoso, umanamente parlando, ha dovuto sempre pagare il suo tributo alla debolezza umana. Già sant’Ambrogio di Milano ne è testimone quando afferma che la pratica non corrisponde sempre al precetto soprattutto nelle regioni più remote, anche nell’Occidente. Lo stesso ci ha detto anche Epifanio di Salamina per l’Oriente. Da ciò si vede chiaramente che occorre un controllo e un sostegno costante per mantenere una tale prassi. Nell’Occidente i Concili regionali e i Papi sono sempre intervenuti per richiamare all’osservanza e per sostenerla in tutti i modi e per vigilare sull’adempimento di questo impegno assunto e necessario.
Questa cura costante è invece venuta a mancare nell’ Oriente, come tutto lascia supporre. Da una parte lo attesta la storia dei Concili regionali orientali. È vero che si può notare l’effetto benefico di un impegno comune della Chiesa Universale nei Concili Ecumenici che si sono tenuti nel primo millennio nell’Oriente. Ma un tale impegno si riferisce soprattutto alle questioni di fede e di dottrina. I problemi di disciplina e di natura pratico-pastorale si rimettono alle assemblee delle Chiese particolari non solo perché si tratta di tenere conto delle condizioni differenti nelle varie regioni, ma anche e soprattutto a causa dell’organizzazione patriarcale (Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, Gerusalemme) che dava e implicava una certa autonomia di governo, ancora assai accentuata dalla separazione di non poche Chiese particolari più o meno vittime di eresie soprattutto cristologiche che hanno turbato tutto l’Oriente. Così l’Oriente come tale non poteva più arrivare ad un’opera concordata sistematicamente nelle questioni di disciplina, neanche nelle questioni comuni di disciplina generale ecclesiastica, quale era il celibato dei ministri sacri. Ogni Chiesa particolare emanava norme proprie, spesso differenti secondo le proprie convinzioni diverse.
Mancava pero e soprattutto un’autorità generale riconosciuta come tale per tutto l’Oriente che potesse efficacemente provvedere a questo coordinamento della disciplina più generale e che potesse prendere dei provvedimenti efficaci di controllo, di vigilanza e di esecuzione.
Questa situazione si rispecchia in modo più chiaro nelle raccolte di norme della Chiesa Orientale che contengono le prescrizioni dei Concili Ecumenici e anche dei Concili particolari dei primi secoli. Ma la legislazione dei secoli successivi non veniva più accolta nella raccolta comune precedentemente formata, il Syntagma canonum. Al posto delle disposizioni Pontificie, che tanta parte avevano per concordare la disciplina generale dell’Occidente, venivano accolti brani dogli scritti dei principali Padri Orientali che erano più di natura ascetica, e le leggi imperiali in materia ecclesiastica, frutto del Cesaropapismo regnante nella Chiesa bizantina, ma che erano veramente norme vincolanti che provvedevano ancora ad una certa uniformità nei punti disciplinari da loro trattati.
Della disciplina Occidentale, sia generale che particolare, l’Oriente ha accettato, nella sua raccolta più comune di diritto ecclesiastico, solo quella della Chiesa d’Africa che era quella più nota e più vicina nonostante appartenesse all’Occidente romano: anzi, la raccolta più importante ed estesa di essa, il Codex canonum Ecclesiae Africanae oppure il Codex in causa Apiarii, per la quale l’Oriente era stato interpellato, fu inserita nel suoSyntagma.Per la posizione e l’influsso esercitato in Oriente dagli Imperatori esistono i cosiddetti Nomocanones, raccolte nelle quali erano riunite leggi ecclesiastiche e statali in materia ecclesiastica, sull’osservanza delle quali vegliava anche l’Imperatore fin dove i territori orientali della Chiesa gli erano ancora soggetti.
Con questa situazione esistente nella Chiesa Orientale si spiega ora anche la mancanza di un’azione generale efficace contro l’immancabile cedimento nell’osservanza dell’obbligo celibatario di tutti i ministri sacri. Mentre si riusciva a mantenere quasi in tutto l’Oriente almeno per i vescovi l’antica tradizione di completa continenza, anche di coloro che erano stati sposati prima dell’ordinazione – anche perché molti furono scelti tra i monaci -, l’uso del matrimonio dei preti, dei diaconi e dei suddiaconi contratto prima dell’ordinazione, sempre più invalso, veniva lentamente giudicato non più arrestabile e meno ancora recuperabile l’obbligo della continenza completa. Ciò significa che ci si arrendeva alla situazione di fatto.
Non è da meravigliarsi se le prime leggi a sanzionare questa situazione furono le leggi imperiali, poiché, non ispirandosi certamente a considerazioni teologiche, cercavano di regolare le condizioni civili connesse con il ministero sacro. Infatti, mentre il Codice Theodosiano (a. 434) fa ancora capire che la continenza può essere salvaguardata anche se si permette alla sposa di abitare con il marito anche dopo l’ordinazione sacra, poiché l’amore alla castità non permette di metterla sulla strada ed il comportamento di lei prima dell’ordinazione del marito l’ha mostrata degna di lui [57], la legislazione dell’Imperatore Giustiniano I in materia ecclesiastica sia nel Codice (a. 534) che nelle Novelle (535-565) mostra già un atteggiamento diverso. Da una parte si sostiene ancora la proibizione di ammettere all’ordine sacro chi era stato sposato più di una volta e quella di sposarsi un’altra volta dopo l’ordinazione e ciò per tutti i gradi dal suddiaconato in su; ma la coabitazione con la moglie è ora permessa per i sacerdoti, i diaconi e i suddiaconi, affinché possano continuare l’uso del matrimonio di prima se questo era stato celebrato solo una volta e con una vergine [58].
Qual è ora la legislazione della Chiesa Orientale stessa di fronte a queste disposizioni imperiali? Come già detto, nell’Oriente esiste un’attività conciliare svolta insieme alla Chiesa Occidentale per i problemi della fede, ma non si è più arrivati ad una legislazione comune in materia disciplinare.
Poiché anche il Concilio Trullano I, dell’anno 680/81, non aveva emesso disposizioni disciplinari, l’Imperatore Giustiniano II ha convocato un secondo Concilio in Trullo nell’autunno del 691 nel quale si voleva finalmente raccogliere la legislazione disciplinare della Chiesa Bizantina e decidere i necessari aggiornamenti e complementi, ivi compresa soprattutto la legalizzazione di stati di fatto già esistenti ma senza il necessario supporto normativo. Ciò si è fatto con la promulgazione di 102 canoni che si sono poi aggiunti al vecchio Syntagma che divenne così il Syntagma adauctum, l’ultimo Codice della Chiesa bizantina [59].
Tutta la disciplina aggiornata riguardante il celibato è stata fissata in sette canoni (3, 6, 12, 13, 26, 30, 48) in forma vincolante e con le sanzioni annesse.
Questo Concilio Trullano II o Quinisesto era un Concilio della Chiesa Bizantina, convocato e frequentato dai suoi vescovi e sostenuto dalla sua autorità che era appoggiata in modo decisivo da quella dell’Imperatore. La Chiesa Occidentale non ha inviato legati (anche se vi ha assistito l’apocrisiario, ossia il delegato permanente di Roma residente a Costantinopoli) e non ha mai riconosciuto questo Concilio come ecumenico, nonostante ripetuti tentativi e pressioni soprattutto da parte dell’Imperatore. Papa Sergio (687-701) che proveniva dalla Siria ha rifiutato il riconoscimento. Solo Giovanni VIII (872-882) ha riconosciuto le deliberazioni che non erano contrarie alla prassi Romana fin allora vigente. - Ogni altro riferimento da parte dei Romani Pontefici ai canoni Trullani non potrà pretendere altro che di essere solo una presa di conoscenza con un riconoscimento più o meno esplicito di essi quale diritto particolare, tollerato, della Chiesa Orientale.
Da quali fonti derivano ora le decisioni Trullane circa la disciplina celibataria bizantina fino ad oggi vincolanti? Per potere rispondere adeguatamente a questa domanda occorre esaminare prima le singole disposizioni.
Can. 3: decide che tutti coloro che dopo il battesimo hanno contratto un secondo matrimonio o abbiano vissuto in concubinato come anche coloro che avevano sposato una vedova, una divorziata, una prostituta, una schiava o un’attrice non possono diventare né vescovi, né sacerdoti, né diaconi.
Can. 6: dispone che ai sacerdoti e ai diaconi non è lecito contrarre un matrimonio dopo l’ordinazione.
Can. 12: ordina che i vescovi non possono, dopo la loro ordinazione, coabitare con le loro mogli e perciò non possono più usare il matrimonio.
Can. 13: stabilisce che, contrariamente alla prassi romana che proibisce l’uso del matrimonio, i sacerdoti, i diaconi e i suddiaconi, nella Chiesa Orientale possono, in forza di antiche prescrizioni apostoliche, per la perfezione e il retto ordine convivere con le loro spose e usare il matrimonio eccetto nei tempi in cui prestano il servizio all’altare e celebrano i sacri misteri dovendo essere per questo tempo continenti.
Ciò sarebbe stato detto dai Padri radunati in Cartagine: «Sacerdoti, diaconi e suddiaconi devono essere continenti nel tempo del loro servizio all’altare, affinché ciò che è stato tramandato dagli apostoli ed osservato da tempi antichi anche noi custodiamo, destinando il tempo a tutto, specialmente alla preghiera e al digiuno: coloro che dunque prestano servizio all’altare divino devono essere in tutto continenti nel tempo dei loro servizi sacri, affinché possano ottenere ciò che chiedono a Dio in tutta semplicità».
Chi dunque osa privare, oltre i canoni apostolici, i ministri in sacris cioè sacerdoti, diaconi e suddiaconi dell’unione e comunione con le legittime mogli, deve essere deposto come anche colui che, sotto il pretesto di pietà, manda via sua moglie e insiste nella separazione.
Can. 26: decreta che un sacerdote che per ignoranza ha contratto un matrimonio illecito debba accontentarsi della sua prima posizione ma deve astenersi da ogni ministero sacerdotale. Un tale matrimonio deve essere disciolto e ogni comunione con questa sposa è proibita.
Can. 30: permette che coloro che col reciproco consenso vogliono vivere continenti non devono vivere insieme; ciò vale anche per i sacerdoti che dimorano in paesi barbari (come tali si intendono i sacerdoti che vivono nella Chiesa Occidentale). Questo impegno assunto è però una dispensa che si accorda ai detti sacerdoti solo per la loro pusillanimità e per i costumi da cui sono circondati.
Can. 48: comanda che la sposa del vescovo, che dietro reciproco consenso è separata, deve entrare in un monastero dopo l’ordinazione di lui ed essere mantenuta dal vescovo. Ma essa può essere anche promossa diaconessa [60].
Can. 30: permette che coloro che col reciproco consenso vogliono vivere continenti non devono vivere insieme; ciò vale anche per i sacerdoti che dimorano in paesi barbari (come tali si intendono i sacerdoti che vivono nella Chiesa Occidentale). Questo impegno assunto è però una dispensa che si accorda ai detti sacerdoti solo per la loro pusillanimità e per i costumi da cui sono circondati.
Can. 48: comanda che la sposa del vescovo, che dietro reciproco consenso è separata, deve entrare in un monastero dopo l’ordinazione di lui ed essere mantenuta dal vescovo. Ma essa può essere anche promossa diaconessa [60].
Da queste disposizioni conciliari risulta quanto segue: l’Oriente conosce bene la prassi celibataria dell’Occidente. Si appella per la propria prassi differente, come l’Occidente, alla tradizione che risalirebbe fino agli apostoli. Infatti la Chiesa bizantina concorda anche nella legislazione Trullana con la Chiesa Latina nei punti seguenti, per i quali si richiama come l’Occidente alla Sacra Scrittura del Nuovo Testamento: il matrimonio contratto prima della sacra ordinazione deve essere stato solo uno e non con una vedova o con altre donne che la legge esclude. Un primo o successivo matrimonio dopo l’ordinazione ricevuta non è lecito. I vescovi non possono più avere convivenza matrimoniale con la sposa, ma devono vivere in piena continenza e perciò le loro mogli non possono più abitare con loro, devono pero essere mantenute dalla Chiesa. L’Oriente esige in più l’ingresso in un monastero o l’ordinazione a diaconessa.
La differenza sostanziale della prassi della Chiesa Orientale riguarda solo i gradi di ordine sacro al di sotto del vescovo. Per questi l’astensione dall’uso del matrimonio si esige solo durante il tempo del servizio effettivo all’altare, il quale allora era limitato nell’Oriente alla domenica o ad altro giorno ancora della settimana.
Ci troviamo qui dunque di fronte ad un ritorno alla prassi vigente nell’Antico Testamento che la Chiesa antica ha sempre esplicitamente rifiutato con chiare ragioni. Qui invece la convivenza e l’uso del matrimonio durante il tempo libero dal servizio diretto non solo vengono difese con grande risolutezza ma ogni atteggiamento contrario viene punito con gravissime sanzioni. L’eccezione comprensibile per i sacerdoti viventi nelle regioni della Chiesa Latina è dichiarata una dispensa che viene concessa solo a causa di una evidente debolezza umana degli stessi sacerdoti e delle difficoltà provenienti dall’ambiente tra le quali è certamente il fatto della generale prassi di continenza del clero occidentale.
Una motivazione della differenza tra le due posizioni i Padri del Trullano II non potevano trovarla nei loro documenti. All’Antico Testamento non volevano probabilmente appellarsi perché, come abbiamo già visto, nelle argomentazioni occidentali e soprattutto nelle disposizioni dei Romani Pontefici a favore della continenza completa, questo parallelismo veniva esplicitamente respinto come non più adeguato al sacerdozio del Nuovo Testamento e con ragioni convincenti. Tanto meno ci si voleva riferire alla legislazione imperiale, la quale aveva già anticipato le decisioni ecclesiastiche di fronte alla situazione formatasi probabilmente già in maniera generale.Siccome a Costantinopoli ci si rendeva conto della falsità del racconto Paphnuziano non rimaneva altro che risalire a testimonianze dell’antichità cristiana che non provenivano dalla Chiesa Costantinopolitana ma da una Chiesa a lei vicina di cui si erano accolte perfino nel proprio Codice Generale i canoni disciplinari. Lo erano i canoni del Codice Africano i quali trattavano anche espressamente della continenza clericale e ciò in più con un riferimento diretto agli apostoli e alla tradizione antica della Chiesa.
Poiché questi canoni affermavano la stessa disciplina, quella cioè della continenza completa, per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, il testo autentico dei canoni africani doveva essere modificato. Ciò era cosa tanto meno pericolosa in quanto in Oriente dawero pochi potevano controllare il latino genuino del testo originale.
Così le parole del can. 3 di Cartagine gradus isti tres… episcopos, prestyteros et diaconos… continentes in omnibus sono stati sostituiti nel canone 13 del Trullano con suhdtaconi… dtaconi et prestyteri secundum eusdem rationes a consorti1hus se alistineant ove queste eusdem rationes rappresentavano i cambiamenti introdotti dai Padri Trullani, opposte a quelle del testo originale di Cartagine.
Ma in tutti questi testi documentatamente manipolati si conserva, anzi, si cerca il riferimento agli apostoli e alla Chiesa antica per dare, attraverso queste autorevoli testimonianze, al celibato bizantino e dell’Oriente lo stesso fondamento che aveva la tradizione Occidentale, da essa espressamente indicato a Cartagine ed anche altrove.
Poiché questi canoni affermavano la stessa disciplina, quella cioè della continenza completa, per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, il testo autentico dei canoni africani doveva essere modificato. Ciò era cosa tanto meno pericolosa in quanto in Oriente dawero pochi potevano controllare il latino genuino del testo originale.
Così le parole del can. 3 di Cartagine gradus isti tres… episcopos, prestyteros et diaconos… continentes in omnibus sono stati sostituiti nel canone 13 del Trullano con suhdtaconi… dtaconi et prestyteri secundum eusdem rationes a consorti1hus se alistineant ove queste eusdem rationes rappresentavano i cambiamenti introdotti dai Padri Trullani, opposte a quelle del testo originale di Cartagine.
Ma in tutti questi testi documentatamente manipolati si conserva, anzi, si cerca il riferimento agli apostoli e alla Chiesa antica per dare, attraverso queste autorevoli testimonianze, al celibato bizantino e dell’Oriente lo stesso fondamento che aveva la tradizione Occidentale, da essa espressamente indicato a Cartagine ed anche altrove.
Che cosa dobbiamo dire di fronte a questo procedimento Trullano? I Padri Orientali si sentivano senza dubbio autorizzati a decretare delle disposizioni particolari per la Chiesa Bizantina poiché essi avevano da tempo insistito sulla loro autonomia giuridica nel campo dell’amministrazione e della disciplina: si sentivano legati solo in questioni dottrinali da decisioni della Chiesa Universale prese nei Concili Ecumenici nei quali avevano preso parte anche loro. Si può dunque riconoscere ai Padri, che si erano presi cura delle norme che dovevano avere valore generale nella loro Chiesa, anche il diritto di tenere conto della situazione di fatto nella questione del celibato dei sacri ministri, di fronte alla quale non vedevano la possibilità di una riforma fruttuosa. Se ciò era possibile in un campo nel quale come in materia di celibato era interessata la Chiesa Universale è un’altra questione.
Possiamo pero senza dubbio negarlo per il metodo, il farlo, cioè, con una manipolazione dei testi che trasforma la verità nel contrario.
Per la Chiesa Cattolica dell’Occidente questo atteggiamento dei Padri Trullani può considerarsi un’altra prova non indifferente per la propria tradizione celibataria che si richiama agli apostoli e si basa realmente su una coscienza comune di tutta la Chiesa Universale antica, per cui risulta vera e giusta.
Dobbiamo ancora domandarci che cosa dice la storia su questo cambiamento dei testi per ottenere una base su cui poggiare gli obblighi nuovi e finora definitivi del celibato nelle Chiese Orientali. I commenti dei propri canonisti della Chiesa Bizantina a questa lettura dei canoni Africani fanno capire che essi, dal secolo XIV in poi, come per esempio quello di Matthaeus Blastares, avevano i loro dubbi sulla esattezza dei riferimenti ai testi Africani da parte dei Padri del Concilio Trullano II e che conoscevano il testo autentico originale. Gli interpreti moderni delle disposizioni celibatarie Trullane ammettono l’inesattezza del riferimento ma dicono nello stesso tempo che il Concilio aveva l’autorità di cambiare qualsiasi legge disciplinare per la Chiesa Bizantina e di adattarla alle condizioni del tempo. Usando quest’autorità, potevano anche cambiare il senso originale dei testi per farli concordare con il parere e la volontà del proprio Concilio [61]. Ma non era, di sicuro, oggettivamente lecito alterare l’originale attribuendogli una autenticità falsa.
La storiografia dell’Occidente ha già da tempo riconosciuto ed almeno dal secolo XVI anche manifestato per iscritto la manipolazione operata dal Concilio Trullano II riguardo ai testi Africani in materia della continenza dei ministri sacri.
Accenno solo al Baronio [62]. e soprattutto agli editori delle varie raccolte dei testi conciliari di cui il principale è J.D. Mansi [63].
Ci resta ancora da accennare alle tracce della disciplina celibataria genuina antica che si trovano fino ad oggi nella stessa nuova disciplina Trullana: la costante preoccupazione della Chiesa riguardo al pericolo grave e continuo che costituisce per i ministri sacri e per la loro continenza la coabitazione con donne che non sono superiori ad ogni sospetto. Dopo il già citato can. 3 del Concilio di Nicea del 325, gli stessi canoni Trullani sopra esaminati se ne occupano ripetutamente. Una tale preoccupazione si spiega solo con le provvidenze generali per salvaguardare la castità e la continenza di ministri sacri in tutte e due le Chiese.
Il fatto di aver conservato per i vescovi della Chiesa Orientale la stessa disciplina severa di continenza che è stata sempre praticata in tutta la Chiesa si può considerare nella legislazione Trullana come il residuo di una tradizione che ha sempre unito tutti i gradi dell’ordine sacro nel medesimo obbligo di continenza completa.
Non si comprende inoltre perché anche nella Chiesa Orientale si conservano con rigore le condizioni per l’unico matrimonio ammesso fra i candidati sposati al sacro ordine. Come si è già visto in parte e come si vedrà ancora più dettagliatamente, queste condizioni hanno solo un significato ragionevole in vista di un impegno definitivo alla continenza completa.
È per di più poco comprensibile il divieto assoluto di ogni primo ed ulteriore matrimonio dopo l’ordinazione sacra, che viene mantenuto anche dopo che ai ministri sacri dal sacerdote in giù è lecito l’uso del matrimonio.
Per quello che concerne poi le innovazioni ufficialmente introdotte dal Trullano nella continenza clericale, le quali riconducono il concetto neotestamentario del ministro sacro al concetto levitico dell’Antico Testamento ci dobbiamo domandare come ciò si poteva continuare a fare dopo che anche nella Chiesa Orientale il ministero effettivo dell’altare si è esteso a tutti i giorni. Stando alle ragioni addotte per l’uso matrimoniale dei sacerdoti si sarebbe dovuto ritornare alla continenza completa come veniva praticata in Occidente anche in ossequio alle disposizioni delle stesso Concilio Trullano per sacerdoti, diaconi e suddiaconi. Ma ciò non si è fatto in nessun posto cosicché il servizio all’altare e il ministero del Santo Sacrificio sono stati disgiunti dalla continenza, benché siano stati sempre uniti ad essa, dato che venivano considerati la sua più intima ragione.
Nelle Chiese particolari unite alla Bizantina che avevano accettato la disciplina Trullana, non è intervenuto nessun cambiamento nella prassi del celibato dei ministri sacri nei secoli seguenti. Alle Comunità Orientali unitesi a Roma è stato concesso da Roma di continuare nella loro tradizione celibataria differente. Ma al ritorno degli Uniati (cattolici di rito bizantino) alla prassi latina di completa continenza non solo non ci si è opposti ma la si è accettata positivamente e favorevolmente. Il riconoscimento della disciplina diversa, concesso dalle autorità centrali di Roma può essere preso come nobile rispetto ma difficilmente come approvazione ufficiale del cambiamento dell’antica disciplina di continenza [64].
Questo parere sembra sostenuto dalla reazione ufficiale che la Santa Sede ha avuto di fronte al Concilio Trullano II come è stato brevemente detto sopra.
*
Nella discussione odierna sul celibato si insiste sempre di più sulla necessità di un approfondimento teologico del sacerdozio, per poter dedurre e valutare anche l’aspetto unicamente vero e completo della teologia del celibato nella Chiesa Cattolica Latina [65].
Per questo motivo ci rimane ancora il compito attuale ed importante di esaminare le componenti teologiche sia del sacerdozio del NT come anche, partendo da queste, del celibato dei ministri sacri. Entrambi hanno le loro radici nella Sacra Scrittura che è fonte principale della teologia cattolica e poi nella tradizione della Chiesa che svela ed interpreta le testimonianze scritturistiche.
Per questo motivo ci rimane ancora il compito attuale ed importante di esaminare le componenti teologiche sia del sacerdozio del NT come anche, partendo da queste, del celibato dei ministri sacri. Entrambi hanno le loro radici nella Sacra Scrittura che è fonte principale della teologia cattolica e poi nella tradizione della Chiesa che svela ed interpreta le testimonianze scritturistiche.
Il sacerdozio di Gesù Cristo è un profondo mistero della nostra fede. Per comprenderlo, I’uomo deve aprirsi ad una visione soprannaturale e sottomettere la ragione umana ad un modo di pensare trascendente. In tempi di viva fede, che non solo anima ed orienta il singolo fedele ma permea e forma anche la vita di tutta la comunità credente, il Cristo-Sacerdote costituisce nella coscienza di tutti il centro vivo della vita di fede personale e comunitaria.
In tempi di decadenza del senso di fede la figura di Cristo-Sacerdote svanisce e scompare sempre di più dalla coscienza degli uomini e del mondo e non sta più nel centro della vita cristiana.
Questa immagine di Cristo-Sacerdote nella coscienza dell’uomo segue sempre il sacerdote di Cristo. Nei tempi di viva fede non torna difficile al sacerdote il riconoscersi in Cristo, identificarsi con lui, vedere e vivere l’essenza del proprio sacerdozio in intima unione con quello di Cristo-Sacerdote, vedere in lui «l’unica sorgente» e «il modello insostituibile» del proprio sacerdozio.
In un’atmosfera di razionalismo, che rimuove sempre più dalla mente dell’uomo il soprannaturale, in un tempo di materialismo che fa svanire sempre più lo spirituale, diventa sempre più difficile per il sacerdote resistere in quest’atmosfera di secolarizzazione ad una siffatta mentalità. L’identità trascendente e spirituale del suo sacerdozio si vela sempre di più e si spegne se egli non si sforza coscientemente di approfondirla e di tenerla viva in un’intima unione di vita con Cristo.
Questa situazione critica rende più che mai indispensabile per il sacerdote l’aiuto di una ascetica e di una mistica che tengano conto di tale situazione e che si scoprano in tempo i pericoli che minacciano il suo sacerdozio e che gli si mostrino le necessità e gli si forniscano i mezzi che la sua esistenza sacerdotale richiede.
L’attuale crisi di identità del sacerdozio cattolico si manifesta in tutta la sua chiarezza
attraverso la rinuncia di migliaia di sacerdoti al loro ministero,
attraverso una profonda secolarizzazione di molti altri che rimangono in servizio formale ed
ancora attraverso la penuria di vocazioni causata dal rifiuto di seguire la chiamata.
In questa situazione vi è un fondamentale bisogno di una nuova pastorale sacerdotale che tenga conto delle condizioni concrete e dei bisogni attuali, che risponda in una parola al «contesto del presente».
Basandosi su tutta la tradizione, occorre far brillare in una nuova luce l’essenza del sacerdozio cattolico. Il concilio di Trento, in una crisi simile, ha creato, attraverso la definizione dei sacramenti dell’ordine e dell’eucaristia, i presupposti di una mistica del sacerdote riportandola alla mistica di Cristo. Un J.M. Scheeben, di fronte al razionalismo teologico del secolo passato, ha spiegato in modo approfondito che l’ordinazione crea una elevazione di chi la riceve in una unione organica soprannaturale con Cristo e che il carattere che l’ordine sacro imprime per sempre rende l’ordinato partecipe di una nuova elevazione ad organo delle funzioni sacerdotali di Cristo [66].
In tempi recentissimi, soprattutto dal Concilio Vaticano II in poi, questo rapporto del sacerdote con Cristo è stato collocato sempre più verso il centro dell’essenza del sacerdozio e si sono così potuti approfondire ed ampliare i pronunciamenti biblici e le dottrine teologiche e canonistiche del passato sull’unione e la conformità tra Cristo e il sacerdote. Così ha acquistato nuova luce, teologicamente illustrato, l’assioma tradizionalesacerdos alter Christus.
Se san Paolo scrive ai Corinzi (1 Cor 4,1): «Così l’uomo ci consideri ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio» oppure (2 Cor 5,20): «Noi dunque fungiamo da ambasciatori di Cristo, come se Dio stesso esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio», ciò si può considerare una motivazione autenticamente biblica dell’identificazione del sacerdote con Cristo.
Nel Concilio Vaticano II si esprime continuamente la stessa idea: «I vescovi, in modo eminente e visibile, sostengono le parti dello stesso Cristo Maestro, Pastore e Pontefice e agiscono in sua persona» (LG n. 21 con nota 22 ove si documenta la rispettiva dottrina della Chiesa antica). I sacerdoti a loro congiunti sono partecipi dell’ufficio dell’unico Mediatore Cristo ed esercitano il loro sacro ministero nel culto eucaristico agendo in persona di Cristo (LG n. 28 con nota 67; CD n. 28). Attraverso il sacramento dell’ordine e il carattere che esso imprime, vengono configurati con Cristo ed agiscono in suo nome (PO 2, 6, 12; OT 8; SC 7).
Dopo il Concilio si moltiplicano siffatte espressioni anche da parte della Curia Romana. La Congregazione per l’Educazione Cattolica, nelle norme fondamentali per la formazione dei sacerdoti dell’anno 1970, ha esplicitamente sottolineato con l’affermazione di principio che il sacerdote diventa, per mezzo dell’ordine sacro, un «alter Christus» [67]. E il nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983 dice nel canone 1008: «Con il sacramento dell’ordine ed il carattere indelebile con cui vengono segnati coloro che lo ricevono, i ministri della Chiesa vengono consacrati e destinati ad adempiere, ognuno nel suo grado, i compiti di insegnare, santificare, e governare in persona Christi e di pascere così il popolo di Dio».
Ma in modo più intenso si è occupato del sacerdozio e dei sacerdoti il Pontefice regnante, Giovanni Paolo II, sin dall’inizio del suo pontificato. Per il Giovedì Santo di ogni anno, già dal 1979, egli indirizza un proprio messaggio ai sacerdoti. Ripetutamente si vale di ogni occasione: delle udienze, discorsi e soprattutto delle frequenti ordinazioni sacerdotali per mettere nella giusta luce teologica, pastorale, attuale la natura e l’essenza del sacerdozio cattolico e approfondire il suo significato.
Il più importante atto d’ufficio di questo Pontefice per il sacerdozio è costituito senza dubbio dalla convocazione e l’attuazione dell’ottavo Sinodo dei Vescovi, che ha avuto per oggetto la formazione dei sacerdoti. Un punto centrale delle discussioni dei Padri Sinodali era senza dubbio il concetto giusto ed attuale dell’identità del sacerdote nel mondo di oggi e in relazione con la grave crisi nella quale si agita oggi il sacerdote. Riassunto e coronamento di questi approfonditi lavori è l’Esortazione Apostolica post-sinodale, apparsa il 25 marzo del 1992, sotto il titolo «Pastores dabo vobis» circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali.
Nel secondo capitolo di questa Esortazione Apostolica il Sommo Pontefice tratta «della natura e missione del sacerdozio ministeriale» e informa espressamente che gli interventi dei Padri Sinodali «hanno manifestato la coscienza del legame ontologico specifico che unisce il sacerdote a Cristo, Sommo Sacerdote e Buon Pastore» (n. 11). Il Papa conclude questa esposizione con l’affermazione veramente classica: «Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell’essere una derivazione, una partecipazione specifica ed una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eterna Alleanza; egli è un’immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua assoluta “novità”, nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristiano e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali» (n. 12 alla fine).
Basandoci su questa affinità naturale tra Cristo e il suo sacerdote, non ci sarà difficile individuare anche la teologia del celibato sacerdotale. Giovanni Paolo II stesso ce ne dà nuovamente la chiave:
«È particolarmente importante che il sacerdote comprenda la motivazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato. In quanto legge, esprime la volontà della Chiesa, prima ancora che la volontà del soggetto espressa dalla sua disponibilità. Ma la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione nel legame che il celibato ha con l’Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo e Sposo l’ha amata. Il celibato sacerdotale, allora, è dono di sé in e con Cristo alla sua Chiesa ed esprime il servizio del sacerdote alla Chiesa in e con il Signore» (n. 29 verso la fine).
Anche qui uno sguardo retrospettivo alla tradizione della Chiesa può informare sullo sviluppo di questa teologia. Ciò che si può dire sinteticamente su questo aspetto è in parte già stato detto analizzando le testimonianze della Chiesa primitiva sulla continenza dei ministri sacri. Seguire i riferimenti alla Sacra Scrittura e alla interpretazione di essa in queste testimonianze della storia del celibato è certamente un aiuto che si può dare all’argomentazione teologica da parte dei Padri Sinodali e del Santo Padre, poiché nella Esortazione Apostolica abbondano i richiami alla Sacra Scrittura. La visione scritturistica del celibato acquista del resto sempre maggior importanza anche nella letteratura recente in materia [68].
Già nella prima legge scritta, a noi nota, nel can. 33 di Elvira sono tenuti alla continenza i chierici positi in ministerio quelli cioè che servono all’altare. Anche i canoni Africani parlano continuamente di quelli che servono all’altare e toccano i sacramenti e sono addetti al loro servizio, coloro che, a causa della loro consacrazione ricevuta, sono obbligati alla castità, la quale a sua volta assicura l’efficacia della preghiera impetratoria presso Dio.
Importanti ed istruttivi sono a questo riguardo soprattutto i documenti Pontifici che trattano della continenza celibataria. Continuamente vengono affrontate due obiezioni attinte alla Sacra Scrittura e che vengono confutate. La prima è la norma che dà san Paolo a Timoteo (1 Tm 3,2 e 3,12) e a Tito (1,6): i candidati devono essere, se sposati, solo unius uxoris viri,ossia sposati una sola volta e per di più con una vergine. Sia Papa Siricio come anche Innocenzo I insistono ripetutamente che questo non vuol dire che essi possono vivere anche d’ora innanzi nel desiderio di generare figli, ma, al contrario, che ciò è stato stabilito propter continentiam futuram, a causa della continenza da osservare in seguito.
Questa interpretazione ufficiale del noto brano della Sacra Scrittura, fatta dai Sommi Pontefici, la quale veniva assunta anche dai Concili, afferma che colui che aveva bisogno di risposarsi dimostrava con ciò che non poteva vivere la continenza richiesta ai sacri ministri e perciò non poteva essere ordinato. Così questa norma della Sacra Scrittura, anziché una prova contro la continenza celibataria, diventa una prova a suo favore, per di più già richiesta dagli apostoli. Tale interpretazione rimane viva anche in seguito. Così ancora la Glossa Ordinaria al Decreto di Graziano, ossia il commento comunemente accettato per questo brano del testo (Principio della Dist. 26), spiega che esistono quattro ragioni perché un bigamo non può essere ordinato. Dopo tre ragioni piuttosto spirituali, la quarta, pratica, dice: perché sarebbe un segno di incontinenza se uno da una moglie è passato ad un’altra. E il grande ed autorevolissimo Decretalista Hostiensis (il Card. Decano Enrico da Susa) spiega nel suo commento alle Decretali di Gregorio IX (X, I, 21, 3 alla parola alienum): la terza ragione delle quattro di questo divieto è: «Perché si deve temere (in questo caso) l’incontinenza».
Che questa interpretazione di untus uxoris vir era accettata anche in Oriente dimostra anche lo storico della Chiesa primitiva Eusebio di Cesarea, che si deve ritenere ben informato e che, come abbiamo già detto, era presente al Concilio di Nicea e quale amico degli ariani avrebbe dovoto prendere piuttosto la difesa dell’uso del matrimonio dei preti prima sposati. Ma egli dice espressamente che, paragonando il sacerdote dell’Antico Testamento con quello del Nuovo, si confronta la generazione corporale con quella spirituale e in questo consiste il senso dell’unius uxoris vir cioè che coloro i quali si sono consacrati e dedicati al servizio e culto divino devono astenersi convenientemente, in seguito, dal rapporto sessuale con la moglie [69].
Questo divieto dell’apostolo, che nessun bigamo doveva essere ammesso agli ordini sacri, è stato osservato assai severamente attraverso tutti i secoli e si trova tra le irregolarità per l’ordine ancora nel Codice del Diritto Canonico del 1917 (can. 984, 4°). Nella canonistica classica si riteneva che la dispensa da questo divieto non era possibile neanche da parte del Sommo Pontefice, perché neanche egli potrebbe dispensare contra apostolum, vale a dire contro la Sacra Scrittura [70].
Da notare che anche la legislazione celibataria Trullana nel suo can. 3 mantiene in vigore questa proibizione per sacerdoti, diaconi e suddiaconi che cioè i candidati a questi ordini non potevano essere sposati con una vedova ossia con chi era già stata sposata una volta. Si voleva solo, dicono i Padri Trullani, mitigare la severità della Chiesa Romana in questo punto, concedendo a coloro che avevano peccato contro il divieto della bigamia la possibilità del ravvedimento e della penitenza. Se fino ad un certo termine dopo il Sinodo avessero rinunciato a questo matrimonio, avrebbero potuto rimanere nel ministero. L’illogicità di questa disposizione del can. 3, paragonato con il can. 13 che permette ai sacerdoti e diaconi l’uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione, si spiega solo con il fatto che questo divieto apostolico era profondamente ancorato anche nella tradizione Orientale, ma senza rendersi più conto del suo vero senso originale. Da ciò deriva un’altra prova tacita per questo autentico significato originale quale garanzia della continenza completa dopo l’ordinazione come era rimasto vivo nella Chiesa Occidentale, sempre accettato quale osservanza fedele da parte di Roma.
In questo contesto conviene far menzione ancora di altri due testi della Sacra Scrittura, i quali non si trovano esplicitamente nelle testimonianze antiche, il secondo dei quali viene invocato oggi contro la continenza dogli stessi apostoli.
Tra le qualità che san Paolo esige nel ministro della Chiesa si richiede anche che debba essere egkratês; ossia continens. Questo termine significa la continenza sessuale come risulta dal testo parallelo nel quale san Paolo chiede ai fedeli in genere la necessaria continenza o astinenza dogli sposati per la preghiera [71] e da tutti i testi posteriori greci circa il celibato, raccolti per esempio nella raccolta ufficiale del Pedalion.
Il secondo testo della Sacra Scrittura si trova in 1 Cor 9,5 dove san Paolo afferma che anche lui avrebbe il diritto di avere con sé una donna come gli altri apostoli, i fratelli del Signore e Cepha. Molti interpretano questa «donna» per la «sposa» degli apostoli, ciò che per Pietro potrebbe essere anche vero. Ma bisogna tenere ben conto del fatto che il testo originale greco parla non semplicemente di una «gunaika» che potrebbe essere benissimo anche la moglie. Ma certamente non senza intenzione san Paolo aggiunge la parola «adelfen» ossia donna «sorella» per escludere ogni malintesa confusione con una moglie.
Ci convinceremo facilmente di questa rettificazione se consideriamo che in seguito tutti i più importanti testimoni della continenza dei ministri sacri ci dicono continuamente che, quando si parla della sposa di tali ministri nel contesto della conseguente continenza sessuale, si usa sempre la parola «soror», sorella, così come in genere il rapporto tra gli sposi dopo l’ordinazione del marito è visto sotto quello di fratello e sorella. Così dice san Gregorio Magno: «Il sacerdote dal tempo della sua ordinazione amerà la sua sacerdotessa (ossia la sua sposa) come una sorella» [72]. Il Concilio di Gerona (a. 517) decide che «se sono stati ordinati coloro che prima erano sposati, non devono vivere insieme con quella che da sposa è diventata sorella» [73]. Ed il Concilio II di Auvergne (a. 535) dispone a sua volta: «Se un sacerdote o un diacono ha ricevuto l’ordine al servizio divino diventa subito da marito fratello di sua moglie» [74]. Questo uso delle parole si trova in molti testi patristici e conciliari.
È necessario che ci dedichiamo ora ad un altro argomento che si invoca spesso contro la continenza dei ministri nei primi secoli. Ci si appella cioè – come già riportato diverse volte in vari contesti – all’Antico Testamento, nel quale come si sa è stato lecito anzi doveroso vivere il pieno uso matrimoniale durante il tempo in cui sacerdoti e leviti vivevano a casa loro, liberi dal servizio nel Tempio. Si è soliti dare sempre una doppia risposta a questa obiezione. Anzitutto si dice che il sacerdozio vetero-testamentario era affidato ad una tribù la quale doveva essere conservata e ciò rendeva necessario il matrimonio. Il sacerdozio del Nuovo Testamento invece è configurato senza successione di sangue e perciò senza discendenza familiare.
Si aggiunge un secondo argomento a favore della differenza, che è ancora più importante e viene sempre ripetuto: i sacerdoti dell’Antico Testamento avevano un servizio del Tempio limitato nel tempo, mentre i sacerdoti del Nuovo Testamento hanno un servizio ininterrotto, il quale perciò ha esteso l’obbligo temporaneo della continenza e della purezza ad una osservanza illimitata e continua. La spiegazione persuasiva che si adduce a questo scopo la si trova nel passo di san Paolo ai Corinzi (1 Cor 7,5) nel quale l’apostolo consiglia agli sposi «di non privarsi l’uno dell’altra se non di comune accordo per un tempo determinato per attendere alla preghiera». I sacerdoti del Nuovo Testamento invece devono pregare in continuità e dedicarsi ad un servizio giornaliero ininterrotto nel quale, attraverso le loro mani, viene data la grazia del battesimo e offerto il Corpo di Cristo. La Scrittura Sacra li ammaestra ad essere in tutto questo servizio del tutto puri, e i Padri comandavano di conservare l’astinenza del corpo.
Si aggiunge un secondo argomento a favore della differenza, che è ancora più importante e viene sempre ripetuto: i sacerdoti dell’Antico Testamento avevano un servizio del Tempio limitato nel tempo, mentre i sacerdoti del Nuovo Testamento hanno un servizio ininterrotto, il quale perciò ha esteso l’obbligo temporaneo della continenza e della purezza ad una osservanza illimitata e continua. La spiegazione persuasiva che si adduce a questo scopo la si trova nel passo di san Paolo ai Corinzi (1 Cor 7,5) nel quale l’apostolo consiglia agli sposi «di non privarsi l’uno dell’altra se non di comune accordo per un tempo determinato per attendere alla preghiera». I sacerdoti del Nuovo Testamento invece devono pregare in continuità e dedicarsi ad un servizio giornaliero ininterrotto nel quale, attraverso le loro mani, viene data la grazia del battesimo e offerto il Corpo di Cristo. La Scrittura Sacra li ammaestra ad essere in tutto questo servizio del tutto puri, e i Padri comandavano di conservare l’astinenza del corpo.
Gli stessi documenti danno pero ancora un’altra motivazione che è di ordine pastorale: come può un sacerdote predicare ad una vedova o vergine continenza e illibatezza se egli stesso dà maggior valore a generare figli al mondo anziché a Dio? Così l’obiezione contro si trasforma in un argomento a favore della continenza ministeriale.
Da tutte queste considerazioni si può trarre una immagine del sacerdote del NT modellata sulla volontà di Cristo e che si distingue sostanzialmente da quella dell’AT: quest’ultima è configurata solo come una funzione, per di più limitata nel tempo e puramente esteriore. Quella invece coinvolge la natura e perciò tutto l’uomo in quanto sacerdote, il suo interno ed esterno e perciò il suo servizio. Cristo dal suo sacerdote vuole anima, cuore e corpo e in tutto il suo ministero la purezza e la continenza quale testimonianza che non vive più secondo la carne ma secondo lo spirito (Rm 8,8). Il sacerdozio levitico funzionale dell’AT non può perciò mai essere un modello di quello ontologico del NT, configurato a Cristo. Questo supera quello in tutta la sua essenza.
Di qui gli uomini che hanno accolto il messaggio salvifico di Cristo hanno compreso sin dall’inizio la richiesta del Maestro ai suoi apostoli di dover rinunciare per il regno dei Cieli anche al matrimonio (Mt 19,12) e che, quali discepoli in senso stretto e pieno, devono anche lasciare padre, madre, sposa, figli, fratello e sorella (Lc 18, 29; 14,26). Si comprende anche presto la parola di san Paolo che riguarda il rapporto diverso con Dio da parte di celibi e sposati (1 Cor 7,32-33) e con ciò il suo significato per il celibato ecclesiastico.
Sarà compito della scuola, cioè della canonistica classica dal sec. XII in poi, trovare, spiegare e sviluppare le motivazioni del nesso fra continenza e sacerdozio neotestamentario. Nella storia dello sviluppo scientifico descritto già brevemente nella seconda parte si è accennato alle difficoltà di allora di arrivare alla elaborazione di una teoria soddisfacente. Per quanto gli antichi Padri avessero già compreso che la continenza apparteneva all’essenza del nuovo sacerdozio – quando per esempio Epifanio di Salamina dice che il carisma di esso consiste nella continenza; oppure sant’Ambrogio dice che l’obbligo della preghiera continua è il comandamento della Nuova Alleanza – i glossatori non hanno potuto creare una teologia del celibato perché erano troppo poco teologi. Nel loro lavoro attorno alla disciplina del celibato dell’Occidente erano anche troppo condizionati da quella dell’Oriente, la legittimità della quale hanno preso per buona giacché riconoscevano sia la leggenda di Paphnutius che la legislazione Trullana.
Ma partendo dai testi rispettivi della Chiesa Cattolica hanno cercato di creare una teoria che conteneva elementi essenziali per una valida teologia. Essi hanno compreso anzitutto che la continenza è in stretto rapporto con l’ordo sacer e che questa legge è stata data dalla Chiesa propter ordinis reverentiam, per la riverenza che si deve all’ordine; comprendevano pero anche che la continenza è stata annessa piuttosto all’ordine che all’uomo da ordinarsi, il quale perciò restò libero di accettare l’ordine solo se voleva accettare anche l’obbligo che vi era annesso.
Anche dalla sintesi fatta da san Raymundo da Peñafort, riportata sopra, risulta con certezza che il vero motivo della continenza clericale era per quel tempo non tanto la purezza cultuale del ministro dell’altare (che si combinerebbe benissimo anche con la prassi Orientale decisa dal Trullano), ma l’efficacia della preghiera mediatrice del ministro sacro, che proveniva dalla totale dedicazione a Dio, e in genere la possibilità libera di pregare e la completa libertà per il proprio ministero e per il servizio della Chiesa appaiono già chiaramente i veri motivi della continenza completa.
Anche se la teologia dei secoli successivi fino ad oggi non ha trascurato il sacerdozio del Nuovo Testamento, solo la crisi più recente dei sacerdoti e delle vocazioni al sacerdozio dalla seconda metà di questo secolo, diffusa ed ampliata dai mezzi di comunicazione di massa, richiedeva con urgenza un particolare approfondimento di questo argomento come detto sopra.
Il fondamento di questo approfondimento è stato posto dal Concilio Vaticano II. E su questo si basano gli sforzi successivi che il Pontefice f.r. ha fatto oggetto particolare del suo programma dottrinale e pastorale sin dall’inizio del suo Pontificato.
In questo senso è significativo che già nel suo primo messaggio ai sacerdoti in occasione del Giovedì Santo ha detto, riguardo al celibato sacerdotale, che la Chiesa Occidentale lo ha voluto e lo vuole anche nel futuro in quanto «si ispira all’esempio di nostro Signore Gesù Cristo stesso, alla dottrina apostolica e a tutta la tradizione a lei propria» [75].
Negli anni successivi è ritornato continuamente sul tema del sacerdozio e sul celibato legato ad esso in quanto si è impegnato nello stesso tempo a frenare le troppo facili dispense in materia.
Il vertice di queste premure di altissima coscienza pastorale è stato senza dubbio la convocazione dell’ottavo Sinodo dei vescovi per il mese di ottobre dell’anno 1990, nel quale doveva essere trattato l’argomento sulla formazione sacerdotale nel contesto delle circostanze attuali.
Ciò si è fatto in maniera esauriente attraverso le voci dei rappresentanti dell’episcopato mondiale e ha trovato la sua espressione più perfetta nella Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis che ci autorizza a parlare di una «Magna Charta» della teologia del sacerdozio che rimarrà norma autorevole per tutto l’avvenire della Chiesa.
Non è possibile, neanche per lo scopo di questa nostra esposizione storica, farne oggetto di una completa considerazione [76]. Ma essa ispira un’ultima parola, assai opportuna, sulla teologia del celibato sacerdotale, intimamente connessa con la teologia dello stesso sacerdozio.
Un’ultima motivazione di esso e della volontà della Chiesa nei suoi confronti sta «nel legame che il celibato ha con l’ordinazione sacra che configura il sacerdote a Gesù Cristo, Capo e Sposo della Chiesa» (n. 29). Queste parole si possono considerare il nucleo centrale di tutta la teologia del celibato che è stata sviluppata nell’Esortazione Apostolica e che è data alla meditazione approfondita e a base di ogni ulteriore sviluppo.
Un’ultima motivazione di esso e della volontà della Chiesa nei suoi confronti sta «nel legame che il celibato ha con l’ordinazione sacra che configura il sacerdote a Gesù Cristo, Capo e Sposo della Chiesa» (n. 29). Queste parole si possono considerare il nucleo centrale di tutta la teologia del celibato che è stata sviluppata nell’Esortazione Apostolica e che è data alla meditazione approfondita e a base di ogni ulteriore sviluppo.
Partendo da questa asserzione centrale della Lettera Pontificia, abbiamo cercato sin dall’inizio di questa quarta parte di indicare gli elementi della teologia del celibato che erano già apparsi nella tradizione ma erano stati sviluppati in maniera piuttosto insufficiente. Siamo ora in grado di costatare che nell’esposizione della Esortazione non solo sono stati accolti tutti questi elementi e sviluppati sistematicamente, ma che ne sono stati utilizzati degli altri allora non considerati.
In questo senso è da valutare anzitutto quello che viene esposto nel capitolo terzo, particolarmente nei numeri 22 e 23, sulla «configurazione a Gesù Cristo Capo e Pastore e la carità pastorale». Cristo ci si mostra qui nel senso di 5,23-32 della lettera agli Efesini, quale Sposo della Chiesa e la Chiesa quale unica sposa di Cristo.
In connessione con altri brani scritturistici viene qui elaborata la profonda mistica di Cristo-Chiesa, per essere messa subito in relazione con il sacerdote: «Il sacerdote è chiamato ad essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa… È chiamato, pertanto, nella sua vita spirituale a rivivere l’amore di Cristo sposo nei riguardi della Chiesa sposa». Il sacerdote non è perciò senza amore sponsale, egli ha per sua sposa la Chiesa.
«La sua vita dev’essere illuminata e orientata anche da questo tratto sponsale, che gli chiede di essere testimone dell’amore sponsale di Cristo, di essere quindi capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, ed insieme con una specie di “gelosia” (cf 2 Cor 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell’affetto materno, capace di farsi carico dei “dolori del parto” finché “Cristo” non sia formato nei fedeli (cf Gal 4,19)».
«Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo».
Il contenuto essenziale di essa «è il dono di sé, il totale dono di sé alla Chiesa, ad immagine e in condivisione con il dono di Cristo»…
«Con la carità pastorale che impronta l’esercizio del ministero sacerdotale come amoris officium, “il sacerdote, che accoglie la vocazione al ministero, è in grado di fare di questo una scelta di amore, per cui la Chiesa e le anime diventano il suo interesse principale”».
Il sacerdozio della Chiesa Cattolica appare così come un mistero il quale è, a sua volta, immerso nel mistero della Chiesa di Cristo. Ogni problema concernente questo sacerdozio e soprattutto il grave, grande e sempre attuale problema del celibato non può e non deve essere visto e risolto con considerazioni e motivazioni puramente antropologiche, psicologiche, sociologiche e, in modo generale, profane e terrene. Questo problema non si può risolvere con categorie puramente disciplinari. Ogni manifestazione della vita e dell’attività del sacerdote, la sua natura e la sua identità postulano prima di tutto una giustificazione teologica. Questa, per il celibato ministeriale, abbiamo cercato di attingerla alla storia e alla riflessione teologica che si basa sulla rivelazione.
Ne consegue primieramente, sotto l’aspetto formale, che ad una spiegazione soddisfacente che ha per oggetto un tale mistero non si addice un linguaggio profano, ma richiede piuttosto un modo di parlare elevato rispondente al mistero stesso.
Inoltre, tenendo conto della natura descritta del sacerdozio cattolico, non è sufficiente chiedere ciò che rende più funzionale la Chiesa stessa: conservazione o rinuncia al celibato; poiché il sacerdozio del Nuovo Testamento non è un concetto funzionale come quello dell’Antico Testamento, ma un concetto ontologico, dal quale solo può derivare l’adeguato agire secondo l’assioma: agere sequitur esse, ossia l’azione è guidata dall’essere.
Di fronte a questa teologia del sacerdozio neotestamentario che è stata confermata e approfondita pure dal magistero ufficiale della Chiesa, ci dobbiamo ancora domandare, se le ragioni a favore del celibato così come sono state esposte militano solo per una «convenienza» di esso o se non sia realmente necessario e irrinunciabile, e se non esista realmente un Junctum tra i due. Solo se è stato risposto rettamente a questa domanda si può anche rispondere all’altra, se cioè la Chiesa Cattolica possa decidere un giorno di modificare l’obbligo del celibato o abolirlo addirittura del tutto [77].
Per non correre rischi con la risposta a questa domanda, dobbiamo partire dal fatto che il sacerdozio cattolico dal Fondatore della Chiesa non è stato fondato sull’uomo che si trasforma e cambia ma sul mistero immutabile della Chiesa e di Cristo stesso.
NOTE
* Città del Vaticano (Libreria Editrice Vaticana) 1994
Titolo originale: Der Klerikerzölibat. Seine Entwicklungsgeschichte uns seine theologischen GrundlagenTraduzione «Ius Ecclesiae». Rivista internazionale di Diritto Canonico, vol. V, n. 1, gennaio1giugno 1993
© Copyright 1994 1 Libreria Editrice Vaticana 1 00120 Città del Vaticano
Tel. (06) 698.85003 1 Fax (06) 698.84716
ISBN 8812091200815
TIPOGRAFIA VATICANA
Titolo originale: Der Klerikerzölibat. Seine Entwicklungsgeschichte uns seine theologischen GrundlagenTraduzione «Ius Ecclesiae». Rivista internazionale di Diritto Canonico, vol. V, n. 1, gennaio1giugno 1993
© Copyright 1994 1 Libreria Editrice Vaticana 1 00120 Città del Vaticano
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ISBN 8812091200815
TIPOGRAFIA VATICANA
[1] Qui sono da richiamare anzitutto tre pubblicazioni fondamentali: Cochini Christian Sj, Origines apostoliques du célibat sacerdotal, Le Sycomore, Ed. Lethielleux, Paris 1981, Culture et Verité, Namur (pagine 479). – Traduzione inglese: Apostolic origins of priestly Celibacy, Ignatius Press San Francisco 1990. – Roman Cholij, Clerical Celibacy in East and West (contiene soprattutto l’esposizione dello sviluppo del celibato nelle Chiese Orientali), Fowler Wright Books, Burgess Street Leominster, Herefordshire 1988, XIV, 226. – Liotta Filippo, La continenza dei chierici nel pensiero canonistico classico (da Graziano a Gregorio IX), Quaderni di Studi Senesi, 24, Milano, Giuffrè 1971, XII, 401.
Sono da notare ancora alcune altre pubblicazioni generali più recenti:Sacerdoce et Célibat, Ed. J. Coppens in Biblioteca Ephemeridum Theol. Lovanien, XXVIII 1971 VIII, 752 (qui anche l’articolo di A. M. Stickler:L’évolution de la discipline du célibat dans l’Eglise en Occident de la fin de l’age patristique au concile de Trente, pp. 3731442). Di quest’opera con vari contributi esiste anche una traduzione inglese (1972) e italiana (1975).4 GRYSON ROGER, Les Origines du Célibat ecclesiastique, Duculot, Gembloux 1970 XII, 228 – DENZLER GEORG, Das Patsttum und der Amtszölibat in:Päpste und Papsttum V, 1 (Stuttgart 1973, XII, 180), V, 2 (1976, 1811482).4 BOELENS MARTIN, Die Klerikerehe in der Gesetzgebung der Kirche unter besonderer Berücksichtigung der Strafe: von den Anfängen der Kirche bis zum Jahre 1139, Paderborn 1968.4 ID., Die Klerikerehe in der kirchlichen Gesetzgebung vom II. Laterankonzil bis zum Konzil v. Basel in Ius Sacrum(Festschrift f. Klaus Mörsdorf), Paderborn 1969, 5931614.4 ID., Die Klerikerehe in der kirchlichen Gesetzgebung zwischen den Konzilien Basel und Trient in: Archiv f. kath. Kirchenrecht 138. 1969, 62181. FRANZEN A.,Zölibat und Priesterehe in der Auseinandersetzung der Reformationszeit und in der kath. Reform des 16. Jahrhunderts, Münster 1969 (ed. 2 1970).4 STICKLER ALFONS M., La continenza dei Diaconi specialmente nel primo millennio della Chiesa inSalesianum 26, 1964, 2751302.4 ID., Tratti salienti nella storia del celibato in Sacra Doctrina 60. 1970, 5851620.
[2] Dist. XXVII dict. introd. ad v. Quod autem.
[3] 1 Tm 3,2; 3,12; Tt 1,6.
[4] Lc 18,28130; Mt 19,27130; Mc 10,20121.
[5] BICKELL GUSTAV, Der Cölibat eine apostolische Anordnung in Zeitschrift f. katholische Theologie 2, 1878, 26164; ID., Der Cölibat dennoch eine apostolische Anordnung Zeitschrift f. kath Theologie 3, 1879, 7921799.4FUNK, FRANZ XAVER, Der Cölibat keine apostolische Anordnung in Tübinger Theologische Quartalschrift 61, 1879, 2081247; ID., Der Cölibat noch lange keine apostolische Anordnung in Tübinger Theologische Quarhlschrift 62, 1880, 2021221; ID., Cölibat und Priesterehe im Christlichen Altertum in Kinchengeschichtliche Abhandlungen und Untersuchungen I, 1987, 1211155, VACANDARD ELPHÈGE1FLORENT, Les origines du célibat ecclésiastique in Etudes de critique et d’histoire religieuse 1 sèr., Paris 1905, 5 ed. Paris 1913, 711120; ID., Art. Cèlibat in Dictionnaire de Théologie Catholique II, 206812088 (Paris 1905).4LECLERCQ HENRI, La législation conciliaire relative au célibat ecclésiastique in Trad. franc. della Kouziliengeschichte del Hefele II, 2 part., Paris 1908, Appendix VI, pp. 132111348: ID., ART. Célibat in: Dictionnaire d’ Archéologie chrétienne et de Liturgie II 280212832 (Paris 1908).
[6] Per esempio Landgraf Arthur Michael, Diritto canonico e teologia nel sec. XII in Studia Gratiana I, 3711413.
[7] Bruns Herm. Theod., Canones Apostolorum et Conciliorum saec. IV1VII, II (Berolini 1939), 516.
[8] AAS 28, 1936, 25.
[9] Concilia Africae a. 3451525 (Ed. C. Munier in Corpus ChristianorumSeries Latina 149, Turnholti 1974), 13.
[10] Corpus Christianorum, cit., 149, 98 ss.
[11] Corpus Christianorum, cit., 149, 133 ss.
[12] Corp. Christ., cit., 149, 142.
[13] Corp. Christ., cit., 149, 58-63.
[14] S. IRENAEUS, Adversus haereses, 3, 3, 2.
[15] Decretale «Directa» – JAFFÉ 2 n. 255 – PL. 13, 1131-1147.
[16] Decretale «Cum in unum» («Diversa quamvis») a. 386 – JA 2 258 – BRUNS, op cit. I, 152-155: Corp. Christ. cit. 149, 59-63.
[17] BRUNS, Op. Cit. , II, 274, Can. 3, 276-77.
[18] JA 2 286 – PL. 20, 468-7; JA 2 293 – PL. 20, 496-8 e Conc.. Agathense a 506 n. 9 ed. Corp. Christianorum, 148 (C. MUNIER), 196-199; JA 2 315 – PL. 20, 605.
[19] JA 2 544 – PL. 54, 1194.
[20] Lettera ad Anastasio di Tessalonica dell’anno 446: JA 2 411, PL. 54, 666.
[21] Sui numerosi testi di Gregorio Magno cf COCHINI, op. cit. 404-416. Per esempio: «subdiaconi… qui iam uxoribus fuerant copulati, unum ex duobus eligerent: id est a suis uxoribus abstinerent aut certe nulla ratione ministrare praesumerent» MGH, EPP. IV, 344PL. 77, 710.
[22] BRUNS, op. cit., II, 2: – Corp. Christ., 149, 69.
[23] Per esempio, Conc. Tol. I (a. 398): BRUNS, op. cit. I, 203; Conc. Romanum a. 348: BRUNS, op. cit., II, 278 (can. VI).
[24] De officiis ministrorum I, 50: PL. 16, 103 – 105. Cf per questo anche la lettera alla Chiesa di Vercelli: 63, 62 s. – PL. 16, 1257.
[25] I 34 - PL. 23, 257.
[26] PL. 23, 340141: «Aut virgines aut continentes aut si uxores habuerint mariti esse desistunt».
[27] Ep. 49, 21 – CSEL 54, 386 s.
[28] PL. 22, 510.
[29] II, 22 – CSEL – 1, 409 e PL. 40, 486.
[30] Rimando ai rispettivi Concili; vedi in COCHINI, op. cit., 2951308; 3551379; 4201431 (Spagna e Gallia) – STICKLER, Tratti salienti, cit., 5921593; Sacerdoce et Célibat, cit., 3731394 passim.
[31] STICKLER, Tratti salienti, cit., 593.
[32] STICKLER, Tratti salienti, cit., 594 col. n. 21 – ID., Sacerdoce et Célibat,cit., 379-83.
[33] STICKLER, Tratti salienti, cit., 592 s.
[34] STICKLER, Sacerdoce et Célibat, cit. 3941408 e ID., I presupposti storico1giuridici della riforma Gregoriana e dell’azione personale di Gregorio VII in Studi Gregoriani XIII, Roma 1989, 1115.
[35] Cf can. 7 Conc. Lateranense II in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Herder 1962, 174.
[36] Cf la mia Historia Iuris Canonici, p. 197 ss.
[37] Cf l’opera citata nella Nota (1) di Liotta, soprattutto 3731387. Sulle motivazioni in tutto il loro sviluppo tornerò nella parte IV, mentre la discussione sulla disciplina della Chiesa Orientale, del suo contenuto e della sua evoluzione seguirà nella Parte III.
[38] LIOTTA, op. cit., 374.
[39] LIOTTA, op. cit., 386 s. – Su ulteriori motivazioni presso i glossatori tornerò nella parte IV. – Cf inoltre in proposito: STICKLER, L’évolution, cit., 4081427.
[40] I Padri si riferivano qui espressamente alle disposizioni dei Concili di Cartagine, delle quali sopra si è parlato diffusamente. Abbiamo qui una prova di quanto fosse ancora viva la tradizione antica nei periti che erano a disposizione dei Padri. Cf Concilium Tridentinum, ed. Goerresiana, T. IX p. 6, 425170.
[41] Cf STICKLER, L’évolution, cit., 4271439 e FRANZEN, op. cit., 64188; inoltre: BOELENS, Die Klerikerehe, cit. in Archiv f. k. KR. 138, 1969, 75181.
[42] Nell’accennata Commissione teologica i pareri sull’origine apostolica o ecclesiastica erano divisi. Ma di fronte alla tradizione non si voleva decidere la questione. Cf a riguardo anche FRANZEN, op. cit., 84 n. 99. Comunque, la voce di uno dei difensori dell’origine apostolica è degna di nota: Franciscus Orantes dice a tale riguardo: «Apostoli statuerunt atque praeceperunt, ut sacerdotes uxores non ducerent. Traditio autem apostolica universaliter i. e. consensu totius Ecclesiae recepta et perpetuo servata ius divinum dicitur» (Ed. cit. T. IX pars 6, 440). La citazione si trova già in R. CHOLIJ, De lege coelibatus sacerdotalis nova investigationis elementa in Periodica de re morali, canonica, liturgica 78, 1989, 184.
[43] Conc. Oecumenic. Decreta, cit., 7261729.
[44] Cf a questo proposito le dichiarazioni del teologo conciliare Desiderius de S. Martino: «Cum autem quaeritur, an, ubi est penuria sacerdotum, debeant admitti mariti ad sacerdotium, respondeo id non expedire ut fiat, cum id numquam in ecclesia catholica factum fuerit (cosa tutt’altro che esatta come abbiamo visto). Cum autem cum voluntate uxorum fieret (ciò che realmente si è sempre fatto) posset, sed tamen ut ipsi et uxores etiam manerent coelibes». Ed. cit. T. IX, P. 6, 441 (citato già da CHOLIJ, De lege coelibatus, cit., 172, n. 33 e 185).
[45] «Mirari vos» 15.8.1832: Acta Gregorii XVI, I, 171.
[46] Allocuzione Concistoriale del 16.12.1920 in AAS, XII, 1920, 587.
[47] Possono riscontrarsi in: BICKELL, op. cit. ed anche presso R. CHOLIJ,Clerical celibacy, cit., 691105.
[48] PG 41, 868, 1024 oppure Griech. Christl. Schriffsteller 31 (1921), 219 ss.
[49] PG 42, 823 ss. oppure GCS 37 (1933), 522.
[50] Vedi sopra, nota 26.
[51] Cf Per esempio, CHOCHINI, op. cit., 194-203 e 227-229, ed anche CHOLIJ Clerical celilbacy, cit., 39-40, 75-78, 92-97.
[52] Conc. Oec. Decreta, cit., 6. Nel testo latino di questa edizione mancano i diaconi.
[53] PG 67, 100-102 con le note (Socrates) e 925 s., soprattutto nota 74 (Sozomenos).
[54] PL 69, 933.
[55] FRIEDHELM WINKELMANN, Paphnutios, der Bekenner und Bischof Probleme der koptischen Literatur in Wissenschaftliche Beiträge der Martin Luther- Universität Halle-Wittenberg1968/1, 145-153. Per tutta la questione vedi anche CHOCHINI, op. cit., 223-227.
[56] Cf a questo proposito anche R. CHOLIJ, Clerical Celibacy, cit., 88-91.
[57] Codex Theodosianus, 16, 2, 44. 8.
[58] STICKLER, Tratti salienti, cit., n. 50.
[59] STICKLER, Historia Iuris Canonici, Fontes, 69-70.
[60] L’edizione dei canoni del Concilio Trullano II in: Pontif. Commissio ad redigendum Codicem I. C. Orientalis Fasc. IX, I/1 (P.-P. Joannou 1962), 98-241. I nostri canoni si trovano: 125-186 e T/2, 190-436 (Sinodo di Cartagine del 419) – Il can. 13 del Concilio Trullano si trova alle pp. 140-143. I canoni rispettivi africani alle pp. 216-218 e 240-242. Il can. 70 che tratta anche del celibato si trova alle pp. 312-313, ma manca nella raccolta bizantina delPedalion.Il testo del can. 13, così come fu formulato dal Concilio Trullano, è costruito nel modo seguente (seguiamo il testo greco non conoscendo il testo latino a disposizione dei Padri Conciliari): «Scimus autem quod et qui Carthagine convenerunt ministrorum gravitatis in vita curam gerentes dixerunt: “ut subdiaconi qui sacra contrectant et diaconi et presbyteri (qui si tralasciano le parole ’sed et episcopi’ del testo africano) secundum propria statuta et a consortibus se abstineant”». Questo testo è preso dal can. 25 di Cartagine. Il testo Trullano prosegue poi con una seconda citazione che è presa dalla fine del can. 3 di Cartagine: «”ut quod apostoli docuerunt et ipsa servavit antiquitas nos quoque custodiamus”».
Segue di nuovo il testo proprio del Trullano «tempus pro omni re decernentes et maxime in ieiunio et oratione; oportet enim eos qui divino altari inserviunt, in sanctorum tractandorum tempore» e qui si riallaccia di nuovo il testo preso dal can. 3 di Cartagine: «”continentes esse in omnibus, ut possint id quod a Deo simpliciter petunt, obtinere”». Segue poi di nuovo il testo dei Padri Trullani: «Si quis ergo praeter apostolicos canones incitatus sit aliquem eorum qui sunt in sacris, presbyterorum, inquimus, vel dinconorum vel subdiaconorum coniunctione cum legitima uxore et consuetudine privare, deponatur…».
Abbiamo dunque qui una combinazione tra testi africani e testi dei Padri Trullani. Questi ultimi tralasciano nel can. 13 ogni accenno ai vescovi del testo cartaginese, ma accolgono il riferimento alla tradizione apostolica ed ecclesiastica antica, che vogliono custodire per la disciplina dei presbiteri e diaconi, da loro trasformata nel contrario. Questo cambiamento proprio viene attributo così agli apostoli e alla Chiesa antica mentre il testo africano si riferiva alla continenza completa di tutti i tre gradi maggiori del sacro ordine.
[61] KNETES C., Ordination and matrimony in the Eastern Orthodox Churchin Journal of theological studies 11, 1910, 354 s. e CHOLIJ, op. cit. 126 s.
[62] Annales Ecclesiastici (Ed. Luca 1738). A lui si riferisce anche Binins (MANSI XII, 50). Ora il Baronio dice, in occasione di una breve storia sul celibato, già esplicitamente che il can. 13 del Trullano II è una falsificazione del testo africano: I, 499: «Adsciscentes insuper iidem (cioè i vescovi orientali del Trull. II) ad suum ipsorum confirmandum conatum aperta mendacia, quasi in concilio quod citant carthaginensi statutum fuerit, ut clerici ab uxoribus abstineant tempore vicis suae quam insigniter mentiantur, ipsa de hac re saepius ab Africanis Episcopis sancta decreta testantur. Nam non tantum, quem superius citavimus canon secundus Concilii secundi Carthaginensis ut sacris ordinibus mancipati se abstineant ab uxoribus cavit: sed et tertius canon quintae synodi Carthaginensis hoc ipsum vehementer iniunxit absque aliqua temporis distinctione… ut ex his apertissime illorum appareat impostura, quam ut honesto titulo eadem illa seditiosorum factio validaret, ad convellenda statuta Patrum aucupari conata est ex Sextae Synodi nomine auctoritatem». Un ulteriore discorso su questa questione prospetta lo stesso Baronio e lo fa nell’anno 692, n. 19 ss.Per quanto Baronio non sia l’unico tra gli storici della Chiesa dei secoli passati che denuncia questa falsificazione, poiché ne parlano anche altri storici del celibato ecdesiastico, essa non ha trovato una seria considerazione nella letteratura moderna fino a Cholij.
[63] MANSI, I, 58 s. Qui Severino Binio, riferendosi al can. apostolico 5, dice che tutti i canoni del Trullanum II «spurios esse». MANSI, XI, 921 ss., spec. 930 constata che questo Concilio appartiene solamente alla Chiesa Orientale. – MANSI, XII, 47 ss.: qui il Binio prende di nuovo posizione e dice, col. 50, che il can. 13 è contro le disposizioni apostoliche e perciò: «non immerito hunc canonem cum quibusdam aliis veluti spurium et illegittimum partum catholica Ecclesia hactenus semper est adversata». A col. 52 dice poi Fronton de Duc (Ducaeus) SJ espressamente: «vitiosa est igitur Graecorum scismaticorum expositio, quae vitiosa innititur Latini canonis lectione».
[64] Cf specialmente CHOLIJ, op. cit., tutto il cap. – (106-194).
[65] Dalle molte possibilità di documentazione di questa affermazione ne scelgo solo una: in una dissertazione pubblicata nel vol. 44 dei Munsterische Beitrage zur Theologte sotto il titolo «La disputa sul celibato nel secolo XIX», Munster 1978 (un’esposizione del contenuto è apparsa nel Klerusblatt, Zeitschrift fur Kleriber in Bayern und der Pfalz 69, 1989, 254-56); l’autore, Winfried Leinweber, discute il pro e contra del celibato e il suo nesso con il sacerdozio.
[66] Die Mysterien des Christentums, Mainz 1931, 543-546.
[67] AAS 62, 1970, n. 44.
[68] Cito solo a mo’ di esempio: lo storico B. KÖTTING, Der Zölibat in der alten Kirche, in Schriften der Gesellschait zur Forderung der westialischen Wilhelmsuniversität zu Munster. Heft 41, Munster 1970 e il teologo J. GALOT, Sacerdoce et célibat in Gregorianum 52, 1972, 731-757.
[69] Demonstraho evangelica I, 9: PG 22, 82.
[70] Cf a questo proposito l’articolo di STEPHAN KUTTNER, Pope Lucius and the Bigamous Archbishop of Palermo in Variorum Reprints: Stephan Kuttner,The history of Ideas and doctrines of Canon Law in the Middle ages, London, 1980, 409-454.
[71] Cf Tt 1,8 e 1 Cor 7,9. – Secondo KITTEL, Theol Worterbuch zum NTquesta parola assume solo presso Paolo e dopo di lui il significato di continenza in senso etico e come concetto di virtù (Vol. II. Stuttgart 1935, 338-340).
[72] Dialoghi, L IV, C, 11: PL 77, 336.
[73] Can. 6: BRUNS, II, 19
[74] C. 13: Corpus Christianorum, 148 A, 108.
[75] AAS, 71, 1979, 406.
[76] Recentissime considerazioni sul sacerdozio che precedono l’Esortazione Apostolica possono essere utili anche per la competenza teologica dei loro autori. Ricordiamo p. es. il libro del Card. RATZINGER, Zur Gemeinschait gerulen, die Kirche heute verstehen, Freiburg 1991, 98-123. In uno specifico capitolo si tratta la questione dell’essenza del sacerdozio.
[77] Cf per esempio LEINWEBER, op. cit. 254 oppure JOSEPH ARQUER in Plädoyer für die Kirche (MM Verlag Aachen 1991), 292
[2] Dist. XXVII dict. introd. ad v. Quod autem.
[3] 1 Tm 3,2; 3,12; Tt 1,6.
[4] Lc 18,28130; Mt 19,27130; Mc 10,20121.
[5] BICKELL GUSTAV, Der Cölibat eine apostolische Anordnung in Zeitschrift f. katholische Theologie 2, 1878, 26164; ID., Der Cölibat dennoch eine apostolische Anordnung Zeitschrift f. kath Theologie 3, 1879, 7921799.4FUNK, FRANZ XAVER, Der Cölibat keine apostolische Anordnung in Tübinger Theologische Quartalschrift 61, 1879, 2081247; ID., Der Cölibat noch lange keine apostolische Anordnung in Tübinger Theologische Quarhlschrift 62, 1880, 2021221; ID., Cölibat und Priesterehe im Christlichen Altertum in Kinchengeschichtliche Abhandlungen und Untersuchungen I, 1987, 1211155, VACANDARD ELPHÈGE1FLORENT, Les origines du célibat ecclésiastique in Etudes de critique et d’histoire religieuse 1 sèr., Paris 1905, 5 ed. Paris 1913, 711120; ID., Art. Cèlibat in Dictionnaire de Théologie Catholique II, 206812088 (Paris 1905).4LECLERCQ HENRI, La législation conciliaire relative au célibat ecclésiastique in Trad. franc. della Kouziliengeschichte del Hefele II, 2 part., Paris 1908, Appendix VI, pp. 132111348: ID., ART. Célibat in: Dictionnaire d’ Archéologie chrétienne et de Liturgie II 280212832 (Paris 1908).
[6] Per esempio Landgraf Arthur Michael, Diritto canonico e teologia nel sec. XII in Studia Gratiana I, 3711413.
[7] Bruns Herm. Theod., Canones Apostolorum et Conciliorum saec. IV1VII, II (Berolini 1939), 516.
[8] AAS 28, 1936, 25.
[9] Concilia Africae a. 3451525 (Ed. C. Munier in Corpus ChristianorumSeries Latina 149, Turnholti 1974), 13.
[10] Corpus Christianorum, cit., 149, 98 ss.
[11] Corpus Christianorum, cit., 149, 133 ss.
[12] Corp. Christ., cit., 149, 142.
[13] Corp. Christ., cit., 149, 58-63.
[14] S. IRENAEUS, Adversus haereses, 3, 3, 2.
[15] Decretale «Directa» – JAFFÉ 2 n. 255 – PL. 13, 1131-1147.
[16] Decretale «Cum in unum» («Diversa quamvis») a. 386 – JA 2 258 – BRUNS, op cit. I, 152-155: Corp. Christ. cit. 149, 59-63.
[17] BRUNS, Op. Cit. , II, 274, Can. 3, 276-77.
[18] JA 2 286 – PL. 20, 468-7; JA 2 293 – PL. 20, 496-8 e Conc.. Agathense a 506 n. 9 ed. Corp. Christianorum, 148 (C. MUNIER), 196-199; JA 2 315 – PL. 20, 605.
[19] JA 2 544 – PL. 54, 1194.
[20] Lettera ad Anastasio di Tessalonica dell’anno 446: JA 2 411, PL. 54, 666.
[21] Sui numerosi testi di Gregorio Magno cf COCHINI, op. cit. 404-416. Per esempio: «subdiaconi… qui iam uxoribus fuerant copulati, unum ex duobus eligerent: id est a suis uxoribus abstinerent aut certe nulla ratione ministrare praesumerent» MGH, EPP. IV, 344PL. 77, 710.
[22] BRUNS, op. cit., II, 2: – Corp. Christ., 149, 69.
[23] Per esempio, Conc. Tol. I (a. 398): BRUNS, op. cit. I, 203; Conc. Romanum a. 348: BRUNS, op. cit., II, 278 (can. VI).
[24] De officiis ministrorum I, 50: PL. 16, 103 – 105. Cf per questo anche la lettera alla Chiesa di Vercelli: 63, 62 s. – PL. 16, 1257.
[25] I 34 - PL. 23, 257.
[26] PL. 23, 340141: «Aut virgines aut continentes aut si uxores habuerint mariti esse desistunt».
[27] Ep. 49, 21 – CSEL 54, 386 s.
[28] PL. 22, 510.
[29] II, 22 – CSEL – 1, 409 e PL. 40, 486.
[30] Rimando ai rispettivi Concili; vedi in COCHINI, op. cit., 2951308; 3551379; 4201431 (Spagna e Gallia) – STICKLER, Tratti salienti, cit., 5921593; Sacerdoce et Célibat, cit., 3731394 passim.
[31] STICKLER, Tratti salienti, cit., 593.
[32] STICKLER, Tratti salienti, cit., 594 col. n. 21 – ID., Sacerdoce et Célibat,cit., 379-83.
[33] STICKLER, Tratti salienti, cit., 592 s.
[34] STICKLER, Sacerdoce et Célibat, cit. 3941408 e ID., I presupposti storico1giuridici della riforma Gregoriana e dell’azione personale di Gregorio VII in Studi Gregoriani XIII, Roma 1989, 1115.
[35] Cf can. 7 Conc. Lateranense II in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Herder 1962, 174.
[36] Cf la mia Historia Iuris Canonici, p. 197 ss.
[37] Cf l’opera citata nella Nota (1) di Liotta, soprattutto 3731387. Sulle motivazioni in tutto il loro sviluppo tornerò nella parte IV, mentre la discussione sulla disciplina della Chiesa Orientale, del suo contenuto e della sua evoluzione seguirà nella Parte III.
[38] LIOTTA, op. cit., 374.
[39] LIOTTA, op. cit., 386 s. – Su ulteriori motivazioni presso i glossatori tornerò nella parte IV. – Cf inoltre in proposito: STICKLER, L’évolution, cit., 4081427.
[40] I Padri si riferivano qui espressamente alle disposizioni dei Concili di Cartagine, delle quali sopra si è parlato diffusamente. Abbiamo qui una prova di quanto fosse ancora viva la tradizione antica nei periti che erano a disposizione dei Padri. Cf Concilium Tridentinum, ed. Goerresiana, T. IX p. 6, 425170.
[41] Cf STICKLER, L’évolution, cit., 4271439 e FRANZEN, op. cit., 64188; inoltre: BOELENS, Die Klerikerehe, cit. in Archiv f. k. KR. 138, 1969, 75181.
[42] Nell’accennata Commissione teologica i pareri sull’origine apostolica o ecclesiastica erano divisi. Ma di fronte alla tradizione non si voleva decidere la questione. Cf a riguardo anche FRANZEN, op. cit., 84 n. 99. Comunque, la voce di uno dei difensori dell’origine apostolica è degna di nota: Franciscus Orantes dice a tale riguardo: «Apostoli statuerunt atque praeceperunt, ut sacerdotes uxores non ducerent. Traditio autem apostolica universaliter i. e. consensu totius Ecclesiae recepta et perpetuo servata ius divinum dicitur» (Ed. cit. T. IX pars 6, 440). La citazione si trova già in R. CHOLIJ, De lege coelibatus sacerdotalis nova investigationis elementa in Periodica de re morali, canonica, liturgica 78, 1989, 184.
[43] Conc. Oecumenic. Decreta, cit., 7261729.
[44] Cf a questo proposito le dichiarazioni del teologo conciliare Desiderius de S. Martino: «Cum autem quaeritur, an, ubi est penuria sacerdotum, debeant admitti mariti ad sacerdotium, respondeo id non expedire ut fiat, cum id numquam in ecclesia catholica factum fuerit (cosa tutt’altro che esatta come abbiamo visto). Cum autem cum voluntate uxorum fieret (ciò che realmente si è sempre fatto) posset, sed tamen ut ipsi et uxores etiam manerent coelibes». Ed. cit. T. IX, P. 6, 441 (citato già da CHOLIJ, De lege coelibatus, cit., 172, n. 33 e 185).
[45] «Mirari vos» 15.8.1832: Acta Gregorii XVI, I, 171.
[46] Allocuzione Concistoriale del 16.12.1920 in AAS, XII, 1920, 587.
[47] Possono riscontrarsi in: BICKELL, op. cit. ed anche presso R. CHOLIJ,Clerical celibacy, cit., 691105.
[48] PG 41, 868, 1024 oppure Griech. Christl. Schriffsteller 31 (1921), 219 ss.
[49] PG 42, 823 ss. oppure GCS 37 (1933), 522.
[50] Vedi sopra, nota 26.
[51] Cf Per esempio, CHOCHINI, op. cit., 194-203 e 227-229, ed anche CHOLIJ Clerical celilbacy, cit., 39-40, 75-78, 92-97.
[52] Conc. Oec. Decreta, cit., 6. Nel testo latino di questa edizione mancano i diaconi.
[53] PG 67, 100-102 con le note (Socrates) e 925 s., soprattutto nota 74 (Sozomenos).
[54] PL 69, 933.
[55] FRIEDHELM WINKELMANN, Paphnutios, der Bekenner und Bischof Probleme der koptischen Literatur in Wissenschaftliche Beiträge der Martin Luther- Universität Halle-Wittenberg1968/1, 145-153. Per tutta la questione vedi anche CHOCHINI, op. cit., 223-227.
[56] Cf a questo proposito anche R. CHOLIJ, Clerical Celibacy, cit., 88-91.
[57] Codex Theodosianus, 16, 2, 44. 8.
[58] STICKLER, Tratti salienti, cit., n. 50.
[59] STICKLER, Historia Iuris Canonici, Fontes, 69-70.
[60] L’edizione dei canoni del Concilio Trullano II in: Pontif. Commissio ad redigendum Codicem I. C. Orientalis Fasc. IX, I/1 (P.-P. Joannou 1962), 98-241. I nostri canoni si trovano: 125-186 e T/2, 190-436 (Sinodo di Cartagine del 419) – Il can. 13 del Concilio Trullano si trova alle pp. 140-143. I canoni rispettivi africani alle pp. 216-218 e 240-242. Il can. 70 che tratta anche del celibato si trova alle pp. 312-313, ma manca nella raccolta bizantina delPedalion.Il testo del can. 13, così come fu formulato dal Concilio Trullano, è costruito nel modo seguente (seguiamo il testo greco non conoscendo il testo latino a disposizione dei Padri Conciliari): «Scimus autem quod et qui Carthagine convenerunt ministrorum gravitatis in vita curam gerentes dixerunt: “ut subdiaconi qui sacra contrectant et diaconi et presbyteri (qui si tralasciano le parole ’sed et episcopi’ del testo africano) secundum propria statuta et a consortibus se abstineant”». Questo testo è preso dal can. 25 di Cartagine. Il testo Trullano prosegue poi con una seconda citazione che è presa dalla fine del can. 3 di Cartagine: «”ut quod apostoli docuerunt et ipsa servavit antiquitas nos quoque custodiamus”».
Segue di nuovo il testo proprio del Trullano «tempus pro omni re decernentes et maxime in ieiunio et oratione; oportet enim eos qui divino altari inserviunt, in sanctorum tractandorum tempore» e qui si riallaccia di nuovo il testo preso dal can. 3 di Cartagine: «”continentes esse in omnibus, ut possint id quod a Deo simpliciter petunt, obtinere”». Segue poi di nuovo il testo dei Padri Trullani: «Si quis ergo praeter apostolicos canones incitatus sit aliquem eorum qui sunt in sacris, presbyterorum, inquimus, vel dinconorum vel subdiaconorum coniunctione cum legitima uxore et consuetudine privare, deponatur…».
Abbiamo dunque qui una combinazione tra testi africani e testi dei Padri Trullani. Questi ultimi tralasciano nel can. 13 ogni accenno ai vescovi del testo cartaginese, ma accolgono il riferimento alla tradizione apostolica ed ecclesiastica antica, che vogliono custodire per la disciplina dei presbiteri e diaconi, da loro trasformata nel contrario. Questo cambiamento proprio viene attributo così agli apostoli e alla Chiesa antica mentre il testo africano si riferiva alla continenza completa di tutti i tre gradi maggiori del sacro ordine.
[61] KNETES C., Ordination and matrimony in the Eastern Orthodox Churchin Journal of theological studies 11, 1910, 354 s. e CHOLIJ, op. cit. 126 s.
[62] Annales Ecclesiastici (Ed. Luca 1738). A lui si riferisce anche Binins (MANSI XII, 50). Ora il Baronio dice, in occasione di una breve storia sul celibato, già esplicitamente che il can. 13 del Trullano II è una falsificazione del testo africano: I, 499: «Adsciscentes insuper iidem (cioè i vescovi orientali del Trull. II) ad suum ipsorum confirmandum conatum aperta mendacia, quasi in concilio quod citant carthaginensi statutum fuerit, ut clerici ab uxoribus abstineant tempore vicis suae quam insigniter mentiantur, ipsa de hac re saepius ab Africanis Episcopis sancta decreta testantur. Nam non tantum, quem superius citavimus canon secundus Concilii secundi Carthaginensis ut sacris ordinibus mancipati se abstineant ab uxoribus cavit: sed et tertius canon quintae synodi Carthaginensis hoc ipsum vehementer iniunxit absque aliqua temporis distinctione… ut ex his apertissime illorum appareat impostura, quam ut honesto titulo eadem illa seditiosorum factio validaret, ad convellenda statuta Patrum aucupari conata est ex Sextae Synodi nomine auctoritatem». Un ulteriore discorso su questa questione prospetta lo stesso Baronio e lo fa nell’anno 692, n. 19 ss.Per quanto Baronio non sia l’unico tra gli storici della Chiesa dei secoli passati che denuncia questa falsificazione, poiché ne parlano anche altri storici del celibato ecdesiastico, essa non ha trovato una seria considerazione nella letteratura moderna fino a Cholij.
[63] MANSI, I, 58 s. Qui Severino Binio, riferendosi al can. apostolico 5, dice che tutti i canoni del Trullanum II «spurios esse». MANSI, XI, 921 ss., spec. 930 constata che questo Concilio appartiene solamente alla Chiesa Orientale. – MANSI, XII, 47 ss.: qui il Binio prende di nuovo posizione e dice, col. 50, che il can. 13 è contro le disposizioni apostoliche e perciò: «non immerito hunc canonem cum quibusdam aliis veluti spurium et illegittimum partum catholica Ecclesia hactenus semper est adversata». A col. 52 dice poi Fronton de Duc (Ducaeus) SJ espressamente: «vitiosa est igitur Graecorum scismaticorum expositio, quae vitiosa innititur Latini canonis lectione».
[64] Cf specialmente CHOLIJ, op. cit., tutto il cap. – (106-194).
[65] Dalle molte possibilità di documentazione di questa affermazione ne scelgo solo una: in una dissertazione pubblicata nel vol. 44 dei Munsterische Beitrage zur Theologte sotto il titolo «La disputa sul celibato nel secolo XIX», Munster 1978 (un’esposizione del contenuto è apparsa nel Klerusblatt, Zeitschrift fur Kleriber in Bayern und der Pfalz 69, 1989, 254-56); l’autore, Winfried Leinweber, discute il pro e contra del celibato e il suo nesso con il sacerdozio.
[66] Die Mysterien des Christentums, Mainz 1931, 543-546.
[67] AAS 62, 1970, n. 44.
[68] Cito solo a mo’ di esempio: lo storico B. KÖTTING, Der Zölibat in der alten Kirche, in Schriften der Gesellschait zur Forderung der westialischen Wilhelmsuniversität zu Munster. Heft 41, Munster 1970 e il teologo J. GALOT, Sacerdoce et célibat in Gregorianum 52, 1972, 731-757.
[69] Demonstraho evangelica I, 9: PG 22, 82.
[70] Cf a questo proposito l’articolo di STEPHAN KUTTNER, Pope Lucius and the Bigamous Archbishop of Palermo in Variorum Reprints: Stephan Kuttner,The history of Ideas and doctrines of Canon Law in the Middle ages, London, 1980, 409-454.
[71] Cf Tt 1,8 e 1 Cor 7,9. – Secondo KITTEL, Theol Worterbuch zum NTquesta parola assume solo presso Paolo e dopo di lui il significato di continenza in senso etico e come concetto di virtù (Vol. II. Stuttgart 1935, 338-340).
[72] Dialoghi, L IV, C, 11: PL 77, 336.
[73] Can. 6: BRUNS, II, 19
[74] C. 13: Corpus Christianorum, 148 A, 108.
[75] AAS, 71, 1979, 406.
[76] Recentissime considerazioni sul sacerdozio che precedono l’Esortazione Apostolica possono essere utili anche per la competenza teologica dei loro autori. Ricordiamo p. es. il libro del Card. RATZINGER, Zur Gemeinschait gerulen, die Kirche heute verstehen, Freiburg 1991, 98-123. In uno specifico capitolo si tratta la questione dell’essenza del sacerdozio.
[77] Cf per esempio LEINWEBER, op. cit. 254 oppure JOSEPH ARQUER in Plädoyer für die Kirche (MM Verlag Aachen 1991), 292
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[18] 4. Frammentazione del sistema disciplinare in Oriente: #421
[19] 5. La legislazione del II Concilio Trullano: #522
[20] 6. Motivazioni della nuova disciplina adottata: il cambiamento dei testi: #623
[21] IV. I fondamenti teologici della disciplina del celibato: #IV
[22] 1. Il rapporto sacerdotale con Cristo: #126
[23] 2. Fondamento storico dottrinale: #227
[24] 3. L’insegnamento dell’Antico Testamento: #328
[25] 4. La teologia del celibato sacerdotale: #429
[26] Conclusione: #CONCLUSIONE
[27] P. Raniero Canatalamessa O.F.M cap., «Ecco la Vergine concepirà...», riflessioni sul celibato sacerdotale e la verginità consacrata.: http://www.haerentanimo.net/?p=777
[28] P. Alfredo Marranzini, S.J., «Il celibato nella Chiesa antica».: http://www.haerentanimo.net/?p=99
[29] S. Congr. per il Clero, «Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri», 31-1-1994.: http://www.haerentanimo.net/?p=610
[30] Pio XII, lettera enciclica «Sacra virginitas», 25-3-1954.: http://www.haerentanimo.net/?p=314
[31] P. C. Cochini S.J., «Fondamenti storici del celibato sacerdotale».: http://www.haerentanimo.net/?p=835
[32] P. Alfredo Marranzini, S.J., «"Viri probati": una soluzione?»: http://www.haerentanimo.net/?p=828
[33] P. Cornelio Fabro, «Attualità e crisi del celibato nel mondo contemporaneo».: http://www.haerentanimo.net/?p=775
[34] Card. Claudio Hummes OFM, «L'importanza del celibato sacerdotale», in commemorazione al XL anniversario della "Sacerdotalis Caelibatus" di Paolo VI.:http://www.haerentanimo.net/?p=769
[35] Giovanni Paolo II, esortazione apostolica «Pastores dabo Vobis», 24-3-1992.: http://www.haerentanimo.net/?p=251
[36] Sinodo dei vescovi, messaggio al Popolo di Dio «Ultimis temporibus», 30-11-1971.: http://www.haerentanimo.net/?p=1083